don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Venerdì, 11 Aprile 2025 16:19

Emmaus: diversa Perfezione

Domenica di Pasqua: le fondamenta, e i delusi della Risurrezione

 

Lc 24,13-35 (13-48)

 

I discepoli questionano, sono in confusione; si rimpallano ansie e accuse, disillusi e frustrati - ma ciò di cui sembrano più preoccupati non è tanto la morte beffarda del Maestro, bensì (e paradossalmente) la sua stessa condizione divina.

Quel che temono è esattamente lo sgretolamento delle loro speranze di gloria.

Hanno solo paura di non sentirsi appoggiati da qualcuno che abbia raggiunto la notorietà, al fine di ottenere il sospirato predominio.

Ciò che li delude è proprio che Gesù possa essere il Risorto: ossia l’afferrato e incorporato a sé, l’assunto dal Padre alla sua stessa Vita piena perché riconosciutosi nel Figlio dimesso.

Intronizzato alla destra del trono celeste, perché vero, e servitore altrui.

Apostoli simili hanno gli occhi trattenuti da sogni di principato, ricchezza, e supremazia.

Su tale base è impossibile riconoscere la Presenza di Cristo - che vuol farci stare nel presente e vedere il futuro.

Tali e quali come prima, si dirigono infatti a Emmaus, un luogo di antiche vittorie militari nazionaliste.

Il nome stesso di Cleopa era abbreviazione di Cleopatros che significa «del padre illustre, prestigioso».

I discepoli sono ancora infarciti dell’ambizione al successo: questo il loro dio.

È ancora il trionfo - non la genuinità e il dono di sé fino al sepolcro - che cambierebbe il mondo.

Per detti seguaci il figlio del falegname Galileo era ancora il Nazareno - che significava sovversivo, rivoltoso: uno dei tanti messia che avrebbero dovuto vendicarsi dell’oppressione romana e conquistare il potere.

Tranquillamente, malati di ambizione, tornano a considerare loro «autorità» (v.20) proprio i banditi travestiti da uomini di Dio che avevano fatto fuori il Maestro.

Così Gesù deve ancora una volta prendere il nostro passo e insistere nell’interpretare rettamente le Scritture.

Da esse emerge che il bene concreto della donna e dell’uomo reali, poliedrici, che sembrano perfino contraddittori, è principio non negoziabile.

Il testo greco di Lc dice che Gesù «fa ermeneutica» (v.27).

Insomma: i passi delle sacre Scritture, da Mosè ai Profeti e oltre, non vanno raccontati e percepiti a orecchio, ma interpretati.

Sono insegnamenti, non storie o narrazione di fatterelli.

 

Anche noi, innamorati delle nostre idee, facciamo fatica a introdurci in un lavoro di scavo delle vicende d’insuccesso, per estrarne perle sapienziali.

Ma i conflitti sono specchi pregevoli: di lotte interne.

La Parola di Dio non addomesticata da luoghi comuni ci aiuta a percepire gli accadimenti e il mondo anche dell’anima nella genuinità di segni provvidenziali.

Sono lì per un cammino di evoluzione, dove si affacciano sorprese tra le più preziose.

Ciò al fine non di diventare astuti, forti; neppure bravi in senso corrente.

Eventi ed emozioni anche negative accadono bensì per sviluppare la capacità di posare lo sguardo e corrispondere al tintinnio interiore della Chiamata.

Vocazione-carattere, nei momenti no: meraviglie per una gioia grande, come un Sole dentro, infuocato e luminoso (senza giudizi).

Protagonista che estrae qualità inattese; lavoratore che dissoda la terra e aspetta.

Cambiando il nostro modo di percepire, l’energia nuova della Parola porta le considerazioni in una differente Dimensione.

Gli sconcerti non sono più guardati per risolverli, ma per capirne il senso.

Impariamo a intuire che i nostri disturbi, sofferenze e problemi spesso sono come dei vestiti - addirittura soprabiti volentieri non dismessi.

Buttati via questi stracci esterni, ecco intuire nelle stesse delusioni una Presenza venuta a trovarci.

Coscienza alternativa che vuole vivere e scorrere in noi.

Porterà un Dono che reca un’altra Relazione, per cacciar via la banalità e le sue mille schiavitù.

Essa nel tempo avrà la forza di depositarsi dentro.

E quando le ansie personali, i propositi condizionati, le attese conformiste, ci guideranno in un territorio dove tutte le cose entrano in un’altra partita, in tutt’altra realtà - quella Voce sempre più diverrà il concime e il sostrato della nostra capacità di corrispondere, di crescere e partire; per staccarci da idee comuni e trovare nuove posizioni.

Un nuovo regno, un’altra memoria fondante; inediti richiami, differenti speranze, convinzioni, fiducie.

 

Poco a poco ci si rende conto: è nel medesimo senso della drammatica vicenda del Figlio autentico che passa la nostra vita da salvati.

Così, invece di stare sempre con la testa all’indietro o solo in avanti, si comincia a percepire il profetico; e lo portiamo a consapevolezza.

Mentre i discepoli del “messia” glorioso continuano a essere diretti al vecchio «villaggio» - luogo della grettezza, incomprensione, perfino ostilità all’Appello di Dio - il Risorto va più Lontano.

Poi entra, ma non nel villaggio [il paesino comune, dei dogmi, dei modi anche patinati, o delle tradizioni, dei conformismi] perché già Presente. E in ogni caso non è Pastore che perde il gregge.

In filigrana cogliamo il ritmo del nostro culto: ingresso, omelia, liturgia eucaristica, coro finale, annuncio missionario... il cui senso essenziale è la proposta: ‘spezzare la vita’.

È la condivisione che rende percepibile l’essere di Gesù - nella Chiesa che si fa Alimento sapienziale e fraterno per la completezza di tutti.

 

«Questo il mio Corpo» significa «Questo sono Io».

Dio si esprime in un gesto, lo spezzare del Pane - non in un oggetto sacro.

Allude alla Comunità che valica le differenze e si riunisce per farsi Cibo condiviso in favore altrui.

Tale il Richiamo essenziale, davvero sacro.

Nessuna sterilizzazione preventiva: solo quella a tutto tondo è l’esperienza che rende percepibile la Presenza divina.

«Si rese invisibile» perché il Risorto ha una vita che non soggiace alla banale percezione dei sensi ordinari.

Però Viene nella Chiesa che gratuitamente si porge per la vita dei senza voce, dei lontani, dei diversi; non delle belle maniere, e delle pessime abitudini.

«Prendete e mangiate»: fate vostra la mia vicenda, la scelta della convivialità delle differenze e dei lati contrastanti. Che trasmettono dignità a qualsiasi Cammino.

 

La notizia è troppo bella: si rinuncia alla raccolta dell’orzo [fine prima decade di aprile: in Palestina era il tempo giusto per iniziare la mietitura] e si parte immediatamente per Annunciare.

Si mettono fra parentesi gli affari della terra, affinché non siano solo quelli ad andare per il verso giusto - facendosi banditori espliciti, assertori e sostentamento di chi cerca vita.

 

 

Spezzato: diversa Perfezione

 

Dopo le prime persecuzioni (64), la sanguinosa guerra civile a Roma (68-69) e la distruzione del Tempio di Gerusalemme (70), i ribelli dell’impero tendevano a diminuire - insieme ai cristiani di seconda generazione, testimoni diretti dell’insegnamento Apostolico.

In tale realtà, del tutto nuova e insidiata dal pericolo della routine, dopo forse più d’una dozzina d’anni dalla caduta di Masada (73), Lc redige un Vangelo per ellenisti convertiti - ma educati all’ideale di uomo greco.

Il suo scopo era porre argine alle defezioni, incoraggiare nuovi fedeli, consentire ai culturalmente lontani un’esperienza viva del Signore.

Il Risorto ha una vita non più assoggettata ai sensi, perché piena. Ora è la comunità che lo manifesta presente [o - purtroppo - inutile e assente].

Condizionati da una falsa visuale inoculata da pessimi maestri e valori pagani, i discepoli provavano ancora sconcerto di fronte al fallimento.

Le aspettative della religione, delle filosofie, della vita nell’impero, li rendevano foschi e smarriti durante le prove di Fede.

Tutti attendevano l’uomo divino: dominatore, possidente, riverito, vendicatore, titolato e super-affermato. Capace di trascinare i suoi a medesima fortuna.

Lc ribalta la prospettiva banale, perché dentro ciascuno di noi esiste una saggezza innata, talora soffocata d’idee esterne, ma diversa.

Solo una differente intelligenza delle sacre Scritture che ancora risuonano colme di profezia critica, scalda il cuore e rende ciascuno riconoscibile in Cristo.

Sapienza che si abbina alla qualità di vita sperimentata in una fraternità poliedrica e pur indigente, ma che non abbandona nessuno.

Nella chiesa autentica, infatti, la sinergia delle differenze o dei lati differenti e in ombra configura una Nuova Alleanza; apre gli occhi a tutti, manifestando intensamente il Figlio.

E il Risorto non si appiccica agli ultimi arrivati in modo paternalistico (vv.28.31) ma chiama con fiducia a reinterpretarlo nell’amore, senza confini e ruoli identificati.

La sua Presenza in spirito e azioni consente a chiunque un calibro di vita coniata-spezzata senza previe condizioni di compiutezza.

Da qui il ritorno (v.33) e l’annuncio personale (v.35), invece d’indifferenza o fuga.

 

Il passo di Lc è una delle testimonianze più profonde della Pasqua di Gesù.

La tragedia della Croce spaventa ancora, così l’insuccesso.

Ma non incontriamo schiettamente il Signore come giustiziere, o nel fervore di una guerra santa “vittoriosa”.

Cristo non è un condottiero. Liberatore sì, ma non di un’idea o d’un solo popolo di prescelti.

Insomma, l’ordine nuovo sognato non sarà artificioso, procedurale, foraneo; né raggiunto con trionfo militare: Lo disconoscerebbe.

Incontriamo il Risorto fuori del sepolcro.

Cogliamo Gesù in un cammino, e nel senso autentico delle ‘scritture viventi’; nello spezzare il pane che illumina la coesistenza e il senso più ricco della vita ecclesiale.

Vediamo personalmente il Figlio innalzato, edificando la nuova comunità dei discepoli che non si perdono nella storia - anzi fioriscono a motivo dei rovesci.

Facendo sì che anche i fratelli possano incontrarsi con la Pasqua.

Nel loro iniziare incessante c’è una scoperta e qualcosa di speciale, anormale, irrompente; che getta continue fondamenta.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quando hai fatto esperienza di un Gesù che si accosta delicatamente e prende il tuo passo? Per te la Croce è una catastrofe?

Quale versante della tua personalità coglie quella del Cristo eucaristico e in mezzo? Forse qualcosa di unilaterale, o palese?

Cosa ti distoglie dalla cecità della Vita presente?

 

 

 

 

Non crea una gerarchia: in mezzo e piagato, o fantasma

 

(Lc 24,35-48)

 

Non riconosciamo una persona da mani e piedi (v.39).

Il Risorto ha una vita che sfugge alla percezione dei sensi, tuttavia la Risurrezione non annulla la persona, bensì la dilata.

L’identità e l’essere che lo contraddistingue è di altra natura, ma il cuore è quello, caratterizzante. Amore sino in fondo: azione [mani] e cammino [piedi] senza risparmio, che la non-fede emargina, umilia, uccide.

Non si coglie Cristo fuori dall’esperienza di condivisione, testimonianza, Missione - punta del testo - che si estende fra tutti gli uomini.

Un’evangelizzazione a partire da araldi diretti e banditori entusiasti. Centrati nel nucleo dell’Annuncio, che smuove tutto e dà accesso (vv.35-).

Finalmente grazie all’intelligenza delle Scritture, che fa uscire da luoghi comuni e automatismi interpretativi vaghi.

Nell’ascolto specifico e nel perdono che ci rende partecipi; nell’impegno che rischia, cammina, e parla.

 

Il progetto umano del Creatore ha assunto una configurazione pedagogica nella Legge. È stato ripreso, attualizzato e purificato dai profeti, e cantato nei salmi (v.44).

Ma la Conversione proposta da Cristo non è un ritorno alla religiosità, ma «cambiamento [di testa] in remissione» (v.47).

Il mutamento di convinzioni e mentalità è «per il perdono dei peccati»: ossia in superamento del senso d’inadeguatezza predicato dal centro religioso manipolatorio.

Le sue direzioni formali e vuote impediscono a donne e uomini di corrispondere alle proprie radici, al carattere, alla vocazione - alla gioia, alla pienezza di realizzazione personale, al Desiderio grande che pulsa dentro ciascuno.

