Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
«Preghiamo oggi per la gente che, in questo tempo di pandemia, fa commercio con i bisognosi; approfittano della necessità degli altri e li vendono: i mafiosi, gli usurai e tanti. Che il Signore tocchi il loro cuore e li converta». Non è ricorso a giri di parole Papa Francesco, mercoledì mattina, 8 aprile, all’inizio della messa celebrata nella cappella di Casa Santa Marta e trasmessa in diretta streaming. Invitando poi, nell’omelia, a guardare ai tanti «Giuda istituzionalizzati» di oggi che, in diversi modi, sfruttano e vendono le persone, familiari compresi. Ma anche al «piccolo Giuda» che è in ciascuno, pronto a tradire per interesse.
«Mercoledì Santo è chiamato anche “mercoledì del tradimento”, il giorno nel quale si sottolinea nella Chiesa il tradimento di Giuda», ha spiegato il Papa dando il via alla sua meditazione. Il passo del Vangelo di Matteo (26, 14-25), proposto dalla liturgia, ricorda proprio che «Giuda vende il Maestro».
In realtà, «quando noi pensiamo al fatto di vendere gente — ha fatto presente il Pontefice — viene alla mente il commercio fatto con gli schiavi dall’Africa per portarli in America: una cosa vecchia». E ci sembra una «cosa lontana» anche «il commercio, per esempio, delle ragazze yazide vendute a Daesh».
Però «anche oggi si vende gente, tutti i giorni» ha affermato Francesco. Anche oggi, dunque, «ci sono dei Giuda che vendono i fratelli e le sorelle: sfruttandoli nel lavoro, non pagando il giusto, non riconoscendo i doveri».
«Anzi, vendono tante volte le cose più care» ha rilanciato il Papa, confidando di pensare «che, per essere più comodo, un uomo è capace di allontanare i genitori e non vederli più; metterli al sicuro in una casa di riposo e non andare a trovarli». Si «vende» senza scrupoli.
A questo proposito il Pontefice ha ricordato che «c’è un detto molto comune che, parlando di gente così, dice che “questo è capace di vendere la propria madre”: e la vendono». Come a dire: «Adesso sono tranquilli, sono allontanati: “Curateli voi”».
«Oggi il commercio umano — ha insistito Francesco — è come ai primi tempi: si fa. E questo perché? Perché: Gesù lo ha detto. Lui ha dato al denaro una signorìa. Gesù ha detto: “Non si può servire Dio e il denaro”, due signori» (cfr. Luca 16, 13). Ed «è l’unica cosa — ha fatto notare — che Gesù pone all’altezza e ognuno di noi deve scegliere: o servi Dio, e sarai libero nell’adorazione e nel servizio; o servi il denaro, e sarai schiavo del denaro».
«Questa è l’opzione», ma «tanta gente vuole servire Dio e il denaro e questo non si può fare» ha puntualizzato il Papa. Tanto che, «alla fine, fanno finta di servire Dio per servire il denaro». Si tratta degli «sfruttatori nascosti che sono socialmente impeccabili, ma sotto il tavolo fanno il commercio, anche con la gente: non importa. Lo sfruttamento umano è vendere il prossimo».
«Giuda se n’è andato — ha proseguito il Pontefice — ma ha lasciato dei discepoli, che non sono suoi discepoli ma del diavolo». Del resto, «com’è stata la vita di Giuda noi non lo sappiamo. Un ragazzo normale, forse, e anche con inquietudini, perché il Signore lo ha chiamato a essere discepolo». Però «lui mai è riuscito a esserlo: non aveva bocca di discepolo e cuore di discepolo come abbiamo letto nella prima lettura» ha rimarcato Francesco, facendo riferimento al passo tratto da libro del profeta Isaia (50, 4-9).
Insomma, Giuda «era debole nel discepolato, ma Gesù lo amava». In realtà, ha aggiunto il Papa, «il Vangelo ci fa capire che» a Giuda «piacevano i soldi: a casa di Lazzaro, quando Maria unge i piedi di Gesù con quel profumo così costoso, lui fa la riflessione e Giovanni sottolinea: “Ma non lo dice perché amava i poveri: perché era ladro”» (cfr. Giovanni 12, 6).
E così «l’amore al denaro lo aveva portato fuori dalle regole: a rubare, e da rubare a tradire c’è un passo piccolino» ha affermato il Pontefice. «Chi ama troppo i soldi — ha aggiunto — tradisce per averne di più, sempre: è una regola, è un dato di fatto». Ed ecco che «il Giuda ragazzo, forse buono, con buone intenzioni, finisce traditore al punto di andare al mercato a vendere: “Andò dai capi dei sacerdoti e disse: ‘Quanto volete darmi perché io ve lo consegni’”, direttamente?» (cfr. Matteo 26, 14).
«A mio avviso, quest’uomo era fuori di sé» ha spiegato Francesco. «Una cosa che attira la mia attenzione — ha confidato — è che Gesù mai gli dice “traditore”; dice che sarà tradito, ma non dice a lui “traditore”. Mai gli dice “vai via, traditore”. Mai! Anzi, gli dice “amico” e lo bacia».
Siamo davanti al «mistero di Giuda: com’è il mistero di Giuda? Don Primo Mazzolari l’ha spiegato meglio di me» ha affermato il Papa ricordando l’omelia — di cui riportiamo uno stralcio in questa pagina — che il parroco di Bozzolo pronunciò il Giovedì santo del 1958. «Sì, mi consola — ha proseguito — contemplare quel capitello di Vèzelay: come finì Giuda? Non so. Gesù minaccia forte, qui; minaccia forte: “Guai a quell’uomo dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!”» scrive Giovanni nel suo Vangelo. «Ma questo vuol dire che Giuda è all’Inferno? Non so. Io guardo il capitello. E sento la parola di Gesù: “Amico”» ha detto Francesco.
Tutto «questo — ha affermato — ci fa pensare a un’altra cosa, che è più reale, più di oggi: il diavolo entrò in Giuda, è stato il diavolo a condurlo a questo punto. E come finì la storia? Il diavolo è un mal pagatore: non è un pagatore affidabile. Ti promette tutto, ti fa vedere tutto e alla fine ti lascia solo nella tua disperazione ad impiccarti».
«Il cuore di Giuda», ha fatto presente Francesco, è «inquieto, tormentato dalla cupidigia e tormentato dall’amore a Gesù». È «un amore che non è riuscito a farsi amore». Così Giuda, «tormentato con questa nebbia, torna dai sacerdoti chiedendo perdono, chiedendo salvezza». Ma si sente rispondere: «Cosa c’entriamo noi? È cosa tua». Infatti «il diavolo parla così e ci lascia nella disperazione».
