Set 9, 2025 Scritto da 

Esaltazione della Santa Croce

Esaltazione della Santa Croce [Domenica 14 settembre 2025]

Iddio ci benedica e la Vergine ci protegga!  Contemplando il Mistero della Croce scopriamo la dolcezza di un amore che nasce laddove sembra spegnersi la vita. Mentre muore crocifisso, Gesù rivela per sempre la vittoria definitiva dell’Amore e della Misericordia.

 

*Prima Lettura dal libro dei Numeri (21, 4 – 9)

Il Libro dell’Esodo e quello dei Numeri raccontano episodi simili: quando il popolo, liberato  dalla schiavitù dell’Egitto cammina verso la Terra Promessa,  deve affrontare la quotidianità nel deserto, un luogo totalmente inospitale. Schiavi in Egitto erano sedentari, non certo abituati a lunghe marce a piedi, ma avevano un padrone che li nutriva per cui non morivano di fame come nel deserto deve invece presero a rimpiangere le famose cipolle d’Egitto.  Vennero tentati da crisi di scoraggiamento per la fame, la sete e la paura per tutti gli inconvenienti del deserto, e sfiduciati si misero a mormorare contro Dio e contro Mosè perché li avevano condotti a morire nel deserto. Il Signore mandò allora contro il popolo serpenti velenosi e molti Israeliti morirono. A questo punto il popolo si pente, riconosce di aver peccato e prega il Signore di allontanare i serpenti. Dio ordina a Mosè  di fabbricare un serpente (la tradizione dice di bronzo) perché, fissatolo sopra  un’asta, potesse guarire chiunque lo guardava. Interessante considerare come Mosè reagisce: non discute se i serpenti vengano o no da Dio, ma il suo scopo è di condurre questo popolo diffidente a un atteggiamento di fiducia, qualunque siano le difficoltà perché non tanto i serpenti, bensì la mancanza di fiducia in Dio stava rallentando il loro cammino verso la libertà. Per educarli alla fede, utilizza una pratica già conosciuta: l’adorazione di un dio guaritore raffigurato da un serpente di bronzo su un’asta (probabile antenato del caduceo, simbolo oggi della medicina). Bastava guardare il feticcio per essere guariti. Mosè non distrugge la tradizione, ma la trasforma: Fate come sempre, ma sappiate che non è il serpente a guarirvi bensì il Signore e non confondetevi perché un solo Dio vi ha liberati dall’Egitto e guardando il serpente, in realtà adorate il Dio dell’Alleanza. Secoli dopo, il Libro della Sapienza commenterà così: “Chi si volgeva a guardarlo veniva salvato, non per l’oggetto guardato, ma da te, Salvatore di tutti» (Sp 16,7). La lotta contro idolatria, magia e divinazione percorre tutta la storia biblica e forse continua ancora. Quel serpente di bronzo, segno per condurre alla fede, tornò ad essere considerato oggetto magico e per questo il re Ezechia lo distrusse definitivamente come leggiamo nel libro dei Re (2 Re 18,4).

 

*Salmo responsoriale (77/78, 3-4, 34 – 39)

