Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Pienezza di opere minime e belle, non picciole e baby
(Mt 5,13-16)
«Opere Belle» [che esprimono pienezza] sono le opere buone, arricchite dallo splendore del disinteresse, dell’ascolto, dell’ospitalità, della preghiera e del dialogo umili, della fraternità cordiale.
Il termine plurale (v.16) indica - al di là di capacità e circostanze - la nostra vocazione a reinterpretare in modo personale l’Autoritratto del Cristo impresso nelle Beatitudini appena proclamate (vv.1-12).
Il tema del brano è quello della fedeltà che integra e vince l’incostanza - e la necessità di suggellare l'amore col rischio, che ci rende autentici [ultima Beatitudine: vv.10-12].
Il Signore ha una sorprendente fiducia, perché il suo Disegno è farsi sapore e orientamento di fondo nella storia degli uomini - non solo “in favore di tutti”, ma per ciascuno (anche giudicato trascurabile).
Certo, unicamente Gesù è l’Amen liturgico: icona d’umanità colmata, coerenza di dedizione, il Sì e la definitività delle Promesse.
Ma la sua vicenda è stata sempre contromano rispetto alla mentalità corrente.
Perciò anche noi - forse “visti” inadeguati - possiamo incarnare un cammino dove sorge Vangelo non solo comune, quindi “a metà”.
Abbiamo ciascuno un ruolo insostituibile nei momenti di rottura d’equilibrio ed Esodo.
Siamo legittimati senza condizioni.
Dio ha rispetto per le carenze e le funzioni che mancano: chissà quali novità beate nascondono e stanno preparando.
Nel commento al Tao (ii) il maestro Ho-shang Kung afferma:
«Il ch’i originario dà vita a tutte le creature e non se ne appropria» ossia non torna indietro, non conferisce l’ordine antico, retrivo e fisso. Non corre ai ripari; piuttosto dà una carica - non parziale, bensì vitale e illuminante.
Certo, è propriamente nelle cose di consumo che sta il continuo cambiare: questo confonde l’idea religiosa convenzionale.
Ma il fatto che la nostra Vocazione sia: essere e divenire sempre più Fonte di Vita come il Padre, e segni di Alleanza tra Cielo e terra (con pari dignità del Figlio) valorizza ogni piccolo elemento divino in noi, o che promuoviamo nei fratelli.
Non possiamo sottrarci alla nostra essenza, e lo facciamo con passione - non per ferrea volontà di “dover essere” «sale» e «luce» secondo opinione.
Così, invece di smaniare per tornare a funzionare come tutti o come prima, inizieremo a rispettare i nostri e altrui ripiegamenti dell’anima.
Nelle sue pause e domande di senso essa sta covando il futuro del Regno.
Al tempo di Gesù le fiamme si ottenevano dai grassi: spegnere una lampada col soffio significava riempire la Casa di miasmi nauseabondi.
Così capita nella Chiesa volontarista e poco attenta, quando vi è un eccesso di dirigismo che non rispetta la dignità vocazionale irripetibile - sostituita dalle maniere.
Ogni filo d’erba dà il suo nitido contributo a rendere verde il campo; non per questo si sente arginato - né può venire spento e ridotto, dal contesto pretenzioso e appariscente, che rischierebbe di alterarlo.
Le Beatitudini hanno una loro fragranza, ma tutta personale: invano se ne attenuerebbe l’aroma aggiungendo panna ordinaria, che edulcora le varie pietanze (ma ne accomuna i picchi). O zucchero filato, più adatto a sagre di castagnole, nacchere e petardi, e festival d’avanspettacolo.
Il loro «sale» combatte l’insignificante delle speranze fatue o altrui (besciamelle di parvenza). Introduce una saggezza interna e sapida nel mondo dei contorni, delle insalate, dei caroselli e delle insulsaggini.
I figli guardano lontano, ma stanno con la “pasta”... restando un richiamo vivente: tra Dio e l’uomo [che è se stesso anche nella fraternità] c’è un legame inviolabile.
Infatti, «Luce» è quanto non si mescola con le cose, bensì le distingue.
Ciò significa che senza troppi complimenti il discernimento spirituale va strappato dalle grinfie di coloro che per quietismo e non procurare fastidi ai compiacenti del potere, mitigano e adattano, anzi nascondono il Vangelo - lo rendono una nenia.
Il passo parallelo di Lc 11,33 si dà pensiero dell’accoglienza dei pagani: fare «luce» a chi entra nella Casa.
Mt è preoccupato anzitutto di quanti già vi dimorano: il cui peso specifico e vita di relazione fondata sulla convivialità delle differenze deve farsi Luce in sé - per consentire a tutti di comprendere la diversità fra germi di morte e binari di Vita completa.
Gli israeliti si ritenevano «Luce del mondo» per la loro devozione e la pratica religiosa impeccabile.
Mi raccontava un grande parroco romano che una delle cose che lo avevano colpito nei suoi viaggi in USA era stato vedere troppe cittadelle cattoliche sulla cima di alture, ben visibili all’occhio ma altrettanto palesemente munite di tutto - quindi staccate, in grado di provvedere a se stesse, chiuse al confronto con la vita reale urbana di oggi.
Impostazione diametralmente opposta a quella di molte realtà comunitarie evangelicali, meno appariscenti - senza la pretesa di attirare per bellezza esteriore. Mischiate nel tessuto cittadino; per questo in grado di gettare luce nei risvolti della vita quotidiana di gente in ricerca d’un rapporto personale e reale con Dio Padre.
Per Gesù il fedele e la Comunità sono «Luce» perché camminano nella gloria amicale del Maestro.
Egli resta Agnello sgozzato che si fa alimento disponibile, e non suscita impressioni di magnificenza o clamore; non si chiude in fortilizi, né terrorizza.
Il discepolo e l’Assemblea sono «Sale» perché appaiono nel mondo in qualsiasi circostanza come coloro che gli danno senso, Sapienza [dal latino sapĕre, avere sapore].
Siamo chiamati a farci segno d’un Patto nuovo, perché l'inattesa Relazione del Monte che il Figlio propone non poteva più essere contenuta nella Prima Alleanza.
Alle antiche esigenze di purificazione Cristo sostituisce quelle della fraternità piena, la quale nella valorizzazione di ogni persona dona gusto e (appunto) sapore, e si fa lampada ai nostri passi.
Questo “secondo Patto” non schiaccia il popolo credente.
L’inclinazione a dipanare la propria evoluzione divenendo protagonisti per Nome della Nuova Intesa trasmetterà illuminazione e fragranza al cammino.
In tal guisa ci lasceremo plasmare, cedendo al nostro Nucleo che vuole crescere, esprimersi, dare spazio ai lati ancora in ombra.
Segni di un Padre che recupera e infonde orientamenti al sentiero individuale e delle Chiese - non dall’esterno, bensì a partire dalle nostre radici e a mo’ di fermento.
Diventiamo Beltà vivente grazie a un’attività pur imperfetta ma che ha il suo influsso sulla fioritura, da dentro.
Preservando così le persone dal disfacimento della disumanizzazione e corruzione - come il «sale» coi cibi.
Infatti, se non rettamente inteso grazie al salto di qualità della Fede-amore, anche il senso religioso può incanalare la donna e l’uomo su mille rivoli d’astuzie…
Verso una decomposizione della saggezza, e frettolosità schematiche, disincarnate, insipide - nonché purtroppo nebbia indistinta.
«Sale e Luce» sono ogni piccolo elemento divino già in noi. Così qualsiasi sforzo per il bello, il solido e vario, non andrà perduto - sebbene ridotto, e minore: ha un suo Mistero e Appello.
Certo, anche nella religione tradizionale non si disconosce il valore delle cose esigue, le quali però restano piccoline e fisse - senza balzi.
In un clima ove vige il «Ne quid nimis» [nulla di eccessivo] le condizioni sommarie sembrano tutte protese a confermare il sistema delle cose e dei ruoli.
La cappa dei costumi snerva i picchi, relega la personalità dei semplici in ambiti ristretti, irrisori, che li sollecitano a investire energie su vacui aspetti infantili.
Le idiozie di alcuni dettagli poi stanno sempre lì, e comprimono l’evoluzione.
Nell’esperienza di Fede non disprezziamo il benché minimo apporto alla costruzione d’un Regno alternativo a quello attuale - talora sì accorpante, ma su stupidaggini e passerelle in palese disfacimento, e tanfo.
Le nostre candeline possono continuare a diradare le tenebre, ma solo fino a quando non le porremo sotto un «moggio» (v.15), ossia non molleremo, per metterle sotto pedissequa «misura» - che non sia quella differente, propulsiva e sempre inedita delle Beatitudini.
In Cristo veniamo guidati a un salto evolutivo: siamo Sapidità pur minuta delle cose, e Luci limitate, sì - ma non inibite, né picciole e “baby”.
La vita di Fede guida e stimola l’edificazione di un regno di Sapore e Amore personali, senza isterismi né intime dissociazioni.
Tale avventura si configura come Nuova Alleanza tra anima, realtà, mondo globale e locale, segni del tempo e Mistero.
Luce di Libertà che coincide con la nostra Vocazione per Nome. Energia intelligente che sa trarre vita alternativa anche dalle ferite inferte.