Concludendo la meditazione il Pontefice ha invitato a pensare «a tanti Giuda istituzionalizzati in questo mondo, che sfruttano la gente». Ma ha chiesto di pensare «anche al “piccolo Giuda” che ognuno di noi ha dentro di sé nell’ora di scegliere: fra lealtà o interesse». Con la consapevolezza che ciascuno «ha la capacità di tradire, di vendere, di scegliere per il proprio interesse. Ognuno di noi ha la possibilità di lasciarsi attirare dall’amore dei soldi o dei beni o del benessere futuro». Insomma: «Giuda, dove sei?» è una domanda che Francesco suggerisce di porre a se stessi: «Tu, Giuda, il “piccolo Giuda” che ho dentro: dove sei?».
È poi con la preghiera del cardinale Rafael Merry del Val che il Papa ha invitato «le persone che non possono comunicarsi» a fare la comunione spirituale. E ha concluso la celebrazione con l’adorazione e la benedizione eucaristica. Per sostare infine in preghiera davanti all’immagine mariana nella cappella di Casa Santa Marta, accompagnato dal canto dell’antifona Ave Regina Caelorum.
Il testo di don Mazzolari riproposto dal Papa nell’omelia
Nostro fratello
Povero Giuda. Povero fratello nostro. Il più grande dei peccati, non è quello di vendere il Cristo; è quello di disperare. Anche Pietro aveva negato il Maestro; e poi lo ha guardato e si è messo a piangere e il Signore lo ha ricollocato al suo posto: il suo vicario. Tutti gli apostoli hanno abbandonato il Signore e son tornati, e il Cristo ha perdonato loro e li ha ripresi con la stessa fiducia. Credete voi che non ci sarebbe stato posto anche per Giuda se avesse voluto, se si fosse portato ai piedi del calvario, se lo avesse guardato almeno a un angolo o a una svolta della strada della Via Crucis: la salvezza sarebbe arrivata anche per lui. Povero Giuda. Una croce e un albero di un impiccato. Dei chiodi e una corda. Provate a confrontare queste due fini. Voi mi direte: “Muore l’uno e muore l’altro”. Io però vorrei domandarvi qual è la morte che voi eleggete, sulla croce come il Cristo, nella speranza del Cristo, o impiccati, disperati, senza niente davanti. Perdonatemi se questa sera che avrebbe dovuto essere di intimità, io vi ho portato delle considerazioni così dolorose, ma io voglio bene anche a Giuda, è mio fratello Giuda. Pregherò per lui anche questa sera, perché io non giudico, io non condanno; dovrei giudicare me, dovrei condannare me. Io non posso non pensare che anche per Giuda la misericordia di Dio, questo abbraccio di carità, quella parola amico, che gli ha detto il Signore mentre lui lo baciava per tradirlo, io non posso pensare che questa parola non abbia fatto strada nel suo povero cuore. E forse l’ultimo momento, ricordando quella parola e l’accettazione del bacio, anche Giuda avrà sentito che il Signore gli voleva ancora bene e lo riceveva tra i suoi di là. Forse il primo apostolo che è entrato insieme ai due ladroni.
(Giovedì Santo, 3 aprile 1958)
Il capitello di Vézelay
«Mi consola contemplare quel capitello di Vézelay». È la confidenza spirituale offerta da Papa Francesco nella sua meditazione mattutina a Santa Marta. Il riferimento è a un capitello medievale della basilica di Vézelay, in Borgogna, dedicata a Santa Maria Maddalena, sull’antica via per Santiago de Compostela. Proprio sul primo capitello, a circa venti metri dal pavimento, a destra guardando l’altare, c’è una scultura che colpisce e sconcerta. Da un lato si vede Giuda impiccato, con la lingua di fuori, circondato dai diavoli. La sorpresa arriva dall’altro lato del capitello: c’è il Buon Pastore che porta sulle spalle proprio il corpo di Giuda.
[Papa Francesco, in L’Osservatore Romano 8 aprile 2020: https://www.osservatoreromano.va/it/news/2020-04/per-la-conversione-dei-tanti-giuda-di-oggi.html]
(Gv 13,21-33.36-38)
«Darò la mia vita per te» - pur di comandare.
Il Signore desidera che ciascuno di noi commensali si ponga il quesito se per caso non siamo implicati in qualche tradimento.
Non per colpevolizzare e piantarsi lì, ma per incontrarci: ciascuno è ammiratore ‘e’ avversario del Maestro.
Siamo fulgore ‘e’ tenebra - fianchi compresenti, più o meno integrati; anche competitivi.
Aspetti che diventano come cibi da neonato, per ogni nuova ‘genesi’ - i quali una volta emersi possono diventare punti di forza.
La strada si blocca solo davanti alla persona che continua a farsi condizionare. Lì non si rivela nulla; non avverrà il prodigio della trasmutazione del nostro abisso.
La liturgia della Parola ci mette a contatto con un Gesù pervaso dal senso di debolezza; la sua solitudine si fa acuta.
In missione, anche noi siamo talvolta in balia dello sconforto: forse Dio ci ha ingannati, trascinandoci in una impresa assurda?
No, non siamo ingaggiati e abbandonati a una logica ignobile, a una generazione perversa: la stessa forza della Vita è disseminata di ‘pietre tombali’ ed ha varie facce. Influssi benefici.
Il cammino favorevole è spoglio di prestigio, di mansioni riconosciute e maestà: esse tendono a placarci, e non scavare.
Spesso sono proprio i disturbi che migliorano la capacità di giudizio.
Lo stillicidio può suscitare la Voce della parte più autentica di noi stessi; farsi ‘eco’ incisivo per ritrovarsi e completarsi - portando avanti il cuore pioniere, invece di trattenerlo.
La strada della prova e dello squilibrio ci desta dall’invecchiamento nocivo dello spirito. Recupera le energie contrarie, i versanti opposti, i desideri incompatibili, le passioni [alleate] cui non abbiamo dato spazio.
Anche nell’esperienza torturante del limite, Dio vuole raggiungere la nostra ‘semente’ variegata, affinché essa non si lasci depredare - neppure dallo sgomento di aver attinto insieme il «boccone» ed essere stati noi i traditori.
Nulla è invalidante.
C’è un solo ambito tossico, cronico, di morte, che annienta tutto e non ha insito nessun germe attivo: quello che offusca e detesta il cambiamento primario.
Lì l’orizzonte si stringe e rimane solo un baratro - o il blando che contagia per farci mollare e arretrare.
Restano infine solo le paure, le mezze scelte, le nevrosi tacitate dal compromesso che tenta di colmare il prezioso senso di vuoto.
La storia dell’incomprensibile solitudine del Cristo accanto al traditore e al rinnegato ci sta scritta nel cuore. È tutta realtà - ma per la salvezza, per una rinnovata intimità e convinzione.
La vocazione missionaria si spegne e ristagna solo nelle zavorre del calcolo e della mentalità comune - ove non si scuote (né tintinna) la nuda povertà dell’essere discorde che siamo.