 

In Gesù la storia della salvezza assume e riscatta la globalità dell’umano: essa diventa luogo privilegiato del vero suggello dell’Alleanza eterna tra il Padre e i figli. Solo in Lui la nostra vita va per il verso giusto.

Tale consapevolezza costituiva il nucleo di tutti i primi segni liturgici, i quali in parole e gesti esprimevano l’attitudine alla gratuità e accoglienza che animavano il credere.

In tal guisa, anche l’incontrare poliedrico; e il rischio della missione di Pace-Shalôm (v.36): Presenza del Messia stesso, attualizzato nello Spirito.

 

La Pasqua del Signore dava senso al passato del popolo ed era fondamento della libertà nell’amore, nella coesistenza - per l’opera personale ed ecclesiale.

Principio di nuove configurazioni. “Fatto” per eccellenza [in questo senso Lc ai vv.41-43 insiste sulla realtà della risurrezione].

Ecco l’inizio, fonte e culmine della storia autentica - nella stessa figura dell’Eucaristia come Mensa del «Pesce» [sigla acrostico, in greco, della condizione divina del Figlio dell’uomo].

Insomma, siamo testimoni oculari, non creduloni o vittime di allucinazioni collettive.

Nel Risorto non vediamo convergere proiezioni di angosce e frustrazioni; non lo cerchiamo per una compensazione.

 

Nei primi anni dopo la morte del Maestro, alcuni discepoli si difendevano effettivamente dagli scettici narrando di apparizioni.

La più convincente e genuina Manifestazione del Vivente era in realtà la saggezza e la qualità di vita espresse dalle prime comunità.

Coloro che «vedono e toccano» sono quei discepoli che si coinvolgono fino a far coincidere finalmente i loro moti dell’anima, i loro esodi verso le periferie, e i loro gesti appassionati, con le stesse piaghe d’amore del Maestro: «Palpatemi e vedete» (v.39).

Ciò additando un evento e vicenda di ammirabile luce per tutti, che si fa storia estesa, da fratello a fratello.

Testimonianza di peso, del divino (v.48) - nel Sì dell’essere, anche intaccato o distrutto dall’arcaica società sacrale dell’esterno.

 

Nei primi tempi i credenti - qua e là - ce la facevano grazie all’aiuto di fraternità nelle quali la Persona del Messia autentico si manifestava persuasivo, perché «in mezzo» (v.36).

Non “sopra” o “davanti” - né con un’etica e i dogmi.

Quindi nelle assemblee non avrebbe mai dovuto esistere nessun piazzato (a vita) che pretendesse di rappresentarLo e avesse titolo e posto di spicco, mentre altri destinati alle retrovie o sottoposti (altrettanto fissi).

Tutti avrebbero dovuto essere equidistanti da Dio: nessun privilegiato, nessun installato.

Nessuno che guidasse le fila - o più vicino al Signore, mentre altri lontani.

 

Il Signore si svelava Vivente nella convivialità - Parola chiave, apice della Bibbia intera.

Condivisione anche nel sommario, che trovava le vie dell’intimità e confidenza sensibile, personale: «Essi gli porsero una porzione» (v.42).

La prospettiva concreta e globale della Croce fonte di Vita era una trasmutazione del senso di “gloria” altezzosa e distante.

Talenti naturali o meno, chi rappresentava il Risorto era sempre a portata di mano: nessun eletto - zero gli spediti nelle retrovie.

Anche i primi compiti comunitari riflettevano il carattere d’un Gesù condivisibile, spontaneo, accessibile da chiunque - al centro e in posizione di reciprocità.

 

Nessun integro-nato, predestinato, al vertice.

Per questo motivo l’Annuncio doveva iniziare dalla Città Santa (v.47),  configurata al vitalizio contrario - compromessa, inerte, omertosa; piramidale, cooptata, e assassina dei profeti.

Quello della Città Eterna... restava il primo dei ‘popoli pagani’ [v.47 testo greco] da evangelizzare!

Solo una forte identità di Fede stringente, di Speranza d’Altrove e Comunione reale poteva convertirla dal peccato e costituire un codice per la comprensione delle Scritture.

E non rendere Cristo un fantasma (v.37).

 

Nelle comunità dei primi tempi l’ascolto del mondo interiore personale e comune era particolarmente accentuato, perché il senso di marcia proposto dal Maestro sembrava tutto contromano.

Malgrado il caos delle sicurezze esterne, la traversata dal timore alla Libertà proveniva da una percezione tollerante - a partire da nuclei di esperienza viscerali.

Proprio le strettoie accentuavano il cambiamento, l’interiorizzazione, e strappavano i discepoli dall’abitudine ad allestire armonie conformiste.

Ci si affidava allora più volentieri ai tracciati dell’anima. Incontrando così la propria natura profonda - nuovo asse della vita, a partire dalle radici.

La ricerca di una bussola inedita per i propri percorsi, la perdita dei riferimenti prevedibili, e il disagio sociale, mettevano in contatto con se stessi e gli altri, in modo autentico.

Sentire l’ansia, il malessere, e le piaghe, lasciava conoscere la propria Chiamata - sebbene il modo esterno in cui si vedeva e affrontava l’esistenza normale o spirituale, faceva per loro.

Dovendosi spostare dalle abitudini, non ci si sottraeva più alla rivelazione preziosissima: dell’intimità primordiale e umanizzante depositata nella comunione fraterna della nuova Via crocifissa.

Educati dal paradosso delle strettezze, gl’incerti apostoli diventavano passo dopo passo i cercatori di una traccia, di una rotta più pertinente; i pellegrini di codici inattesi.

 

«Testimoni» (v.48): padri e madri di un’umanità nuova.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come sperimenti l’identità del Crocifisso Risorto? E la sua Gloria? Di cosa arde il tuo cuore, e Chi irraggi?

Sei uno che si mette alla testa del gruppo? Oppure “con Gesù in mezzo” concorri alla felicità di tutti?

Venerdì, 11 Aprile 2025 16:11

Pasqua indipendente: per noi, che scatta

I Vangeli non descrivono la cronaca della Risurrezione di Cristo, ma l’esperienza del Risorto nella chiesa delle origini.

Tutti gli evangelisti accennano al fatto che l’adempimento di legge e di massa (sabato) ritarda sia la comprensione irripetibile che la consapevolezza della forza della Vita sprigionatesi dalla Persona, dalla Parola, da tutta la vicenda e dalla proposta di Gesù.

Mc e in specie Mt ribadiscono l’appuntamento della «Galilea»: territorio teologico ed esistenziale contrapposto alla Giudea osservante.

Oggi parleremmo forse di “spirito delle origini” - esperienza primigenia del Signore - o di “quotidianità sommaria”; ovvero di assemblea «in uscita»...

Esodo verso periferie frammiste, distinte da un Centro identificato ma inerte e senza immaginazione, predisposto al solo giudizio [che non rispetta ciò che appartiene profondamente alla donna e all’uomo di ogni tempo].

 

Mt specifica che si tratta dell’evento de «il Monte»: sperimentiamo il Vivente nell’incarnare le Beatitudini, lo Spirito dell’Amore dimesso ma vitale.

Rovesciamento che talora butta all’aria gli idoli per costringerci all’incontro, nella dignità della propria impronta - portata dentro l’unicità, nello spirito di famiglia, per l’eternità.

Lc raccomanda di non cercare l’Amico (la nostra partenza, guida, brio e sapere silenzioso) fra «morti» che ingombrano.

Ai discepoli di Emmaus si rivela in una capacità d’interpretazione ribaltata degli eventi ingloriosi, e in una intesa ardente delle Scritture.

In specie si manifesta nello ‘spezzare la vita’: nella reciprocità di chi riceve e si fa alimento, senza inibire il carattere e le scelte eccezionali.

 

Gv insiste sul dover voltare lo sguardo piantato sulla tomba. Nella fossa d’un sepolcro non c’è nulla, se non una Nascita.

Il quarto Vangelo dona il criterio essenziale per riconoscere la manifestazione di Gesù vivo: la sua Pace.

Non il tipo della Pax Romana [l’impero era in pace] bensì Shalôm-pienezza. Oggi diremmo: Gioia completa; realizzazione totale, poliedrica.

 

Codice per la comprensione dei Vangeli è la fioritura e la Felicità delle persone così come sono.

Criterio assoluto - vera età dell’oro.

Quindi il Mandato missionario che il Signore ci lancia non proclama una dottrina diversa, da “altre”.

È l’invito a essere in Lui se stessi pienamente, e così poter incarnare la medesima Tenerezza del Padre - vasta, difforme, inclusiva.

 

Cosa è cambiato per noi con la Risurrezione? Ci sono prove che vive? Perché non appare? Quali sarebbero i segni? E i grandi benefici?

O. Wilde affermava: «Quando gli dèi vogliono punirci, esaudiscono le nostre preghiere».

Di questo genere di richieste, dobbiamo sbarazzarci.

Le orazioni arenate da aspettative o propositi comuni sono a volte come le «donne» dei Vangeli della mattina di Pasqua.

Ancora piantate su lamenti funebri, esse cercano Vita in posti sbagliati: luoghi infecondi, perché legati a idee accette [di passato o conformiste] e cadaveri.

C’è un diverso binario caratterizzante, per ciascuno, che trascina da dentro, e crescente; per una vetta decisiva, non esterna.

Vittoria della vita significa: smettere di legarsi a idolatrie inattive, calzanti però di ripiego.

Facciamo volare l’Appello innato dell’essenza che ancora non vediamo ma che pulsa ardente, inestinguibile.

Non sarà l’obbiettivo convenzionale, condizionato, conforme, a tono e “come si conviene” ma unilaterale, scadente - a darci Letizia.

Esso cattura l’energia inedita, «per nome». Che vuole germogliare dai lati oscuri e opposti.

 

Nascita e morte sono esperienze di molte volte: perché? Per ininterrotte “Genesi”, e altre possibilità.

A motivo d’una sana crescita verso la realizzazione umanizzante, nella generosità e nell’attitudine battesimale, bisogna librare l’anima incagliata.

La nostra inusualità si sente sperduta nei circoli viziosi delle aspettative normali.

E ciò che avevamo immaginato inesorabilmente uguale, quindi vano e stagnante - infanga lo stupore delle sorprese che travalicano attese e intenzioni.

Eliminando i propositi convenzionali e altrui in favore di Sogni personali che esagerano, conosceremo l’atipicità di Dio che balza fra le macerie e dal caos degli schemi.

I missionari lo sanno: non è dalla Giudea che viene la certezza, ma dalla Galilea ossia dall’incertezza. La loro sicurezza è nell’insicurezza.

È il buio che fa rinascere.

 

Deponendo ciò che prima interpretavamo con senso di permanenza, sbalordiremo di Tesori che si celano dietro i lati malfermi.

E della Vita indipendente che scatta, fra segni di morte.

 

Forse non pochi restano ancora sorpresi dalla «tomba vuota»: ossia un Gesù Risorto solo ‘personale’, vissuto nell’amore, nel gratis normale, nel dono di sé che vince la morte. Ma senza ‘mausoleo’ alcuno.

 

 

Discepolo amato e Pietro

 

Per non affievolire l’Incontro personale

(Gv 20,2-8)

 

«Ora, correvano i due insieme, e l’altro discepolo corse avanti più presto di Pietro e venne per primo al sepolcro, e chinatosi vede i panni di lino ravvolti a parte; tuttavia non entrò» (Gv 20,4-5).

 

Nel quarto Vangelo, il discepolo amato è figura individuale ed ecclesiale: di ciascuno di noi, ai piedi della Croce insieme alla Madre - Israele credente, sensibile e fedele.

In aggiunta, lo stesso discepolo amato è icona più ampia, collettiva: della nuova comunità che nasce attorno a Gesù.

Sorge appunto la Chiesa; non sulla base d’una successione prevista, bensì per adesione piena e spontanea, impredicibile.

A fine primo secolo il Vangelo di Gv acquista la quarta-quinta e definitiva stesura, in un clima di conflitto crescente tra l’istituzione antica [ridotta ormai a sinagoga, senza Tempio] e la nuova, adorante assemblea dei figli.

Altre tensioni sorgono tra scuola giovannea - francamente profetica - e quella apostolica, che definiremmo da carisma petrino, ossia di governo.  Realtà più diplomatica, e attenuata negli spunti [con attriti evidenti in tutta la redazione di Gv, nonché nel testo che stiamo commentando].

 

Nell’Asia Minore gli amici del Signore, ellenisti meno legati alle consuetudini, intendevano contrapporsi all’atteggiamento incerto e compromissorio dei giudaizzanti.