Il sale impazzito della religione senza Fede: trattarsi da malati
(Mt 5,13)
Una delle possibili traduzioni dal greco dell’espressione al v.13 [forse la più plausibile] è: «se il sale impazzisce».
Perché impazzisce? Si riferisce alla sintonia personale nei confronti del Patto divino che c’inabita e cui non vogliamo lasciare spazio, malgrado sarebbe davvero appagante.
Tutto ciò perché abituati a vivere e nutrirci di atteggiamenti esterni.
L’Alleanza vorrebbe guidare la nostra barchetta anche nel tempo della ripartenza dalle tragedie che bloccano il mondo, ma viene resa faticosa dalla recita dei copioni - da ciò che si “deve fare” secondo le idee di prima, e la routine.
È questa di Mt 5,13 la stessa espressione dell’uomo «pazzo» (Mt 7,26) che costruisce la casa non sulla Roccia [della Libertà che coincide con la sua Chiamata].
Egli “edifica” anche realtà appariscenti, ma su elementi instabili e come talora vediamo fragili, privi di consistenza - quindi senza fondare in modo solido. Piuttosto, secondo riflesso di pensieri tramandati, o di calcolo e fantasia; eccessivamente sofisticati.
Si tratta anche dell’annoso distacco fra devozione rituale e vita concreta, che la comunità cristiana purtroppo talora dimostra di fronte a un mondo il quale attende risposte su bisogni che toccano, e urgenti speranze (non quelle di “gregge” che sotto sotto non ci piacciono affatto).
Invece qua e là si vorrebbe ricostruire tutto come “dovrebbe essere” e come prima… In tal modo si continuerebbe spensieratamente ad andare dietro cose ora inutili, trascurando la nuova realtà e l’essenza dei caratteri.
Inclinazioni embrionali e genuine che vorrebbero dare peso alle risorse nascoste, calate nel nostro essere cosmico di creature e nelle tendenze personali più fragranti.
Potenze interne che sbloccano le situazioni.
Il comportamento di chi ha fatto il callo all’Ascolto - e smania non per celebrare la Presenza del Signore e vivere intensamente la Fede ma per tornare a “messa” e negli antichi contenitori - non dev’essere tanto palesemente vuoto, doppio, formale e disinteressato; così apertamente contraddittorio rispetto all’Appello autentico, cui lo stesso credente proclama enfaticamente di credere.
C’è un Mistero da seguire, che sta conducendo a una diversa unicità. E vuol trarre vita alternativa - davvero nostra - proprio dalle ferite inferte.
Niente da fare: permangono stabilmente in agguato proprio le lacerazioni di fondo - quelle procurate da chi vorrebbe impegnarsi nella testimonianza critica, ma non rinasce nelle opportunità uniche... e si ritrova costantemente preda d’idee costruite, invece che ispirato (e nella sua energia intelligente).
Nell’espressione del «sale che impazzisce» l’autore evoca una sorta di scissione interiore, radicale, propria dell’anima personale e dell’Altrove sconosciuto che saremmo chiamati finalmente ad accogliere, invece di contrapporsi.
Il Segreto che si annida nel presente, infatti, può finire per essere calpestato da fattori esterni, come ad es. le aspettative istituzionali, le quali non lasciano spazio alla rivoluzione di abitudini e mète.
Una fra tutte: quella preziosissima di costruire una chiesa orante in ogni abitazione.
Anche nella vita spirituale, spesso vogliamo essere uguali a modelli devoti che abbiamo in mente, o più forti (forse per assomigliare alle nostre guide).
Pensieri che non convincono né lanciano il cuore. E in realtà diventano blocchi vocazionali, inibitori della virtù primordiale che ci appartiene - convincendo, smuoverebbe oltre.
Cristo chiama a prendere atto della nostra unicità svincolata, ed eccentricità imprevedibile - unico fattore di ripresa.
Eccezionalità che per Lui non è un disturbo, ma autentica risorsa.
Non sappiamo come vorrà guidarci e dove ci farà finire; quali nuove ere (che apriranno Altro, e non sappiamo) lascerà godere, procedendo nell’avventura delle Beatitudini appena proclamate (vv.1-12).
È la differenza sperimentale profonda tra religiosità e Fede.
Quest’ultima ci corrisponde perché amabile nell’intimo. Essa non ha uno sguardo pessimista sulla marea della vita.
Punta sulla perfezione innata dei nostri modi di essere, pur singolari e imprevisti.
Insomma:
Non siamo persone da curare. In ordine alla vocazione, ciascuno di noi è già misteriosamente dotato e perfetto.
Affidandosi sul serio alla Chiamata per Nome invece che alle identificazioni che plagiano e lasciano rimuginare invano, giungeremo a pienezza di essere.
L’età dell’oro coinciderà con il tempo delle esperienze che fanno sentire vivi completamente.
Persino i momenti di vuoto serviranno a rigenerarci e spostare ottica. Ci renderemo conto che non manca nulla.
Invece, affidando la nostra vicenda all’idea beghina delle perfezioni e vecchie situazioni da riconquistare, moltiplicando propositi con attese che non ci riguardano, riusciremo solo a frantumarci.
In tal guisa mai ci sentiremo appagati per la crescita del senso d’immenso nel nostro essere e sviluppo particolari.
I grandi Modelli (che poi tradiscono) costringono alla critica e all’ansia delle rincorse - a trattare noi stessi come fossimo dei malati: pieni di screzi dentro l’anima e tormenti nella mente.
È la pazzia dell’ovvietà, che attraverso una quiete conformista o un dispendio pazzesco di energie promette di prendere possesso di chissà cosa, ma non fa il balzo germinale della vita di Fede.
Fiducia sponsale e gesto creativo che vuole accogliere tutto: stati di disagio, aspetti in ombra, maree nascenti - e dilatare Felicità.
Lumen Fidei
1. La luce della fede: con quest’espressione, la tradizione della Chiesa ha indicato il grande dono portato da Gesù, il quale, nel Vangelo di Giovanni, così si presenta: « Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre » (Gv 12,46). Anche san Paolo si esprime in questi termini: « E Dio, che disse: "Rifulga la luce dalle tenebre", rifulge nei nostri cuori » (2 Cor 4,6). Nel mondo pagano, affamato di luce, si era sviluppato il culto al dio Sole, Sol invictus, invocato nel suo sorgere. Anche se il sole rinasceva ogni giorno, si capiva bene che era incapace di irradiare la sua luce sull’intera esistenza dell’uomo. Il sole, infatti, non illumina tutto il reale, il suo raggio è incapace di arrivare fino all’ombra della morte, là dove l’occhio umano si chiude alla sua luce. « Per la sua fede nel sole — afferma san Giustino Martire — non si è mai visto nessuno pronto a morire ». Consapevoli dell’orizzonte grande che la fede apriva loro, i cristiani chiamarono Cristo il vero sole, « i cui raggi donano la vita ». A Marta, che piange per la morte del fratello Lazzaro, Gesù dice: « Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio? » (Gv 11,40). Chi crede, vede; vede con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché viene a noi da Cristo risorto, stella mattutina che non tramonta.
Una luce illusoria?
2. Eppure, parlando di questa luce della fede, possiamo sentire l’obiezione di tanti nostri contemporanei. Nell’epoca moderna si è pensato che una tale luce potesse bastare per le società antiche, ma non servisse per i nuovi tempi, per l’uomo diventato adulto, fiero della sua ragione, desideroso di esplorare in modo nuovo il futuro. In questo senso, la fede appariva come una luce illusoria, che impediva all’uomo di coltivare l’audacia del sapere. Il giovane Nietzsche invitava la sorella Elisabeth a rischiare, percorrendo « nuove vie…, nell’incertezza del procedere autonomo ». E aggiungeva: « A questo punto si separano le vie dell’umanità: se vuoi raggiungere la pace dell’anima e la felicità, abbi pur fede, ma se vuoi essere un discepolo della verità, allora indaga ». Il credere si opporrebbe al cercare. A partire da qui, Nietzsche svilupperà la sua critica al cristianesimo per aver sminuito la portata dell’esistenza umana, togliendo alla vita novità e avventura. La fede sarebbe allora come un’illusione di luce che impedisce il nostro cammino di uomini liberi verso il domani.
3. In questo processo, la fede ha finito per essere associata al buio. Si è pensato di poterla conservare, di trovare per essa uno spazio perché convivesse con la luce della ragione. Lo spazio per la fede si apriva lì dove la ragione non poteva illuminare, lì dove l’uomo non poteva più avere certezze. La fede è stata intesa allora come un salto nel vuoto che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco; o come una luce soggettiva, capace forse di riscaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune per rischiarare il cammino. Poco a poco, però, si è visto che la luce della ragione autonoma non riesce a illuminare abbastanza il futuro; alla fine, esso resta nella sua oscurità e lascia l’uomo nella paura dell’ignoto. E così l’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande, per accontentarsi delle piccole luci che illuminano il breve istante, ma sono incapaci di aprire la strada. Quando manca la luce, tutto diventa confuso, è impossibile distinguere il bene dal male, la strada che porta alla mèta da quella che ci fa camminare in cerchi ripetitivi, senza direzione.