Nel salmo responsoriale, tratto dal salmo 77/78, abbiamo un riassunto della storia d’Israele che si snoda nella relazione fra Dio sempre fedele e quel popolo incostante perché smemorato, ma pur sempre consapevole dell’importanza del ricordo per cui ripete: “Abbiamo udito ciò che i nostri padri ci hanno raccontato, lo ripeteremo alla generazione che verrà”. La fede si trasmette quando, chi ha vissuto un’esperienza di salvezza, può dire “Dio mi ha salvato” e a sua volta condivide con altri la sua esperienza. Sarà poi la sua comunità a far memoria e a conservare tale testimonianza perché la fede è un’esperienza di salvezza condivisa nel tempo. Il popolo ebraico sa da sempre che la fede non è un bagaglio intellettuale, ma l’esperienza comune del  dono e del perdono sempre rinnovato di Dio. Questo salmo esprime tutto ciò: ricorda in settantadue versetti l’esperienza di salvezza, che ha fondato la fede d’Israele, cioè  la liberazione dall’Egitto e per questo  il salmo presenta tante allusioni all’Esodo e al Sinai. Ascoltare nel senso biblico significa aderire con tutto il cuore alla Parola di Dio e, se una generazione trascura di proseguire a testimoniare la propria fedeltà a Dio, si spezza la catena della trasmissione della fede. Spesso nel corso dei secoli i padri hanno confessato ai propri figli di aver mormorato contro Dio nonostante le sue azioni di salvezza. Di questo parla il salmo e accusa il popolo di infedeltà, di incostanza: ”Lo lusingavano con la loro bocca ma gli mormoravano con la lingua: il loro cuore non era costante verso di lui e non erano fedeli alla sua alleanza”(vv36-37). Ecco l’idolatria, verso bersaglio di tutti i profeti perché è causa della disgrazia dell’umanità. Ogni idolo ci fa retrocedere sul cammino della libertà e la definizione di un idolo e proprio ciò che ci impedisce di essere liberi. Marx diceva che la  religione è l’oppio del popolo, rivelando in modo crudo quale potere, quale manipolazione una religione, qualunque essa sia, può esercitare sull’umanità. La superstizione, il feticismo, la stregoneria ci impediscono di essere liberi e di imparare ad assumere liberamente le nostre responsabilità, perché ci fanno vivere in un regime di paura. Ogni culto idolatrico. ci allontana dal Dio vivo e vero: solo la verità può fare di noi uomini liberi. Anche il culto eccessivo di una persona o di un’ideologia fa di noi degli schiavi: basta pensare a tutti gli integralismi e i fanatismi che ci deturpano e il denaro pure può benissimo diventare un idolo. In altri versetti che non fanno parte della liturgia di questa domenica, il salmo offre un’immagine molto eloquente, quella di un arco deformato: il cuore d’Israele dovrebbe essere come un arco teso verso il suo Dio, ma è storto. E proprio all’interno dell’ingratitudine che Israele ha fatto l’esperienza più bella: quella del perdono di Dio come dice il salmo chiaramente: “Il loro cuore non era costante verso di lui; non erano fedeli alla sua alleanza. Ma lui, misericordioso, perdonava  la colpa invece di distruggere”(v.38). Questa descrizione della  tenera pietà di Dio dimostra che il salmo è stato scritto in un’epoca in cui la Rivelazione del Dio d’amore aveva già profondamente penetrato la fede di Israele. 

NOTA La grande assemblea di Sichem organizzata da Giosuè aveva proprio questo scopo: ravvivare la memoria di questo popolo oggetto di tanta sollecitudine, ma così spesso incline a dimenticare (Gs 24: vedi la XX domenica del tempo ordinario B): dopo aver ricordato alle tribù radunate tutta l’opera di Dio a partire da Abramo, disse loro: «Scegliete oggi chi volete servire: o il Signore, o un idolo». E le tribù quel giorno fecero la scelta giusta, anche se poi l’avrebbero presto dimenticata. La trasmissione della fede è allora come una corsa a staffetta: “Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto”, dice Paolo ai Corinzi (1 Cor 11,23) e la liturgia è il luogo privilegiato di questa testimonianza e di questo ravvivare la memoria  nel senso di gratitudine che nasce dall’esperienza.

 

*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo ai Filippesi (2, 6 – 1)