Buona parte dei fedeli delle chiese giovannee pensavano di abbandonare sinagoga e Primo Testamento, che li attardavano.

In alternativa, essi desideravano abbracciare esclusivamente il Nuovo, mediante la Fede personale nel Cristo vivo, senza incertezze.

Il quarto Vangelo tenta di riequilibrare le posizioni estremiste.

“Figlio” e Madre - ossia il popolo del Patto antico [in ebraico «Israèl» è di genere femminile] - devono rimanere uniti (Gv 19,26-27).

Insomma, Fede e opere di legge vanno di pari passo.

 

La Fede è una relazione progressiva che si accende in una ricerca colma di tensione e passione [«correre»].

Essa trasmette percezioni progressive, le quali fanno accedere a un mondo nuovo [«entrare»], dove vediamo cose che non sappiamo.

Era già stata questa in parte la reazione costernata della Maddalena, che in Gv accorre sola alla tomba - non accompagnata da altre “donne” come narrano i sinottici.

Uno sgomento che però spinge all’Annuncio: il sepolcro (la condizione dello Sheôl, anfratto di tenebre) non era più nell’assetto in cui era stato lasciato dopo la sepoltura del Cristo.

E appunto, quel lenzuolo «ravvolto [con cura] a parte» dice che non avrà mai bisogno di alcun sudario. La morte non ha più potere su di Lui.

 

Così, sebbene il giovane sia più veloce del veterano e arrivi primo ad avvistare i segni della verità e del mondo nuovo, cede il passo.

Al pari d’un profeta che coglie tutto anzitempo, il discepolo schietto e la comunità genuina aspettano che anche gli attardati giungano alla medesima esperienza, all’identico acume delle cose; al credere nel misterioso processo che porta guadagno nella perdita e vita dalla morte.

L’occhio dell’innamorato percepisce immediatamente; ha lo sguardo intimo e acuto che afferra e fa propria la Novità del Risorto.

Prima dei semplici ammiratori, che attendono risultati e prevedono i favori prima di coinvolgersi, subito il fratello empatico e verace coglie Vita fra segni di morte.

Come se per relazione di Fede che ci anima, nell’attenzione degli accadimenti, fossimo già introdotti in una realtà che comunica sensi nuovi. E il distinguere-udire del cuore.

Un Ascolto che fa acuto l’occhio - proiettando l’Annuncio.

Sorge in tal guisa un nuovo Popolo, che “vede dentro”, che avverte l’Infinito affacciarsi nella finitezza, e vita completa che si svela nella fragilità dell’evento (persino oscuro).

 

Dice il Tao Tê Ching [LII]: «Chi accresce le sue imprese, per tutta la vita non ha scampo. Illuminazione è vedere il piccolo; forza è attenersi alla mollezza».

Commenta il maestro Ho-shang Kung: «Solo la chiara comprensione delle piccole cose appare come illuminazione. Chi si attiene alla debolezza, ogni dì diviene grande e forte».

Così il maestro Wang Pi: «L’opera meritoria di chi governa non sta nelle grandi cose: vedere le grandi cose non è illuminazione; è illuminazione vedere le piccole cose. Attenersi alla forza non è forza».

 

Per il transatlantico della Chiesa istituzionale e di governo, il motoscafo dell’appassionato è imprendibile; nella migliore delle ipotesi, lo tallona. O almeno, non dovrebbe perderlo di vista.

Nella sua sensibilità, il Discepolo Amato - sgorgato dal Cuore del Trafitto e che porta in vetta anche la Tradizione - avverte il Signore vivente ben prima di quello commemorato.

Ne viene rapito, e nella sua esperienza si accorge all’istante della potenza della Vita su qualsiasi legaccio.

Condizione divina, illuminante, dispiegata nella storia.

Ma bisognerà esercitare molta pazienza, affinché tra mille lungaggini e retromarce che rendono i figli stagnanti, almeno qua e là non svaporiamo il carisma dei battistrada e l’Incontro personale.

 

Coloro che giocano d’anticipo e fanno scattare il coinvolgimento del cuore a un livello nuovo, tracciano presente e futuro per l’intero settore dei responsabili che - incerti o ben volentieri - ancora si attardano.

Venerdì, 11 Aprile 2025 16:04

Viaggio verso di sé, Pasqua d’ogni giorno

Preghiera-evento, per lo stupore

 

L’incontro con il Signore ha una sua essenziale radicalità. È proprio l’evento pasquale a rivelare e comunicare la novità assoluta della vicenda dei figli di Dio.

È la nascita di una vita nuova che consente di liberare gli eventi da ogni limite. Gesù li assume tutti.

Detta assolutezza è in grado di portare a fioritura ogni vicissitudine e condizione, trasformando tutti gli oranti in santuari di novità assoluta.

Una potenza che respinge il tormento della vulnerabilità, anzi trasforma la precarietà in risorsa (qualità di progresso etico).

Per un’esperienza di pienezza di essere non basta lo sforzo virtuoso e singolare dello strazio solitario e titanico di chi pur intende liberarsi coi suoi muscoli dalle infrazioni.

La religiosità non ci costituisce.

L’autentica Potenza è solo accolta - nello Spirito, che fa risorgere la vita dalle polveri e dall’offuscamento.

Illusorio eliminare ogni limite personale e condizionamento: saremmo fuori della verità dell’Evento Pasqua.

Dono, non apparenza d’ipocrisia impossibile, fuori scala.

 

Tale la dimensione del “Diverso” pasquale fra religiosità e Fede,

S’inizia ad accogliere sul serio il Progetto divino e Dio stesso anche negli altri, proprio quando cominciamo ad avere pazienza con le nostre vicende equivoche, mediocri di tanta insufficienza.

Ad es. evitando accelerazioni, o riconoscendo la fecondità dei propri confini - comprese le pigrizie da redimere, o qualsiasi genere di scuse accampate per non smuoversi; ma a tempo opportuno.

Quello dell’Amore è un Cammino.

In tal guisa, dopo il variegato percorso, come nei Vangeli del mattino e del giorno di Pasqua, iniziamo a scorgere Vita anche fra segni di morte! 

E lo sguardo fissato sulla tomba si volge al Risorto, Vivente che ci ravviva di altri processi, inattesi.

Accettare se stessi e la propria storia è una tappa fondamentale dell’itinerario credente: nuova Alleanza.

Artificioso è avere comprensione dei fratelli se si è severi e non ci si tollera - neppure nei modi.

In ottica di Fede, proprio le nostre stramberie [e le più strampalate] sono interessanti vicende da comprendere. Anche quelle che ci hanno mandato in crisi e svergognato.

Nell’intimo parlano della nostra essenza e aprono orizzonti missionari, culturali, affettivi, inconsueti, da stupore.

 

I traguardi raggiunti possono volatilizzare, i successi dintorno sono spesso effimeri. Ciò che non passa è il rapporto profondo con il proprio ‘io’. 

Saper stare con se stessi significa stimarsi senza calcolo, quindi non tormentarsi - e di rimando non assillare i malcapitati attorno.

Nello sconforto per l’Amore tradito… forse l’aspetto più rilevante dell’uomo devoto che cerca la Perfezione è paradossalmente quello verso il proprio .

La soluzione gliela porge il credente nella Fede, affettivamente integrato perché nella Preghiera profonda ha capito che una vita da salvati non è identificabile con la fortuna, l’aspetto, le prestazioni.

È realtà assai più sorgiva e incondizionata.

Ed è fioritura che si presenta, ora, stupefacente; non richiede una lotta contro se stessi, per andare in scena.

Anzi, si sposa con la consapevolezza crescente che è bene iniziare ad avere cura proprio delle «ombre».

Zone grigie magari accentuate dal senso di colpa - inculcato e sottolineato dalle nostre inevitabili negligenze ai ruoli, ai manierismi, alla “regola”.

Attenzione al filtro delle aspettative esterne: soprattutto quelle considerate spirituali rischiano di essere illusorie.

E nella pastorale del consenso [io ti dò quello che tu vuoi] totalmente conformiste.

 

I veleni delle critiche o autocritiche vanno spazzati via, ma non con lacerazione.

È opportuno intraprendere il sapiente cammino che amplifichi l’orizzonte e metta le attese dei nostri occhiali immaginari prima sullo sfondo, poi alle spalle.

Lasciati scorrere, poi forse avranno un ruolo.

Non bisogna farsi incartare su considerazioni frammentarie o mète schematiche. Così scontentando l’anima personale col paragone di ciò che si ha in mente, rendendo protagonista l’insufficienza ai modelli!

Basta un poco di esperienza per fare memoria di quante sicurezze di cui eravamo un tempo convinti, sono svanite, evaporate d’improvviso.

E malgrado ciò, restiamo magari ancora esteriormente pieni di certezze e finte perizie; talora con le persone sembriamo come un fiume in piena, su questo.

Allora non siamo più noi stessi in campo con le nostre attitudini, ma il nostro personaggio ufficiale, o il sogno altrui.

E non vediamo bene proprio ciò di cui effettivamente abbiamo bisogno, che la vita reale porge spontaneamente - più forte di noi.

Nell’intimo cogliamo la Presenza come d’un ‘sapere innato’, una Sapienza originaria che è traccia della firma di Dio nella nostra anima - che ogni tanto sbotta.

Presenza che non vuol farsi sommergere da idee indotte; quelle che fanno naufragare il carattere personale e il suo destino.

Questo Amico invisibile ci suggerisce, e guida assai meglio di una falsariga indefettibile.

Perché conduce la partita vera in sinergia con la nostra inclinazione e Chiamata profonda, che è traccia della Creazione.

Se non ascoltiamo la Voce di questo navigatore che sa dove andare è perché ci siamo lasciati identificare con mansioni, vesti, uffici, cariche, posizioni, livelli, titoli, stili, ideologie o modelli mentali che portano via dall’Essenza - così come dal tipo di cambiamento che ci appartiene.

Ma sebbene pieni di progetti e sogni nel cassetto, l'anima sceglie per noi.

Ogni tanto le Radici spaccano l’asfalto e vengono su inaspettatamente. 

Si palesano come quelle dei pini; sono ramificate presenze orizzontali, appena sotto lo strato di terra che le copre.

 

Per arricchire l’Amore pasquale, il grande lavoro non è quello di sembrare a tutti i costi “migliori”, bensì di avere cura di quanto emerge come straniamento dallo standard delle “disposizioni” identificate.

E su di esso rinascere. Anche d’improvviso; non è frutto di propositi, intenzioni e prestazione!

Rigenerarsi... è quando scatta qualcosa di non ordinario: anche un bel No alle gabbie (entro le quali idoli e fissazioni rimbalzano).

Quindi ci si potrebbe anche concedere ogni tanto una mente duale o addirittura distratta, onde superare il modello di perfezione assodato.

Distacco non conforme, né configurato; collocandosi in condizione di accogliere il regalo della realtà.

E concedersi il diritto di vagare, o d’inseguire la propria Immagine-Visione dove si annida una Chiamata.

Tintinnio di vocazione eccentrica, apparentemente assurda - e che non sa stare al mondo.

 

È importante tollerarsi - non è un lusso - per non avere una vita sempre uguale, anzi riconoscendo di possedere capacità sottostanti.

Lasciarsi salvare senza pretendere di redimersi col proprio genio e muscoli significa accogliere quanto accade.

E lasciare che sia la vita, l’istinto personale nello Spirito, a condurci; con una percezione più consapevole, con uno sguardo nel ‘presente’.

Amare Dio è imparare a corrispondersi nell’intimo, a ciò che dentro di noi arriva, anche nel sommario - perfino come fastidio.

È un degno Ospite energetico, sebbene difforme: per una Annunciazione. Pasqua quotidiana. 

Segno che la nostra anima non vuole porre in oblio le sue risorse celate.

Non dimentichiamo: allorché la nostra natura profonda si è sentita insoddisfatta [o addirittura ci ha voluto ridicolizzare] è perché intendeva esprimere dei saperi reconditi forti.

Modi di essere o qualcosa che alla nostra “identità” non quadra - e francamente (spontaneamente) non va bene.

Spesso il fallimento materiale è dietro l’angolo proprio perché siamo già identificati nel “personaggio” e ci distraiamo dagli accadimenti, trascurandone la portata.

Sentiamo però che una situazione prefissata allontana da noi stessi,

La «maniera» anche glamour spegne la vampa e il brio del Fuoco sacro, inestinguibile, che arde in cuore.

Nessuno può farlo impallidire. Neppure una ponderata scelta di accomodamento, entro la quale ci siamo costretti e seduti.

 

In fondo sappiamo che la felicità non è il passato o la moda, né può essere posticipata.