Una luce da riscoprire
4. È urgente perciò recuperare il carattere di luce proprio della fede, perché quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore. La luce della fede possiede, infatti, un carattere singolare, essendo capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo. Perché una luce sia così potente, non può procedere da noi stessi, deve venire da una fonte più originaria, deve venire, in definitiva, da Dio. La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita. Trasformati da questo amore riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro. La fede, che riceviamo da Dio come dono soprannaturale, appare come luce per la strada, luce che orienta il nostro cammino nel tempo. Da una parte, essa procede dal passato, è la luce di una memoria fondante, quella della vita di Gesù, dove si è manifestato il suo amore pienamente affidabile, capace di vincere la morte. Allo stesso tempo, però, poiché Cristo è risorto e ci attira oltre la morte, la fede è luce che viene dal futuro, che schiude davanti a noi orizzonti grandi, e ci porta al di là del nostro "io" isolato verso l’ampiezza della comunione. Comprendiamo allora che la fede non abita nel buio; che essa è una luce per le nostre tenebre. Dante, nella Divina Commedia, dopo aver confessato la sua fede davanti a san Pietro, la descrive come una "favilla, / che si dilata in fiamma poi vivace / e come stella in cielo in me scintilla". Proprio di questa luce della fede vorrei parlare, perché cresca per illuminare il presente fino a diventare stella che mostra gli orizzonti del nostro cammino, in un tempo in cui l’uomo è particolarmente bisognoso di luce.
(Lumen Fidei)
In tutte le chiese, nelle cattedrali e nei conventi, dovunque si radunano i fedeli per la celebrazione della Veglia pasquale, la più santa di tutte le notti è inaugurata con l’accensione del cero pasquale, la cui luce viene poi trasmessa a tutti i presenti. Una minuscola fiamma irradia in tanti luci ed illumina la casa di Dio al buio. In tale meraviglioso rito liturgico, che abbiamo imitato in questa veglia di preghiera, si svela a noi, attraverso segni più eloquenti delle parole, il mistero della nostra fede cristiana. Lui, Cristo, che dice di se stesso: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12), fa brillare la nostra vita, perché sia vero ciò che abbiamo appena ascoltato nel Vangelo: “Voi siete la luce del mondo” (Mt 5,14). Non sono i nostri sforzi umani o il progresso tecnico del nostro tempo a portare luce in questo mondo. Sempre di nuovo facciamo l’esperienza che il nostro impegno per un ordine migliore e più giusto incontra i suoi limiti. La sofferenza degli innocenti e, infine, la morte di ogni uomo costituiscono un buio impenetrabile che può forse essere rischiarato per un momento da nuove esperienze, come da un fulmine nella notte. Alla fine, però, rimane un’oscurità angosciante.
Intorno a noi può esserci il buio e l’oscurità, e tuttavia vediamo una luce: una piccola fiamma, minuscola, che è più forte del buio apparentemente tanto potente ed insuperabile. Cristo, che è risorto dai morti, brilla in questo mondo, e lo fa nel modo più chiaro proprio là dove secondo il giudizio umano tutto sembra cupo e privo di speranza. Egli ha vinto la morte – Egli vive – e la fede in Lui penetra come una piccola luce tutto ciò che è buio e minaccioso. Chi crede in Gesù, certamente non vede sempre soltanto il sole nella vita, quasi che gli possano essere risparmiate sofferenze e difficoltà, ma c’è sempre una luce chiara che gli indica una via, la via che conduce alla vita in abbondanza (cfr Gv 10,10). Gli occhi di chi crede in Cristo scorgono anche nella notte più buia una luce e vedono già il chiarore di un nuovo giorno.
La luce non rimane sola. Tutt’intorno si accendono altre luci. Sotto i loro raggi si delineano i contorni dell’ambiente così che ci si può orientare. Non viviamo da soli nel mondo. Proprio nelle cose importanti della vita abbiamo bisogno di altre persone. Così, in modo particolare, nella fede non siamo soli, siamo anelli della grande catena dei credenti. Nessuno arriva a credere se non è sostenuto dalla fede degli altri e, d’altra parte, con la mia fede contribuisco a confermare gli altri nella loro fede. Ci aiutiamo a vicenda ad essere esempi gli uni per gli altri, condividiamo con gli altri ciò che è nostro, i nostri pensieri, le nostre azioni, il nostro affetto. E ci aiutiamo a vicenda ad orientarci, ad individuare il nostro posto nella società.
Cari amici, “Io sono la luce del mondo – Voi siete la luce del mondo”, dice il Signore. È una cosa misteriosa e grandiosa che Gesù dica di se stesso e di tutti noi insieme la medesima cosa, e cioè di “essere luce”. Se crediamo che Egli è il Figlio di Dio che ha guarito i malati e risuscitato i morti, anzi, che Egli stesso è risorto dal sepolcro e vive veramente, allora capiamo che Egli è la luce, la fonte di tutte le luci di questo mondo. Noi invece sperimentiamo sempre di nuovo il fallimento dei nostri sforzi e l’errore personale nonostante le nostre buone intenzioni. Il mondo in cui viviamo, nonostante il progresso tecnico, in ultima analisi, a quanto pare, non diventa più buono. Esistono tuttora guerre, terrore, fame e malattia, povertà estrema e repressione senza pietà. E anche quelli che nella storia si sono ritenuti “portatori di luce”, senza però essere stati illuminati da Cristo, l’unica vera luce, non hanno creato alcun paradiso terrestre, bensì hanno instaurato dittature e sistemi totalitari, in cui anche la più piccola scintilla di umanesimo è stata soffocata.
A questo punto non dobbiamo tacere il fatto che il male esiste. Lo vediamo, in tanti luoghi di questo mondo; ma lo vediamo anche – e questo ci spaventa – nella nostra stessa vita. Sì, nel nostro stesso cuore esistono l’inclinazione al male, l’egoismo, l’invidia, l’aggressività. Con una certa autodisciplina ciò forse è, in qualche misura, controllabile. E’ più difficile, invece, con forme di male piuttosto nascosto, che possono avvolgerci come una nebbia indistinta, e sono la pigrizia, la lentezza nel volere e nel fare il bene. Ripetutamente nella storia, persone attente hanno fatto notare che il danno per la Chiesa non viene dai suoi avversari, ma dai cristiani tiepidi. “Voi siete la luce del mondo“: solo Cristo può dire “Io sono la luce del mondo”. Tutti noi siamo luce solamente se stiamo in questo “voi”, che a partire dal Signore diventa sempre di nuovo luce. E come il Signore afferma circa il sale, in segno di ammonimento, che esso potrebbe diventare insipido, così anche nelle parole sulla luce ha inserito un lieve ammonimento. Anziché mettere la luce sul lampadario, si può coprirla con un moggio. Chiediamoci: quante volte copriamo la luce di Dio con la nostra inerzia, con la nostra ostinazione, così che essa non può risplendere, attraverso di noi, nel mondo?
Cari amici, l’apostolo san Paolo, in molte delle sue lettere, non teme di chiamare “santi” i suoi contemporanei, i membri delle comunità locali. Qui si rende evidente che ogni battezzato – ancor prima di poter compiere opere buone – è santificato da Dio. Nel Battesimo, il Signore accende, per così dire, una luce nella nostra vita, una luce che il catechismo chiama la grazia santificante. Chi conserva tale luce, chi vive nella grazia è santo.
Cari amici, ripetutamente l’immagine dei santi è stata sottoposta a caricatura e presentata in modo distorto, come se essere santi significasse essere fuori dalla realtà, ingenui e senza gioia. Non di rado si pensa che un santo sia soltanto colui che compie azioni ascetiche e morali di altissimo livello e che perciò certamente si può venerare, ma mai imitare nella propria vita. Quanto è errata e scoraggiante questa opinione! Non esiste alcun santo, fuorché la beata Vergine Maria, che non abbia conosciuto anche il peccato e che non sia mai caduto. Cari amici, Cristo non si interessa tanto a quante volte nella vita vacilliamo e cadiamo, bensì a quante volte noi, con il suo aiuto, ci rialziamo. Non esige azioni straordinarie, ma vuole che la sua luce splenda in voi. Non vi chiama perché siete buoni e perfetti, ma perché Egli è buono e vuole rendervi suoi amici. Sì, voi siete la luce del mondo, perché Gesù è la vostra luce. Voi siete cristiani – non perché realizzate cose particolari e straordinarie – bensì perché Egli, Cristo, è la vostra, nostra vita. Voi siete santi, noi siamo santi, se lasciamo operare la sua Grazia in noi.
Cari amici, questa sera, in cui ci raduniamo in preghiera attorno all’unico Signore, intuiamo la verità della parola di Cristo secondo la quale non può restare nascosta una città collocata sopra un monte. Questa assemblea brilla nei vari significati della parola – nel chiarore di innumerevoli lumi, nello splendore di tanti giovani che credono in Cristo. Una candela può dar luce soltanto se si lascia consumare dalla fiamma. Essa resterebbe inutile se la sua cera non nutrisse il fuoco. Permettete che Cristo arda in voi, anche se questo può a volte significare sacrificio e rinuncia. Non temete di poter perdere qualcosa e restare, per così dire, alla fine a mani vuote. Abbiate il coraggio di impegnare i vostri talenti e le vostre doti per il Regno di Dio e di donare voi stessi – come la cera della candela – affinché per vostro mezzo il Signore illumini il buio. Sappiate osare di essere santi ardenti, nei cui occhi e cuori brilla l’amore di Cristo e che, in questo modo, portano luce al mondo. Io confido che voi e tanti altri giovani qui in Germania siate fiaccole di speranza, che non restano nascoste. “Voi siete la luce del mondo”. “Dove c’è Dio, là c’è futuro!” Amen.
