16a Domenica T.O. (anno C) [20 luglio 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! L’estate per chi può è tempo in cui si può dedicare più ascolto alla Parola e pregare per quanti invece vivono così immersi nelle preoccupazioni al punto da credere di non aver tempo per pregare.
*Prima Lettura dal Libro della Genesi (18, 1-10)
Mambré è un abitante del paese di Canaan che, in diverse occasioni, ha offerto ospitalità ad Abramo nel suo bosco di querce (vicino all’attuale città di Hebron). Sappiamo che per i Cananei le querce erano alberi sacri. Questo racconto riferisce un’apparizione di Dio nel bosco appartenente a Mambré. Ma, in realtà, non è la prima volta che Dio parla ad Abramo. Fin dal capitolo 12, il libro della Genesi ci narra le ripetute apparizioni e promesse di Dio ad Abramo. Ma, per il momento, nulla è ancora accaduto e Abramo e Sara stanno per morire senza figli. Si dice spesso che Dio ha scelto un popolo, ma in realtà Dio ha scelto prima un uomo – e per di più, un uomo senza figli. E proprio a quest’uomo privo di futuro (almeno secondo criteri umani) Dio ha fatto una promessa inaudita: “Farò di te una grande nazione… In te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gen 12,2-3). A questo vecchio sterile, ha detto: “Conta le stelle, se riesci… Così sarà la tua discendenza”. Solo su questa promessa, apparentemente irrealizzabile, Abramo ha deciso di giocarsi tutta la vita. Abramo non dubitava che Dio avrebbe mantenuto la sua parola, ma conosceva bene l’ostacolo evidente: lui e Sara erano sterili o almeno tali credevano di essere, visto che a settantacinque e sessantacinque anni erano ancora senza figli. Abramo aveva immaginato delle soluzioni: Dio mi ha promesso una discendenza, ma, in fondo, il mio servo è come un figlio. “Signore Dio, che cosa mi darai? Vado via senza figli, e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco” (Gen 15,2). Ma Dio rifiutò: “Non costui sarà tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede” (Gen 15,4). Qualche anno più tardi, quando Dio tornò a parlare di quella nascita, Abramo non poté fare a meno di ridere (Gen 17,17); poi pensò a un’altra soluzione: potrebbe essere il mio vero figlio, Ismaele, quello che ho avuto dall’unione (autorizzata da Sara) con Agar. “Potrà forse nascere un figlio a un uomo di cent’anni? E Sara, a novant’anni, potrà ancora partorire?… Possa Ismaele vivere davanti a te!” Ma anche questa volta Dio rifiutò: “No! Tua moglie Sara ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco” (Gen 17,19). La Promessa è la Promessa. Il brano che leggiamo questa domenica presuppone tutta questa lunga storia di Alleanza di venticinque anni, secondo la Bibbia. L’evento si svolge vicino alla quercia di Mambré. Tre uomini apparvero ad Abramo e accettarono la sua ospitalità. Fermiamoci qui. Contrariamente a quanto si pensa, il punto centrale del testo non è l’ospitalità generosa offerta da Abramo! All’epoca, in quella civiltà, non era niente di straordinario, per quanto esemplare potesse essere. Il messaggio dell’autore, ciò che suscita la sua ammirazione e che lo spinge a scrivere per tramandare alle generazioni future, è molto più grande! È accaduto l’impensabile: per la prima volta nella storia dell’umanità, Dio in persona si è fatto ospite di un uomo! Nessuno ha dubbi sul fatto che i tre illustri visitatori rappresentino Dio. La lettura del testo, per noi, è un po’ difficile, perché non si capisce bene se ci sia un solo visitatore o più di uno: Abramo alzò gli occhi e vide tre uomini… disse: mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi… si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi… andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi…Dov’è Sara, tua moglie?… Tornerò da te fra un anno… tua moglie avrà un figlio. In realtà, l’autore scrive molto tempo dopo, sulla base di racconti diversi. Di tutte queste fonti, ne fa una sola, armonizzando il tutto il più possibile. E poiché vuole evitare ogni apparenza di politeismo, si preoccupa di ribadire più volte che Dio è uno solo. All’epoca l’autore non poteva immaginare che fosse la Trinità, ma certamente Abramo ha riconosciuto senza esitazione, in quei tre visitatori, la presenza divina. Dio, dunque – perché è proprio Lui, senza dubbio – si è fatto ospite nella casa di Abramo. E per dirgli cosa? Per confermargli quel progetto inaudito che aveva per lui: l’anno prossimo, in questo stesso tempo la vecchia Sara avrà un figlio. E da questo figlio nascerà un popolo che sarà lo strumento della benedizione divina. Sara, che stava origliando dietro la tenda, non poté trattenere una risata: erano così vecchi tutti e due e il viandante rispose con una frase che non dovremmo mai dimenticare: “C’è forse qualcosa d’impossibile per il Signore?” (Gen 18,14). E l’impossibile accadde: nacque Isacco, primo anello della discendenza promessa, numerosa come le stelle del cielo.