Questo passo paolino si legge ogni anno per la festa delle Palme e ora per la festa della Croce Gloriosa: il che significa che le due celebrazioni hanno un punto in comune, che è il legame stretto tra la sofferenza di Cristo e la sua gloria, tra l’abbassamento della croce e l’esaltazione della risurrezione. Paolo lo dice chiaramente: “Cristo umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce… Per questo Dio lo esaltò al di sopra di ogni nome”(vv8-9). L’espressione “per questo” indica un legame e un contrasto forte tra abbassamento ed esaltazione, ma non bisogna leggere queste frasi in termini di ricompensa, come se, essendosi Gesù comportato in modo ammirevole, ha ricevuto una ricompensa ammirevole. Questa potrebbe essere la “tendenza” o meglio “tentazione” ma Dio è amore e non conosce calcoli, scambi, il do ut des perché l’amore è gratuito. La meraviglia dell’amore di Dio è che non aspetta i nostri meriti per colmarci e nella Bibbia questo gli uomini l’hanno scoperto poco a poco perché la grazia, come il suo nome indica, è gratuita. Quindi, se, come dice Paolo, Gesù ha sofferto e poi è stato glorificato, non è perché con la sua sofferenza avesse accumulato abbastanza meriti da guadagnarsi il diritto ad essere ricompensato. E allora, per essere fedeli al testo, bisogna leggerlo in termini di gratuità. Per Paolo è evidente che il dono di Dio è gratuito e questo si percepisce in tutte le sue lettere, avendolo lui stesso sperimentato. Quando poi leggiamo: “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio” (v.6) è chiaro che Paolo allude ad Adamo ed Eva e qui probabilmente Paolo ci offre un commento al racconto del Paradiso terrestre: il tentatore aveva detto: “Sarete come Dio” e per diventarlo bastava disobbedire a Dio. Eva stese la mano verso il frutto proibito e lo ha preso (il greco labousa nella lettura teologica è “rivendicò l’essere come Dio” come se fosse un suo diritto). Paolo contrappone l’atteggiamento di Adamo/Eva (afferrare/vendicare) a quello di Cristo (accogliere gratuitamente, obbedire). Gesù Cristo è stato soltanto accoglienza (ciò che Paolo chiama «obbedienza»), e proprio perché è stato pura accoglienza del dono di Dio e non rivendicazione, ha potuto lasciarsi colmare dal Padre, completamente disponibile al suo dono. La scelta di Gesù è la “kénosis”, lo svuotamento totale di sé scandito con cinque verbi di umiliazione: svuotarsi, assumere una condizione di servo, diventare simile agli uomini, umiliarsi, farsi obbediente. La croce è il baratro dell’annientamento (vv.6-8), ma anche l’apice della seconda frase dell’inno (vv9-11). “Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome” (v9). Gesù riceve il Nome che è al di sopra di ogni nome: il nome “Signore” è il nome di Dio! Dire che Gesù è Signore significa dire che è Dio: nell’Antico Testamento il titolo di Signore era riservato a Dio come pure la genuflessione. Quando Paolo dice: “Perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi”… allude a una frase del profeta Isaia: “Davanti a me si piegherà ogni ginocchio e ogni lingua presterà giuramento” (Is 45,23). L’inno si conclude con “ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore, a gloria di Dio Padre” (v.11): vedendo Cristo portare l’amore al suo culmine, accettando di morire per rivelare fino a dove arriva l’amore di Dio, possiamo dire come il centurione: «Davvero costui era Figlio di Dio»… perché Dio è amore.

 

*Dal Vangelo secondo Giovanni (3, 13 – 17)

La prima sorpresa di questo testo è che Gesù parla della croce con un linguaggio positivo, potremmo dire «glorioso»: da una parte, usa il termine “innalzato” – “bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo” (v.14) – e poi questa croce che ai nostri occhi è strumento di supplizio e di dolore, viene presentata come prova dell’amore di Dio: “Dio ha tanto amato il mondo” (v17). Come può lo strumento di tortura di un innocente essere glorioso? E qui sta la seconda sorpresa: il richiamo al serpente di bronzo. Gesù utilizza questa immagine perché era allora ben conosciuta. Nella prima Lettura si parla ampiamente di questo evento nel deserto del Sinai durante l’Esodo, al seguito di Mosè. Gli Ebrei assaliti da serpenti velenosi e, non avendo la coscienza tranquilla perché avevano mormorato, sono convinti che ciò sia una punizione del Dio di Mosè. Supplicano Mosè di intercedere e Mosè riceve il comando di fissare un serpente ardente (cioè velenoso) sopra un’asta: chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita (Nm 21, 7-9). Se a prima vista, sembra pura magia, in realtà, è esattamente il contrario. Mosè trasforma quello che fino ad allora era un atto magico in un atto di fede. Gesù riprende questo episodio parlando di sé: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”(vv14-15). Se nel deserto, bastava guardare con fede verso il Dio dell’Alleanza per essere guariti fisicamente, ora occorre guardare con fede Cristo in croce per ottenere la guarigione interiore. Come spesso avviene nel vangelo di Giovanni, ritorna il tema della fede: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”(v.17).  Quando Gesù mette in parallelo il serpente di bronzo innalzato nel deserto e la sua elevazione sulla croce, manifesta anche il salto straordinario che esiste tra Antico e Nuovo Testamento. Gesù porta tutto a compimento, ma in lui tutto assume una dimensione nuova. Nel deserto era interessato solo il popolo dell’Alleanza; ora, in lui, è l’umanità intera a essere invitata a credere per avere la vita: ben due volte Gesù ripete che “chiunque crede in lui avrà la vita eterna”. Inoltre, non si tratta più solo di guarigione esteriore, ma della trasformazione profonda dell’uomo. Al momento della crocifissione, Giovanni scrive: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37), citando il profeta Zaccaria che aveva scritto: “In quel giorno effonderò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di supplica; essi guarderanno a me, colui che hanno trafitto” (Zc 12,10). Questo “spirito di grazia e supplica” è l’opposto delle mormorazioni del deserto: l’uomo ora finalmente è convinto dell’amore di Dio per lui.  Ci sono dunque due modi di guardare la croce di Cristo: come segno dell’odio e della crudeltà degli uomini, ma soprattutto come l’emblema della mitezza e del perdono di Cristo che accetta la croce per mostrarci fino a che punto arriva l’amore di Dio per l’umanità. La croce è il luogo stesso della rivelazione dell’amore di Dio: “Chi ha visto me ha visto il Padre”(Gv14,9) aveva detto Gesù a Filippo. Cristo crocifisso mostra la tenerezza di Dio, malgrado l’odio degli uomini. Ecco perché possiamo dire che la croce è gloriosa: perché è il luogo in cui si manifesta l’amore perfetto, cioè Dio stesso, un Dio abbastanza grande da farsi piccolo per  condividere la vita degli uomini malgrado incomprensioni e odio: non fugge davanti ai suoi carnefici e perdona dall’alto della Croce. Chi accetta di cadere in ginocchio davanti a tale grandezza viene trasformato per sempre: “A quanti però lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome” (Gv 1,12).