[Papa Benedetto, veglia a Friburgo 24 settembre 2011]
Carissimi giovani!
1. Nella mia memoria resta vivo il ricordo dei momenti straordinari che abbiamo vissuto insieme a Roma, durante il Giubileo dell'Anno 2000, allorché siete venuti in pellegrinaggio presso le tombe degli Apostoli Pietro e Paolo. In lunghe file silenziose avete varcato la Porta Santa e vi siete preparati a ricevere il sacramento della Riconciliazione; nella veglia serale e nella Messa del mattino a Tor Vergata avete poi vissuto un'esperienza spirituale ed ecclesiale intensa; rafforzati nella fede, avete fatto ritorno a casa con la missione che vi ho affidato: divenire, in quest'aurora del nuovo millennio, testimoni coraggiosi del Vangelo.
L'evento della Giornata Mondiale della Gioventù è diventato ormai un momento importante della vostra vita, come pure della vita della Chiesa. Vi invito dunque a cominciare a prepararvi alla XVII edizione di questo grande evento, che vedrà la sua celebrazione internazionale a Toronto, in Canada, nell'estate del prossimo anno. Sarà una nuova occasione per incontrare Cristo, rendere testimonianza della sua presenza nella società contemporanea e diventare costruttori della "civiltà dell'amore e della verità".
2. "Voi siete il sale della terra... voi siete la luce del mondo" (Mt 5,13-14): questo è il tema che ho scelto per la prossima Giornata Mondiale della Gioventù. Le due immagini del sale e della luce utilizzate da Gesù sono complementari e ricche di senso. Nell'antichità, infatti, sale e luce erano ritenuti elementi essenziali della vita umana.
"Voi siete il sale della terra...". Una delle funzioni primarie del sale, come ben si sa, è quella di condire, di dare gusto e sapore agli alimenti. Quest'immagine ci ricorda che, mediante il battesimo, tutto il nostro essere è stato profondamente trasformato, perché "condito" con la vita nuova che viene da Cristo (cfr Rm 6,4). Il sale, grazie al quale l'identità cristiana non si snatura, anche in un ambiente fortemente secolarizzato, è la grazia battesimale che ci ha rigenerati, facendoci vivere in Cristo e rendendoci capaci di rispondere alla sua chiamata ad "offrire i [nostri] corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio" (Rm 12,1). Scrivendo ai cristiani di Roma, san Paolo li esorta ad evidenziare chiaramente il loro modo diverso di vivere e di pensare rispetto ai contemporanei: "Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto" (Rm 12,2).
Per lungo tempo il sale è stato anche il mezzo abitualmente usato per conservare gli alimenti. Come sale della terra, siete chiamati a conservare la fede che avete ricevuto e a trasmetterla intatta agli altri. La vostra generazione è posta con particolare forza di fronte alla sfida di mantenere integro il deposito della fede (cfr 2 Ts 2,15; 1 Tm 6,20; 2 Tm 1,14).
Scoprite le vostre radici cristiane, imparate la storia della Chiesa, approfondite la conoscenza dell'eredità spirituale che vi è stata trasmessa, seguite i testimoni e i maestri che vi hanno preceduto! Solo restando fedeli ai comandamenti di Dio, all'Alleanza che Cristo ha suggellato con il suo sangue versato sulla Croce, potrete essere gli apostoli ed i testimoni del nuovo millennio.
È proprio della condizione umana e, in particolar modo, della gioventù, cercare l'Assoluto, il senso e la pienezza dell'esistenza. Cari giovani, nulla vi accontenti che stia al di sotto dei più alti ideali! Non lasciatevi scoraggiare da coloro che, delusi dalla vita, sono diventati sordi ai desideri più profondi e più autentici del loro cuore. Avete ragione di non rassegnarvi a divertimenti insipidi, a mode passeggere ed a progetti riduttivi. Se conservate grandi desideri per il Signore, saprete evitare la mediocrità e il conformismo, così diffusi nella nostra società.
3. "Voi siete la luce del mondo...". Per quanti da principio ascoltarono Gesù, come anche per noi, il simbolo della luce evoca il desiderio di verità e la sete di giungere alla pienezza della conoscenza, impressi nell'intimo di ogni essere umano.
Quando la luce va scemando o scompare del tutto, non si riesce più a distinguere la realtà circostante. Nel cuore della notte ci si può sentire intimoriti ed insicuri, e si attende allora con impazienza l'arrivo della luce dell'aurora. Cari giovani, tocca a voi essere le sentinelle del mattino (cfr Is 21, 11-12) che annunciano l'avvento del sole che è Cristo risorto!
La luce di cui Gesù ci parla nel Vangelo è quella della fede, dono gratuito di Dio, che viene a illuminare il cuore e a rischiarare l'intelligenza: "Dio che disse: «Rifulga la luce dalle tenebre», rifulse anche nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo" (2 Cor 4,6). Ecco perché le parole di Gesù assumono uno straordinario rilievo allorché spiega la sua identità e la sua missione: "Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita" (Gv 8,12).
L'incontro personale con Cristo illumina di luce nuova la vita, ci incammina sulla buona strada e ci impegna ad essere suoi testimoni. Il nuovo modo, che da Lui ci viene, di guardare al mondo e alle persone ci fa penetrare più profondamente nel mistero della fede, che non è solo un insieme di enunciati teorici da accogliere e ratificare con l'intelligenza, ma un'esperienza da assimilare, una verità da vivere, il sale e la luce di tutta la realtà (cfr Veritatis splendor, 88).
Nel contesto attuale di secolarizzazione, in cui molti dei nostri contemporanei pensano e vivono come se Dio non esistesse o sono attratti da forme di religiosità irrazionali, è necessario che proprio voi, cari giovani, riaffermiate che la fede è una decisione personale che impegna tutta l'esistenza. Il Vangelo sia il grande criterio che guida le scelte e gli orientamenti della vostra vita! Diventerete così missionari con i gesti e le parole e, dovunque lavoriate e viviate, sarete segni dell'amore di Dio, testimoni credibili della presenza amorosa di Cristo. Non dimenticate: "Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio" (Mt 5,15)!
Come il sale dà sapore al cibo e la luce illumina le tenebre, così la santità dà senso pieno alla vita, rendendola riflesso della gloria di Dio. Quanti santi, anche tra i giovani, annovera la storia della Chiesa! Nel loro amore per Dio hanno fatto risplendere le proprie virtù eroiche al cospetto del mondo, diventando modelli di vita che la Chiesa ha additato all'imitazione di tutti. Tra i molti basti ricordare: Agnese di Roma, Andreas di Phú Yên, Pedro Calungsod, Giuseppina Bakhita, Teresa di Lisieux, Pier Giorgio Frassati, Marcel Callo, Francisco Castelló Aleu o ancora Kateri Tekakwitha, la giovane irochese detta "il giglio dei Mohawks". Prego il Dio tre volte Santo che, per l'intercessione di questa folla immensa di testimoni, vi renda santi, cari giovani, i santi del terzo millennio!
4. Carissimi, è tempo di prepararsi per la XVII Giornata Mondiale della Gioventù. Vi rivolgo uno speciale invito a leggere e ad approfondire la Lettera apostolica Novo millennio ineunte, che ho scritto all'inizio dell'anno per accompagnare i battezzati in questa nuova tappa della vita della Chiesa e degli uomini: "Un nuovo secolo, un nuovo millennio si aprono alla luce di Cristo. Non tutti però vedono questa luce. Noi abbiamo il compito stupendo di esserne il «riflesso»" (n. 54).
Sì, è l'ora della missione! Nelle vostre diocesi e nelle vostre parrocchie, nei vostri movimenti, associazioni e comunità il Cristo vi chiama, la Chiesa vi accoglie come casa e scuola di comunione e di preghiera. Approfondite lo studio della Parola di Dio e lasciate che essa illumini la vostra mente ed il vostro cuore. Traete forza dalla grazia sacramentale della Riconciliazione e dell'Eucarestia. Frequentate il Signore in quel «cuore a cuore» che è l'adorazione eucaristica. Giorno dopo giorno, riceverete nuovo slancio che vi consentirà di confortare coloro che soffrono e di portare la pace al mondo. Sono tante le persone ferite dalla vita, escluse dallo sviluppo economico, senza un tetto, una famiglia o un lavoro; molte si perdono dietro false illusioni o hanno smarrito ogni speranza. Contemplando la luce che risplende sul volto di Cristo risorto, imparate a vostra volta a vivere come "figli della luce e figli del giorno" (1 Ts 5,5), manifestando a tutti che "il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità" (Ef 5,9).
5. Cari giovani amici, per tutti coloro che possono l'appuntamento è a Toronto! Nel cuore di una città multiculturale e pluriconfessionale diremo l'unicità di Cristo Salvatore e l'universalità del mistero di salvezza di cui la Chiesa è sacramento. Pregheremo per la piena comunione tra i cristiani nella verità e nella carità, rispondendo all'invito pressante del Signore che desidera ardentemente "che tutti siano una cosa sola" (Gv 17,11).