*Salmo responsoriale (14 /15, 1a. 2-3a, 3bc-4ab, 4d-5)
I salmi sono stati tutti composti per accompagnare un’azione liturgica durante i pellegrinaggi e le feste al Tempio di Gerusalemme e il Salterio potrebbe essere paragonato ai libretti dei canti che troviamo nelle nostre chiese. Qui, il pellegrino arriva alle porte del Tempio e pone la domanda: sono degno di entrare? La risposta si trova nel Libro del Levitico: “Siate santi, perché io sono santo” (19,2) e questo salmo ne trae le conseguenze: a colui che desidera entrare nel Tempio (la “casa” di Dio), deve avere una condotta degna del Dio santo. “Chi dimorerà sulla tua santa montagna? (v.1) La risposta è semplice: “Colui che cammina senza colpa, pratica la giustizia e dice la verità che ha nel cuore” (v.2) e i versetti seguenti lo precisano: essere giusto, essere vero, non fare torto a nessuno. In fin dei conti tutto questo richiama il Decalogo (Es 20) e l’identikit dell’uomo giusto tracciato da Ezechiele (Ez 18,5-9). Michea riprende esattamente la domanda del nostro salmo e la sviluppa (Mi 6,6-8) come anche Isaia, suo contemporaneo (Is 33,15-16). Un po’ più tardi, anche Zaccaria sentirà il bisogno di ripeterlo (Zc 8,16-17). Leggendo questi testi che indico solamente ma che è utile andare a meditare, si capisce quanto sia indispensabile attendere l’intervento di Colui che può trasformare i nostri cuori di pietra in cuori di carne, come dice Ezechiele. Tutto ci aiuta a rileggere questo salmo applicandolo a Gesù che i vangeli descrivono “mite e umile di cuore” (Mt 11,29), attento agli esclusi: i lebbrosi (Mc 1), la donna adultera (Gv 8), malati e indemoniati ebrei o pagani. Gesù è completamente estraneo alle logiche del profitto e non ha nemmeno dove posare il capo. Gesù ci aiuta a rileggere il versetto 3: “Non sparge calunnie con la sua lingua, non fa danno al suo prossimo, non lancia insulti al suo vicino” dandogli una dimensione nuova e insegnando nella parabola del buon Samaritano che il cerchio dei nostri “prossimi” può allargarsi all’infinito. Il v 4: “Ai suoi occhi è spregevole il malvagio” potrebbe apparire una stonatura in mezzo a tutti questi bei sentimenti: probabilmente però indica un impegno di fedeltà perché il “malvagio” è l’infedele, l’idolatra e il pellegrino deve rifiutare ogni forma di idolatria per cui in Israele la fedeltà al Dio unico è stata un combattimento costante. Infine, il richiamo alle esigenze dell’Alleanza costituisce una catechesi rivolta ai pellegrini, non una condizione per entrare nel Tempio perché diversamente nessuno avrebbe mai potuto entrarci eccetto Gesù di Nazaret il solo Santo.