Tantomeno ridotta alla stregua d’un viaggio su un mezzo in salita a tappe prefissate, che termina al previsto capolinea - il quale poi si rivela anonimo e ancora incerto, persino desertico.

Le cose che non piacciono e fanno provare fastidio all’anima recano una grande saggezza all’Amore e alla Vita.

Non sono un problema, bensì segnali che se presi sul serio portano con sé la soluzione delle grandi e vere incognite, delle lacerazioni rilevanti dell’esistere personale, della relazione con sorelle e fratelli, del mondo che ci circonda.

 

Come interiorizzare in modo saggio le nostre emozioni e gli eventi?

Se qualche volta ci siamo giudicati e continuiamo a riattualizzare l’episodio con senso d’indegnità, la vicenda si trascina e devasta. E quando ci si sente in colpa o compressi non si può amare.

Riempire di pesi, lamenti, aspettative indotte o calcolate, la luminosità riposta della Coscienza, diventa un veleno che non solo non rende onore al Signore che vuole germogliare e incarnarsi ancora, dentro. Svigorisce e appesta l’esistenza di tutti i cuori a nostro fianco.

Ne smorzeremmo anche il sistema mentale, insieme al nostro. E tutti i risvolti e le attività che rinneghiamo si trasformeranno in zavorre: paure che bloccano i nuovi percorsi, ogni reale sintonia con Dio e il prossimo.

Per una sana crescita nella generosità e nell’attitudine pasquale, bisogna liberare e integrare la potenza stagnante; sperduta nei circoli viziosi dell’insoddisfazione di ciò che “vogliamo”. Comunque, stupendo delle Sorprese sulle intenzioni.

Oscar Wilde affermava: «quando gli Dei vogliono punirci, esaudiscono le nostre preghiere».

Pasqua significa: niente rimorsi! Smettere di tormentarsi dicendosi che siamo sbagliati.

Allora coltiviamo le passioni, inseguiamo l’Icona che ci caratterizza, facciamo volare il Richiamo senza progetto di sé.

E lo vediamo Presente - sognando, ma ad occhi aperti.

Non è l’obbiettivo che ci dona la gioia dell’esperienza di pienezza di essere.

 

Non spacciamo l’identità che non ci appartiene, o un’affettività di contrabbando, con quanto suggerisce Gesù.

Egli viene non a imputarci d’inesorabile fallimento perfino nei dettagli - come nelle religioni arcaiche - ma a farci crescere e valorizzare in tutto.

La scelta discriminante è tra una illusione di vittoria sulla morte, che poi disgrega, o la Pasqua smagliante nella Fede, che recupera l’essere e ci costituisce.

Ritrovandoci, raggiungendo noi stessi puntualmente.

Dalla debolezza alla vita completa, eliminando i propositi artificiosi.

E allorché ci cogliessimo scrutati dagli uomini - forse da noi stessi - conosceremo di essere redenti da dentro.

Contemplati da Dio, nella realtà che scorge Vita anche dietro lati oscuri, e fra segni di morte.

 

Forse non pochi restano ancora sorpresi dalla «tomba vuota»: ossia un Gesù Risorto solo ‘personale’, vissuto nell’amore, nel gratis normale, nel dono di sé che vince la morte. Ma senza ‘mausoleo’ alcuno.

Venerdì, 11 Aprile 2025 15:50

La chiave della porta ferrea

Cari fratelli e sorelle!

Dai tempi più antichi la liturgia del giorno di Pasqua comincia con le parole: Resurrexi et adhuc tecum sum – sono risorto e sono sempre con te; tu hai posto su di me la tua mano. La liturgia vi vede la prima parola del Figlio rivolta al Padre dopo la risurrezione, dopo il ritorno dalla notte della morte nel mondo dei viventi. La mano del Padre lo ha sorretto anche in questa notte, e così Egli ha potuto rialzarsi, risorgere.

La parola è tratta dal Salmo 138 e lì ha inizialmente un significato diverso. Questo Salmo è un canto di meraviglia per l’onnipotenza e l’onnipresenza di Dio, un canto di fiducia in quel Dio che non ci lascia mai cadere dalle sue mani. E le sue mani sono mani buone. L’orante immagina un viaggio attraverso tutte le dimensioni dell’universo – che cosa gli accadrà? “Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra. Se dico: «Almeno l’oscurità mi copra…», nemmeno le tenebre per te sono oscure … per te le tenebre sono come luce” (Sal 138 [139],8-12).

Nel giorno di Pasqua la Chiesa ci dice: Gesù Cristo ha compiuto per noi questo viaggio attraverso le dimensioni dell’universo. Nella Lettera agli Efesini leggiamo che Egli è disceso nelle regioni più basse della terra e che Colui che è disceso è il medesimo che è anche asceso al di sopra di tutti i cieli per riempire l’universo (cfr 4,9s). Così la visione del Salmo è diventata realtà. Nell’oscurità impenetrabile della morte Egli è entrato come luce – la notte divenne luminosa come il giorno, e le tenebre divennero luce. Perciò la Chiesa giustamente può considerare la parola di ringraziamento e di fiducia come parola del Risorto rivolta al Padre: “Sì, ho fatto il viaggio fin nelle profondità estreme della terra, nell’abisso della morte e ho portato la luce; e ora sono risorto e sono per sempre afferrato dalle tue mani”. Ma questa parola del Risorto al Padre è diventata anche una parola che il Signore rivolge a noi: “Sono risorto e ora sono sempre con te”, dice a ciascuno di noi. La mia mano ti sorregge. Ovunque tu possa cadere, cadrai nelle mie mani. Sono presente perfino alla porta della morte. Dove nessuno può più accompagnarti e dove tu non puoi portare niente, là ti aspetto io e trasformo per te le tenebre in luce.

Questa parola del Salmo, letta come colloquio del Risorto con noi, è allo stesso tempo una spiegazione di ciò che succede nel Battesimo. Il Battesimo, infatti, è più di un lavacro, di una purificazione. È più dell’assunzione in una comunità. È una nuova nascita. Un nuovo inizio della vita. Il passo della Lettera ai Romani, che abbiamo appena ascoltato, dice con parole misteriose che nel Battesimo siamo stati “innestati” nella somiglianza con la morte di Cristo. Nel Battesimo ci doniamo a Cristo – Egli ci assume in sé, affinché poi non viviamo più per noi stessi, ma grazie a Lui, con Lui e in Lui; affinché viviamo con Lui e così per gli altri. Nel Battesimo abbandoniamo noi stessi, deponiamo la nostra vita nelle sue mani, così da poter dire con san Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. Se in questo modo ci doniamo, accettando una specie di morte del nostro io, allora ciò significa anche che il confine tra morte e vita diventa permeabile. Al di qua come al di là della morte siamo con Cristo e per questo, da quel momento in avanti, la morte non è più un vero confine. Paolo ce lo dice in modo molto chiaro nella sua Lettera ai Filippesi: “Per me il vivere è Cristo. Se posso essere presso di Lui (cioè se muoio) è un guadagno. Ma se rimango in questa vita, posso ancora portare frutto. Così sono messo alle strette tra queste due cose: essere sciolto – cioè essere giustiziato – ed essere con Cristo, sarebbe assai meglio; ma rimanere in questa vita è più necessario per voi” (cfr 1,21ss). Di qua e di là del confine della morte egli è con Cristo – non esiste più una vera differenza. Sì, è vero: “Alle spalle e di fronte tu mi circondi. Sempre sono nelle tue mani”. Ai Romani Paolo ha scritto: “Nessuno … vive per se stesso e nessuno muore per se stesso … sia che viviamo, sia che moriamo, siamo … del Signore” (Rm 14,7s).

Cari battezzandi, è questa la novità del Battesimo: la nostra vita appartiene a Cristo, non più a noi stessi. Ma proprio per questo non siamo soli neppure nella morte, ma siamo con Lui che vive sempre. Nel Battesimo, insieme con Cristo, abbiamo già fatto il viaggio cosmico fin nelle profondità della morte. Accompagnati da Lui, anzi, accolti da Lui nel suo amore, siamo liberi dalla paura. Egli ci avvolge e ci porta, ovunque andiamo – Egli che è la Vita stessa.

Ritorniamo ancora alla notte del Sabato Santo. Nel Credo professiamo circa il cammino di Cristo: “Discese agli inferi”. Che cosa accadde allora? Poiché non conosciamo il mondo della morte, possiamo figurarci questo processo del superamento della morte solo mediante immagini che rimangono sempre poco adatte. Con tutta la loro insufficienza, tuttavia, esse ci aiutano a capire qualcosa del mistero. La liturgia applica alla discesa di Gesù nella notte della morte la parola del Salmo 23 [24]: “Sollevate, porte, i vostri frontali, alzatevi, porte antiche!” La porta della morte è chiusa, nessuno può tornare indietro da lì. Non c’è una chiave per questa porta ferrea. Cristo, però, ne possiede la chiave. La sua Croce spalanca le porte della morte, le porte irrevocabili. Esse ora non sono più invalicabili. La sua Croce, la radicalità del suo amore è la chiave che apre questa porta. L’amore di Colui che, essendo Dio, si è fatto uomo per poter morire – questo amore ha la forza per aprire la porta. Questo amore è più forte della morte. Le icone pasquali della Chiesa orientale mostrano come Cristo entra nel mondo dei morti. Il suo vestito è luce, perché Dio è luce. “La notte è chiara come il giorno, le tenebre sono come luce” (cfr Sal 138 [139],12). Gesù che entra nel mondo dei morti porta le stimmate: le sue ferite, i suoi patimenti sono diventati potenza, sono amore che vince la morte. Egli incontra Adamo e tutti gli uomini che aspettano nella notte della morte. Alla loro vista si crede addirittura di udire la preghiera di Giona: “Dal profondo degli inferi ho gridato, e tu hai ascoltato la mia voce” (Gio 2,3). Il Figlio di Dio nell’incarnazione si è fatto una cosa sola con l’essere umano – con Adamo. Ma solo in quel momento, in cui compie l’atto estremo dell’amore discendendo nella notte della morte, Egli porta a compimento il cammino dell’incarnazione. Mediante il suo morire Egli prende per mano Adamo, tutti gli uomini in attesa e li porta alla luce.

Ora, tuttavia, si può domandare: Ma che cosa significa questa immagine? Quale novità è lì realmente accaduta per mezzo di Cristo? L’anima dell’uomo, appunto, è di per sé immortale fin dalla creazione – che cosa di nuovo ha portato Cristo? Sì, l’anima è immortale, perché l’uomo in modo singolare sta nella memoria e nell’amore di Dio, anche dopo la sua caduta. Ma la sua forza non basta per elevarsi verso Dio. Non abbiamo ali che potrebbero portarci fino a tale altezza. E tuttavia, nient’altro può appagare l’uomo eternamente, se non l’essere con Dio. Un’eternità senza questa unione con Dio sarebbe una condanna. L’uomo non riesce a giungere in alto, ma anela verso l’alto: “Dal profondo grido a te…” Solo il Cristo risorto può portarci su fino all’unione con Dio, fin dove le nostre forze non possono arrivare. Egli prende davvero la pecora smarrita sulle sue spalle e la porta a casa. Aggrappati al suo Corpo noi viviamo, e in comunione con il suo Corpo giungiamo fino al cuore di Dio. E solo così è vinta la morte, siamo liberi e la nostra vita è speranza.

È questo il giubilo della Veglia Pasquale: noi siamo liberi. Mediante la risurrezione di Gesù l’amore si è rivelato più forte della morte, più forte del male. L’amore Lo ha fatto discendere ed è al contempo la forza nella quale Egli ascende. La forza per mezzo della quale ci porta con sé. Uniti col suo amore, portati sulle ali dell’amore, come persone che amano scendiamo insieme con Lui nelle tenebre del mondo, sapendo che proprio così saliamo anche con Lui. Preghiamo quindi in questa notte: Signore, dimostra anche oggi che l’amore è più forte dell’odio. Che è più forte della morte. Discendi anche nelle notti e negli inferi di questo nostro tempo moderno e prendi per mano coloro che aspettano. Portali alla luce! Sii anche nelle mie notti oscure con me e conducimi fuori! Aiutami, aiutaci a scendere con te nel buio di coloro che sono in attesa, che gridano dal profondo verso di te! Aiutaci a portarvi la tua luce! Aiutaci ad arrivare al “sì” dell’amore, che ci fa discendere e proprio così salire insieme con te! Amen.

[Papa Benedetto, omelia alla Veglia di Pasqua 7 aprile 2007]

Venerdì, 11 Aprile 2025 15:34

L’Attesa diventa Canto

1.  "Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato" (Lc 24,5-6).