Venite a far risuonare nelle grandi arterie di Toronto l'annuncio gioioso di Cristo che ama tutti gli uomini e porta a compimento ogni segno di bene, di bellezza e di verità presente nella città umana. Venite a dire davanti al mondo la vostra gioia di aver incontrato Cristo Gesù, il vostro desiderio di conoscerlo sempre meglio, il vostro impegno di annunciarne il Vangelo di salvezza fino agli estremi confini della terra!
I vostri coetanei canadesi si preparano già ad accogliervi con calore e grande ospitalità, insieme ai loro Vescovi e alle Autorità civili. Per questo li ringrazio fin d'ora vivamente. Possa questa prima Giornata Mondiale dei Giovani all'inizio del terzo millennio trasmettere a tutti un messaggio di fede, di speranza e d'amore!
La mia benedizione vi accompagna, mentre a Maria, Madre della Chiesa, affido ciascuno di voi, la vostra vocazione e la vostra missione.
[Papa Giovanni Paolo II, messaggio per la GMG di Toronto 2002, da Castel Gandolfo 25 Luglio 2001]
Nel Vangelo di oggi (cfr Mt 5,13-16), Gesù dice ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra […]. Voi siete la luce del mondo» (vv. 13.14). Egli utilizza un linguaggio simbolico per indicare a quanti intendono seguirlo alcuni criteri per vivere la presenza e la testimonianza nel mondo.
Prima immagine: il sale. Il sale è l’elemento che dà sapore e che conserva e preserva gli alimenti dalla corruzione. Il discepolo è dunque chiamato a tenere lontani dalla società i pericoli, i germi corrosivi che inquinano la vita delle persone. Si tratta di resistere al degrado morale, al peccato, testimoniando i valori dell’onestà e della fraternità, senza cedere alle lusinghe mondane dell’arrivismo, del potere, della ricchezza. È “sale” il discepolo che, nonostante i fallimenti quotidiani – perché tutti noi ne abbiamo –, si rialza dalla polvere dei propri sbagli, ricominciando con coraggio e pazienza, ogni giorno, a cercare il dialogo e l’incontro con gli altri. È “sale” il discepolo che non ricerca il consenso e il plauso, ma si sforza di essere una presenza umile, costruttiva, nella fedeltà agli insegnamenti di Gesù che è venuto nel mondo non per essere servito, ma per servire. E di questo atteggiamento c’è tanto bisogno!
La seconda immagine che Gesù propone ai suoi discepoli è quella della luce: «Voi siete la luce del mondo». La luce disperde l’oscurità e consente di vedere. Gesù è la luce che ha fugato le tenebre, ma esse permangono ancora nel mondo e nelle singole persone. È compito del cristiano disperderle facendo risplendere la luce di Cristo e annunciando il suo Vangelo. Si tratta di una irradiazione che può derivare anche dalle nostre parole, ma deve scaturire soprattutto dalle nostre «opere buone» (v. 16). Un discepolo e una comunità cristiana sono luce nel mondo quando indirizzano gli altri a Dio, aiutando ciascuno a fare esperienza della sua bontà e della sua misericordia. Il discepolo di Gesù è luce quando sa vivere la propria fede al di fuori di spazi ristretti, quando contribuisce a eliminare i pregiudizi, a eliminare le calunnie, e a far entrare la luce della verità nelle situazioni viziate dall’ipocrisia e dalla menzogna. Fare luce. Ma non è la mia luce, è la luce di Gesù: noi siamo strumenti perché la luce di Gesù arrivi a tutti.
Gesù ci invita a non avere paura di vivere nel mondo, anche se in esso a volte si riscontrano condizioni di conflitto e di peccato. Di fronte alla violenza, all’ingiustizia, all’oppressione, il cristiano non può chiudersi in sé stesso o nascondersi nella sicurezza del proprio recinto; anche la Chiesa non può chiudersi in sé stessa, non può abbandonare la sua missione di evangelizzazione e di servizio. Gesù, nell’Ultima Cena, chiese al Padre di non togliere i discepoli dal mondo, di lasciarli, lì, nel mondo, ma di custodirli dallo spirito del mondo. La Chiesa si spende con generosità e tenerezza per i piccoli e i poveri: questo non è lo spirito del mondo, questo è la sua luce, è il sale. La Chiesa ascolta il grido degli ultimi e degli esclusi, perché è consapevole di essere una comunità pellegrina chiamata a prolungare nella storia la presenza salvifica di Gesù Cristo.
La Vergine Santa ci aiuti ad essere sale e luce in mezzo alla gente, portando a tutti, con la vita e la parola, la Buona Notizia dell’amore di Dio.
[Papa Francesco, Angelus 9 febbraio 2020]
Maria nella Chiesa, che genera i figli
(Gv 19,25-34)
Il breve passo di Vangelo ai vv.25-27 è forse il vertice artistico del racconto della Passione.
Nel quarto Vangelo la Madre appare due volte, alle nozze di Cana e ai piedi della Croce - entrambi episodi presenti solo in Gv.
Sia a Cana che ai piedi della Croce, la Madre è figura del resto d’Israele autenticamente sensibile e fedele.
Il popolo-sposa del Primo Testamento è come in attesa della reale Rivelazione: percepisce tutto il limite dell’idea antica di Dio, che ha ridotto e spento la gioia della festa nuziale tra il Padre e i suoi figli.
L’Israele autenticamente adorante ha suscitato il passaggio dalla religiosità alla Fede che opera, dalla legge antica al Nuovo Testamento.
Ai piedi della Croce viene generato un Regno alternativo.
Si formano padri e madri di un’umanità diversa, che proclamano la Lieta Notizia di Dio - stavolta in favore esclusivo di ogni uomo, in qualsiasi condizione si trovi.
Nell'intento teologico di Gv, le Parole di Gesù «Donna, ecco tuo figlio» ed «Ecco, la tua Madre» volevano aiutare a dirimere e armonizzare le forti tensioni che a fine primo secolo già contrapponevano le diverse correnti di pensiero sul Cristo.
Tra esse: Giudaizzanti; sostenitori del primato della fede sulle opere; Lassisti, che consideravano ormai Gesù anatema, intendendo soppiantarlo con una generica libertà di spirito senza storia.
A inizio secondo secolo Marcione rifiutò tutto il Primo Testamento e sembra apprezzasse solo una parte del Nuovo.
A coloro che ormai volevano prescindere dall’insegnamento dei ‘padri’, Gesù propone di far camminare insieme passato e novità.
Il discepolo amato, icona dell’autentico figlio di Dio [Parola-evento diffusa del Nuovo Testamento] deve ricevere la Madre, la cultura del popolo del Patto, a casa sua - ossia nella Chiesa nascente.
Eppure, anche se è nella comunità cristiana che si scopre il senso pieno di tutta la Scrittura, la Persona, la vicenda e la Parola di Cristo stesso non si comprendono né porteranno frutto concreto coi tanti sogni in avanti, senza la radice antica che lo ha generato.
Non bastano le sole proiezioni, che pur scuotono le prigioni mentali, spesso edifici di false certezze: il Seme non è nemico da combattere, ma virtù che viene dal profondo.
L’Alleanza è preziosa, dà l’autentica scossa alla vita. Così fioriscono nuovi rapporti famigliari: allora nasce la Chiesa.
E la Chiesa suscitata dal suo Signore rivelerà qualcosa di portentoso: la fecondità dalla nullità, la vita dall’effusione di essa, la nascita dall’apparente sterilità.
In Maria e nelle icone fedeli generate dal petto di Cristo - inscindibili nella Missione - l’intima cooperazione s’intensifica dei momenti di un’esistenza comunitaria umile e silenziosa.
Nel perfetto adorare l’identità-carattere del Crocifisso e nel movimento del dono di sé, incede la libertà del calarsi.
Se qualcuno si deposita, il nuovo avanzerà.
E anche il vecchio potrà riemergere, stavolta perenne. Perché ci sono altre Altezze. Perché ciò che rende intimi a Dio non è nulla di esterno.
Un fiume di sintonie impensate riallaccerà lo spirito umano dei credenti all’opera materna dello Spirito senza barriere.
In tal guisa, nel silenzio non ci opporremo ai disagi. Il corpo offeso parlerà, manifestando l’anima e colmando la vita, in un crescendo.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
In che modo entri nel ritmo di questo passo di Vangelo? In quale personaggio ti riconosci, o perché ti rivedi in tutti? Qual è in ciascuno di loro la tua misura, che doni al mondo?
[B.V. Maria Madre della Chiesa (lunedì dopo Pentecoste)]
Maria nella Chiesa, che genera i figli
(Gv 19,25-34)
Il breve passo di Vangelo ai vv.25-27 è forse il vertice artistico del racconto della Passione.
Nel quarto Vangelo la Madre appare due volte, alle nozze di Cana e ai piedi della Croce - entrambi episodi presenti solo in Gv.
Sia a Cana che ai piedi della Croce, la Madre è figura del resto d’Israele autenticamente sensibile e fedele.
Il popolo-sposa del Primo Testamento è come in attesa della reale Rivelazione: percepisce tutto il limite dell’idea antica di Dio, che ha ridotto e spento la gioia della festa nuziale tra il Padre e i suoi figli.
L’Israele autenticamente adorante ha suscitato il passaggio dalla religiosità alla Fede che opera, dalla legge antica al Nuovo Testamento.
Ai piedi della Croce viene generato un Regno alternativo.
