don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

1. “Padre nostro, che sei nei cieli . . .”.

Ci troviamo presso l’altare intorno al quale si raduna l’intera Chiesa che è in Sarajevo. Pronunciamo le parole che ci ha insegnato Cristo, Figlio del Dio Vivente: Figlio consustanziale al Padre. Solo Lui chiama Dio “Padre” (Abbà - Padre! Padre mio!) e Lui soltanto può autorizzarci a rivolgerci a Dio chiamandolo “Padre”, “Padre nostro”. Egli ci insegna questa preghiera in cui è contenuto tutto. Desideriamo oggi trovare in questa preghiera quello che si può e si deve dire a Dio - nostro Padre, in questo momento storico, qui a Sarajevo.

“Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra”. 

“Io, Vescovo di Roma, il primo Papa slavo, mi inginocchio davanti a Te per gridare:  “Dalla peste, dalla fame e dalla guerra - liberaci!””

2. Padre nostro! Padre degli uomini: Padre dei popoli. Padre di tutti i popoli che abitano nel mondo. Padre dei popoli d’Europa. Dei popoli dei Balcani.

Padre dei popoli che appartengono alla famiglia degli Slavi del Sud! Padre dei popoli che qui, in questa penisola, da secoli scrivono la loro storia. Padre dei popoli, toccati purtroppo non per la prima volta dal cataclisma della guerra.

“Padre nostro . . .”. Io, Vescovo di Roma, il primo Papa slavo, mi inginocchio davanti a Te per gridare: “Dalla peste, dalla fame e dalla guerra - liberaci!”. So che in questa supplica molti si uniscono a me. Non solo qui a Sarajevo, in Bosnia ed Erzegovina, ma nell’Europa intera ed oltre i suoi confini. Vengo qui portando con me la certezza di questa preghiera che pronunciano i cuori e le labbra di innumerevoli miei fratelli e sorelle. Da tanto tempo aspettavano che proprio questa “grande preghiera” della Chiesa, del popolo di Dio, si potesse compiere in questo luogo. Da tanto tempo, io stesso ho invitato tutti a partecipare a questa preghiera.

Come non ricordare qui la preghiera fatta in Assisi nel gennaio dell’anno scorso? E poi quella elevata a Roma, nella Basilica di San Pietro, nel gennaio di quest’anno? Dall’inizio dei tragici avvenimenti nei Balcani, nei Paesi dell’ex Jugoslavia, il pensiero-guida della Chiesa, e in particolare della Sede Apostolica, è stata la preghiera per la pace.

3. Padre nostro, “sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno . . .”. Risplenda fra gli uomini il tuo nome santo e misericordioso. Venga il tuo regno, regno di giustizia e di pace, di perdono e di amore.

Sia fatta la tua volontà . . .”.

Si compia nel mondo, e particolarmente in questa travagliata terra dei Balcani, la tua volontà. Tu non ami la violenza e l’odio. Tu rifuggi dall’ingiustizia e dall’egoismo. Tu vuoi che gli uomini siano tra loro fratelli e Ti riconoscano come loro Padre.

Padre nostro, Padre di ogni essere umano, “sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”. Tua volontà è la pace!

4. È Cristo “la nostra pace” (Ef 2, 14). Egli che ci ha insegnato a rivolgerci a Dio chiamandolo “Padre”.

Egli che con il suo sangue ha vinto il mistero dell’iniquità e della divisione, e con la sua Croce ha abbattuto il muro massiccio che separava gli uomini, rendendoli estranei gli uni agli altri; Egli che ha riconciliato l’umanità con Dio e ha unito gli uomini tra loro come fratelli.

Per questo Cristo ha potuto dire un giorno agli Apostoli, prima del suo sacrificio sulla Croce: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi” (Gv 14, 27). È allora che ha promesso lo Spirito di Verità, che è al tempo stesso Spirito dell’Amore, Spirito della Pace!

Vieni, Spirito Santo! “Veni, creator Spiritus, mentes tuorum visita . . .!”. “Vieni, Spirito creatore, visita le nostre menti, riempi della tua grazia i cuori che hai creato”.

Vieni, Spirito Santo! Ti invochiamo da questa città di Sarajevo, crocevia di tensioni tra culture e nazioni diverse, dove s’è accesa la miccia che, all’inizio del secolo, ha scatenato il primo conflitto mondiale, e dove alla fine del secondo millennio, si trovano ad essere concentrate tensioni analoghe capaci di distruggere popoli chiamati dalla storia a collaborare in armoniosa convivenza.

Vieni, Spirito della pace! Per mezzo tuo gridiamo: “Abbà, Padre” (Rm 8, 15).

5. “Dacci oggi il nostro pane quotidiano . . .”.

Pregare per il pane, vuol dire pregare per tutto ciò che è necessario alla vita. Preghiamo perché, nella distribuzione delle risorse fra gli individui ed i popoli, si possa realizzare sempre il principio di una universale partecipazione degli uomini ai beni creati da Dio.

Preghiamo perché l’impiego delle risorse negli armamenti non danneggi o addirittura distrugga il patrimonio della cultura, che costituisce il bene superiore dell’umanità. Preghiamo perché le misure restrittive, giudicate necessarie per frenare il conflitto, non siano causa di disumane sofferenze per la popolazione inerme. Ogni uomo, ogni famiglia ha diritto al suo “pane quotidiano”.

6. “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori . . .”.

Con queste parole tocchiamo la questione cruciale. Ce ne ha resi avvertiti Cristo stesso, il quale, morendo sulla croce, ha detto a proposito dei suoi uccisori: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34).

La storia degli uomini, dei popoli e delle nazioni è piena di reciproci rancori e di ingiustizie. Quanta importanza ha avuto la storica espressione rivolta dai Vescovi polacchi ai loro Confratelli tedeschi alla fine del Concilio Vaticano II: “Perdoniamo e chiediamo perdono”! Se in quella regione d’Europa si è potuta avere la pace, sembra proprio che ciò sia avvenuto grazie all’atteggiamento efficacemente espresso da tali parole.

Oggi vogliamo pregare perché si rinnovi un simile gesto: “Perdoniamo e chiediamo perdono” per i nostri fratelli nei Balcani! Senza questo atteggiamento è difficile costruire la pace. La spirale delle “colpe” e delle “pene” non si chiuderà mai, se ad un certo punto non si arriverà al perdono.

Perdonare non significa dimenticare. Se la memoria è legge della storia, il perdono è potenza di Dio, potenza di Cristo che agisce nelle vicende degli uomini e dei popoli.

7. “Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male . . .”.

Non ci indurre in tentazione! Quali sono le tentazioni che oggi chiediamo al Padre di allontanare? Sono quelle che rendono il cuore dell’uomo un cuore di pietra, insensibile al richiamo del perdono e della concordia. Sono le tentazioni dei pregiudizi etnici, che rendono indifferenti ai diritti dell’altro e alla sua sofferenza. Sono le tentazioni dei nazionalismi esasperati, che conducono alla sopraffazione del prossimo e alla bramosia della vendetta. Sono tutte le tentazioni in cui s’esprime la civiltà della morte.