Queste parole di due uomini "in vesti sfolgoranti" riaccendono la fiducia nelle donne accorse al sepolcro, sul far del mattino. Avevano vissuto gli eventi tragici culminati nella crocifissione di Cristo sul Calvario; avevano sperimentato la tristezza e lo smarrimento. Non avevano abbandonato, però, nell'ora della prova il loro Signore.

Vanno di nascosto nel luogo dove Gesù era stato sepolto per rivederlo ancora e abbracciarlo l'ultima volta. Le spinge l'amore; quello stesso amore che le aveva portate a seguirlo per le strade della Galilea e della Giudea sino al Calvario.

Donne fortunate! Non sapevano ancora che quella era l'alba del giorno più importante della storia. Non potevano sapere che loro, proprio loro, sarebbero state le prime testimoni della risurrezione di Gesù.

2. "Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro" (Lc 24,2).

Così narra l'evangelista Luca, e aggiunge che, "entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù" (24, 3). In un sol colpo tutto cambia. Gesù "non è qui, è risuscitato". Quest'annuncio, che ha trasformato la tristezza di queste pie donne in gioia, risuona con immutata eloquenza nella Chiesa, nel corso di questa Veglia pasquale.

Singolare Veglia di una notte singolare. Veglia, madre di tutte le Veglie, durante la quale la Chiesa intera resta in attesa presso la tomba del Messia, sacrificato sulla Croce. La Chiesa attende e prega, riascoltando le Scritture che ripercorrono l'intera storia della salvezza.

Ma questa notte non sono le tenebre a dominare, bensì il fulgore d'una luce improvvisa, che irrompe con l'annuncio sconvolgente della risurrezione del Signore. L'attesa e la preghiera diventano allora un canto di gioia: "Exultet iam angelica turba caelorum... Esulti il coro degli Angeli!".

Si ribalta totalmente la prospettiva della storia: la morte cede il passo alla vita. Vita che non muore più. Nel Prefazio canteremo tra poco che Cristo "morendo ha distrutto la morte e risorgendo ha ridato a noi la vita". Ecco la verità che noi proclamiamo con le parole, ma soprattutto con la nostra esistenza. Colui che le donne credevano morto è vivo. La loro esperienza diventa la nostra.

3. O Veglia permeata di speranza, che esprimi in pienezza il senso del mistero! O Veglia ricca di simboli, che manifesti il cuore stesso della nostra esistenza cristiana! Questa notte tutto si riassume prodigiosamente in un nome, nel nome di Cristo risorto.

O Cristo, come non ringraziarTi per il dono ineffabile che in questa notte ci elargisci? Il mistero della tua morte e della tua risurrezione si trasfonde nell'acqua battesimale che accoglie l'uomo antico e carnale e lo rende puro della stessa giovinezza divina.

Nel tuo mistero di morte e di risurrezione ci immergeremo tra poco, rinnovando le promesse battesimali; in esso saranno immersi specialmente i sei catecumeni, che riceveranno il Battesimo, la Cresima e l'Eucaristia.

4. Carissimi Fratelli e Sorelle catecumeni, vi saluto con grande cordialità, e a nome della Comunità ecclesiale vi accolgo con fraterno affetto. Voi provenite da diverse nazioni: dal Giappone, dall'Italia, dalla Cina, dall'Albania, dagli Stati Uniti d'America e dal Perù.

La vostra presenza in questa Piazza esprime la molteplicità delle culture e dei popoli che hanno aperto il loro cuore al Vangelo. Anche per voi, come per ogni battezzato, questa notte la morte cede il passo alla vita. Il peccato è cancellato e inizia un'esistenza tutta nuova. Perseverate sino alla fine nella fedeltà e nell'amore. E non temete dinanzi alle prove, perché "Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui" (Rm 6,9).

5. Sì, Fratelli e Sorelle carissimi, Gesù è vivo e noi viviamo in Lui. Per sempre. Ecco il dono di questa notte, che ha definitivamente svelato al mondo la potenza di Cristo, Figlio della Vergine Maria, a noi data per Madre ai piedi della Croce.

Questa Veglia ci introduce in un giorno che non conosce tramonto. Giorno della Pasqua di Cristo, che inaugura per l'umanità una rinnovata primavera di speranza.

"Haec dies quam fecit Dominus: exsultemus et laetamur in ea - Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo di gioia". Alleluja!

[Papa Giovanni Paolo II, omelia alla Veglia di Pasqua 14 aprile 2001]

Cari fratelli e sorelle!

1. Nel Vangelo di questa Notte luminosa della Vigilia Pasquale incontriamo per prime le donne che si recano al sepolcro di Gesù con gli aromi per ungere il suo corpo (cfr Lc 24,1-3). Vanno per compiere un gesto di compassione, di affetto, di amore, un gesto tradizionale verso una persona cara defunta, come ne facciamo anche noi. Avevano seguito Gesù, l’avevano ascoltato, si erano sentite comprese nella loro dignità e lo avevano accompagnato fino alla fine, sul Calvario, e al momento della deposizione dalla croce. Possiamo immaginare i loro sentimenti mentre vanno alla tomba: una certa tristezza, il dolore perché Gesù le aveva lasciate, era morto, la sua vicenda era terminata. Ora si ritornava alla vita di prima. Però nelle donne continuava l’amore, ed è l’amore verso Gesù che le aveva spinte a recarsi al sepolcro. Ma a questo punto avviene qualcosa di totalmente inaspettato, di nuovo, che sconvolge il loro cuore e i loro programmi e sconvolgerà la loro vita: vedono la pietra rimossa dal sepolcro, si avvicinano, e non trovano il corpo del Signore. E’ un fatto che le lascia perplesse, dubbiose, piene di domande: “Che cosa succede?”, “Che senso ha tutto questo?” (cfr Lc 24,4). Non capita forse anche a noi così quando qualcosa di veramente nuovo accade nel succedersi quotidiano dei fatti? Ci fermiamo, non comprendiamo, non sappiamo come affrontarlo. La novità spesso ci fa paura, anche la novità che Dio ci porta, la novità che Dio ci chiede. Siamo come gli Apostoli del Vangelo: spesso preferiamo tenere le nostre sicurezze, fermarci ad una tomba, al pensiero verso un defunto, che alla fine vive solo nel ricordo della storia come i grandi personaggi del passato. Abbiamo paura delle sorprese di Dio. Cari fratelli e sorelle, nella nostra vita abbiamo paura delle sorprese di Dio! Egli ci sorprende sempre! Il Signore è così.

Fratelli e sorelle, non chiudiamoci alla novità che Dio vuole portare nella nostra vita! Siamo spesso stanchi, delusi, tristi, sentiamo il peso dei nostri peccati, pensiamo di non farcela. Non chiudiamoci in noi stessi, non perdiamo la fiducia, non rassegniamoci mai: non ci sono situazioni che Dio non possa cambiare, non c’è peccato che non possa perdonare se ci apriamo a Lui.

2. Ma torniamo al Vangelo, alle donne e facciamo un passo avanti. Trovano la tomba vuota, il corpo di Gesù non c’è, qualcosa di nuovo è avvenuto, ma tutto questo ancora non dice nulla di chiaro: suscita interrogativi, lascia perplessi, senza offrire una risposta. Ed ecco due uomini in abito sfolgorante, che dicono: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto» (Lc 24, 5-6). Quello che era un semplice gesto, un fatto, compiuto certo per amore - il recarsi al sepolcro – ora si trasforma in avvenimento, in un evento che cambia veramente la vita. Nulla rimane più come prima, non solo nella vita di quelle donne, ma anche nella nostra vita e nella nostra storia dell’umanità. Gesù non è un morto, è risorto, è il Vivente! Non è semplicemente tornato in vita, ma è la vita stessa, perché è il Figlio di Dio, che è il Vivente (cfr Nm 14,21-28; Dt 5,26; Gs 3,10). Gesù non è più nel passato, ma vive nel presente ed è proiettato verso il futuro, Gesù è l’«oggi» eterno di Dio. Così la novità di Dio si presenta davanti agli occhi delle donne, dei discepoli, di tutti noi: la vittoria sul peccato, sul male, sulla morte, su tutto ciò che opprime la vita e le dà un volto meno umano. E questo è un messaggio rivolto a me, a te, cara sorella, a te caro fratello. Quante volte abbiamo bisogno che l’Amore ci dica: perché cercate tra i morti colui che è vivo? I problemi, le preoccupazioni di tutti i giorni tendono a farci chiudere in noi stessi, nella tristezza, nell’amarezza… e lì sta la morte. Non cerchiamo lì Colui che è vivo!

Accetta allora che Gesù Risorto entri nella tua vita, accoglilo come amico, con fiducia: Lui è la vita! Se fino ad ora sei stato lontano da Lui, fa’ un piccolo passo: ti accoglierà a braccia aperte. Se sei indifferente, accetta di rischiare: non sarai deluso. Se ti sembra difficile seguirlo, non avere paura, affidati a Lui, stai sicuro che Lui ti è vicino, è con te e ti darà la pace che cerchi e la forza per vivere come Lui vuole.

3. C’è un ultimo semplice elemento che vorrei sottolineare nel Vangelo di questa luminosa Veglia Pasquale. Le donne si incontrano con la novità di Dio: Gesù è risorto, è il Vivente! Ma di fronte alla tomba vuota e ai due uomini in abito sfolgorante, la loro prima reazione è di timore: «tenevano il volto chinato a terra» - nota san Luca -, non avevano il coraggio neppure di guardare. Ma quando ascoltano l’annuncio della Risurrezione, l’accolgono con fede. E i due uomini in abito sfolgorante introducono un verbo fondamentale: ricordate. «Ricordatevi come vi parlò, quando era ancora in Galilea… Ed esse si ricordarono delle sue parole» (Lc 24,6.8). Questo è l’invito a fare memoria dell’incontro con Gesù, delle sue parole, dei suoi gesti, della sua vita; ed è proprio questo ricordare con amore l’esperienza con il Maestro che conduce le donne a superare ogni timore e a portare l’annuncio della Risurrezione agli Apostoli e a tutti gli altri (cfr Lc 24,9). Fare memoria di quello che Dio ha fatto e fa per me, per noi, fare memoria del cammino percorso; e questo spalanca il cuore alla speranza per il futuro. Impariamo a fare memoria di quello che Dio ha fatto nella nostra vita! 

In questa Notte di luce, invocando l’intercessione della Vergine Maria, che custodiva ogni avvenimento nel suo cuore (cfr Lc 2,19.51), chiediamo che il Signore ci renda partecipi della sua Risurrezione: ci apra alla sua novità che trasforma, alle sorprese di Dio, tanto belle; ci renda uomini e donne capaci di fare memoria di ciò che Egli opera nella nostra storia personale e in quella del mondo; ci renda capaci di sentirlo come il Vivente, vivo ed operante in mezzo a noi; ci insegni, cari fratelli e sorelle, ogni giorno a non cercare tra i morti Colui che è vivo. Amen.

[Papa Francesco, omelia alla Veglia di Pasqua 30 marzo 2013]

Giovedì, 10 Aprile 2025 10:05

Domenica delle Palme (anno C)

Domenica delle Palme (anno C)  [13 aprile 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Entriamo nella Settimana Santa con Gesù accolto a Gerusalemme e prepariamoci nel Triduo Pasquale a seguirlo nel cammino della passione morte e risurrezione. 