*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi (1, 24 – 28)
“Sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa”. Come intendere la prima frase di questo testo? Manca qualcosa alle sofferenze di Cristo? Oppure, ci sono altre sofferenze da sopportare da parte nostra per “compensare”, in qualche modo? In verità ci sono sofferenze ancora da sopportare, poiché Paolo lo afferma, ma non si tratta di completare una misura. Non è il frutto di una pretesa divina, bensì una necessità dovuta alla durezza del cuore umano. Ciò che resta da soffrire sono le difficoltà, le opposizioni, persino le persecuzioni, che ogni opera di evangelizzazione incontra. Gesù lo ha detto chiaramente, prima e dopo la sua Passione e Risurrezione. Se il Figlio dell’uomo ha dovuto soffrire molto, rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, messo a morte e il terzo giorno risorgere (cf Lc 9,22), analogo destino sarà quello dei suoi discepoli: Vi consegneranno ai tribunali e alle sinagoghe, sarete percossi, comparirete davanti a governatori e re a causa mia e ciò sarà per voi un’occasione di testimonianza, ma prima, bisogna che il Vangelo sia proclamato a tutte le nazioni (cf Mc 13,9-10). L’avvertimento è che finché la missione non sarà conclusa, il discepolo dovrà continuare a faticare, affrontare difficoltà, persino persecuzioni certamente non per decreto divino, come se Dio desiderasse la sofferenza dei suoi figli e contasse le loro lacrime perché una simile supposizione deformerebbe l’immagine del Dio di tenerezza e di compassione che Mosè stesso aveva già scoperto. Due per Paolo sono le caratteristiche qualificanti il discepolo di Cristo: l’imitazione del divino Maestro sofferente e l’annuncio del “mistero” (v.26) La prima caratteristica è descritta in questo difficile versetto iniziale e sant’Agostino applica questa partecipazione alle sofferenze di Cristo a tutti i cristiani che soffrono perché l’intera comunità sia purificata dal male. La seconda caratteristica è l’annuncio, l’impegno missionario il cui contenuto è “il mistero”, il progetto cioè della salvezza rivelato in Cristo. Per l’opera dell’evangelizzazione, Dio chiama dei collaboratori perché non vuole agire senza di noi. Il mondo però rifiuta di ascoltare la Parola e resiste con tutte le sue forze alla diffusione del vangelo, un’opposizione che arriva fino a perseguitare e sopprimere i martiri, testimoni scomodi. È esattamente ciò che Paolo sta vivendo, imprigionato per aver parlato troppo di Gesù di Nazaret. Nelle sue lettere alle giovani comunità cristiane, egli incoraggia spesso i destinatari ad accettare, a loro volta, l’inevitabile persecuzione (cf 1Ts 3,3). E anche Pietro dice la stessa cosa: “Resistete, saldi nella fede, sapendo che le stesse sofferenze sono riservate ai vostri fratelli sparsi nel mondo.” (1Pt 5,9-10). Dunque non ci si deve arrendere e occorre annunciare Cristo, malgrado tutto, “ ammonendo ogni uomo, istruendo ciascuno con ogni sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo.”(v.28). Cristo ha iniziato, a noi il compito di portare a compimento l’opera dell’annuncio e in tal modo la Chiesa cresce poco a poco, come Corpo di Cristo. Nella Prima Lettera ai Corinzi (1Cor 12) l’immagine del corpo serviva per parlare dell’armonia tra i membri all’interno di ogni Chiesa locale. Qui invece la visione di Paolo si amplia e contempla la Chiesa universale, grande corpo di cui Cristo è il capo. Questo mistero, disegno di Dio è stato rivelato ai cristiani, e diventa per loro fonte inesauribile di gioia e di speranza: “Cristo in voi, lui, speranza della gloria!” (v. 27) ed è lo stupore della presenza del Cristo in mezzo a loro che trasforma i credenti in testimoni. Allora comprendiamo meglio la frase iniziale del testo di oggi: Trovo la gioia nelle sofferenze che sopporto per voi, poiché quello che manca alle sofferenze di Cristo, lo completo nella mia carne, per il bene del suo corpo che è la Chiesa.