Senza l’abbandono subìto, l’uomo non diventa universale, anzi tende ad attenuare i migliori strumenti della potenza di Dio.
Su quel terreno stepposo il Signore ci sta donando l’amicizia di uno spostamento di sguardo.
Senza l’inquietudine del turbamento profondo e umiliante, senza la consegna della propria umanità - nell’estrema debolezza - la nostra marionetta insoddisfatta indugia, accontentandosi.
Malgrado l’ammirazione per i valori, diviene anch’essa larva residuale. Una caricatura dell’essere che potevamo: donne e uomini dall’occhio contemplativo.
Compiuti a partire da dentro, come Gesù.
[Martedì Santo, 15 aprile 2025]
(Gv 13,21-33.36-38)
«Darò la mia vita per te» - pur di comandare.
Gli apostoli darebbero tutto per vincere, non per perdere; per trionfare, non per farsi beffeggiare o darsi in alimento, e curare il mondo.
Meglio negoziare. Altro che lavarsi i piedi a vicenda!
Perciò il Signore desidera che ciascuno di noi commensali si ponga il quesito se per caso non siamo implicati in qualche tradimento.
Non per colpevolizzare e piantarsi lì, ma per incontrarci: ciascuno è ammiratore e avversario del Maestro.
Siamo fulgore e tenebra - fianchi compresenti, più o meno integrati, anche competitivi.
È la Risurrezione che si annida nell’effervescenza della vita, a riscattare poi le motivazioni egoistiche, e trasfigurare in energie collimanti altrove i lati oscuri e in attrito.
Aspetti che diventano come cibi da neonato, per ogni nuova genesi - i quali una volta emersi [piantati sulla terra e accostati alle radici] possono diventare punti di forza.
La strada si blocca solo davanti alla persona che continua a farsi condizionare l’anima da opinioni e mali antichi o à la page.
Lì non si rivela nulla; non avverrà il prodigio della trasmutazione del nostro abisso.
La liturgia della Parola ci mette a contatto con un Gesù pervaso dal senso di debolezza; la sua solitudine si fa acuta.
In missione, anche noi siamo talvolta in balia dello sconforto: forse Dio ci ha ingannati, trascinandoci in una impresa assurda?
No, non siamo ingaggiati e abbandonati a una logica ignobile, a una generazione perversa: la stessa forza della vita è disseminata di pietre tombali ed ha varie facce. Influssi benefici.
Il cammino favorevole è spoglio di prestigio, di mansioni riconosciute e maestà: esse tendono a placarci, e non scavare.
Spesso sono proprio i disturbi che migliorano la capacità di giudizio.
Lo stillicidio può suscitare la voce della parte più autentica di noi stessi, farsi eco incisivo per ritrovarsi, e completarsi - portando avanti il cuore pioniere, invece di trattenerlo.
La strada della prova e dello squilibrio ci desta dall’invecchiamento nocivo dello spirito.
Essa recupera le energie contrarie, i versanti opposti, e i desideri incompatibili, le passioni (alleate) cui non abbiamo dato spazio.
Anche nell’esperienza torturante del limite, Dio vuole raggiungere la nostra semente variegata, affinché essa non si lasci depredare - neppure dallo sgomento di aver attinto insieme il boccone ed essere stati noi i traditori.
Nulla è invalidante.
C’è un solo ambito tossico, cronico, di morte, che annienta tutto e non ha insito nessun germe attivo: quello che offusca e detesta il cambiamento primario.
Lì l’orizzonte si stringe e rimane solo un baratro - o il blando che contagia per farci mollare, e arretrare senza posa, rinnegare e regredire ancora.
Restano infine solo le paure, le mezze scelte, le nevrosi tacitate dal compromesso che tenta di colmare il prezioso senso di vuoto.
Siamo davanti a un Signore ridotto a niente, affinché anche noi ci comprendiamo nelle nostre defezioni; negli episodi in cui accampiamo inutili e devianti artifici, tutti misurati, che affaticano invano.
La storia dell’incomprensibile solitudine del Cristo accanto al traditore e al rinnegato ci sta scritta nel cuore.
È tutta realtà, ma per la salvezza, per una rinnovata intimità e convinzione.
La vocazione missionaria si spegne e ristagna solo per zavorre di calcolo e mentalità comune - ove non si scuote (né tintinna) la nuda povertà dell’essere discorde che siamo.
Senza l’abbandono subìto, l’uomo non diventa universale, anzi tende ad attenuare i migliori strumenti della potenza di Dio.
Su quel terreno stepposo Egli ci sta donando l’amicizia di uno spostamento di sguardo.
Senza l’inquietudine del turbamento profondo e umiliante - senza la consegna della propria umanità nell’estrema debolezza - la nostra marionetta insoddisfatta indugia, accontentandosi.
Malgrado l’ammirazione per i valori, diviene anch’essa larva residuale. Una caricatura dell’essere che potevamo: donne e uomini dall’occhio contemplativo.
Compiuti a partire da dentro, come Gesù.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa tramo quando il Signore mi chiede di rischiare?
Cos’hanno significato per te i gesti non amici, e il rigetto, negli esiti paradossali?
Amare è creare: Gloria che volta pagina
Comandamento Liberazione. Causa Fonte
(Gv 13,31-35)
L’unione vicendevole è l’ultima volontà del Signore. Gesù affida ai discepoli il suo testamento, con una novità radicale.
L’amore al prossimo figurava già fra le prescrizioni antiche, e Cristo sembra ricalcarne la formulazione stessa (Lv 19,18).
Ma il Figlio di Dio non allude solo a compatrioti e proseliti della medesima religione. Egli abbatte le barriere sinora considerate ovvie.
Eppure la grande novità è nelle motivazioni fondamentali.
L’amore reciproco è sulla stessa linea dell’incontro con se stessi - dove per grazia e vocazione si annida un possesso di ricchezze, perfezioni crescenti, che vogliono affiorare.
Da tale scrigno, conoscenza, piattaforma solida, sorge l’afflato del poter donare la vita: ma per accrescerla, renderla piena e rallegrarla - a partire non da condizionamenti esterni e mansioni da espletare o sfruttare.
Infatti il comandamento è «nuovo» non solo perché edificante e di stimolo, ma anzitutto perché rivelatore della propria vocazione e della vita intima di Dio, del rapporto fra il Padre e il Figlio, assunto.
È un legame manifestativo, che diviene fondamento, motivo crescente e motore; energia lucida, che ci dà la capacità di spostare lo sguardo e voltare pagina: introduce una nuova età, un nuovo regno.
Il comandamento «nuovo» dell’amore - unica consegna del Cristo - è cifra della vittoria di Pasqua, teofania e testimonianza del suo popolo autentico: «non con misura» (Gv 3,31-36: 34).
Il «senza misura» è quello delle nozze mistiche fra le due “nature”, dell’amicizia intima che penetra la vita del Padre.