 

*Prima lettura dal libro de profeta Isaia (50,4-7)

Questo testo è tratto dalla parte del libro di Isaia che raccoglie i cosiddetti “Canti del Servo”, che sono particolarmente importanti per due ragioni: innanzitutto per il messaggio che Isaia voleva trasmettere ai suoi contemporanei e perché sono stati applicati dai primi cristiani a Cristo, anche se certamente Isaia non pensava a Gesù quando scrisse questo testo probabilmente nel VI secolo a.C. durante l’esilio a Babilonia. Al popolo esiliato in condizioni molto dure, che rischiava di cedere a un grande sconforto, ricorda che Israele è il servo di Dio sostenuto e nutrito ogni mattina dalla Parola, ma perseguitato a causa della sua fede e, nonostante tutto, capace di resistere a ogni prova. Descrive in modo chiaro la straordinaria relazione che unisce al suo Dio il Servo (Israele) la cui caratteristica principale è l’ascolto della Parola, “l’orecchio aperto”, come scrive Isaia. Ascoltare la Parola, lasciarsi istruire da essa, significa vivere nella fiducia. Ascoltare è una parola che nella Bibbia significa fidarsi poiché due sono gli atteggiamenti tra cui oscilla continuamente la nostra esistenza: la fiducia in Dio, l’abbandono sereno alla sua volontà perché si sa, per esperienza, che la sua volontà è solo bene; oppure la diffidenza, il sospetto sulle intenzioni divine e la ribellione davanti alle prove, una ribellione che può portarci a credere che Egli ci abbia abbandonati o, peggio, che possa trovare soddisfazione nelle nostre sofferenze. Tutti i profeti ripetono quest’invito: “Ascolta, Israele” o “ascoltate oggi la Parola di Dio”. Sulle loro labbra, l’esortazione “ascolta” è invito ad avere fiducia in Dio, qualunque cosa accada. A questo proposito san Paolo spiegherà che Dio fa concorrere tutto al bene di coloro che lo amano e si fidano di lui (cf Rm 8,28) perché da ogni male, difficoltà, prova sa trarre il bene; a ogni odio, oppone un amore ancora più forte; in ogni persecuzione, dona la forza del perdono; da ogni morte fa nascere la vita. Tutta la Bibbia è la narrazione della storia di una fiducia reciproca: Dio si fida del suo servo e gli affida una missione; in cambio Israele accetta la missione con fiducia. Ed è proprio questa fiducia che gli dà la forza necessaria per resistere a tutte le opposizioni che inevitabilmente incontrerà. In questo testo la missione consiste nel saper “indirizzare una parola allo sfiduciato” testimoniando la fedeltà del Signore che dona la forza necessaria e il linguaggio adeguato. Anzi è il Signore stesso a nutrire questa fiducia, sorgente di ogni audacia al servizio degli altri: ”Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro”.  Tutto allora diventa dono: la missione, la forza e la fiducia che rende incrollabili. Questa è la caratteristica del credente: riconoscere che tutto è dono di Dio. Quando poi fa fruttificare il dono permanente della forza del Signore, il credente è in grado di affrontare tutto, anche la persecuzione che mai è assente, e in verità ogni autentico profeta che parla a nome di Dio, raramente viene riconosciuto e apprezzato in vita.Isaia invita i suoi contemporanei a resistere: il Signore non vi ha abbandonati, anzi, vi ha affidato la sua missione e non meravigliatevi se siete maltrattati perché il Servo che ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica, diventa certamente scomodo e con la sua conversione provoca gli altri: alcuni ne ascoltano l’appello, altri lo respingono e, in nome delle loro buone ragioni, lo perseguitano. Ecco perché il Servo attinge vigore solamente da Colui che gli permette di affrontare tutto: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba …il Signore Dio mi assiste per questo non resto svergognato”. Isaia usa poi un’espressione comune in ebraico: “per questo rendo la mia faccia dura come pietra” che esprime determinazione e coraggio; non orgoglio o presunzione, bensì pura fiducia perché sa bene da dove viene la sua forza.  Gesù è ritratto perfetto del Servo di Dio nel cuore della persecuzione e anche nel momento in cui le acclamazioni della folla della Domenica delle Palme segnavano e acceleravano la sua condanna. San Luca riprende esattamente questa espressione quando scrive «Gesù indurì il suo volto per andare a Gerusalemme» (Lc 9,51), che nelle nostre traduzioni diventa: «Gesù prese risolutamente la strada per Gerusalemme».

 

*Salmo responsoriale dal Salmo 21(22) (2, 8-9,17-20,22b-24)

Il Salmo 21/22 riserva alcune sorprese, a partire dall’incipit: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, molto citato che, estrapolato dal contesto, viene interpretato in modo sbagliato. Per capirne il vero significato va letto per intero il salmo composto di trentadue versetti che si chiude con un rendimento di grazie: “Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea”. Chi nel primo versetto grida “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” ringrazia alla fine Dio per la salvezza ricevuta. Non solo non è morto, ma rende grazie proprio perché Dio non lo ha abbandonato. A prima vista, questo salmo sembra scritto per Gesù: “Hanno scavato le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa” allusione chiara alla crocifissione vissuta sotto gli occhi crudeli dei carnefici e della folla: “Un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori… si fanno beffe di me quelli che mi vedono … si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte”. In realtà, non è stato scritto per Gesù Cristo, ma composto per gli esuli tornati da Babilonia, e si paragona la loro liberazione alla risurrezione di un condannato a morte, dato che l’esilio fu vera e propria condanna a morte per Israele che corse il rischio di essere cancellato dalla storia. Ora viene qui paragonato a un condannato che ha rischiato di morire sulla croce, supplizio all’epoca assai comune: ha subito oltraggi, umiliazioni, i chiodi, l’abbandono nelle mani dei carnefici ma miracolosamente ne esce illeso. In altre parole: tornato dall’esilio Israele si abbandona alla gioia che proclama a tutti gridando più forte di quando pianse nella sua angoscia. Il riferimento alla crocifissione non è dunque il centro del salmo, ma serve a mettere in risalto il rendimento di grazie di Israele, che nel pieno della sua angoscia, mai ha smesso di invocare aiuto e mai ha dubitato nemmeno  un istante. Il grande grido “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” è di sicuro un grido di angoscia davanti al silenzio di Dio, ma non è un grido di disperazione, né tantomeno esprime dubbi; è piuttosto la preghiera di chi soffre e osa gridare il suo dolore. Quanta luce questo salmo fa scendere sulla nostra preghiera nei momenti di sofferenza di qualunque genere: abbiamo il diritto di gridare e la Bibbia ci incoraggia a farlo. Tornato dall’esilio Israele ricorda il dolore passato, l’angoscia, il silenzio apparente di Dio quando si sentiva abbandonato nelle mani dei suoi nemici, eppure ha continuato a pregare. La preghiera è la prova evidente della sua costante fiducia; continuava a ricordare l’Alleanza e i benefici ricevuti da Dio. Questo salmo somiglia nel suo insieme a un “ex voto” come quando si corre un serio pericolo, si prega e si fa un voto e, a grazia ottenuta, si mantiene la promessa portando l’ex voto in una chiesa o in un santuario.  Il salmo 21/22 descrive l’orrore dell’esilio, l’angoscia d’Israele e di Gerusalemme assediata da Nabucodonosor, il senso di impotenza di fronte all’odio degli uomini che suscita un’ardente  supplica: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”? e infine la riconoscenza a Dio per la propria salvezza: “Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea. Lodate il Signore voi suoi fedeli”.  Nella domenica delle Palme non ci sono gli ultimi versetti che però sentiamo spesso nella liturgia: “I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano; il vostro cuore viva per sempre! Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli…Annunceranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: Ecco l’opera del Signore”.

 

*Seconda Lettura dalla seconda lettera di san Paolo ai Filippesi (2,6-11)

Questo testo è spesso definito l’Inno della Lettera ai Filippesi, perché si ha l’impressione che Paolo non lo abbia scritto di suo pugno, ma abbia citato un inno in uso nella liturgia. Anzitutto da notare l’insistenza sul tema del Servo: “svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo”: i primi cristiani, di fronte allo scandalo della croce, hanno meditato spesso sui Canti del Servo contenuti nel libro di Isaia, perché offrivano spunti di riflessione per comprendere il mistero della persona di Cristo. “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio non ritenne un privilegio l’essere come Dio”. Si è tentati di leggere: benché fosse di condizione divina, anche se in realtà, è il contrario e bisogna dunque leggere: “proprio perché era nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio”. Uno dei pericoli di questo testo è la tentazione di leggerlo in termini di ricompensa, come se il ragionamento fosse: Gesù si è comportato in modo ammirevole e quindi ha ricevuto una ricompensa straordinaria. La grazia, come suggerisce il suo stesso nome, è gratuita, noi però siamo sempre tentati di parlare di meriti. La meraviglia dell’amore di Dio è che Egli non attende i nostri meriti per colmarci; è questa la scoperta che gli uomini della Bibbia hanno fatto grazie alla Rivelazione. Quindi, per essere fedeli al testo, dobbiamo leggerlo in termini di gratuità. Rischiamo di fraintenderlo se dimentichiamo che tutto è dono di Dio, tutto è grazia, come ripeteva Teresa del Bambino Gesù. Il dono gratuito di Dio è per san Paolo una verità evidente, una convinzione che permea tutte le sue lettere, talmente ovvia che non sente neppure il bisogno di ribadirla esplicitamente per cui possiamo riassumere il suo pensiero così: il progetto di Dio, il disegno della sua misericordia è farci entrare nella sua intimità, nella sua gioia e nel suo amore, un progetto assolutamente gratuito. Non c’è nulla di sorprendente in questo, poiché si tratta di un progetto d’amore, un dono da accogliere: è la partecipazione alla vita divina, anzi con Dio, tutto è dono. Ci si esclude da questo dono quando si assume un atteggiamento di pretesa, se ci si comporta come i progenitori nel giardino dell’Eden che si appropriano del frutto proibito. Gesù, al contrario, non ha fatto altro – “facendosi obbediente” - che accogliere il dono di Dio senza pretenderlo. “Pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio” ed è proprio perché è di condizione divina che non rivendica nulla. Lui sa cosa sia l’amore gratuito, sa che non è giusto pretendere, non considera un bene reclamare il diritto di essere come Dio. E’ la stessa situazione dell’episodio delle tentazioni (vedi il vangelo della prima domenica di Quaresima): satana propone a Gesù solo cose che fanno parte del piano di Dio, ma Gesù rifiuta di appropriarsene con le proprie forze. perché vuole affidarsi al Padre affinché sia Lui a donargliele. Il tentatore lo provoca: “Se sei Figlio di Dio, puoi permetterti tutto, tuo Padre non può rifiutarti nulla: trasforma le pietre in pane quando hai fame… gettati giù dal tempio, ti proteggerà… adorami, e ti darò il dominio su tutto il mondo”. Gesù però aspetta tutto solo da Dio: ha  ricevuto il Nome che è al di sopra di ogni altro nome, il Nome di Dio. Dire infatti che Gesù è il Signore significa affermare che è Dio. Nell’Antico Testamento, il titolo di “Signore” era riservato a Dio e pure la genuflessione “ perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi». Ecco un’allusione a un passo del profeta Isaia: «Davanti a me si piegherà ogni ginocchio, si pieghi…ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore!” presterà giuramento» (Is 45,23). Gesù ha vissuto nell’umiltà e nella fiducia; fiducia che san Paolo chiama  obbedienza. Obbedire, in latino «ob-audire», significa letteralmente porgere l’orecchio (audire) davanti (ob) alla parola: è l’atteggiamento di un dialogo perfetto, senza ombre, è fiducia totale.  L’inno si conclude così: “Ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”. La gloria è la rivelazione dell’amore infinito fatto persona. In altre parole anche noi, come il centurione, vedendo Cristo amarci sommamente accettando di morire per rivelarci fino a che punto arriva l’amore di Dio, proclamiamo,: «Sì, davvero, costui era Figlio di Dio»… perché Dio è amore.

 

* Vangelo. Passione di Gesù Cristo secondo san Luca (22,14 – 23.56)

Ogni anno, per la Domenica delle Palme, torna il racconto della Passione in uno dei tre vangeli sinottici; quest’anno, è quello di Luca e mi limito a commentare gli episodi propri di questo vangelo. Se è vero che i quattro racconti della Passione sono simili, quando però si osservano da vicino, ci si rende conto che ogni evangelista ha accenti particolari, e questo perché sono tutti testimoni di uno stesso evento e raccontano i fatti ciascuno dal loro punto di vista e la Passione di Cristo risulta raccontata in quattro modi diversi: non scelgono tutti gli stessi episodi e le stesse frasi. Ecco dunque gli episodi e le parole che troviamo solo in san Luca. 1.Dopo l’ultima cena, prima di recarsi al Getsemani, Gesù aveva preannunciato a Pietro il suo triplice rinnegamento. In verità lo narrano tutti i vangeli, ma solamente Luca riporta questa frase di Gesù: “Simone, Simone, ecco: satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli” quando sarai tornato, conferma i tuoi fratelli» (22,32). Una delicatezza di Gesù, che aiuterà Pietro dopo il suo tradimento a rialzarsi invece di disperare. Sempre solo Luca nota lo sguardo che Gesù posa su Pietro dopo il suo rinnegamento: per tre volte consecutive, Pietro afferma di non conoscerlo nella casa del sommo sacerdote. Subito dopo Gesù, voltandosi, fissò lo sguardo su Pietro e qui sentiamo l’eco della prima lettura dove Isaia scrive: “Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato”. Questo vuole fare Gesù con Pietro, confortarlo in anticipo perché quando lo rinnegherà non cada nella disperazione. Altro episodio proprio di questo vangelo è Gesù davanti a Erode Antipa. Alla nascita di Gesù, su tutto il territorio regnava sotto l’autorità di Roma, Erode il Grande, ma alla sua morte (nel 4 a.C.), il territorio fu diviso in più province e, al momento della morte di Gesù (nell’anno 30 d.C.), la Giudea, ossia la provincia di Gerusalemme, era governata da un procuratore romano, mentre la Galilea era sotto l’autorità di un re riconosciuto da Roma, che era un figlio di Erode il Grande: il suo nome Erode Antipa, che da tempo desiderava incontrare Gesù e sperava di vederlo compiere un miracolo. Ora gli pone molte domande, ma Gesù tace. Erode lo insulta e lo schernisce facendolo rivestire con un manto splendente e lo rimanda a Pilato rinsaldando quel giorno l’amicizia tra Erode e Pilato. 