Di fronte al desolante spettacolo dei cedimenti umani, preghiamo con le parole del Venerato Fratello Bartolomeo I, Patriarca della Chiesa di Costantinopoli: “Signore, fa’ che i nostri cuori di pietra si sgretolino alla vista delle tue sofferenze e diventino cuori di carne. Fa’ che la tua Croce dissolva i nostri pregiudizi. Con la visione della tua lotta straziante contro la morte, fuga la nostra indifferenza o la nostra ribellione” (Via Crucis al Colosseo, Venerdì santo 1990, Preghiera iniziale).

Liberaci dal male! Ecco un’altra parola che appartiene completamente a Cristo e al suo Vangelo. “Non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (Gv 12, 47). L’umanità è chiamata alla salvezza in Cristo e mediante Cristo. A questa salvezza sono chiamate anche le Nazioni che la guerra in corso ha così terribilmente divise!

Preghiamo oggi perché la potenza salvifica della Croce aiuti a superare la storica tentazione dell’odio. Basta con le innumerevoli distruzioni! Preghiamo - seguendo il ritmo della preghiera del Signore - perché inizi il tempo della ricostruzione, il tempo della pace.

Pregano con noi i morti di Sarajevo, le cui spoglie giacciono nel vicino cimitero. Pregano tutte le vittime di questa guerra crudele, che nella luce di Dio invocano per i sopravvissuti riconciliazione e pace.

8. “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio!” (Mt 5, 9). Questo ci ha detto Gesù nell’odierno brano evangelico. Sì, carissimi Fratelli e Sorelle, saremo veramente beati, se ci renderemo artefici di quella pace che solo Cristo sa dare (cf. Gv 14, 27), anzi che è Cristo stesso. “Cristo è la nostra pace”. Diventeremo costruttori di pace, se come lui saremo disposti a perdonare.

“Padre, perdonali!” (Lc 23, 34). Cristo dalla Croce offre il perdono e chiede anche a noi di seguirlo sull’ardua via della Croce per ottenere la sua pace. Solo accogliendo questo suo invito si potrà impedire all’egoismo, al nazionalismo, alla violenza di continuare a seminare distruzione e morte.

Il male, in ogni sua manifestazione, costituisce un mistero d’iniquità, di fronte al quale si alza chiara e decisa la voce di Dio, che abbiamo ascoltato nella prima Lettura: “Così parla l’Alto e l’Eccelso . . . In luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati” (Is 57, 15). In queste parole profetiche si racchiude per tutti l’invito ad un serio esame di coscienza.

Dio è dalla parte degli oppressi: è accanto ai genitori che piangono i figli assassinati, ascolta il grido impotente degli inermi calpestati, è solidale con le donne umiliate dalla violenza, è vicino ai profughi costretti ad abbandonare la loro terra e le loro case. Non dimentica le sofferenze delle famiglie, degli anziani, delle vedove, dei giovani e dei bambini. È suo il popolo che sta morendo.

Occorre porre fine ad una simile barbarie! Basta con la guerra! Basta con la furia distruttiva! Non è più possibile tollerare una situazione che produce solo frutti di morte: uccisioni, città distrutte, economie dissestate, ospedali sprovvisti di farmaci, malati ed anziani abbandonati, famiglie in lacrime e dilaniate. Bisogna giungere al più presto ad una pace giusta. La pace è possibile, se viene riconosciuta la priorità dei valori morali sulle pretese della razza o della forza.

9. Carissimi Fratelli e Sorelle! In questo momento, assieme a voi, elevo al Signore il grido del salmista: “Aiutaci, Dio, nostra salvezza, per la gloria del tuo nome, salvaci e perdona i nostri peccati” (Sal 79, 9).

Affidiamo questa nostra supplica a Colei che “stava” sotto la Croce silenziosa ed orante (cf. Gv 19, 25). Guardiamo alla Vergine Santa, della quale la Chiesa celebra oggi con gioia la Natività.

È significativo che questa mia visita, da tempo desiderata, abbia potuto avere luogo proprio in questa festa mariana a voi tanto cara. Con la nascita di Maria è sbocciata nel mondo la speranza di una nuova umanità non più oppressa dall’egoismo, dall’odio, dalla violenza e dalle tante altre forme di peccato che hanno lordato di sangue i sentieri della storia. A Maria Santissima chiediamo che anche per questa vostra terra possa sorgere il giorno della piena riconciliazione e della pace. 

Regina della pace, prega per noi!

[Papa Giovanni Paolo II, in collegamento con Sarajevo, 8 settembre 1994]

Proseguiamo nella catechesi sul “Padre nostro”, arrivando ormai alla penultima invocazione: «Non abbandonarci alla tentazione» (Mt 6,13). Un’altra versione dice: “Non lasciare che cadiamo in tentazione”. Il “Padre nostro” incomincia in maniera serena: ci fa desiderare che il grande progetto di Dio si possa compiere in mezzo a noi. Poi getta uno sguardo sulla vita, e ci fa domandare ciò di cui abbiamo bisogno ogni giorno: il “pane quotidiano”. Poi la preghiera si rivolge alle nostre relazioni interpersonali, spesso inquinate dall’egoismo: chiediamo il perdono e ci impegniamo a darlo. Ma è con questa penultima invocazione che il nostro dialogo con il Padre celeste entra, per così dire, nel vivo del dramma, cioè sul terreno del confronto tra la nostra libertà e le insidie del maligno.

Come è noto, l’espressione originale greca contenuta nei Vangeli è difficile da rendere in maniera esatta, e tutte le traduzioni moderne sono un po’ zoppicanti. Su un elemento però possiamo convergere in maniera unanime: comunque si comprenda il testo, dobbiamo escludere che sia Dio il protagonista delle tentazioni che incombono sul cammino dell’uomo. Come se Dio stesse in agguato per tendere insidie e tranelli ai suoi figli. Un’interpretazione di questo genere contrasta anzitutto con il testo stesso, ed è lontana dall’immagine di Dio che Gesù ci ha rivelato. Non dimentichiamo: il “Padre nostro” incomincia con “Padre”. E un padre non fa dei tranelli ai figli. I cristiani non hanno a che fare con un Dio invidioso, in competizione con l’uomo, o che si diverte a metterlo alla prova. Queste sono le immagini di tante divinità pagane. Leggiamo nella Lettera di Giacomo apostolo: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno» (1,13). Semmai il contrario: il Padre non è l’autore del male, a nessun figlio che chiede un pesce dà una serpe (cfr Lc 11,11) – come Gesù insegna – e quando il male si affaccia nella vita dell’uomo, combatte al suo fianco, perché possa esserne liberato. Un Dio che sempre combatte per noi, non contro di noi. È il Padre! È in questo senso che noi preghiamo il “Padre nostro”.

Questi due momenti – la prova e la tentazione – sono stati misteriosamente presenti nella vita di Gesù stesso. In questa esperienza il Figlio di Dio si è fatto completamente nostro fratello, in una maniera che sfiora quasi lo scandalo. E sono proprio questi brani evangelici a dimostrarci che le invocazioni più difficili del “Padre nostro”, quelle che chiudono il testo, sono già state esaudite: Dio non ci ha lasciato soli, ma in Gesù Egli si manifesta come il “Dio-con-noi” fino alle estreme conseguenze. È con noi quando ci dà la vita, è con noi durante la vita, è con noi nella gioia, è con noi nelle prove, è con noi nelle tristezze, è con noi nelle sconfitte, quando noi pecchiamo, ma sempre è con noi, perché è Padre e non può abbandonarci.