Si formano padri e madri di un’umanità diversa, che proclamano la Lieta Notizia di Dio - stavolta in favore esclusivo di ogni uomo, in qualsiasi condizione si trovi.
Nell'intento teologico di Gv, le Parole di Gesù «Donna, ecco tuo figlio» ed «Ecco, la tua Madre» volevano aiutare a dirimere e armonizzare le forti tensioni che a fine primo secolo già contrapponevano le diverse correnti di pensiero sul Cristo.
Tra esse: Giudaizzanti; sostenitori del primato della fede sulle opere; Lassisti, che consideravano ormai Gesù anatema, intendendo soppiantarlo con una generica libertà di spirito senza storia.
A inizio secondo secolo Marcione rifiutò tutto il Primo Testamento e sembra apprezzasse solo una parte del Nuovo.
A coloro che ormai volevano prescindere dall’insegnamento dei ‘padri’, Gesù propone di far camminare insieme passato e novità.
Il discepolo amato, icona dell’autentico figlio di Dio [Parola-evento diffusa del Nuovo Testamento] deve ricevere la Madre, la cultura del popolo del Patto, a casa sua - ossia nella Chiesa nascente.
Eppure, anche se è nella comunità cristiana che si scopre il senso pieno di tutta la Scrittura, la Persona, la vicenda e la Parola di Cristo stesso non si comprendono né porteranno frutto concreto coi tanti sogni in avanti, senza la radice antica che lo ha generato.
Non bastano le sole proiezioni, che pur scuotono le prigioni mentali, spesso edifici di false certezze: il Seme non è nemico da combattere, ma virtù che viene dal profondo.
L’Alleanza è preziosa, dà l’autentica scossa alla vita. Così fioriscono nuovi rapporti famigliari: allora nasce la Chiesa.
E la Chiesa suscitata dal suo Signore rivelerà qualcosa di portentoso: la fecondità dalla nullità, la vita dall’effusione di essa, la nascita dall’apparente sterilità.
In Maria e nelle icone fedeli generate dal petto di Cristo - inscindibili nella Missione - l’intima cooperazione s’intensifica dei momenti di un’esistenza comunitaria umile e silenziosa.
Nel perfetto adorare l’identità-carattere del Crocifisso e nel movimento del dono di sé, incede la libertà del calarsi.
Se qualcuno si deposita, il nuovo avanzerà.
E anche il vecchio potrà riemergere, stavolta perenne. Perché ci sono altre Altezze. Perché ciò che rende intimi a Dio non è nulla di esterno.
Un fiume di sintonie impensate riallaccerà lo spirito umano dei credenti all’opera materna dello Spirito senza barriere.
Dice il Tao Tê Ching (xxii): «Se ti pieghi, ti conservi; Se ti curvi, ti raddrizzi; Se t’incavi, ti riempi; Se ti logori, ti rinnovi; Se miri al poco, ottieni; Se miri al molto, resti deluso. Per questo il santo preserva l’Uno [il massimo del poco], e diviene modello [porge la misura] al mondo. Non da sé vede, perciò è illuminato; non da sé s’approva, perciò splende; non da sé si gloria, perciò ha merito; non da sé s’esalta, perciò a lungo dura. Proprio perché non contende, nessuno al mondo può muovergli contesa. Quel che dicevano gli antichi: se ti pieghi ti conservi, erano forse parole vuote? In verità, integri tornavano».
In tal guisa, nel silenzio non ci opporremo ai disagi. Il corpo offeso parlerà, manifestando l’anima e colmando la vita, in un crescendo.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
In che modo entri nel ritmo di questo passo di Vangelo? In quale personaggio ti riconosci, o perché ti rivedi in tutti? Qual è in ciascuno di loro la tua misura, che doni al mondo?
Sangue Acqua: Corpo ancora squarciato
Sangue e Acqua: vita donata e vita trasmessa
(Gv 19,31-37)
La crudele dipartita del Signore non è una fine: inaugura la vita nuova, sebbene fra segni raccapriccianti e di morte vera.
Il Crocifisso salva: comunica una vita da salvati. Ci fa passare da un mondo all’altro: solo in tal senso la Pasqua antica coincide con la nuova.
La sua è una Liberazione e Redenzione che procede ben oltre le promesse rituali dei sacrifici propiziatori, e la religione delle purificazioni.
Il Sangue del Cristo è qui figura del Dono estremo d’Amore. L’Acqua dal medesimo costato trafitto è quella che viene assimilata e fa crescere.
Tale Amicizia sovreminente, donata e accolta, vince ogni forma di morte, perché offre un doppio principio di vita indistruttibile: accoglienza di una proposta sempre inedita, e crescita di onda in onda.
Così la festa di liberazione ebraica viene sostituita dalla Pasqua cristiana - e dai segni dei Sacramenti essenziali.
Nel corpo di Gesù e in quello degli uomini crocifissi al suo fianco, Gv vede la fraternità del Figlio col genere umano, anch’esso reso Santuario divino.
Morto Gesù, anche noi possiamo seguirlo [malfattori cui sono spezzate le gambe] perché nessuno può togliere la vita al Risorto, anche se poi cerca di farlo agli sventurati con Lui.
Infatti la ‘trafittura’ al Corpo di Cristo continua anche dopo la morte in Croce (v.34): l’ostilità nei suoi confronti non si placherà, anzi vuol annientarlo per sempre.
Ma dal suo Corpo squarciato [la Chiesa autentica] continuerà a sgorgare amore da vertigini e finalmente la gioia d’un banchetto festoso, come promesso sin dalle nozze di Cana.
La testimonianza dell’evangelista diventa solenne fondamento della Fede dei discepoli futuri. E la Fede soppianterà il giogo della religione già tutta redatta.
Così l’autore invita ciascuno di noi a scrivere un proprio Vangelo (Gv 20,30-31) nell’esperienza dei paradossi e della salvezza di Dio, che ci ha raggiunto a partire proprio dai nostri peccati o situazioni incerte.
I discepoli futuri sono proclamati Beati (Gv 20,29) proprio perché «non hanno visto» quello spettacolo con gli occhi.
Lo hanno però riconosciuto in se stessi e nel proprio andare - ripetutamente sperimentando nelle proprie debolezze il luogo della Misericordia.
Senso Materno, non Chiesa di zitelli
A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».
«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria».
«Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» — e in realtà «potevano dirlo» — ma sempre Maria «è madre».
«I padri della Chiesa hanno capito bene questo — ha affermato il Pontefice — e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».
«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa — ha fatto presente il Papa — possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».
«La Chiesa è “donna” — ha rilanciato Francesco — e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».
«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».
Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».
Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».
«San Paolo — l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato — ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».
«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».
[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 22/05/2018]
La Croce di Cristo è strumento della nostra salvezza, che ci rivela in pienezza la misericordia del nostro Dio. La Croce è, in effetti, il luogo in cui si manifesta in modo perfetto la compassione di Dio per il nostro mondo. Oggi, celebrando la memoria della Beata Vergine Addolorata, contempliamo Maria che condivide la compassione del Figlio per i peccatori. Come affermava san Bernardo, la Madre di Cristo è entrata nella Passione del Figlio mediante la sua compassione (cfr Omelia per la Domenica nell’Ottava dell’Assunzione). Ai piedi della Croce si realizza la profezia di Simeone: il suo cuore di Madre è trafitto (cfr Lc 2,35) dal supplizio inflitto all’Innocente, nato dalla sua carne. Come Gesù ha pianto (cfr Gv 11,35), così anche Maria ha certamente pianto davanti al corpo torturato del Figlio. La sua riservatezza, tuttavia, ci impedisce di misurare l’abisso del suo dolore; la profondità di questa afflizione è soltanto suggerita dal simbolo tradizionale delle sette spade. Come per il suo Figlio Gesù, è possibile affermare che questa sofferenza ha portato anche lei alla perfezione (cfr Eb 2, 10), così da renderla capace di accogliere la nuova missione spirituale che il Figlio le affida immediatamente prima di “emettere lo spirito” (cfr Gv 19,30): divenire la Madre di Cristo nelle sue membra. In quest’ora, attraverso la figura del discepolo amato, Gesù presenta ciascuno dei suoi discepoli alla Madre dicendole: “Ecco tuo figlio” (cfr Gv 19, 26-27).
Maria è oggi nella gioia e nella gloria della Risurrezione. Le lacrime versate ai piedi della Croce si sono trasformate in un sorriso che nulla ormai spegnerà, pur rimanendo intatta la sua compassione materna verso di noi. L’intervento soccorrevole della Vergine Maria nel corso della storia lo attesta e non cessa di suscitare verso di lei, nel Popolo di Dio, una confidenza incrollabile: la preghiera del Memorare (“Ricordati”) esprime molto bene questo sentimento. Maria ama ciascuno dei suoi figli, concentrando in particolare la sua attenzione su coloro che, come il Figlio suo nell’ora della Passione, sono in preda alla sofferenza; li ama semplicemente perché sono suoi figli, secondo la volontà di Cristo sulla Croce.