Anche nell’attesa, il senza-confini vivifica l’esistenza e la compie, provenendo dall’esperienza della sostanza e della vertigine - già in se stessi.
È la vita del Figlio in noi: percezione di un poter “stare” costitutivo. Quindi senza perdere interesse nel tempo dell’assenza.
E di poter cambiare; intuizione d’una differente «gloria» (irriducibile) dalle caratteristiche speciali.
Ora non vale più la morale delle religioni: la nostra è un’etica vocazionale e pasquale, nello Spirito che rinnova la faccia della terra.
Ogni proposito, ciascun ruolo, qualsiasi ministero, viene illuminato dalla vittoria della vita sulla morte.
In tal guisa, il comportamento va configurato al Mistero.
Viviamo in Cristo, uomo nuovo: non siamo più sotto doveri “a posto” e prescrizioni. L’attitudine battesimale non può venire misurata.
L’unzione e l’appello ricevuti rispondono all’intima passione, al senso di reciprocità e Pienezza personale, che trasbordano.
Così smuovono mète eminenti: nella partecipazione alla vita colma, eccesso non assimilabile a conformismi e orizzonti medi.
Per un pio israelita avere gloria è dare peso specifico alla propria esistenza, e rivelare il suo completo valore - ma in senso elettivo.
«Fu vera gloria?» - si chiede Manzoni: dalla gloria-vana e vanesia si rotola giù. Tutt’altra la Gloria quale Presenza reale di Dio.
Ecco i dissidi fra comunità e umanità (persone in pienezza); liturgia e realtà, preghiera e ascolto, teologia e vita, proclami e dietro le quinte.
Mentre i Sinottici annunciano Amore universale, l’autore del quarto Vangelo è preoccupato che la testimonianza inespressa dei figli non sia una clamorosa smentita della santità predicata agli altri [dagli “eletti”].
Come diceva Paolo VI: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri». Non solo per un’opportuna e dovuta valutazione di coerenza morale, ma perché rimandano al Mistero, all’Oro divino.
Solo se collocati sulla medesima onda di bellezza e fascino del «Figlio dell’uomo» contribuiamo a non farlo tramontare o escludere: quanto più si è umani senza doppiezze, tanto più si manifesta il Cielo che è in noi.
Certo, sembra impossibile amare «come» Lui (v.34), ma qui l’espressione greca ha un’altra possibilità di lettura. Il termine originario non indica solo un orizzonte ideale o la misura alta - irraggiungibile per sforzo.
«Kathòs» [avverbio e congiunzione] è dotato di valore generativo, oltre che comparativo.
L’espressione chiave del brano si può intendere: «Amatevi gli uni gli altri per il fatto che Io vi ho amati senza condizioni» ovvero «Perché Io vi ho amati gratuitamente, proprio su tale onda di vita, ora potete amarvi».
Vuol dire: far sentire il prossimo già abilitato - adeguato e libero - è l’unico contrassegno non ridotto della Fede in Cristo.
Insomma, il Padre non è il Dio delle prescrizioni: non assorbe le nostre energie, ma le genera e dilata.
Non pretende di soffocare e sfiancarci.
Il distintivo, l’emblema della testimonianza piena dei figli e delle comunità schiette non è produzione propria.
Conserva una qualità indistruttibile di elasticità e Relazione che non sgomenta, né lascia cadere le braccia: dona respiro.
Non è opera di fanatici spartiacque pro e contro, né d’un individualismo devoto che predica la “salvezza della propria anima” - esasperazione della pietà religiosa e della pedestre morale retributiva dei «meriti».
È il dispiegarsi dell’azione del Figlio dell’uomo (v. 31) che rende potente il calpestato e meschino.
Il Maestro non s’accontenta di fare il gregario accodato, come l’eterodiretto Giuda, apostolo zelante in apparenza.
«Figlio dell’uomo» indica Gesù che manifesta il Padre, l’uomo che rende palese la condizione divina.
La Persona che nella sua pienezza umana riflette il disegno sano delle Origini - possibilità per tutti i rinati in Cristo.
Il sentimento carnale ha fretta di regolarsi sulla base di traguardi e titoli; delle imprese e del successo, o di perfezioni e prestigio dell’amato.
Stabilisce confini.
L’Amore divino (e quello dei figli) è sproporzionato, ha un’altra condotta: previene, recupera; non rompe l’intesa, aiuta.
L’Amore non vagabondo conosce il piccolo, l’incerto e il debole. Sa che essi crescono solo attraverso l’esperienza del Dono, altrimenti si bloccano.
Se il Gratis non soppianta il merito, nessuno si rafforza; anzi, tutti - anche gli energici - rattrappiscono. Condannati a una cappa esterna di norme e dottrine, o di astrazioni e sofisticazioni disincarnate.
Per questo il «Figlio dell’uomo» - lo sviluppo genuino e pieno del progetto divino sull’umanità - non è ostacolato da pubblici peccatori, bensì da coloro che suppongono di sé e avrebbero il ministero di farlo conoscere!
La Gloria divina non ha a che fare con divise, paltò, coccarde o distintivi epidermici; si palesa nella Comunione senza previe interdizioni, nel servizio che si porge agli insufficienti e non ammanicati - da cui sperare... zero.
Nulla che possa essere integrato poi, aggiungendo qualcosina - un semplice “completamento” - alle norme della Prima Alleanza [che non insisteva sulla somiglianza con Dio ma sull’obbedienza di massa].
Le inclinazioni di natura fondamentalista, o le maniere di circostanza e à la page, la brama di prestigio mondano - in realtà - dividono.
La convivialità delle differenze comprende, dilata, accentua l’amalgama e unisce, arricchendo. Apre all’inconsueto e inimmaginabile.
I fondatori di religioni propongono una visione del mondo e sono modelli statici di comportamento.
Non prospettano un’offerta crescente (Gv 14,12: «opere più grandi»). Invito diffusamente personale - profondo e nitido, più del loro.
Gesù non è un “modello” prevedibile da imitare.
È anzitutto - ribadiamo - un Motivo e un Motore: amiamo come e perché Cristo. Vivendo di Lui, ciascuno.
Rischiamo tutto perché siamo all’interno d’un Evento che abbiamo visto, d’una Relazione che non solo persuade, ma ci porta e genera oltre; non in calando.
Non siamo più sotto una Legge che nomina Dio per obbligo, ma nella sfida d’un gesto che ri-crea e via via realizza, rendendo forte la nostra debolezza.
Tanto da stupire dei lati in ombra divenuti risorse e sbalordimento. Tutto senza spersonalizzare; anzi, sottolineando l’unicità.
Questo il comandamento «nuovo».
«Kainòs» è un termine greco che marca differenza, eclissa il resto - nel senso che riassume, supera e sostituisce. Soppianta tutti i comandamenti: ovvi e sotto condizione.
E non ce ne sarà uno migliore, perché la nostra speranza non è il Cielo (già pronto), ma il Cielo sulla terra.