Se siamo tentati di compiere il male, negando la fraternità con gli altri e desiderando un potere assoluto su tutto e tutti, Gesù ha già combattuto per noi questa tentazione: lo attestano le prime pagine dei Vangeli. Subito dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni, in mezzo alla folla dei peccatori, Gesù si ritira nel deserto e viene tentato da Satana. Incomincia così la vita pubblica di Gesù, con la tentazione che viene da Satana. Satana era presente. Tanta gente dice: “Ma perché parlare del diavolo che è una cosa antica? Il diavolo non esiste”. Ma guarda che cosa ti insegna il Vangelo: Gesù si è confrontato con il diavolo, è stato tentato da Satana. Ma Gesù respinge ogni tentazione ed esce vittorioso. Il Vangelo di Matteo ha una nota interessante che chiude il duello tra Gesù e il Nemico: «Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano» (4,11).

Ma anche nel tempo della prova suprema Dio non ci lascia soli. Quando Gesù si ritira a pregare nel Getsemani, il suo cuore viene invaso da un’angoscia indicibile – così dice ai discepoli – ed Egli sperimenta la solitudine e l’abbandono. Solo, con la responsabilità di tutti i peccati del mondo sulle spalle; solo, con un’angoscia indicibile. La prova è tanto lacerante che capita qualcosa di inaspettato. Gesù non mendica mai amore per sé stesso, eppure in quella notte sente la sua anima triste fino alla morte, e allora chiede la vicinanza dei suoi amici: «Restate qui e vegliate con me!» (Mt 26,38). Come sappiamo, i discepoli, appesantiti da un torpore causato dalla paura, si addormentarono. Nel tempo dell’agonia, Dio chiede all’uomo di non abbandonarlo, e l’uomo invece dorme. Nel tempo in cui l’uomo conosce la sua prova, Dio invece veglia. Nei momenti più brutti della nostra vita, nei momenti più sofferenti, nei momenti più angoscianti, Dio veglia con noi, Dio lotta con noi, è sempre vicino a noi. Perché? Perché è Padre. Così abbiamo incominciato la preghiera: “Padre nostro”. E un padre non abbandona i suoi figli. Quella notte di dolore di Gesù, di lotta sono l’ultimo sigillo dell’Incarnazione: Dio scende a trovarci nei nostri abissi e nei travagli che costellano la storia.

È il nostro conforto nell’ora della prova: sapere che quella valle, da quando Gesù l’ha attraversata, non è più desolata, ma è benedetta dalla presenza del Figlio di Dio. Lui non ci abbandonerà mai!

Allontana dunque da noi, o Dio, il tempo della prova e della tentazione. Ma quando arriverà per noi questo tempo, Padre nostro, mostraci che non siamo soli. Tu sei il Padre. Mostraci che il Cristo ha già preso su di sé anche il peso di quella croce. Mostraci che Gesù ci chiama a portarla con Lui, abbandonandoci fiduciosi al tuo amore di Padre.

[Papa Francesco, Udienza Generale 1 maggio 2019]

Giu 10, 2025

Ss.ma Trinità

Pubblicato in Angolo della Pia donna

Ss.ma Trinità [15 Giugno 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! 

 

*Prima Lettura dal Libro dei Proverbi (8, 22-31)

 Domenica scorsa, festa di Pentecoste, nel salmo responsoriale (Sal 103/104), abbiamo cantato: “Hai fatto tutte le cose con sapienza”. Oggi, in questo brano tratto dal libro dei Proverbi, c’è uno splendido canto alla Sapienza personificata con cui Dio guida il mondo. “Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività…Dall’eternità sono stata formata…quando non esistevano gli abissi, io fui generata” (vv 22-24). L’autore fa parlare la Sapienza come una persona e il verbo ebraico qanah significa acquistare, possedere, creare, generare, tutti sensi appropriati se assunti tenendo presente le varie sfumature del concetto di Sapienza. La Sapienza non parla mai di sé stessa, ma sempre in relazione a Dio, come se fossero inseparabili. Quindi, tra Dio e la Sapienza esiste una grande intimità. La fede ebraica nel Dio unico non ha mai immaginato un Dio trinitario; ma qui sembra che, pur restando salda nell’unicità di Dio, essa intuisca che, all’interno del Dio Uno, vi è un mistero di dialogo e comunione. C’è una parola che ricorre spesso in questo passo: “Prima”. “Il Signore mi ha creato prima di ogni sua opera…dall’eternità…prima che fossero fissate le basi dei monti…prima delle colline”.  La Sapienza è anteriore rispetto a tutta la creazione e l’opera che compie è così bella da generare una vera e propria gioia: “Io ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui…sul globo terrestre ponendo le mie delizie tra i figli degli uomini” (vv30-31).  La Sapienza “trova le sue delizie” presso Dio e anche presso di noi. Si percepisce qui un’eco del ritornello della Genesi: “Dio vide che era cosa buona”; e ancora di più, al sesto giorno, quando fu creato l’uomo (Gen 1,31).  Questo testo del libro dei Proverbi rivela un aspetto particolare della fede di Israele: l’eterna Sapienza ha presieduto a tutta l’opera della creazione e fin dall’alba del mondo, l’umanità e il cosmo sono immersi nella Sapienza di Dio per cui il mondo creato non è disordinato. Anzi la Sapienza ne è l’artefice e questo ci spinge a non perdere mai la fiducia. Infine, è davvero “follia” della fede credere che Dio è sempre presente nella vita degli uomini e, ancor più, che Dio trovi le sue delizie nella nostra compagnia. Follia divina, ma realtà: se Dio continua instancabilmente a proporci la sua Alleanza d’amore, è proprio perché “pone le sue delizie tra i figli dell’uomo” (v.31).  Questo testo non parla mai di Trinità perché quando fu scritto il Libro dei Proverbi non solo il termine Trinità non esisteva, ma l’idea stessa non sfiorava nessuno. Per il popolo eletto la prima urgenza fu affermare il Dio unico e i profeti lottarono contro l’idolatria e il politeismo essendo Israele chiamato a essere il testimone dell’unico Dio (Dt 4,35). Più tardi però i credenti scopriranno, dopo la risurrezione di Cristo, che Dio è Uno ma non solitario: Dio è Trinità. Quando si iniziò a intravedere questo mistero, si rilessero con nuova luce le Scritture e in particolare questo testo che parla della Sapienza di Dio, per scorgervi, come in filigrana, la persona di Cristo. San Giovanni scrive: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio”, espressione che in greco esprime un’intima comunione, un dialogo d’amore ininterrotto. Sant’Ireneo e Teofilo d’Antiochia hanno identificato la Sapienza con lo Spirito, mentre Origene l’ha identificata con il Figlio. Questa seconda interpretazione è stata poi accolta dalla teologia cristiana.