Il Salmista, intravedendo da lontano questo legame materno che unisce la Madre di Cristo e il popolo credente, profetizza a riguardo della Vergine Maria: “i più ricchi del popolo cercheranno il tuo sorriso” (Sal 44,13). Così, sollecitati dalla Parola ispirata della Scrittura, i cristiani da sempre hanno cercato il sorriso di Nostra Signora, quel sorriso che gli artisti, nel Medioevo, hanno saputo così prodigiosamente rappresentare e valorizzare. Questo sorriso di Maria è per tutti: esso tuttavia si indirizza in modo speciale verso coloro che soffrono, affinché in esso possano trovare conforto e sollievo. Cercare il sorriso di Maria non è questione di sentimentalismo devoto o antiquato; è piuttosto la giusta espressione della relazione viva e profondamente umana che ci lega a Colei che Cristo ci ha donato come Madre.
Desiderare di contemplare questo sorriso della Vergine non è affatto un lasciarsi dominare da una immaginazione incontrollata. La Scrittura stessa ci svela tale sorriso sulle labbra di Maria quando ella canta il Magnificat: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore” (Lc 1,46-47). Quando la Vergine Maria rende grazie al Signore, ci prende a suoi testimoni. Maria condivide, come per anticipazione, con i futuri figli che siamo noi la gioia che abita nel suo cuore, affinché tale gioia diventi anche nostra. Ogni proclamazione del Magnificat fa di noi dei testimoni del suo sorriso. Qui a Lourdes, nel corso dell’apparizione del 3 marzo 1858, Bernadette contemplò in maniera del tutto speciale questo sorriso di Maria. Fu questa la prima risposta che la Bella Signora diede alla giovane veggente che voleva conoscere la sua identità. Prima di presentarsi a lei, qualche giorno dopo, come “l’Immacolata Concezione”, Maria le fece conoscere innanzitutto il suo sorriso, quasi fosse questa la porta d’accesso più appropriata alla rivelazione del suo mistero.
Nel sorriso della più eminente fra tutte le creature, a noi rivolta, si riflette la nostra dignità di figli di Dio, una dignità che non abbandona mai chi è malato. Quel sorriso, vero riflesso della tenerezza di Dio, è la sorgente di una speranza invincibile. Lo sappiamo purtroppo: la sofferenza prolungata rompe gli equilibri meglio consolidati di una vita, scuote le più ferme certezze della fiducia e giunge a volte a far addirittura disperare del senso e del valore della vita. Vi sono combattimenti che l’uomo non può sostenere da solo, senza l’aiuto della grazia divina. Quando la parola non sa più trovare espressioni adeguate, s’afferma il bisogno di una presenza amorevole: cerchiamo allora la vicinanza non soltanto di coloro che condividono il nostro stesso sangue o che ci sono legati con i vincoli dell’amicizia, ma la vicinanza anche di coloro che ci sono intimi per il legame della fede. Chi potrebbe esserci più intimo di Cristo e della sua santa Madre, l’Immacolata? Più di chiunque altro, essi sono capaci di comprenderci e di cogliere la durezza del combattimento ingaggiato contro il male e la sofferenza. La Lettera agli Ebrei afferma, a proposito di Cristo, che egli non è incapace di “compatire le nostre debolezze, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa” (Eb 4,15). Vorrei dire, umilmente, a coloro che soffrono e a coloro che lottano e sono tentati di voltare le spalle alla vita: volgetevi a Maria! Nel sorriso della Vergine si trova misteriosamente nascosta la forza per proseguire il combattimento contro la malattia e in favore della vita. Presso di lei si trova ugualmente la grazia di accettare senza paura né amarezza il congedo da questo mondo, nell’ora voluta da Dio.
Quanto era giusta l’intuizione di quella bella figura spirituale francese che fu Dom Jean-Baptiste Chautard, il quale ne L’anima di ogni apostolato proponeva al cristiano fervoroso frequenti “incontri di sguardo con la Vergine Maria” ! Sì, cercare il sorriso della Vergine Maria non è un pio infantilismo; è l’ispirazione, dice il Salmo 44, di coloro che sono “i più ricchi del popolo”(v. 13). “I più ricchi”, s’intende, nell’ordine della fede, coloro che hanno la maturità spirituale più elevata e sanno per questo riconoscere la loro debolezza e la loro povertà davanti a Dio. In quella manifestazione molto semplice di tenerezza che è il sorriso, percepiamo che la nostra unica ricchezza è l’amore che Dio ha per noi e che passa attraverso il cuore di colei che è diventata nostra Madre. Cercare questo sorriso significa innanzitutto cogliere la gratuità dell’amore; significa pure saper suscitare questo sorriso col nostro impegno di vivere secondo la parola del suo Figlio diletto, così come il bambino cerca di suscitare il sorriso della madre facendo ciò che a lei piace. E noi sappiamo ciò che piace a Maria grazie alle parole che lei stessa rivolse ai servi di Cana: “Fate quello che vi dirà” (cfr Gv 2,5)
Il sorriso di Maria è una sorgente di acqua viva. “Chi crede in me, ha detto Gesù, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno” (Gv 7,38). Maria è colei che ha creduto e, dal suo seno, sono sgorgati fiumi d’acqua viva che vengono ad irrigare la storia degli uomini. La sorgente indicata, qui a Lourdes, da Maria a Bernadette è l’umile segno di questa realtà spirituale. Dal suo cuore di credente e di madre sgorga un’acqua viva che purifica e guarisce. Immergendosi nelle piscine di Lourdes, quanti sono coloro che hanno scoperto e sperimentato la dolce maternità della Vergine Maria, attaccandosi a lei per meglio attaccarsi al Signore! Nella sequenza liturgica di questa festa della Beata Vergine Addolorata, Maria è onorata sotto il titolo di “Fons amoris”, “Sorgente d’amore”. Dal cuore di Maria scaturisce, in effetti, un amore gratuito che suscita una risposta filiale, chiamata ad affinarsi senza posa. Come ogni madre, e meglio di ogni madre, Maria è l’educatrice dell’amore. E’ per questo che tanti malati vengono qui, a Lourdes, per dissetarsi a questa “Sorgente d’amore” e per lasciarsi condurre all’unica sorgente della salvezza, il Figlio suo, Gesù Salvatore.
Cristo dispensa la sua salvezza attraverso i Sacramenti e, in modo speciale, alle persone che soffrono di malattie o che sono portatrici di un handicap, attraverso la grazia dell’Unzione degli infermi. Per ciascuno la sofferenza è sempre una straniera. La sua presenza non è mai addomesticabile. Per questo è difficile sopportarla, e più difficile ancora – come hanno fatto certi grandi testimoni della santità di Cristo – accoglierla come parte integrante della propria vocazione, o accettare, secondo l’espressione di Bernadette, di “tutto soffrire in silenzio per piacere a Gesù” Per poter dire ciò è necessario aver già percorso un lungo cammino in unione con Gesù. In compenso, è possibile già subito rimettersi alla misericordia di Dio così come essa si manifesta mediante la grazia del Sacramento dei malati. Bernadette stessa, nel corso di un’esistenza spesso segnata dalla malattia, ricevette questo Sacramento quattro volte. La grazia propria del Sacramento consiste nell’accogliere in sé Cristo medico. Cristo tuttavia non è medico alla maniera del mondo. Per guarirci, egli non resta fuori della sofferenza che si sperimenta; la allevia venendo ad abitare in colui che è colpito dalla malattia, per sopportarla e viverla con lui. La presenza di Cristo viene a rompere l’isolamento che il dolore provoca. L’uomo non porta più da solo la sua prova ma, in quanto membro sofferente di Cristo, viene conformato a Lui che si offre al Padre, e in Lui partecipa al parto della nuova creazione.
Senza l’aiuto del Signore, il giogo della malattia e della sofferenza è crudelmente pesante. Nel ricevere il Sacramento dei malati, noi non desideriamo portare altro giogo che quello di Cristo, forti della promessa che Egli ci ha fatto, che cioè il suo giogo sarà facile da portare e il suo peso leggero (cfr Mt 11,30). Invito le persone che riceveranno l’Unzione dei malati nel corso di questa Messa a entrare in una simile speranza.
Il Concilio Vaticano II ha presentato Maria come la figura nella quale è riassunto tutto il mistero della Chiesa (cfr LG, 63-65). La sua vicenda personale ripropone il profilo della Chiesa, che è invitata ad essere attenta quanto lei alle persone che soffrono. Rivolgo un saluto affettuoso ai componenti del Servizio sanitario e infermieristico, come pure a tutte le persone che, a titoli diversi, negli ospedali e in altre istituzioni, contribuiscono alla cura dei malati con competenza e generosità. Ugualmente al personale di accoglienza, ai barellieri e agli accompagnatori che, provenendo da tutte le diocesi di Francia ed anche da più lontano, si prodigano lungo tutto l’anno intorno ai malati che vengono in pellegrinaggio a Lourdes, vorrei dire quanto il loro servizio è prezioso. Essi sono le braccia della Chiesa, umile serva. Desidero infine incoraggiare coloro che, in nome della loro fede, accolgono e visitano i malati, in particolare nelle cappellanie degli ospedali, nelle parrocchie o, come qui, nei santuari. Possiate sentire sempre in questa importante e delicata missione il sostegno efficace e fraterno delle vostre comunità! A questo riguardo, saluto e ringrazio particolarmente i miei fratelli nell’episcopato, i vescovi francesi, i vescovi stranieri e tutti i preti che accompagnano i malati e gli uomini toccati dalla sofferenza nel mondo. Grazie per il vostro servizio al Signore sofferente.