+ Giovanni D’Ercole

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don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

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The ancient priest stagnates, and evaluates based on categories of possibilities; reluctant to the Spirit who moves situations
Il sacerdote antico ristagna, e valuta basando su categorie di possibilità; riluttante allo Spirito che smuove le situazioni
«Even through Joseph’s fears, God’s will, his history and his plan were at work. Joseph, then, teaches us that faith in God includes believing that he can work even through our fears, our frailties and our weaknesses. He also teaches us that amid the tempests of life, we must never be afraid to let the Lord steer our course. At times, we want to be in complete control, yet God always sees the bigger picture» (Patris Corde, n.2)
«Anche attraverso l’angustia di Giuseppe passa la volontà di Dio, la sua storia, il suo progetto. Giuseppe ci insegna così che avere fede in Dio comprende pure il credere che Egli può operare anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza. E ci insegna che, in mezzo alle tempeste della vita, non dobbiamo temere di lasciare a Dio il timone della nostra barca. A volte noi vorremmo controllare tutto, ma Lui ha sempre uno sguardo più grande» (Patris Corde, n.2)
Man is the surname of God: the Lord in fact takes his name from each of us - whether we are saints or sinners - to make him our surname (Pope Francis). God's fidelity to the Promise is realized not only through men, but with them (Pope Benedict).
L’uomo è il cognome di Dio: il Signore infatti prende il nome da ognuno di noi — sia che siamo santi, sia che siamo peccatori — per farlo diventare il proprio cognome (Papa Francesco). La fedeltà di Dio alla Promessa si attua non soltanto mediante gli uomini, ma con loro (Papa Benedetto)
In the communities of Galilee and Syria the pagans quickly became a majority - elevated to the rank of sons. They did not submit to nerve-wracking processes, but spontaneously were recognizing the Lord
Nelle comunità di Galilea e Siria i pagani diventavano rapidamente maggioranza - elevati al rango di figli. Essi non si sottoponevano a trafile snervanti, ma spontaneamente riconoscevano il Signore
And thus we must see Christ again and ask Christ: “Is it you?” The Lord, in his own silent way, answers: “You see what I did, I did not start a bloody revolution, I did not change the world with force; but lit many I, which in the meantime form a pathway of light through the millenniums” (Pope Benedict)
E così dobbiamo di nuovo vedere Cristo e chiedere a Cristo: “Sei tu?”. Il Signore, nel modo silenzioso che gli è proprio, risponde: “Vedete cosa ho fatto io. Non ho fatto una rivoluzione cruenta, non ho cambiato con forza il mondo, ma ho acceso tante luci che formano, nel frattempo, una grande strada di luce nei millenni” (Papa Benedetto)
Experts in the Holy Scriptures believed that Elijah's return should anticipate and prepare for the advent of the Kingdom of God. Since the Lord was present, the first disciples wondered what the value of that teaching was. Among the people coming from Judaism the question arose about the value of ancient doctrines…
Gli esperti delle sacre Scritture ritenevano che il ritorno di Elia dovesse anticipare e preparare l’avvento del Regno di Dio. Poiché il Signore era presente, i primi discepoli si chiedevano quale fosse il valore di quell’insegnamento. Tra i provenienti dal giudaismo sorgeva il quesito circa il peso delle dottrine antiche...
Gospels make their way, advance and free, making us understand the enormous difference between any creed and the proposal of Jesus

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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