 

*Salmo responsoriale (8)

“Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato”. Forse siamo nel contesto di una celebrazione notturna e il profeta Isaia fa talvolta allusione a celebrazioni notturne, ad esempio quando dice: “Canterete come la notte in cui si celebra la festa” (Is 30,29). Immaginiamo dunque di essere in una sera d’estate a Gerusalemme durante un pellegrinaggio sotto le stelle. Se leggiamo il salmo per intero notiamo che il primo e l’ultimo versetto sono esattamente identici: “O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!” (vv 1, 10). Il tema è dunque un inno alla grandezza di Dio e il nome di Dio è il nome dell’Alleanza, le famose quattro lettere YHVH, che non si pronuncia mai. E allora, anche se la parola “Alleanza” non è pronunciata, è sottintesa ed è il popolo dell’Alleanza che parla. Il primo e l’ultimo versetto incorniciano una meditazione sull’uomo con una costruzione interessante. L’uomo è al centro della creazione e poi tutto, compreso l’uomo, viene ricondotto a Dio: Dio agisce e l’uomo contempla. Tutto iè opera delle dita di Dio che ha fissato le stelle… pensa all’uomo, se ne prende cura, lo ha coronato di gloria e d’onore e l’ha stabilito sopra le opere delle sue mani ponendo ogni cosa ai suoi piedi. La struttura complessiva del salmo presenta dunque dei cerchi concentrici: al centro l’uomo – “che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi? Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi”. Poi un primo cerchio, la creazione: da una parte il cielo stellato e la luna… dall’altra tutti gli esseri viventi: greggi, animali selvatici, uccelli, pesci; un secondo cerchio, la frase ripetuta: l’uomo contempla il vero re della Creazione: “O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!”.  Dio non conserva gelosamente la regalità per sé, anzi a sua volta incorona l’uomo e anche per l’uomo si usa un linguaggio regale: l’uomo è “poco meno di un dio”, è “coronato”… tutto è “ai suoi piedi” Il pensiero va al libro della Genesi che narra la creazione dell’uomo come ultimo atto dopo tutti gli altri esseri viventi, proprio per mostrare che l’uomo è al vertice e da un nome a tutte le creature. Vocazione dell’uomo è essere il re della creazione e alla prima coppia umana, Dio ha detto di essere fecondi e moltiplicarsi, riempire la terra e soggiogarla, (Gn 1,28). Siamo davanti a un salmo che respira la gioia di vivere anche se ci possono essere giorni in cui la presenza di Dio è percepita come opprimente. Pensiamo a Giobbe, che conosceva sicuramente questo salmo a memoria. Eppure nel suo sconforto, rimpianse di averlo cantato con entusiasmo e arrivò a dire: “Perché scruti l’uomo ogni mattina e a ogni istante lo metti alla prova?  Fino a quando da me non distoglierai lo sguardo e non mi lascerai inghiottire la mia saliva? (Gb 7,17-19). Quel giorno, la sua fede rischiò di vacillare. Può capitare anche a noi, ma, come per Giobbe, alla fine anche noi riusciamo a scoprire che Dio veglia e, qualunque cosa accada, continua a “prendersi cura dell’uomo”. La Bibbia è un libro «gioioso» e questo salmo respira la gioia davanti allo splendore di Dio e dell’uomo. L’uomo re della creazione si sottomette a sua volta a Colui che è il vero Signore: riconosce la sua piccolezza e sa che deve tutto al suo Creatore.

 

*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (5,1-5)

 Siamo a Roma, ai tempi dell’imperatore Nerone, nell’anno 57 o 58 dopo Cristo; come in quasi tutte le città del bacino del Mediterraneo, c’è una comunità ebraica, stimata in alcune decine di migliaia di persone che vive una prima grave scissione tra gli ebrei e i giudeo-cristiani (ebrei convertiti a Cristo) accusandosi  reciprocamente di eresia o deviazione. Ci sono inoltre difficili rapporti anche fra giudeo-cristiani, ancora legati alle loro pratiche religiose e i pagani convertiti chiamati pagano-cristiani che mantengono possibili retaggi di idolatria. Questi conflitti si irrigidiscono col passare degli anni per cui nella lettera ai Romani, Paolo si dà come compito di riportare la pace. La grande questione tra ex ebrei e ex pagani è la seguente: poiché Dio ha scelto il popolo ebraico per annunciare la salvezza al mondo e dato che Gesù era ebreo, non si dovrebbe chiedere agli ex pagani di diventare ebrei prima di diventare cristiani e imporre loro la circoncisione con tutte le pratiche ebraiche? San Paolo risponde argomentando così: anzitutto, i cristiani, qualunque sia il loro passato, sono tutti uguali davanti alla salvezza quando accettano Cristo, il solo che salva. Inoltre, pur sapendo che solo la fede salva e non i meriti dell’uomo, alcuni giudeo-cristiani rivendicavano il privilegio di essere l’unico popolo dell’Alleanza e non ritengono i pagani discendenti di Abramo. Nel capitolo quarto Paolo ha già risposto che Abramo è stato dichiarato giusto ben prima di essere circonciso ed era un pagano quando ebbe la chiamata di Dio e mosso dalla fiducia obbedì a Colui che gli chiese di lasciare la sua terra e andare verso il paese che lui gli avrebbe mostrato (Gn 12). “Abramo ebbe fede nel Signore e, per questo, il Signore lo considerò giusto” (Gn 15,6). Nel testo odierno Paolo ha bene in mente l’avventura esemplare di Abramo che “mediante la fede” divenne il padre di tutti i credenti, con o senza circoncisione. Quindi non ha senso in proposito un litigio tra cristiani. Lo afferma chiaramente all’inizio del testo di oggi: “Giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo”. La salvezza è dono gratuito di Dio, che chiede l’abbandono fiducioso della fede. Ripetendo l’espressione “mediante la fede” o “per fede”, ribadisce che siamo giustificati dalla morte e risurrezione di Cristo che ci fa vivere nell’intimità con Dio, ciò che Paolo chiama “la grazia”. Per pura grazia partecipiamo alla giustizia di Cristo, reintegrati così nell’Alleanza di Dio e immersi nella comunione trinitaria. Qui, come nella prima lettura (dal libro dei Proverbi), non c’è la parola Trinità, ma tratta proprio della Trinità quando Paolo parla della “grazia nella quale ci troviamo”. Egli contempla il mistero di Dio in termini trinitari quando scrive: “noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo” e “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”. Parla poi delle ribolazioni che possono diventare un cammino verso Dio producendo la perseveranza e la speranza. La speranza, virtù da poveri, è al termine di un lungo cammino di spoliazione che, “nonostante tutto”, prove, scoraggiamenti, ostinazioni, problemi d’ogni tipo, nasce dall’abbandono fiducioso in Dio sapendo che perché l’amore divino è sriversato nei nostri cuori per mezzo del dono dello Spirito Santo. Infine quando scrive “l’amore di Dio” ci si chiede il significato della preposizione “di “: è cioè l’amore che Dio ha per noi o l’amore nostro per Dio?  Risponde che lo Spirito Santo riversa nei nostri cuori lo stesso amore che Dio ha per l’umanità e, a nostra volta, diventiamo capaci di amare entrando sempre di più nella comunione trinitaria già da ora: questo cammino è partecipare “alla gloria di Dio” sperando di avere parte alla gloria di Dio. Questa speranza non delude, poiché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato, come abbiamo celebrato domenica scorsa, festa della Pentecoste.