Più del troppo in là del vecchio Paradiso finale a tariffa invariabile e compimento prevedibile. Modico, conformista, a settori; perfino lì articolato secondo ruoli.
E piramidale.
La generosità irruente di Pietro non lo salvaguarda, tuttavia, dai rischi connessi con l’umana debolezza. E’ quanto, del resto, anche noi possiamo riconoscere sulla base della nostra vita. Pietro ha seguito Gesù con slancio, ha superato la prova della fede, abbandonandosi a Lui. Viene tuttavia il momento in cui anche lui cede alla paura e cade: tradisce il Maestro (cfr Mc 14,66-72). La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà. Anche Pietro deve imparare a essere debole e bisognoso di perdono. Quando finalmente gli cade la maschera e capisce la verità del suo cuore debole di peccatore credente, scoppia in un liberatorio pianto di pentimento. Dopo questo pianto egli è ormai pronto per la sua missione […]
Dagli ingenui entusiasmi dell’adesione iniziale, passando attraverso l’esperienza dolorosa del rinnegamento ed il pianto della conversione, Pietro è giunto ad affidarsi a quel Gesù che si è adattato alla sua povera capacità d’amore. E mostra così anche a noi la via, nonostante tutta la nostra debolezza. Sappiamo che Gesù si adegua a questa nostra debolezza. Noi lo seguiamo, con la nostra povera capacità di amore e sappiamo che Gesù è buono e ci accetta.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 24 maggio 2006]
L'uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l'amore, se non s'incontra con l'amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente. E perciò appunto Cristo Redentore - come è stato già detto - rivela pienamente l'uomo all'uomo stesso. Questa è - se così è lecito esprimersi - la dimensione umana del mistero della Redenzione. In questa dimensione l'uomo ritrova la grandezza, la dignità e il valore propri della sua umanità. Nel mistero della Redenzione l'uomo diviene nuovamente «espresso» e, in qualche modo, è nuovamente creato. Egli è nuovamente creato! «Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù»64. L'uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo - non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere - deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve «appropriarsi» ed assimilare tutta la realtà dell'Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso. Se in lui si attua questo profondo processo, allora egli produce frutti non soltanto di adorazione di Dio, ma anche di profonda meraviglia di se stesso. Quale valore deve avere l'uomo davanti agli occhi del Creatore se «ha meritato di avere un tanto nobile e grande Redentore»65, se «Dio ha dato il suo Figlio», affinché egli, l'uomo, «non muoia, ma abbia la vita eterna»66.
In realtà, quel profondo stupore riguardo al valore ed alla dignità dell'uomo si chiama Vangelo, cioè la Buona Novella. Si chiama anche Cristianesimo. Questo stupore giustifica la missione della Chiesa nel mondo, anche, e forse di più ancora, «nel mondo contemporaneo». Questo stupore, ed insieme persuasione e certezza, che nella sua profonda radice è la certezza della fede, ma che in modo nascosto e misterioso vivifica ogni aspetto dell'umanesimo autentico, è strettamente collegato a Cristo. Esso determina anche il suo posto, il suo - se così si può dire - particolare diritto di cittadinanza nella storia dell'uomo e dell'umanità. La Chiesa, che non cessa di contemplare l'insieme del mistero di Cristo, sa con tutta la certezza della fede, che la Redenzione, avvenuta per mezzo della croce, ha ridato definitivamente all'uomo la dignità ed il senso della sua esistenza nel mondo, senso che egli aveva in misura notevole perduto a causa del peccato. E perciò la Redenzione si è compiuta nel mistero pasquale, che attraverso la croce e la morte conduce alla risurrezione.
Il còmpito fondamentale della Chiesa di tutte le epoche e, in modo particolare, della nostra, è di dirigere lo sguardo dell'uomo, di indirizzare la coscienza e l'esperienza di tutta l'umanità verso il mistero di Cristo, di aiutare tutti gli uomini ad avere familiarità con la profondità della Redenzione, che avviene in Cristo Gesù. Contemporaneamente, si tocca anche la più profonda sfera dell'uomo, la sfera - intendiamo - dei cuori umani, delle coscienze umane e delle vicende umane.
[Papa Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, n.10
In questi giorni di Quaresima abbiamo visto la persecuzione che ha subìto Gesù e come i dottori della Legge si sono accaniti contro di lui: è stato giudicato sotto accanimento, con accanimento, essendo innocente. Io vorrei pregare oggi per tutte le persone che soffrono una sentenza ingiusta per l’accanimento.
La profezia di Isaia che abbiamo ascoltato è una profezia sul Messia, sul Redentore, ma anche una profezia sul popolo di Israele, sul popolo di Dio: possiamo dire che può essere una profezia su ognuno di noi. In sostanza, la profezia sottolinea che il Signore ha eletto il suo servo dal seno materno: per due volte lo dice (cf. Is. 49,1). Dall’inizio il suo servo è stato eletto, dalla nascita o prima della nascita. Il popolo di Dio è stato eletto prima della nascita, anche ognuno di noi. Nessuno di noi è caduto nel mondo per casualità, per caso. Ognuno ha un destino, ha un destino libero, il destino dell’elezione di Dio. Io nasco con il destino di essere figlio di Dio, di essere servo di Dio, con il compito di servire, di costruire, di edificare. E questo, dal seno materno.
Il Servo di Jahvé, Gesù, servì fino alla morte: sembrava una sconfitta, ma era il modo di servire. E questo sottolinea il modo di servire che noi dobbiamo prendere nella nostra vita. Servire è darsi, darsi agli altri. Servire è non pretendere per ognuno di noi qualche beneficio che non sia il servire. È la gloria, servire; e la gloria di Cristo è servire fino ad annientare sé stesso, fino alla morte, morte di Croce (cf. Fil 2,8). Gesù è il servo di Israele. Il popolo di Dio è servo, e quando il popolo di Dio si allontana da questo atteggiamento di servire è un popolo apostata: si allontana dalla vocazione che Dio gli ha dato. E quando ognuno di noi si allontana da questa vocazione di servire, si allontana dall’amore di Dio. Ed edifica la sua vita su altri amori, tante volte idolatrici.
Il Signore ci ha eletti dal seno materno. Ci sono, nella vita, cadute: ognuno di noi è peccatore e può cadere ed è caduto. Soltanto la Madonna e Gesù [sono senza peccato]: tutti gli altri siamo caduti, siamo peccatori. Ma quello che importa è l’atteggiamento davanti al Dio che mi ha eletto, che mi ha unto come servo; è l’atteggiamento di un peccatore che è capace di chiedere perdono, come Pietro, che giura che “no, io mai ti rinnegherò, Signore, mai, mai, mai!”, poi, quando canta il gallo, piange. Si pente (cf. Mt. 26,75). Questa è la strada del servo: quando scivola, quando cade, chiedere perdono.