2.Ci sono poi tre frasi che troviamo solo nel racconto della Passione di Luca. Due parole di Gesù e, se Luca le annota, è perché rivelano ciò che per lui è importante: la prima è la sua preghiera mentre i soldati romani lo stanno crocifiggendo: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno». Ma cosa stanno facendo? Hanno espulso dalla Città Santa il Santo per eccellenza; hanno cacciato il loro Dio, mettendo a morte il Maestro della vita; il Sinedrio, il tribunale di Gerusalemme, in nome di Dio ha condannato Dio. E cosa fa invece Gesù? Perdona i nemici suoi fratelli mostrando fino a che punto si spinge l’amore di Dio. Chi ha visto me ha visto il Padre, aveva detto Gesù, il giorno prima. La seconda frase: “Oggi con me sarai nel Paradiso”. Tutti lo attaccano e per tre volte risuona una stessa provocazione: Se tu sei il Messia, lo scherniscono i capi… Se tu sei il re dei Giudei, si prendono gioco di lui i soldati romani… Se tu sei il Messia, lo insulta uno dei due malfattori crocifissi con lui. L’altro crocifisso con lui comincia a dire la verità: noi meritiamo questo castigo ma non Gesù e si rivolge a Gesù: “ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno”. Riconosce Gesù come il Salvatore, lo invoca con una preghiera umile e di fiduciosa: sembra aver capito tutto. Infine solo Luca riporta quest’ultima frase: “Già brillavano le luci del sabato” (23,54) conclude così il racconto della Passione con un’insistente evocazione del sabato. Parla delle donne che avevano seguito Gesù fin dalla Galilea e ora vanno al sepolcro per osservare come era stato sepolto recando aromi e profumi per i riti della sepoltura. Già brillavano le luci del sabato: tutto si chiude con una nota di luce e di pace: il sabato è prefigurazione del mondo a venire, giorno in cui Dio si era riposato da tutta l’opera della creazione (cf Genesi); giorno in cui, per fedeltà all’Alleanza, si scrutavano le Scritture nell’attesa della nuova creazione. Luca ci fa capire che nel travaglio della Passione di Cristo è nata la nuova umanità che è l’inizio del regno della grazia. Il crocifisso risorto indica la via da seguire: la via dell’amore e del perdono a qualsiasi costo.

+Giovanni D’Ercole

Martedì, 01 Aprile 2025 05:47

5a Domenica di Quaresima (anno C)

5a Domenica di Quaresima (anno C)  [6 aprile 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Domani, mercoledì 2 aprile sarà il XX anniversario della morte di san Giovanni Paolo II. Lo ricordiamo nella preghiera invocando la sua protezione e intercessione.

 

*Prima Lettura Dal libro del profeta Isaia (43,16-21)

A prima vista, questo testo consta di due parti tra loro contraddittorie: la prima è un richiamo al passato, all’uscita dall’Egitto, mentre nella seconda il profeta esorta a lasciarsi alle spalle il passato. Ma di quale passato si tratta? Proviamo a meglio capire esaminando una dopo l’altra queste due parti. L’incipit è come sempre solenne: “Così dice il Signore” per introdurre parole di grande importanza cui immediatamente segue il riferimento al celebre passaggio nel mare, il miracolo del mare dei Giunchi durante la fuga degli Ebrei dall’Egitto: “Il Signore aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti”. Torna sempre il richiamo alla notte memorabile della liberazione dall’Egitto narrata nel capitolo 14 del libro dell’Esodo. Nella prima lettura Isaia offre ulteriori dettagli: “il Signore fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo e tutti giacciono morti e mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo”. Dio salvò il suo popolo distruggendo gli egiziani ed è interessante notare che Isaia utilizza il nome “Signore” (il Tetragramma YHVH), nome che qualifica il Dio del Sinai come il liberatore del suo popolo. Ecco l’opera di Dio nel passato che costituisce la fonte della speranza per il futuro di Israele e Isaia  precisa:”Ecco, io faccio una cosa nuova”. Per capire di che si tratta e a chi il profeta preannuncia un mondo nuovo, occorre rifarsi al contesto storico. Il deuteroIsaia, che qui stiamo leggendo, visse nel VI secolo a.C., durante l’esilio a Babilonia (dal 587 al 538 a.C.), periodo segnato da una prova terribile: deportanti a Babilonia da Nabucodonosor, re di Babilonia, che aveva sconfitto il piccolo regno di Giuda di cui Gerusalemme era la capitale, gli ebrei speravano un giorno di fuggire dalla Babilonia, ma esistevano serie difficoltà  perché bisognava attraversare il deserto della Siria, lungo centinaia di chilometri e in condizioni terribili per dei fuggiaschi. Il profeta ha quindi il compito difficile di ridare coraggio ai suoi contemporanei: lo fa in questo libro chiamato il libro della Consolazione di Israele, perché il capitolo 40 inizia così: “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio”. E quando dice: “il vostro Dio” richiama l’Alleanza mai spezzata perché  Dio non li ha abbandonati. In effetti, una delle formule dell’Alleanza era: “Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio” e ogni volta che echeggia l’espressione mio Dio o vostro Dio, il possessivo è un incoraggiante richiamo all’Alleanza e, al tempo stesso, una professione di fede. Isaia intende mantenere accesa la speranza degli esiliati ricordando che Dio non solo non li ha abbandonati, anzi al contrario prepara già il loro ritorno in patria. Non si vede ancora nulla, ma avverrà e perché si è certi? Perché Dio è fedele alla sua Alleanza e da quando ha scelto questo popolo non ha mai smesso di liberarlo e di mantenerlo in vita, attraverso tutte le vicissitudini della sua storia. L’ha liberato dal faraone; l’ha protetto lungo tutto il cammino, lo ha fatto passare attraverso il mare all’asciutto al momento dell’uscita dall’Egitto.La speranza di Israele poggia dunque sul suo passato: questo è il significato della parola “Memoriale”, costante memoria dell’opera di Dio che continua ancora oggi e da questo si trae la certezza che continuerà anche nel futuro. Passato, presente, futuro: Dio è sempre presente accanto al suo popolo. Questo è uno dei significati del nome di Dio: “Io sono”, cioè sono con voi in ogni circostanza. E proprio durante il difficile periodo dell’esilio, quando c’era il rischio di cedere alla disperazione, Isaia sviluppa una nuova metafora, quella del germoglio: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” Partendo dall’esperienza straordinaria di un minuscolo seme capace di diventare un grande albero, è facile capire come la parola “germoglio” sia diventata in Israele e oggi per noi simbolo di speranza ed è importante imparare a riconoscere i germogli del mondo nuovo, il Regno che Dio sta costruendo.

 

*Salmo responsoriale [125 (126)]

 Questo salmo fa eco alla prima lettura, dove il profeta Isaia annuncia il ritorno del popolo esiliato a Babilonia e canta questo miracolo così come gli ebrei avevano cantato il prodigio dell’uscita dall’Egitto. Questi gli eventi: nel 587 a.C. Nabucodonosor, re di Babilonia, aveva conquistato Gerusalemme e deportato la popolazione, ma, a sua volta, fu sconfitto da Ciro, re di Persia ben noto per i suoi successi. Le truppe di Nabucodonosor saccheggiavano, depredavano, stupravano, massacravano e devastavano deportando sistematicamente le popolazioni. Ciro, invece, adottò una politica completamente diversa: preferì governare su popoli prosperi e permise a tutte le popolazioni deportate di tornare nelle loro terre d’origine fornendo pure i mezzi per farlo. E così, conquistata Babilonia nel 539 a.C., già nel 538 permise agli ebrei di rientrare a Gerusalemme, concedendo loro anche aiuti economici e restituendo persino gli oggetti saccheggiati dal Tempio dai soldati di Nabucodonosor.

Nel salmo non si dice “Quando il re di Persia Ciro ristabilì la sorte di Sion” ma “quando il Signore ristabilì la sorte di Sion”, un modo per affermare che Dio rimane il Signore della storia che ne muove tutti i fili e pertanto non c’è nessun altro dio – ancora un cenno alla lotta contro l’idolatria. Questo salmo, scritto probabilmente molto tempo dopo il ritorno dall’esilio, evoca la gioia e l’emozione della liberazione e del ritorno. Quante volte durante l’esilio, si sognava questo momento! Quando si è realizzato, quasi non si osava crederci: “Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion ci sembrava di sognare…la bocca si riempì di sorriso, la nostra lingua di gioia”.  Ci si immagina persino che anche gli altri popoli siano stupiti da questo miracolo: “Allora si diceva tra le genti: “Il Signore ha fatto grandi cose per loro”. In questa frase emergono due elementi: un’infinita gratitudine per la gratuità della scelta di Dio e la consapevolezza del popolo eletto di essere stato scelto per il mondo: la sua vocazione è essere testimone dell’opera di Dio, consapevolezza maturata proprio durante l’esilio. Nel salmo, lo stupore per la scelta di Dio è espresso con i termini: “grandi cose” cioè l’opera di liberazione di Dio, in particolare la liberazione dall’Egitto. Parole come impresa, opera, grandi cose, meraviglie, che si trovano spesso nei salmi, sono sempre un richiamo all’Esodo. Qui, si aggiunge una nuova opera di liberazione di Dio: la fine dell’esilio vissuta dal popolo come una vera e propria risurrezione. Per esprimerlo, il salmista usa due immagini: I torrenti nel deserto: “Ristabilisci, Signore, la nostra sorte, come i torrenti nel Negheb”, deserto a sud di Gerusalemme, dove in primavera fioriscono miriadi di fiori. L’altra immagine è il seme: “chi semina nelle lacrime, mieterà nella gioia”. il grano seminato sembra marcire e morire… ma quando spuntano le spighe, è come una rinascita, immagine eloquente perché il ritorno degli esiliati significava una vera rinascita anche per la terra. Un’ultima osservazione: quando in questo salmo si canta il ritorno dall’esilio babilonese, esso era  già avvenuto da molto tempo, ma Israele non parla del passato solo per raccontarlo, bensì per comunicare un messaggio e un insegnamento per il futuro: questo ritorno alla vita, collocato storicamente,  diventa ragione per sperare in altre future risurrezioni e liberazioni. Ogni anno, durante la festa delle Capanne, in autunno, questo canto veniva intonato durante il pellegrinaggio a Gerusalemme. Mentre i pellegrini salgono, cantano la liberazione già avvenuta e pregano Dio di affrettare il giorno della liberazione definitiva, quando apparirà il Messia promesso. Esistono anche oggi molti luoghi di schiavitù, molti «Egitto» e «Babilonia». È a questo che si pensa quando si canta: “Ristabilisci, Signore, la nostra sorte come i torrenti nel Negheb” chiedendo la grazia di collaborare con tutte le nostre forze all’opera di liberazione inaugurata dal Messia per affrettare il giorno in cui l’intera umanità possa cantare: “Grandi cose ha fatto il Signore per noi”

 

*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi (3,8-14)

 San Paolo usa l’immagine della corsa e sappiamo quanto sia importante per ogni persona il traguardo e la voglia di raggiungerlo. Qui l’apostolo parla di sé stesso: “So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù in Cristo Gesù”. Per correre verso questa stessa meta e ottenere il premio promesso, occorre voltare le spalle a molte cose, come ha fatto san Paolo da quando si è sentito conquistato da Cristo. Il verbo greco che utilizza (katalambano) significa afferrare, catturare, prendere con forza ed esprime il modo con cui è stato trasformato completamente da persecutore dei cristiani in apostolo del vangelo (At.9) quando Cristo si è letteralmente impossessato di lui sulla via di Damasco. San Paolo presenta la sua fede cristiana come naturale continuazione della sua fede ebraica perché Cristo realizza pienamente le attese dell’Antico Testamento assicurandone la continuità con il Nuovo Testamento. Qui però insiste sulla novità che Gesù Cristo apporta: “Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore”. La conoscenza di Cristo reca una novità radicale perché si diventa realmente una “nuova creatura”, come scrive nella seconda lettera ai Corinzi, che abbiamo letto domenica scorsa (2 Cor 5,17-21). Ora lo dice in un altro modo: “Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui”. In altre parole:  quel che prima ai mei occhi appariva importante, cioè un vantaggio e un privilegio , adesso li rifiuto del tutto. I vantaggi di cui parla erano l’orgoglio di appartenere al popolo d’Israele, la fede e l’incrollabile speranza di quel popolo, la pratica assidua e scrupolosa di tutti i comandamenti che egli chiama l’obbedienza alla legge di Mosè. Ma ormai Gesù Cristo ha preso tutto lo spazio nella sua vita ed egli  possiede il bene più grande, l’unica vera ricchezza al mondo, il vero tesoro dell’umana esistenza: conoscere Cristo. Conoscere nel linguaggio biblico non significa conoscenza intellettuale ma vivere nell’ intimità con qualcuno, amarlo e condividerne la vita. Paolo insiste su questo legame con Cristo perché nella comunità di Filippi alcuni cristiani di origine ebraica volevano imporre la circoncisione a tutti i cristiani prima del battesimo e questo creava grande divisione come abbiamo letto nella seconda lettura della seconda domenica di Quaresima. Tale questione fu risolta dagli Apostoli durante il primo Concilio a Gerusalemme affermando che nella Nuova Alleanza, la Legge di Mosè è stata superata e il battesimo nel nome di Gesù ci rende figli di Dio per cui la circoncisione non è più indispensabile per far parte del popolo della Nuova Alleanza. Paolo inoltre parla qui di “comunione” alle sofferenze di Cristo, di conformazione alla sua morte nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti, innestati in lui per seguire il suo stesso cammino: “comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte”. 