 

*Dal Vangelo secondo Giovanni (16, 12 – 15)

Per immergerci in questo vangelo è necessario “vestire il cuore”, parafrasando quel che scrive Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944): ”Si vede bene solo con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi” (Piccolo Principe cap.21). Alla vigilia della sua morte, Gesù non usa la parola “Trinità”, ma fa molto di più introducendoci nell’intimità della Trinità. Per percepire questo mistero d’amore e di comunione occorre essere in sintonia con lui, essere noi stessi fuoco ardente d’amore e di comunione, purtroppo però somigliamo piuttosto a legna verde messa a contatto con il fuoco che arde con difficoltà. Gesù assicura che sarà lo Spirito di Dio, il fuoco, a venire in noi e si stabilisce nel nostro cuore.  Nell’ultima cena prepara i discepoli agli eventi che stanno per succedere sapendo che ci sono cose che non si possono ancora comprendere perché “per il momento non siete capaci di portarne il peso” (v.12). La storia dell’umanità, come di ogni uomo, è l’avventura di un lungo cammino e Dio ci accompagna. In tutta la storia biblica, Dio si rivela progressivamente e il popolo eletto abbandona le sue credenze per scoprire il vero volto di Dio. Pure i discepoli fecero fatica a riconoscere Gesù come Messia, tanto erano diverse le loro attese messianiche. Il cammino dell’incontro e della scoperta di Dio continuerà nei secoli e lungo questo percorso storico, lo Spirito di verità ci accompagna per guidarci alla verità tutta intera. La verità, una delle parole-chiave di questo testo, è una meta, non un possesso: non è di ordine intellettuale, non è un sapere e Gesù dice “Io sono la Verità”: dunque Persona da “conoscere”.  Nel linguaggio biblico “conoscere” indica un’esperienza di vita a tal punto che “conoscere” lo si usa per l’unione coniugale. Una conoscenza d’amore che non si spiega, si può solo vivere e meravigliarsene. Lo Spirito verrà ad abitare in noi, a penetrarci e guidarci verso Cristo che è la Verità e se desideriamo entrare nella conoscenza dei misteri di Dio, dobbiamo risolutamente invocare lo Spirito Santo.  Allora, a poco a poco, la rivelazione del mistero di Dio non sarà più esterna a noi: ne avremo una percezione intima, come già promettevano i profeti: “Tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande” (Gr31,34).. Un’ultima osservazione: Lo Spirito “vi annuncerà le cose future” (v.13). Non aspettiamoci rivelazioni alla maniera dei veggenti perché si tratta di qualcosa di ben più grande: è il progetto di amore e di salvezza che Dio realizza nella storia umana: san Paolo lo chiama “il disegno della sua benevolenza” che è, appunto, l’ingresso dell’umanità intera nella vita intima della Trinità (Cf. Ef. 1,3-10). Lo Spirito dell’amore ha permesso a Gesù di superare le tentazioni sataniche nel deserto, lo ha guidato in tutta la sua missione, ispirando le sue parole e le sue azioni e i miracoli, fino all’ultima estrema audacia dell’abbandono totale al Getsemani. Nella nostra esistenza camminiamo anche noi verso questa verità tutta intera di Cristo ed è lo Spirito che ci abita a renderci audaci nella missione introducendoci all’esperienza stessa dell’intimità di Dio Uno e Trino. In fondo, celebrando la festa della Trinità, non contempliamo da lontano un mistero inaccessibile, celebriamo già la grande festa della fine dei tempi: quella dell’ingresso dell’umanità nella Casa di Dio.

 

NOTA Per i discepoli di Cristo la verità è lui stesso: Gesù di Nazareth, vero Dio e vero uomo che rivela il volto della verità. Scriveva Fëdor Dostoevskij alla signora Fonvizina nel 1854 circa il rapporto tra verità e Cristo: «Mi sono formato un simbolo di fede in cui tutto per me è chiaro e sacro. Questo simbolo di fede è molto semplice, eccolo: credere che non v’è nulla di più bello, di più profondo, di più simpatico, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo; e non solo non c’è, ma con amore geloso io mi dico che neppure può esservi. Ma v’è di più: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità ed effettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità» (письмо к Н.Ф. Фонвизиной, №61, февраль 1854 г). Senza conoscere Cristo, non ci può essere conoscenza della verità. Lo scrive chiaramente anche Benedetto XVI nel libro Gesù di Nazareth.

+Giovanni D’Ercole

Nella società odierna i fattori che procurano affanno e inquietudine sono molteplici e sovente le strategie per combatterle sono più difficili da trovare. 

Questo tempo caratterizza il  “barcollare” di valori fondamentali, di norme, di aspirazioni, che spingevano l’uomo verso la sua realizzazione, verso una sana relazione con gli altri.

Le attuali guerre nel mondo, il ricordo di esse per i meno giovani, le minacce atomiche, si aggiungono alla lista.

In un clima  così ostile l’isolamento dell’uomo si accentua.

Ogni persona  ha il proprio modo di reagire: quello più usuale è un senso di disagio, di ansietà, di sentirsi in pericolo senza sapere quale esso sia; di rovina, o altro.

Sovente ci sfugge la causa di tutto questo. La persona si sente disarmata, e se questa inquietudine è forte, può essere scaricata sul corpo.

Si noterà una rigidità muscolare, o possono essere presenti tremori, un sentirsi deboli, stanchi; anche la voce può tremare.

A livello cardio-circolatorio possono manifestarsi palpitazioni, svenimenti, aumento del battito cardiaco, aumento della pressione. 

Anche a  livello dell’intestino possono manifestarsi nausee, vomiti, mal di pancia - che non hanno origine organica. 

Vi possono essere anche altre manifestazioni tipiche della storia di ogni persona, e non c’è organo su cui non può essere scaricata la tensione interna.

Ricordo che nella mia attività  professionale ho incontrato soggetti con problematiche psicologiche “scaricate” in diverse parti del corpo; a volte, le più impensabili.

Mi sono ritrovato di fronte alopecie (perdita di capelli), arti bloccati, disturbi della vista, svenimenti, e negli ultimi tempi adolescenti che si tagliavano…

Se la persona si sente sopraffare da un’onda anomala di malessere interiore, può reagire in maniera inadeguata o addirittura pericolosa (alcol, droghe, corse in auto, gioco d’azzardo, ecc.).

La comprensione di queste agitazioni, preoccupazioni, ansie, è importante per stabilire quando esse sono nella norma o meno.

Gli stati di ansia non comuni si distinguono da una apprensione più o meno persistente, con crisi acute.

Questi stati sono da distinguersi dallo stato di preoccupazione diffusa che troviamo come usuale nella nostra vita quotidiana.

Ricordiamoci che per definire la nostra ansia, agitazione, dobbiamo convincerci che essa è qualcosa di normale quando l’individuo si sente minacciato.

L’agitazione va distinta dalla paura, dove il pericolo è reale: l’individuo può valutare la situazione e scegliere se affrontarla, o fuggire.

Quando parliamo di agitazione nella norma, vogliamo dire che è nella natura umana provarla di fronte ad un pericolo, a una malattia, etc.

Rappresenta il modo di vivere più profondo della nostra esistenza umana,

Ci fa trovare dinanzi ai nostri limiti, alle nostre debolezze, che non sono  manifestazioni del malessere interiore o di malattia, ma espressioni della natura umana. 

Più siamo coscienti dei nostri limiti, più riusciamo a vivere con le nostre ansie.

Per i nostri simili che si sentono onnipotenti l’agitazione, l’ansia, risultano insopportabili, poiché vengono alla coscienza i limiti che sono una ferita al proprio “sentirsi una creatura superiore”. 