Invece, quando il servo non è capace di capire che è caduto, quando la passione lo prende in tal modo che lo porta all’idolatria, apre il cuore a satana, entra nella notte: è quello che è accaduto a Giuda (cf. Mt. 27, 3-10).
Pensiamo oggi a Gesù, il servo, fedele nel servizio. La sua vocazione è servire, fino alla morte e morte di Croce (cf. Fil. 2,5-11). Pensiamo a ognuno di noi, parte del popolo di Dio: siamo servi, la nostra vocazione è per servire, non per approfittare del nostro posto nella Chiesa. Servire. Sempre in servizio.
Chiediamo la grazia di perseverare nel servizio. A volte con scivolate, cadute, ma la grazia almeno di piangere come ha pianto Pietro.
[Papa Francesco, omelia s. Marta 7 aprile 2020]
Segno alleato. Cammino incantevole
(Gv 12,1-11)
Man mano che si avvicina alla sua ‘ora’, Cristo sembra perdere i suoi tratti ufficiali e si fa sentire sempre più intimo, alla nostra portata.
Il dialogo con gli uomini s’intesse più di gesti silenziosi che di parole.
Dopo la giornata pubblica di ieri, è in tal guisa che Gesù si fa presente nella comunità dei famigliari senza capi; di soli fratelli e sorelle.
Signore e Maestro senza turbine né trionfi; anzi, ricercato e costretto alla clandestinità.
Viene accolto in una Casa tranquilla, che lascia spazio alle emozioni, sebbene su di lui pendesse un mandato di cattura.
Chiesa dove si gode un’aria di pace, malgrado la mancanza di sicurezze - e frangenti contrari attorno.
Così vivevano le misere comunità giovannee dell’Asia Minore sotto Domiziano - indigenti e sottratte alla gloria esteriore, all’osanna delle folle. Ma in grado di curare sia le tensioni che le resistenze.
Erano piccole realtà «in ascolto», piene di voglia di comunione e rispettose.
Senza troppe pressioni, esse guidavano le energie verso direzioni più naturali. Come capita fra pochi amici.
Clima di conversazione e tu per tu, di vita meravigliosamente umana e quotidiana che vuole trovare posto in noi. Dove i minori e malfermi ancora ristorano il Maestro con delicati omaggi.
Nella condivisione e nella comprensione reciproca, le minuscole fraternità facevano trasalire di gioia quotidiana e ‘vita nuova’, trasmesse a coloro che giungevano da tutte le contrade.
Vivevano in semplicità l’amore. Empatia che a chiunque faceva valicare difficoltà e timori.
Amicizia che smuoveva e trascinava per attrazione - nei gesti di tenera devozione, che sganciava ciascuno da atteggiamenti e comportamenti umilianti la propria spontaneità.
Ecco lo Spezzare il Pane: gesto senza prezzo, al di là delle convenzioni sociali; convincente, perché segno ‘alleato’ gratuito.
Esso non rifiutava la natura genuina di ciascuno. L’Eucaristia non era un fortino esclusivo.
Anche oggi possiamo - come Maria - senza troppo computare, «ungere i piedi» del Signore: celebrare il Dono di una Via.
I fedeli capivano che la loro parte migliore poteva riconoscersi non in un circolo-modello, ma [allo stato più puro] nelle persone dai piedi stanchi e nella Persona di quel primo Venuto sempre in procinto di partire - vivendoci dentro.
Significava servire e riconoscersi, assimilare e consacrare il proprio Cammino personale in quello complessivo del Figlio di Dio, fattosi umanissima e divina Presenza, che ricolma e convince.
Il lungo Viaggio del Cristo è traccia del nostro: dall’iniziativa del Padre alla capacità dei figli di accoglierlo, custodirlo, venerarlo, corrispondergli - semplicemente accostando le Radici - e non rifiutarlo, se “perdente”.
Ecco l’omaggio d’amicizia.
Solo questo riempie la Casa di Betania - ossia la Chiesa che vale la pena sperimentare - del profumo del Cristo totale e Vivo, e lo ‘rivela’.
Gesù difende il diritto dell’amore «da dentro» di esprimersi liberamente: dove tutto diventa possibile - anche lo spreco del Gratis che non soppesa.
Senza astuzie unilaterali, quindi non rovinando la vita autentica e ogni rinascita interiore.
[Lunedì Santo, 14 aprile 2025]
Segno alleato. Cammino incantevole
(Gv 12,1-11)
Man mano che si avvicina alla sua ora, Cristo sembra perdere i suoi tratti ufficiali e si fa sentire sempre più intimo, alla nostra portata.
Il dialogo con gli uomini s’intesse più di gesti silenziosi che di parole.
Dopo la giornata pubblica di ieri, è in tal guisa che Gesù si fa presente nella comunità dei famigliari senza capi; di soli fratelli e sorelle.
Signore e Maestro senza turbine né trionfi; anzi, ricercato e costretto alla clandestinità.
Viene accolto in una Casa tranquilla, la quale lascia spazio alle emozioni, sebbene su di lui pendesse un mandato di cattura.
Chiesa dove si gode un’aria di pace, pur nella mancanza di sicurezze - e frangenti contrari attorno.
Così vivevano le misere comunità giovannee dell’Asia Minore sotto Domiziano: indigenti e sottratte alla gloria esteriore, all’osanna delle folle.
Ma in grado di curare sia le tensioni che le resistenze.
Si godeva dell’atmosfera semplice, senza barricate, dei rapporti veri [non solo essenziali] in grado di risvegliare tendenze innate e sentimenti; opportuni a trasformare disagi e identificazioni.
I labirinti mentali dei timori e dei ruoli “adeguati”, avrebbero intrappolato l’energia vitale di sorelle e fratelli in un perimetro esterno, con eccesso di pensiero e di controllo.
Nessuna gabbia dunque che potesse chiudere la dimensione d’unicità nell’amore, e del Mistero, nel cerchio degli influssi che avrebbero svuotato i processi interni.
Le assemblee dei primordi erano piccole realtà in ascolto, piene di voglia di comunione, e rispettose.
Senza troppe pressioni, esse guidavano le energie verso direzioni più naturali. Come capita fra pochi amici.
Clima di conversazione e tu per tu, di vita meravigliosamente umana, quotidiana, che ancora vuole trovare posto in noi. Dove i minori e malfermi (ancora) ristorano il Maestro con delicati omaggi.
Nella condivisione e nella comprensione reciproca, le minuscole fraternità facevano trasalire di gioia quotidiana e vita nuova, nella capacità di coesistenza.
Realtà trasmesse a coloro che giungevano da tutte le contrade; senza prima le configurazioni.
Non era ancora... la chiesa degli eventi plausibili e di piazza, ostentati e di massa - che poi cerca ‘il pieno’ per affermarsi in modo eloquente, fare proselitismo, o arricchire come Giuda con risorse altrui.