*Dal Vangelo secondo Luca (10, 38-42)
“Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,33): questo è forse il miglior commento alla lezione di Gesù nella casa di Marta e Maria, un racconto esclusivo dell’evangelista Luca che segue immediatamente la parabola del buon samaritano. Gesù è in cammino con i discepoli verso Gerusalemme, occasione per lui di dare molte istruzioni ai suoi discepoli offrendo punti di riferimento che li aiutino a restare fedeli alla vocazione di seguirlo. Ha prima raccomandato ai discepoli in missione di accettare l’ospitalità (cf Lc 9,4; 10,5-9) e ora volentieri entra in questa casa a Betania che ben conosceva. Bisogna evitare di contrapporre Marta, l’attiva, a Maria, la contemplativa, perché l’evangelista sembra piuttosto concentrarsi sulla relazione dei discepoli con il Signore, come si percepisce dal contesto e dalla ripetizione del termine “Signore”, che compare tre volte: Maria stava seduta ai piedi del Signore… Marta disse: Signore, non ti importa? Il Signore le rispose.... L’uso insistito di questo termine indica che la relazione descritta da Luca tra Gesù e le due sorelle, Marta e Maria, non va giudicata secondo i criteri umani del “buon comportamento”, ma secondo ciò che il Maestro desidera insegnare ai suoi discepoli. Qui invita al discernimento di ciò che è la “parte migliore”, cioè l’atteggiamento essenziale e indispensabile nella vita e nella missione dei cristiani. Le due donne accolgono il Signore con tutta la loro attenzione: Marta è assorbita da molte faccende legate al servizio, Maria s’intrattiene con l’ospite ascoltandolo e non perde nessuna delle sue parole. Non si può dire che una sia attiva e l’altra contemplativa: entrambe, a loro modo, sono totalmente concentrate su di lui. L’evangelista si focalizza su Gesù che parla, anche se non ci viene detto che cosa dica, mentre Maria, “seduta ai pedi del Signore” ascolta con l’atteggiamento del discepolo per lasciarsi istruire (cf. Is 50). Marta protesta: “Signore, non ti importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti”. E qui Gesù pronuncia una frase che ha fatto versare molto inchiostro: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose”. Gesù non rimprovera Marta per il suo desiderio di accoglierlo bene perché, nella cultura dell’ospitalità (soprattutto in Oriente), l’accoglienza significava preparare un buon pasto: “uccidere il vitello grasso”. L’agitazione e l’inquietudine di Marta ispirano a Gesù un insegnamento utile per tutti i suoi discepoli perché va all’essenziale: “Di una cosa solo c’è bisogno”: cioè tutto è utile se non si dimentica però “la parte migliore” cioè l’essenziale. Nella vita, tutti dobbiamo essere sia Marta che Maria, ma attenzione a non confondere le priorità. Gesù riprenderà questa lezione più avanti, in modo più esteso (Lc 12,22-32) che però la liturgia non sempre lo propone. Mi permetto allora di richiamarlo: “Non preoccupatevi per la vostra vita, di ciò che mangerete, né per il corpo, di cosa vi vestirete. La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito... Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, quanto più vestirà voi, gente di poca fede! Non cercate dunque che cosa mangerete o che cosa berrete, e non state con l’animo in ansia. Sono i pagani del mondo che ricercano tutte queste cose, ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il suo Regno, e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta”. Gesù ci mette in guardia dal rischio che le preoccupazioni d’ogni giorno c’impediscano di ascoltare la sua parola che è “la parte migliore”. Dedicandoci al servizio come Marta, dobbiamo evitare di dimenticare che è sempre Dio a prendersi cura di noi e non il contrario. Possiamo parafrasare le parole di Gesù così: Marta, per accogliermi tu ti affanni e ti agiti facendo molte cose utili, ma il modo migliore è sapere che sono io a voler fare delle cose per te e quindi restami in ascolto.
+ Giovanni D’Ercole