Sperimentiamo una normale inquietudine anche quando lasciamo una “strada vecchia per una nuova”.

Sotto questo punto di vista essa ci accompagna nei nostri cambiamenti, nella nostra evoluzione, e nel trovare un significato nella nostra vita.

 

Dott Francesco Giovannozzi  psicologo-psicoterapeuta

Giu 4, 2025

Pentecoste

Pubblicato in Angolo della Pia donna

Domenica di Pentecoste (anno C)  [8 giugno 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Nella festa della Pentecoste come Maria e gli apostoli disponiamo il cuore ad accogliere il dono dello Spirito Santo che ci trasformi in fuoco e luce di amore.  Oggi la prima lettura e il salmo responsoriale sono comuni agli anni A, B, C, mentre la seconda lettura e il vangelo sono diversi ogni anno.

 

*Prima lettura dal Libro degli Atti degli Apostoli (2, 1-11)

Gerusalemme non è solo la città dove Gesù ha istituito l’eucaristia, è morto ed è risorto, ma è anche la città dove lo Spirito è stato effuso sull’umanità. Era l’anno della morte di Gesù, ma le persone presenti in città probabilmente non avevano mai sentito parlare della sua morte e ancor meno della sua risurrezione per cui  la festa di Pentecoste per loro era come tutte le altre. La Pentecoste ebraica era molto importante perché festa del dono della Legge, una delle tre feste dell’anno per le quali si saliva in pellegrinaggio a Gerusalemme e l’elenco di tutte le nazionalità presenti in quell’occasione ne prova il grande interesse. Per i discepoli di Gesù, che lo avevano visto, udito e toccato dopo la sua risurrezione, nulla era più come prima, anche se non si aspettavano ciò che stava per accadere. Luca ci aiuta a comprendere ciò che succede, scegliendo le parole con cura, ed evocando almeno questi tre testi dell’Antico Testamento: Il dono della Legge al Sinai, una profezia di Gioele, l’episodio della torre di Babele. Anzitutto Il Sinai. Le lingue di fuoco, il fragore simile a un vento impetuoso richiamano quanto avvenne al Sinai, quando Dio diede le tavole della Legge a Mosè, Esodo19,16-19.  Inserendosi in questa linea, Luca aiuta a capire che quella Pentecoste non fu il semplice pellegrinaggio tradizionale, ma un nuovo Sinai, sul quale Dio donò la sua Legge per insegnare al popolo a vivere nell’Alleanza. In questa Pentecoste Egli donò il suo stesso Spirito e d’allora in poi, la sua Legge, l’unico vero cammino verso la libertà e la felicità, non si trova più scritta su tavole di pietra, ma nel cuore dell’uomo, come aveva profetizzato Ezechiele (Ez.11,19-20; 36,26-27). Il profeta Gioele: Luca ha certamente voluto evocare anche una parola di Gioele: “Effonderò il mio spirito su ogni essere umano, dice Dio” (Gl 3,1), cioè su tutta l’umanità. Per Luca, quei Giudei devoti provenienti da tutte le nazioni sotto il cielo, come li chiama, sono simbolo dell’intera umanità, per la quale si compie finalmente la profezia di Gioele e questo significa che è giunto il “Giorno del Signore” tanto atteso. La torre di Babele, evento che possiamo riassumere in due atti: Atto 1: Gli uomini, che parlano la stessa lingua e le stesse parole, decidono di costruire una torre immensa tra la terra e il cielo. Atto 2: Dio li blocca e li disperde sulla terra confondendo le loro lingue e da quel momento non si comprendono più. Qual è in significato di questo racconto? Dio certamente non vuole mortificare le potenzialità dell’uomo e se quindi interviene, lo fa per risparmiare all’umanità la falsa strada del pensiero unico e di un progetto umano che esclude Dio. È come se dicesse: state cercando l’unità, che è cosa buona, con una strada sbagliata perché  l’unità nell’amore non avviene con l’omologazione, ma nella diversità. E questo è il messaggio della Pentecoste: a Babele, l’umanità impara la diversità, a Pentecoste, apprende l’unità nella diversità “convivialità” (come scrive don Tonino Bello) perché tutte le nazioni ascoltano proclamare, ciascuna nella propria lingua, l’unico messaggio: “Magnalia Dei, le grandi opere di Dio” (At 2,11).

 

*Salmo responsoriale (103 (104), 1.24, 29-30, 31.34)

Questo salmo conta 36 versetti di lode e meraviglia davanti alle opere di Dio, un poema stupendo. Viene proposto per la festa di Pentecoste perché Luca, nel libro degli Atti degli Apostoli, racconta che la mattina di Pentecoste, gli apostoli, ripieni di Spirito Santo, si sono messi a proclamare in tutte le lingue le “grandi opere di Dio” della creazione. In tutte le civiltà ci sono poemi sulla bellezza della natura. In particolare, è stato ritrovato in Egitto, sulla tomba di un faraone, un poema scritto dal celebre faraone Akhenaton (Amenofi IV), un inno al Dio-Sole. Amenofi IV visse intorno al 1350 a.C., in un’epoca in cui gli Ebrei probabilmente si trovavano in Egitto e forse hanno conosciuto questo poema. Tra il poema del faraone e il salmo 103/104 ci sono somiglianze di stile e di vocabolario, ma ciò che interessa è cogliere le differenze segnate dalla rivelazione di Dio al popolo dell’Alleanza. Prima differenza: Dio solo è Dio, differenza essenziale per la fede di Israele: Dio è l’unico Dio, non ce ne sono altri e il sole non è un dio. Il racconto della creazione nel libro della Genesi rimette sole e luna al loro posto: non sono dèi, ma luminari anch’essi semplici creature. Diversi versetti mostrano Dio come unico Signore della creazione usando un linguaggio regale: Dio si presenta come un re magnifico, maestoso e vittorioso. Seconda particolarità: La creazione è tutta buona e qui  c’è un’eco della Genesi che ripete instancabilmente: “E Dio vide che era cosa buona”. Questo salmo evoca tutti gli elementi della creazione con lo stesso stupore: “Io gioisco nel Signore” e il salmista aggiunge (in un versetto non letto questa domenica): “Voglio cantare al Signore finché vivo, suonare per il mio Dio finché esisto” Tuttavia, il male non è ignorato: la fine del salmo lo menziona e ne invoca la scomparsa dato che già nell’Antico Testamento si era compreso che il male non viene da Dio, perché tutta la creazione è buona e un giorno Dio farà sparire ogni male dalla terra: il Re vittorioso eliminerà tutto ciò che ostacola la felicità dell’uomo. Terza particolarità: La creazione è continua non essendo un atto del passato, come se Dio avesse lanciato la terra e l’uomo nello spazio una volta per tutte, ma una relazione perenne tra il Creatore e le sue creature. Quando diciamo nel Credo: “Credo in Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra”non affermiamo solo la fede in un atto iniziale, ma riconosciamo di essere in una relazione necessaria con lui lui e questo salmo lo ribadisce parlando della costante azione di Dio:”Tutti da te aspettano…Nascondi il tuo volto: sono smarriti…Ritiri il loro respiro: muoiono e ritornano nella loro polvere. Mandi il tuo spirito: sono creati, e rinnovi la faccia della terra”. Altra particolarità: L’uomo è culmine della creazione. Per la fede ebraica al vertice della creazione c’è l’uomo, il re del creato e per questo riempito del soffio di Dio. Ed è proprio ciò che celebriamo a Pentecoste: lo Spirito di Dio che è in noi vibra e entra in risonanza con l’uomo e con tutto il creato e il salmista canta: “Dio gioisca delle sue opere! Io gioisco nel Signore”. In conclusione la creazione ha senso nella luce dell’Alleanza: In Israele ogni riflessione sulla creazione si colloca nella prospettiva dell’Alleanza avendo Israele sperimentato dapprima la liberazione da parte di Dio, e solo dopo ha meditato sulla creazione alla luce di questa fondamentale esperienza. Nel salmo ci sono tracce visibili di ciò: Anzitutto, il nome di Dio usato è sempre il celebre tetragramma YHWH, che traduciamo con Signore, il nome del Dio dell’Alleanza, rivelato a Mosè. Inoltre nell’espressione: “Signore, mio Dio, quanto sei grande” il possessivo è un richiamo all’Alleanza, poiché il progetto di Dio nell’Alleanza era proprio detto così: “Voi sarete il mio popolo, e io sarò il vostro Dio”. Questa promessa si compie nel dono dello Spirito a ogni carne, come proclama il profeta Gioele e ogni uomo è invitato a ricevere il dono dello Spirito per diventare vero figlio di Dio.