Il servizio di carità che voi rendete è un servizio mariano. Maria vi affida il suo sorriso, affinché diventiate voi stessi, nella fedeltà al Figlio suo, sorgenti di acqua viva. Quello che voi fate, lo fate a nome della Chiesa, di cui Maria è l’immagine più pura. Possiate voi portare il suo sorriso a tutti!
Concludendo, desidero unirmi alla preghiera dei pellegrini e dei malati e riprendere insieme con voi uno stralcio della preghiera a Maria per la celebrazione di questo Giubileo:
“Poiché tu sei il sorriso di Dio, il riflesso della luce di Cristo, la dimora dello Spirito Santo,
poiché tu hai scelto Bernadette nella sua miseria, tu che sei la stella del mattino, la porta del cielo e la prima creatura risorta,
Nostra Signora di Lourdes”, con i nostri fratelli e le nostre sorelle i cui cuori e i cui corpi sono dolenti, noi ti preghiamo!
[Papa Benedetto, Lourdes 15 settembre 2008]
Presso la Croce, Maria è partecipe del dramma della Redenzione (Gv 19, 17-28.25).
1. Regina caeli laetare, alleluia!
Così canta la Chiesa in questo tempo di Pasqua, invitando i fedeli ed unirsi al gaudio spirituale di Maria, Madre del Risorto. La gioia della Vergine per la risurrezione di Cristo è ancor più grande se si considera l'intima sua partecipazione all'intera vita di Gesù.
Maria, accettando con piena disponibilità la parola dell'angelo Gabriele, che le annunciava che sarebbe diventata la Madre del Messia, iniziava la sua partecipazione al dramma della redenzione. Il suo coinvolgimento nel sacrificio del Figlio, svelato da Simeone nel corso della presentazione al Tempio, continua non solo nell'episodio dello smarrimento e del ritrovamento di Gesù dodicenne, ma anche durante tutta la sua vita pubblica.
Tuttavia, l'associazione della Vergine alla missione di Cristo raggiunge il culmine in Gerusalemme, al momento della passione e morte del Redentore. Come attesta il quarto Vangelo, Ella in quei giorni si trova nella Città Santa, probabilmente per la celebrazione della Pasqua ebraica.
2. Il Concilio sottolinea la dimensione profonda della presenza della Vergine sul Calvario, ricordando che Ella "serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce" (Lumen gentium, 58), e fa presente che tale unione "nell'opera della redenzione si manifesta dal momento della concezione verginale di Cristo fino alla morte di Lui" (Ivi, 57).
Con lo sguardo illuminato dal fulgore della risurrezione, ci soffermiamo a considerare l'adesione della Madre alla passione redentrice del Figlio, che si compie nella partecipazione al suo dolore. Torniamo nuovamente, ma nella prospettiva ormai della risurrezione, ai piedi della croce, dove la Madre "soffrì profondamente col suo Unigenito e si associò con animo materno al sacrificio di Lui, amorosamente consenziente all'immolazione della vittima da Lei generata" (Ivi, 58).
Con queste parole il Concilio ci ricorda la "compassione di Maria", nel cui cuore si ripercuote tutto ciò che Gesù patisce nell'anima e nel corpo, sottolineandone la volontà di partecipare al sacrificio redentore e di unire la propria sofferenza materna all'offerta sacerdotale del Figlio.
Nel testo conciliare si pone, altresì, in evidenza che il consenso da Lei dato all'immolazione di Gesù non costituisce una passiva accettazione, ma un autentico atto di amore, col quale Ella offre suo Figlio come "vittima" di espiazione per i peccati dell'intera umanità.
La Lumen gentium pone, infine, la Vergine in relazione a Cristo, protagonista dell'evento redentore, specificando che nell'associarsi "al sacrificio di Lui", Ella rimane subordinata al suo divin Figlio.
3. Nel quarto Vangelo san Giovanni riferisce che "stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala" (Gv 19, 25). Con il verbo "stare", che letteralmente significa "stare in piedi", "stare ritta", l'Evangelista intende forse presentare la dignità e la fortezza manifestate nel dolore da Maria e dalle altre donne.
In particolare, lo "stare ritta" della Vergine presso la croce ne ricorda l'incrollabile fermezza e lo straordinario coraggio nell'affrontare i patimenti. Nel dramma del Calvario Maria è sostenta dalla fede, rafforzatasi nel corso degli eventi della sua esistenza e, soprattutto, durante la vita pubblica di Gesù. Il Concilio ricorda che "la Beata Vergine avanzò nel cammino della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce" (Lumen gentium, 58).
Ai tracotanti insulti diretti al Messia crocifisso, Ella, condividendo le intime disposizioni di Lui, oppone l'indulgenza ed il perdono, associandosi alla supplica al Padre: "Perdonali, perché non sanno quello che fanno" (Lc 23, 34). Partecipe del sentimento di abbandono alla volontà del Padre, espresso dalle ultime parole di Gesù in croce: "Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito" (ivi, 23,46), Ella offre in tal modo, come osserva il Concilio, un consenso d'amore "all'immolazione della vittima da Lei generata" (Lumen gentium, 58).
4. In questo supremo "sì" di Maria risplende la fiduciosa speranza nel misterioso futuro, iniziato con la morte del Figlio crocifisso. Le espressioni con le quali Gesù, nel cammino verso Gerusalemme, insegnava ai discepoli "che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare" (Mc 8, 31), le risuonano in cuore nell'ora drammatica del Calvario, suscitando l'attesa e l'anelito della risurrezione,
La speranza di Maria ai piedi della croce racchiude una luce più forte dell'oscurità che regna in molti cuori: di fronte al Sacrificio redentore, nasce in Maria la speranza della Chiesa e dell'umanità.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 2 aprile 1997]
A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».
«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria».
«Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» — e in realtà «potevano dirlo» — ma sempre Maria «è madre».
«I padri della Chiesa hanno capito bene questo — ha affermato il Pontefice — e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».
«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa — ha fatto presente il Papa — possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».
«La Chiesa è “donna” — ha rilanciato Francesco — e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».
«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».
Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».
Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».
«San Paolo — l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato — ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».
«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».
[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 22/05/2018]
Dear friends, this is the perpetual and living heritage that Jesus has bequeathed to us in the Sacrament of his Body and his Blood. It is an inheritance that demands to be constantly rethought and relived so that, as venerable Pope Paul VI said, its "inexhaustible effectiveness may be impressed upon all the days of our mortal life" (Pope Benedict)
Questa, cari amici, è la perpetua e vivente eredità che Gesù ci ha lasciato nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Eredità che domanda di essere costantemente ripensata, rivissuta, affinché, come ebbe a dire il venerato Papa Paolo VI, possa “imprimere la sua inesauribile efficacia su tutti i giorni della nostra vita mortale” (Papa Benedetto)
The road that Jesus points out can seem a little unrealistic with respect to the common mindset and to problems due to the economic crisis; but, if we think about it, this road leads us back to the right scale of values (Pope Francis)
La strada che Gesù indica può sembrare poco realistica rispetto alla mentalità comune e ai problemi della crisi economica; ma, se ci si pensa bene, ci riporta alla giusta scala di valori (Papa Francesco)
Our commitment does not consist exclusively of activities or programmes of promotion and assistance; what the Holy Spirit mobilizes is not an unruly activism, but above all an attentiveness that considers the other in a certain sense as one with ourselves (Pope Francis)
Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro considerandolo come un’unica cosa con se stesso (Papa Francesco)
The drama of prayer is fully revealed to us in the Word who became flesh and dwells among us. To seek to understand his prayer through what his witnesses proclaim to us in the Gospel is to approach the holy Lord Jesus as Moses approached the burning bush: first to contemplate him in prayer, then to hear how he teaches us to pray, in order to know how he hears our prayer (Catechism of the Catholic Church n.2598)
L’evento della preghiera ci viene pienamente rivelato nel Verbo che si è fatto carne e dimora in mezzo a noi. Cercare di comprendere la sua preghiera, attraverso ciò che i suoi testimoni ci dicono di essa nel Vangelo, è avvicinarci al santo Signore Gesù come al roveto ardente: dapprima contemplarlo mentre prega, poi ascoltare come ci insegna a pregare, infine conoscere come egli esaudisce la nostra preghiera (Catechismo della Chiesa Cattolica n.2598)
If penance today moves from the material to the spiritual side, let's say, from the body to the soul, from the outside to the inside, it is no less necessary and less feasible (Pope Paul VI)
Se la penitenza si sposta oggi dalla parte, diciamo, materiale a quella spirituale, dal corpo all’anima, dall’esterno all’interno, non è meno necessaria e meno attuabile (Papa Paolo VI)
“Love is an excellent thing”, we read in the book the Imitation of Christ. “It makes every difficulty easy, and bears all wrongs with equanimity…. Love tends upward; it will not be held down by anything low… love is born of God and cannot rest except in God” (III, V, 3) [Pope Benedict]
«Grande cosa è l’amore – leggiamo nel libro dell’Imitazione di Cristo –, un bene che rende leggera ogni cosa pesante e sopporta tranquillamente ogni cosa difficile. L’amore aspira a salire in alto, senza essere trattenuto da alcunché di terreno. Nasce da Dio e soltanto in Dio può trovare riposo» (III, V, 3) [Papa Benedetto]
don Giuseppe Nespeca
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