Vivevano in semplicità l’amore. Empatia che a chiunque faceva valicare difficoltà e timori.
Amicizia che smuoveva e trascinava per attrazione - nei gesti di tenera devozione, che sganciava da atteggiamenti e comportamenti umilianti la spontaneità.
Ecco lo Spezzare il Pane, gesto senza prezzo, al di là delle convenzioni sociali; convincente perché segno alleato, gratuito.
Esso non rifiutava la natura genuina di ciascuno. L’Eucaristia non era un fortino esclusivo.
Anche oggi possiamo - come Maria - senza troppo computare, ungere i piedi del Signore: celebrare il Dono di una Via.
I fedeli capivano che la loro parte migliore poteva riconoscersi non in un circolo-modello.
Allo stato più puro, sorelle e fratelli trovavano corrispondenza nelle persone dai piedi stanchi, e nella Persona di quel primo Venuto sempre in procinto di partire - vivendoci dentro.
Significava servire e riconoscersi, assimilare e consacrare il proprio Cammino personale in quello complessivo del Figlio di Dio, fattosi umanissima e divina Presenza che ricolmava e convinceva.
Il lungo Viaggio del Cristo è traccia del nostro: dall’iniziativa del Padre alla capacità dei figli di accoglierlo, custodirlo, venerarlo, corrispondergli - semplicemente accostando le ‘radici’.
E non rifiutarlo, se “perdente”. Ecco l’omaggio d’intesa.
Solo questo riempie la Casa di Betania - ossia la Chiesa che vale la pena sperimentare - del profumo del Cristo totale e Vivo. E lo rivela.
In tali circostanze, Gesù difende il diritto dell’amore da dentro di esprimersi liberamente: dove tutto diventa possibile.
Viceversa, il convivente-habitué privo dello “spreco” del Gratis e di un Esodo ideale senza incanto, rimane stordito dal condizionamento delle false, troppo comuni guide spirituali.
Mestieranti opportunisti, che tutto soppesano in modo astuto, unilaterale - rovinando la vita autentica e ogni rinascita interiore.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quando mi comporto in modo da diffondere il profumo della gratuità?
La realtà in cui sono introdotto è una Betania ospitale? Aiuta o soffoca le sorprese ministeriali?
L’arrivo di un senza voce assume l’importanza di evento pasquale e mette tutti in festa, o nel sospetto?
Ti comprometti dall’intimo... o prima cerchi l’approvazione?
Immedesimazione e libertà. Florilegio
«Quindi conta soprattutto il valore interiore del dono. Nella Sacra Scrittura e secondo le categorie evangeliche, “elemosina” significa anzitutto dono interiore. Significa l’atteggiamento di apertura “verso l’altro”» [Giovanni Paolo II, Udienza Generale 28 marzo 1979].
«Pensiamo a quel momento quando Maria lava i piedi di Gesù con il nardo, tanto costoso: è un momento religioso, un momento di gratitudine, un momento di amore. E Giuda si distacca e fa la critica amara: “Ma questo potrebbe essere usato per i poveri!”. Questo è il primo riferimento che ho trovato io, nel Vangelo, della povertà come ideologia. L’ideologo non sa cosa sia l’amore, perché non sa darsi» [Papa Francesco, omelia s. Marta 14/05/2013]
«Lasciamolo entrare nella nostra casa. Lasciamo che la nostra vita sia invasa dall’irrefrenabile profumo del dono. L’amore immenso e gratuito di Dio si fa carne, si lascia contemplare sulla croce in tutta la sua sconvolgente e folle radicalità» [Papa Francesco].
«L’unguento che Maria spande è il simbolo della comunione nuziale con Gesù espresso dalla comunità cristiana. Celebriamo la chiamata delle nostre comunità cristiane, rappresentate da Maria di Betania, alla comunione totale con Gesù, datore di vita. È lui che trasforma quello che sarebbe dovuto essere il banchetto funebre in memoria di Lazzaro in un banchetto di gioia. È lui che tramuta il fetore insopportabile di un morto “quadriduano” nel profumo che inonda la casa di letizia. È lui che protesta contro tutti i Giuda della terra, i quali considerano sprecato l’unguento prezioso della intimità con Dio è oppongono i poveri al Signore. È lui che rifiuta la ‘praticità’ di tutti coloro che preferiscono l’efficienza del denaro a ogni estasi d’amore, e riducono malinconicamente in valuta monetaria anche ciò che non ha prezzo. È lui, insomma, che dobbiamo ricercare nella preghiera d’abbandono, nell’esperienza contemplativa e nella consuetudine di vita.
Il Signore ci preservi dall’errore di Giuda il quale, insensibile al profumo del nardo, avverte solo il tintinnare dei soldi, e, invece che percepire la lucentezza dell’olio, si lascia sedurre dallo scintillio dell’argento. Qual è questo profumo d’unguento di cui dobbiamo riempire la casa, e qual è questo buon profumo di Cristo che dobbiamo diffondere nel mondo? Il profumo che deve riempire la casa è la comunione. Naturalmente, come quello comprato da Maria di Betania, l’olio della comunione ha un prezzo carissimo. E noi dobbiamo pagarlo, senza sconti, con tanta preghiera, anche perché non è un prodotto commerciale in vendita nelle nostre profumerie, né è frutto dei nostri sforzi titanici. È un dono di Dio che dobbiamo implorare senza stancarci. Ma l’otterremo, ne sono certo; e il suo profumo riempirà tutta la nostra Chiesa» [don Tonino Bello, Lessico di comunione]
«C’è una povertà verticale che ci riguarda tutti, è nostra. Una volta riconosciuta, questa povertà si esprime in un gesto gratuito di adorazione, crea lo spazio “inutile” della liturgia, offre a Dio le primizie togliendosele di bocca. Nella vita di fede c’è uno spreco inevitabile e amabile, un esaltarsi nel puro nulla: uomini e donne che si sciupano consacrandosi a Dio, tempo perduto nella preghiera. L’adorazione è spreco. Che sarebbe la Chiesa, se la borsa di Iscariote fosse piena per i poveri e la casa di Betania vuota di profumo?» [V. Mannucci]
Il Vangelo poc’anzi proclamato ci conduce a Betania, dove, come annota l’Evangelista, Lazzaro, Marta e Maria offrirono una cena al Maestro (Gv 12,1). Questo banchetto in casa dei tre amici di Gesù è caratterizzato dai presentimenti della morte imminente: i sei giorni prima di Pasqua, il suggerimento del traditore Giuda, la risposta di Gesù che richiama uno degli atti pietosi della sepoltura anticipato da Maria, l’accenno che non sempre lo avrebbero avuto con loro, il proposito di eliminare Lazzaro in cui si riflette la volontà di uccidere Gesù. In questo racconto evangelico, c’è un gesto sul quale vorrei attirare l’attenzione: Maria di Betania “prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli” (12,3). Il gesto di Maria è l’espressione di fede e di amore grandi verso il Signore: per lei non è sufficiente lavare i piedi del Maestro con l’acqua, ma li cosparge con una grande quantità di profumo prezioso, che – come contesterà Giuda – si sarebbe potuto vendere per trecento denari; non unge, poi, il capo, come era usanza, ma i piedi: Maria offre a Gesù quanto ha di più prezioso e con un gesto di devozione profonda. L’amore non calcola, non misura, non bada a spese, non pone barriere, ma sa donare con gioia, cerca solo il bene dell’altro, vince la meschinità, la grettezza, i risentimenti, le chiusure che l’uomo porta a volte nel suo cuore.