 

*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (8, 8 –17)

 La difficoltà principale di questo testo è nella parola “carne” che nel vocabolario di san Paolo non ha lo stesso significato rispetto al nostro vocabolario in cui spesso si contrappongono i due componenti dell’essere umano corpo e anima rischiando di male interpretare quel che Paolo intende dire quando parla di carne e di Spirito. Quel che lui chiama “carne” non è ciò che noi chiamiamo corpo e quel che chiama “Spirito” non corrisponde a ciò che chiamiamo anima; anzi egli precisa più volte che si tratta dello Spirito di Dio,“lo Spirito di Cristo”. Non contrappone due parole, “carne” e “Spirito”, ma due espressioni: “vivere secondo la carne” e “vivere secondo lo Spirito” cioè scegliere tra due modi di vivere, o meglio decidere chi seguire e quale linea di condotta adottare. Torna il tema delle due vie che ogni giudeo come san Paolo ben conosce: scegliere tra due strade, tra due atteggiamenti possibili davanti alle difficoltà o alle prove: la fiducia in Dio, oppure la diffidenza; la sicurezza di non sentirsi mai abbandonati da Dio oppure il dubbio e il sospetto che Dio non cerchi veramente il nostro bene; la fedeltà ai suoi comandamenti perché ci fidiamo di lui, oppure la disobbedienza perché ci riteniamo capaci di autonome decisioni. La storia d’Israele nella Bibbia (si pensi a Massa e Meriba nel libro dell’esodo) presenta numerosi esempi di sfiducia davanti alle prove della vita e nel deserto specialmente di fronte alle tante prove tra cui la fame e la sete. Quando il popolo sospettò che Dio lo abbandonasse fece un vero processo d’intenzione a Dio e a Mosè. Anche Adamo, difronte al limite posto ai suoi desideri, sospettò e disobbedì al Signore. La tentazione di Adamo ed Eva nell’Eden si ripropone nella nostra vita ogni giorno: è il costante problema della fiducia e della sfiducia, il cosiddetto peccato “originale” nel senso che è alla base di tutti i disastri umani. Opposto al sospetto e alla ribellione contro Dio sta l’atteggiamento di Cristo pieno di fiducia e sottomissione perché sa che la volontà di Dio è solo bene. Soprattutto di fronte alle sfide del dolore in tutte le sue forme e alla morte sono due agli tteggiamenti opposti che Paolo chiama “vivere secondo la carne” o “vivere secondo lo Spirito”. Vivere secondo la carne significa per lui comportarsi come schiavi che non si fidano e obbediscono per obbligo o per paura delle punizioni. “Vivere secondo lo Spirito” è invece “comportarsi da figli”, tessere cioè relazioni di fiducia e di tenerezza che, seguendo l’esempio di Cristo, portano alla vita. Vivere sotto l’influsso della carne (cioè nell’atteggiamento di sfiducia e disobbedienza verso Dio) conduce alla morte, mentre vivere mediante lo Spirito è far morire le opere del peccato. In altre parole: l’atteggiamento da schiavo, è distruttivo mentre l’atteggiamento da figlio è via di pace e felicità. Lo Spirito di Dio, che con il battesimo abita in noi, ci fa chiamare Dio “Abbà-Padre”, e il giorno in cui tutta l’umanità riconoscerà Dio come Padre, il progetto divino sarà compiuto, e tutti insieme entreremo nella sua gloria. Pochi versetti più avanti, Paolo annoterà che la creazione attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio. Il testo odierno ci ricorda infine che poiché siamo figli di Dio, siamo anche eredi di Dio, coeredi con Cristo, a condizione di soffrire con lui per essere con lui anche nella gloria. Un testo che può essere letto in due modi: lo schiavo immagina un Dio che mette delle condizioni all’eredità; invece il figlio considera Dio come Padre anche e soprattutto nella sofferenza. Il soffrire è inevitabile come lo fu anche per Cristo, ma vissuto con lui e come lui, diventa via di risurrezione ed allora “a condizione di soffrire con lui” vuol dire: a condizione di essere con lui, di rimanere uniti a lui in ogni momento, anche nella sofferenza inevitabile.

 

*Dal Vangelo secondo Giovanni (14, 15-16. 23b-26)