Nota: San Paolo c’invita a vivere come Cristo e ad accettare tutti i rischi dell’annuncio del Vangelo, ma riusciamo a dire, come lui, che l’unico bene per noi è la conoscenza di Cristo e tutto il resto non è che spazzatura? La parola spazzatura che qui è usata traduce il termine greco skubala che ha un significato molto forte traducibile in più modi: come rifiuto, scarto, escrementi secchi e sporcizia, residuo di cibo marcio e avariato. Insomma un rifiuto totale di tutto, quando si conosce Cristo e da lui si è posseduti.

 

*Dal Vangelo secondo Giovanni (8, 1-11)

Siamo già nel contesto della Passione e la prima riga menziona il Monte degli Ulivi. Dato che gli evangelisti ne parlano solo negli ultimi giorni della vita pubblica di Gesù e i farisei vogliono qui tendergli un tranello, questo fa capire che ormai si è deciso di processarlo e condannarlo. Per questo ogni dettaglio di questo testo va esaminato attentamente perché non si tratta di un semplice episodio della vita di Gesù, ma del cuore stesso della sua missione.  All’inizio Gesù è seduto come un maestro: “tutto il popolo andava da lui ed egli sedette e si mise a insegnare loro”. Tuttavia la domanda degli scribi e dei farisei lo mette subito nella posizione di giudice e Gesù è l’unico personaggio seduto. Questo dettaglio ci aiuta a capire che il tema del giudizio, in san Giovanni, è centrale: l’episodio della donna adultera attua ciò che scrive all’inizio del suo vangelo: “Dio ha mandato il Figlio nel mondo, non per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17). Siamo davanti a un finto processo perché la questione è chiara: la donna adultera è stata colta in flagrante e ci sono testimoni; la Legge di Mosè condanna l’adulterio, come uno dei comandamenti dati da Dio sul Sinai (Non commetterai adulterio, Es 20,14; Dt 5,18); il Levitico prescrive la pena di morte: “Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno essere messi a morte” (Lv 20,10). Gli scribi e i farisei, che interrogano Gesù, sono come sempre molto attaccati alla Legge di Mosè, ma dimenticano di aggiungere che la Legge prevede la condanna per entrambi i colpevoli, l’uomo e la donna adultera. Il fatto che pur sapendolo nessuno lo ricorda, ciò dimostra che la vera questione non è l’osservanza della Legge, ma ben altro, e il testo lo dice chiaramente: “Dicevano questo per metterlo alla prova e per aver motivo di accusarlo”. E’ dunque una domanda-trappola e di che cosa vogliono accusare Gesù? Gesù non può approvare la lapidazione perché smentirebbe tutta la predicazione sulla misericordia; se però pubblicamente difende la donna, potrà essere accusato di incitare il popolo a disobbedire alla Legge. Nel Vangelo di Giovanni (capitolo 5), lo abbiamo già visto dire al paralitico guarito di prendere il suo lettuccio, un atto proibito di sabato. Quel giorno non riuscirono a condannarlo, ma questa volta la disobbedienza sarebbe stata pubblica. In fondo, nonostante l’apparente rispetto con cui lo chiamano “Maestro”, Gesù è in pericolo tanto quanto la donna adultera: entrambi rischiano la morte. Gesù non risponde subito: “Si chinò e si mise a scrivere col dito per terra”. Con il suo silenzio, silenzio costruttivo, invita ciascuno a riflettere senza umiliare nessuno e lui, incarnazione della misericordia, non mette in difficoltà né gli scribi e i farisei, né la donna adultera: Desidera che ciascuno faccia un passo avanti cercando di rivelare ai farisei e agli scribi il vero volto del Dio della misericordia. Quando risponde lo fa quasi ponendo  una domanda: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. A questo punto tutti se ne vanno, “uno per uno, cominciando dai più anziani». Niente di sorprendente: i più anziani appaiono quelli più pronti ad ascoltare l’appello alla misericordia. Chi sa quante volte hanno sperimentato su di loro la misericordia di Dio… Quante volte hanno letto, cantato, meditato il versetto: «Dio di tenerezza e di pietà, lento all’ira e ricco di amore» (Es 34,6. Quante volte hanno recitato il Salmo 50(51): «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia, nella tua grande bontà cancella il mio peccato”. Ora possono capire che la loro mancanza di misericordia è una colpa, una mancanza di fedeltà al Dio dell’Alleanza. La frase di Gesù potrebbe averli portati a questa riflessione: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra”. Essere il primo a scagliare la pietra era un’espressione nota a tutti nel contesto della lotta contro l’idolatria. La Legge non diceva che doveva essere il testimone dell’adulterio a lanciare la prima pietra; ma lo diceva espressamente per il caso dell’idolatria (Dt 13,9-10; Dt 17,7). Così la risposta di Gesù può essere interpretata come: «Questa donna è colpevole di adulterio, nel senso letterale del termine, è vero; ma voi non state forse commettendo un adulterio ancora più grave, un’infedeltà al Dio dell’Alleanza? I profeti spesso parlano dell’idolatria in termini di adulterio.  Alla fine, restano solo Gesù e la donna: è il faccia a faccia, come dice sant’Agostino, tra la miseria e la misericordia. Per lei, il Verbo compie ancora una volta la sua missione, dicendo la parola di riconciliazione. Isaia, parlando del servo di Dio, l’aveva annunciato: «Non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino fumigante…» (Is 42,3). Ma questo non è buonismo perché Gesù dice chiaramente alla donna di non peccare più, il peccato rimane condannato, ma solamente il perdono può permettere al peccatore di rinascere alla speranza.

Nota: Cosa scrive Gesù per terra? L’evangelista non lo specifica, e questo ha dato origine a diverse interpretazioni: Alcuni Padri della Chiesa, come Sant’Agostino, ipotizzano che Gesù stesse scrivendo i peccati nascosti di coloro che accusavano la donna. Per questo, uno dopo l’altro, essi se ne vanno via; Rimanda alla Legge mosaica: secondo un’interpretazione rabbinica, potrebbe riferirsi a Geremia 17,13: “Quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato il Signore, sorgente di acqua viva.” Se fosse così, Gesù starebbe indicando che gli accusatori stessi sono colpevoli di infedeltà a Dio. Potrebbe essere un atto simbolico di distacco; scrivere nella polvere potrebbe simboleggiare che le accuse contro la donna sono effimere, destinate a svanire; potrebbe indicare un richiamo alla pazienza e alla riflessione; infine potrebbe essere un modo per non rispondere subito, spingendo gli accusatori a riflettere sulla loro ipocrisia.

Il gesto di Gesù invita a spostare l’attenzione non sulla colpa degli altri, ma sulla propria coscienza. Nessuno può condannare un altro senza prima esaminare se stesso. Questo episodio ci insegna che la misericordia di Dio supera la condanna umana, e che il perdono è sempre possibile quando c’è un cuore disposto a cambiare. 

La prima lettura e il Vangelo di questa domenica hanno lo stesso messaggio: dimentica il passato, non rimanere attaccato a esso… nulla, nemmeno i ricordi, deve impedirti di andare avanti. Nella prima lettura, Isaia parla al popolo in esilio… nel Vangelo, Gesù parla a una donna colta in flagrante adulterio: apparentemente, due casi molto diversi, ma il messaggio è lo stesso: volgi lo sguardo con decisione verso il futuro, non pensare più al passato.

+Giovanni D’Ercole

Lunedì, 31 Marzo 2025 12:13

Buoncostume adultera, Gesù imputato

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The drama of prayer is fully revealed to us in the Word who became flesh and dwells among us. To seek to understand his prayer through what his witnesses proclaim to us in the Gospel is to approach the holy Lord Jesus as Moses approached the burning bush: first to contemplate him in prayer, then to hear how he teaches us to pray, in order to know how he hears our prayer (Catechism of the Catholic Church n.2598)
L’evento della preghiera ci viene pienamente rivelato nel Verbo che si è fatto carne e dimora in mezzo a noi. Cercare di comprendere la sua preghiera, attraverso ciò che i suoi testimoni ci dicono di essa nel Vangelo, è avvicinarci al santo Signore Gesù come al roveto ardente: dapprima contemplarlo mentre prega, poi ascoltare come ci insegna a pregare, infine conoscere come egli esaudisce la nostra preghiera (Catechismo della Chiesa Cattolica n.2598)
If penance today moves from the material to the spiritual side, let's say, from the body to the soul, from the outside to the inside, it is no less necessary and less feasible (Pope Paul VI)
Se la penitenza si sposta oggi dalla parte, diciamo, materiale a quella spirituale, dal corpo all’anima, dall’esterno all’interno, non è meno necessaria e meno attuabile (Papa Paolo VI)
“Love is an excellent thing”, we read in the book the Imitation of Christ. “It makes every difficulty easy, and bears all wrongs with equanimity…. Love tends upward; it will not be held down by anything low… love is born of God and cannot rest except in God” (III, V, 3) [Pope Benedict]
«Grande cosa è l’amore – leggiamo nel libro dell’Imitazione di Cristo –, un bene che rende leggera ogni cosa pesante e sopporta tranquillamente ogni cosa difficile. L’amore aspira a salire in alto, senza essere trattenuto da alcunché di terreno. Nasce da Dio e soltanto in Dio può trovare riposo» (III, V, 3) [Papa Benedetto]
For Christians, non-violence is not merely tactical behaviour but a person's way of being (Pope Benedict)
La nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere (Papa Benedetto)
But the mystery of the Trinity also speaks to us of ourselves, of our relationship with the Father, the Son and the Holy Spirit (Pope Francis)
Ma il mistero della Trinità ci parla anche di noi, del nostro rapporto con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo (Papa Francesco)
Jesus contrasts the ancient prohibition of perjury with that of not swearing at all (Matthew 5: 33-38), and the reason that emerges quite clearly is still founded in love: one must not be incredulous or distrustful of one's neighbour when he is habitually frank and loyal, and rather one must on the one hand and on the other follow this fundamental law of speech and action: "Let your language be yes if it is yes; no if it is no. The more is from the evil one" (Mt 5:37) [John Paul II]
Gesù contrappone all’antico divieto di spergiurare, quello di non giurare affatto (Mt 5, 33-38), e la ragione che emerge abbastanza chiaramente è ancora fondata nell’amore: non si deve essere increduli o diffidenti col prossimo, quando è abitualmente schietto e leale, e piuttosto occorre da una parte e dall’altra seguire questa legge fondamentale del parlare e dell’agire: “Il vostro linguaggio sia sì, se è sì; no, se è no. Il di più viene dal maligno” (Mt 5, 37) [Giovanni Paolo II]
And one thing is the woman before Jesus, another thing is the woman after Jesus. Jesus dignifies the woman and puts her on the same level as the man because he takes that first word of the Creator, both are “God’s image and likeness”, both; not first the man and then a little lower the woman, no, both. And the man without the woman next to him - both as mother, as sister, as bride, as work partner, as friend - that man alone is not the image of God (Pope Francis)

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