Maria si pone ai piedi di Gesù in umile atteggiamento di servizio, come farà lo stesso Maestro nell’Ultima Cena, quando – ci dice il quarto Vangelo – “si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli” (Gv 13,4-5), perché – disse – “anche voi facciate come io ho fatto a voi” (v. 15): la regola della comunità di Gesù è quella dell’amore che sa servire fino al dono della vita. E il profumo si spande: “tutta la casa – annota l’Evangelista – si riempì dell’aroma di quel profumo” (Gv 12,3). Il significato del gesto di Maria, che è risposta all’Amore infinito di Dio, si diffonde tra tutti i convitati; ogni gesto di carità e di devozione autentica a Cristo non rimane un fatto personale, non riguarda solo il rapporto tra l’individuo e il Signore, ma riguarda l’intero corpo della Chiesa, è contagioso: infonde amore, gioia, luce.
“Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto” (Gv 1,11): all’atto di Maria si contrappongono l’atteggiamento e le parole di Giuda, che, sotto il pretesto dell’aiuto da recare ai poveri, nasconde l’egoismo e la falsità dell’uomo chiuso in se stesso, incatenato dall’avidità del possesso, che non si lascia avvolgere dal buon profumo dell’amore divino. Giuda calcola là dove non si può calcolare, entra con animo meschino dove lo spazio è quello dell’amore, del dono, della dedizione totale. E Gesù, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, interviene a favore del gesto di Maria: “Lasciala fare, perché ella lo conservi per il giorno della mia sepoltura” (Gv 12,7). Gesù comprende che Maria ha intuito l’amore di Dio ed indica che ormai la sua ”ora” si avvicina, l’“ora” in cui l’Amore troverà la sua espressione suprema sul legno della Croce: il Figlio di Dio dona se stesso perché l’uomo abbia la vita, scende negli abissi della morte per portare l’uomo alle altezze di Dio, non ha paura di umiliarsi “facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,8). Sant’Agostino, nel Sermone in cui commenta tale brano evangelico, rivolge a ciascuno di noi, con parole incalzanti, l’invito ad entrare in questo circuito d’amore, imitando il gesto di Maria e ponendosi concretamente alla sequela di Gesù. Scrive Agostino: “Ogni anima che voglia essere fedele, si unisce a Maria per ungere con prezioso profumo i piedi del Signore… Ungi i piedi di Gesù: segui le orme del Signore conducendo una vita degna. Asciugagli i piedi con i capelli: se hai del superfluo dallo ai poveri, e avrai asciugato i piedi del Signore” (In Ioh. evang., 50, 6).
[Papa Benedetto, omelia 29 marzo 2010]
Jesus, who shared his quality as a "stone" in Simon, also communicates to him his mission as a "shepherd". It is a communication that implies an intimate communion, which also transpires from the formulation of Jesus: "Feed my lambs... my sheep"; as he had already said: "On this rock I will build my Church" (Mt 16:18). The Church is property of Christ, not of Peter. Lambs and sheep belong to Christ, and to no one else (Pope John Paul II)
Gesù, che ha partecipato a Simone la sua qualità di “pietra”, gli comunica anche la sua missione di “pastore”. È una comunicazione che implica una comunione intima, che traspare anche dalla formulazione di Gesù: “Pasci i miei agnelli… le mie pecorelle”; come aveva già detto: “Su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18). La Chiesa è proprietà di Cristo, non di Pietro. Agnelli e pecorelle appartengono a Cristo, e a nessun altro (Papa Giovanni Paolo II)
Praying, celebrating, imitating Jesus: these are the three "doors" - to be opened to find «the way, to go to truth and to life» (Pope Francis)
Pregare, celebrare, imitare Gesù: sono le tre “porte” — da aprire per trovare «la via, per andare alla verità e alla vita» (Papa Francesco)
In recounting the "sign" of bread, the Evangelist emphasizes that Christ, before distributing the food, blessed it with a prayer of thanksgiving (cf. v. 11). The Greek term used is eucharistein and it refers directly to the Last Supper, though, in fact, John refers here not to the institution of the Eucharist but to the washing of the feet. The Eucharist is mentioned here in anticipation of the great symbol of the Bread of Life [Pope Benedict]
Narrando il “segno” dei pani, l’Evangelista sottolinea che Cristo, prima di distribuirli, li benedisse con una preghiera di ringraziamento (cfr v. 11). Il verbo è eucharistein, e rimanda direttamente al racconto dell’Ultima Cena, nel quale, in effetti, Giovanni non riferisce l’istituzione dell’Eucaristia, bensì la lavanda dei piedi. L’Eucaristia è qui come anticipata nel grande segno del pane della vita [Papa Benedetto]
Work is part of God’s loving plan, we are called to cultivate and care for all the goods of creation and in this way share in the work of creation! Work is fundamental to the dignity of a person. Work, to use a metaphor, “anoints” us with dignity, fills us with dignity, makes us similar to God, who has worked and still works, who always acts (cf. Jn 5:17); it gives one the ability to maintain oneself, one’s family, to contribute to the growth of one’s own nation [Pope Francis]
Il lavoro fa parte del piano di amore di Dio; noi siamo chiamati a coltivare e custodire tutti i beni della creazione e in questo modo partecipiamo all’opera della creazione! Il lavoro è un elemento fondamentale per la dignità di una persona. Il lavoro, per usare un’immagine, ci “unge” di dignità, ci riempie di dignità; ci rende simili a Dio, che ha lavorato e lavora, agisce sempre (cfr Gv 5,17); dà la capacità di mantenere se stessi, la propria famiglia, di contribuire alla crescita della propria Nazione [Papa Francesco]
God loves the world and will love it to the end. The Heart of the Son of God pierced on the Cross and opened is a profound and definitive witness to God’s love. Saint Bonaventure writes: “It was a divine decree that permitted one of the soldiers to open his sacred wide with a lance… The blood and water which poured out at that moment was the price of our salvation” (John Paul II)
Il mondo è amato da Dio e sarà amato fino alla fine. Il Cuore del Figlio di Dio trafitto sulla croce e aperto, testimonia in modo profondo e definitivo l’amore di Dio (Giovanni Paolo II))
don Giuseppe Nespeca
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