 Questo passo evangelico molto noto assume oggi una nuova luce grazie agli altri testi biblici proposti per la festa di Pentecoste. Ad esempio, si è tentati di pensare allo Spirito Santo in termini di ispirazione, di idee, di discernimento, di intelligenza, ma per la festa del dono dello Spirito, il vangelo oggi parla soltanto di amore. Gesù dice qui che lo Spirito di Dio è tutt’altra cosa: è Amore, l’Amore personificato. Questo significa che, la mattina di Pentecoste, a Gerusalemme, quando i discepoli furono ricolmi  di Spirito Santo, fu l’amore stesso che è Dio a riempirli. E allo stesso modo, anche noi, battezzati e cresimati, sappiamo che la nostra capacità di amare è abitata dall’amore stesso di Dio. Lo ricorda il salmo responsoriale 103/104 quando proclama: Tu mandi il tuo Spirito, e noi, creati a immagine di Dio, siamo chiamati a somigliargli sempre di più, costantemente modellati da Lui a sua immagine. Lo Spirito è il vasaio che lavora la sua creta e ogni vaso diventa sempre più raffinato nelle mani dell’artigiano. Noi siamo la creta nelle mani di Dio per cui la nostra somiglianza con Lui si affina sempre più nella misura in cui ci lasciamo trasformare dallo Spirito d’Amore. Nella seconda lettura san Paolo parla del nostro rapporto con Dio riassunto in una frase: non siamo più schiavi, ma siamo figli di Dio, mentre nel vangelo Gesù collega il nostro rapporto con Dio al nostro rapporto con i fratelli: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” (Gv14, 15) e sappiamo bene qual è il suo comandamento: “che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi (Gv 13,34).  Se Gesù si riferisce al gesto della lavanda dei piedi, cioè a un atteggiamento deciso di servizio, possiamo tradurre “se mi amate, osserverete i miei comandamenti” con “se mi amate, vi metterete a servizio gli uni degli altri”. L’amore di Dio e l’amore dei fratelli sono inseparabili, così inseparabili che è dalla qualità del nostro servizio verso il prossimo che va giudicata la qualità del nostro amore per Dio e quindi “se non vi mettete al servizio dei vostri fratelli, non pretendete di dire che mi amate!”  Poco più avanti, Gesù riprende un’espressione simile e la sviluppa: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv14,23). Non significa che il Padre del cielo non ci ama se non ci mettiamo al servizio dei fratelli perché in lui non ci sono condizioni e ricatti. Al contrario, la caratteristica della misericordia è proprio chinarsi ancora più verso i miseri come miseri siamo tutti, almeno in quanto a amore e servizio degli altri. L’amore si impara esercitandolo, ma ciò che qui il Signore ci dice è qualcosa che ben conosciamo: la capacità di amare è un’arte, e ogni arte si impara esercitandola. L’amore del Padre è smisurato, infinito ma la nostra capacità di accoglierlo è limitata e cresce man mano che lo esercitiamo. Possiamo allora tradurre così: “Se qualcuno mi ama, si metterà al servizio degli altri e a poco a poco, il suo cuore si allargherà; l’amore di Dio lo invaderà sempre di più, e potrà servire ancora meglio gli altri…e così via fino all’infinito” cioè in un progresso senza limiti. Concludiamo tornando al termine “Paraclito” che può tradursi in consolatore e difensore. Sì, abbiamo bisogno di un difensore, ma non davanti a Dio e san Paolo lo chiarisce bene nella seconda lettura: Lo Spirito che avete ricevuto non vi rende schiavi, gente che ha ancora paura, è invece Spirito che vi rende figli (cf  Rm 8,15).  Non abbiamo quindi più paura di Dio e non abbiamo bisogno di un avvocato davanti a Lui. Ma allora perché Gesù  dice che pregherà il Padre, ed egli ci darà un altro difensore, perché rimanga con noi per sempre? Sì, abbiamo bisogno di un difensore,  che ci difenda da noi stessi, dalle nostre remore a servire gli altri, dalla scarsa fiducia nella potenza di Dio, difenda in noi costantemente la causa degli altri contro il nostro egoismo perché, così agendo, in realtà difende noi stessi dato che la vera felicità consiste nel lasciarci modellare ogni giorno da Dio a sua immagine vincendo ogni resistenza egoistica.

+Giovanni D’Ercole

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Per la festa dell’Ascensione, la prima lettura e il Salmo sono comuni agli anni A, B, C mentre cambiano la seconda lettura e il vangelo 

 

*Prima Lettura dagli Atti degli Apostoli (1,1-11)

Questi primi versetti degli Atti degli Apostoli richiamano la conclusione del vangelo di Luca, anch’esso indirizzato a un certo Teofilo ed è interessante notare che l’uno inizi là dove l’altro finisce, cioè con il racconto dell’Ascensione di Gesù, anche se le due narrazioni non combaciano perfettamente come si nota leggendo i testi dell’Anno C. Il vangelo narra la missione e la predicazione di Gesù, gli Atti degli Apostoli si dedicano all’attività missionaria degli apostoli, da cui il titolo. Il vangelo di Luca inizia e termina a Gerusalemme, cuore del mondo ebraico e della Prima Alleanza; gli Atti partono da Gerusalemme, perché la Nuova Alleanza prosegue la Prima ma si concludono a Roma, crocevia di tutte le strade del mondo e la Nuova Alleanza travalica i confini di Israele. Per Luca è chiaro che questa espansione è frutto dello Spirito Santo, l’ispiratore degli apostoli dalla Pentecoste, tanto che gli Atti sono spesso chiamati “il vangelo dello Spirito”. Gesù, dopo il battesimo, si preparò alla sua missione con quaranta giorni di deserto, così egli prepara la Chiesa a questa nuova fase missionaria apparendo agli apostoli per quaranta giorni e “parlando delle cose riguardanti il regno di Dio”. Infatti, “mentre si trovava a tavola con loro”, dunque durante ancora un’ultima cena, da agli apostoli alcune istruzioni che si riassumono in: un ordine, una promessa e un invio in missione.

L’ordine: non allontanarsi da Gerusalemme, ma attendere l’adempimento della promessa del Padre che deve compiersi a Gerusalemme dato che tutta la predicazione dei profeti, soprattutto d’Isaia, attribuisce a Gerusalemme un ruolo centrale nel progetto di Dio (cf Is 60,1-3; 62,1-2). La promessa: “Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo”. Anche questo era noto agli apostoli, che ricordavano la profezia di Gioele: «Spanderò il mio spirito su ogni creatura» (Gl 3,1), e le profezie di Zaccaria: (Za 13,1; 12,10), e di Ezechiele: «Spanderò su di voi acqua purificatrice e sarete purificati… Metterò in voi uno spirito nuovo… Metterò in voi il mio spirito» (Ez 36,25-27). Quado gli apostoli chiedono “se questo è il tempo nel quale ricostruirà il regno per Israele” mostrano di aver compreso che è sorto “il Giorno del Signore” e il progetto di Dio domanda ora la collaborazione dell’uomo: Con Cristo infatti è giunto il Salvatore promesso, ora tocca alla libertà umana accoglierlo e per questo è necessario l’annuncio da parte degli apostoli. Da qui la missione responsabile degli apostoli che ricevono lo Spirito Santo: “Riceverete la forza dello Spirito Santo che scenderà su di voi e di me sarete testimoni… fino ai confini della terra”. Il piano che il libro degli Atti segue è infatti questo: anzitutto l’annuncio a Gerusalemme, poi in tutta la Giudea con la Samaria e infine deve diffondersi fino ai confini del mondo. Come al mattino di Pasqua due uomini in vesti splendenti avevano destato le donne dicendo: “Perché cercate il Vivente tra i morti? Non è qui, è risorto”, così, il giorno dell’Ascensione, “due uomini in bianche vesti” fanno lo stesso con gli apostoli: “Uomini di Galilea perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (1,11). Gesù tornerà, ne siamo certi, e lo proclamiamo in ogni eucaristia quando diciamo “Nella beata speranza dell’avvento di Gesù Cristo nostro Salvatore”. Infine nna nube sottrae Gesù alla vista umana: cessa la sua presenza carnale per inaugurare quella spirituale. Segno visibile di questa presenza di Dio è la nube già presente nel passaggio del Mar Rosso (Es 13,21) e nella Trasfigurazione (Lc 9,34).

 

NOTA. Non si possono ricostruire esattamente gli eventi tra la Risurrezione e l’Ascensione. Nei testi di Luca (vangelo e Atti) la narrazione è sostanzialmente identica: Gesù parte da Betania e porta i discepoli sul Monte degli Ulivi raccomandando di non lasciare Gerusalemme finché non abbiano ricevuto lo Spirito Santo. L’unica differenza riguarda la durata: nel vangelo sembra che l’Ascensione avvenga la sera stessa di Pasqua, mentre negli Atti è chiarito che tra Pasqua e Ascensione trascorrono quaranta giorni — da qui la festa quaranta giorni dopo. Negli altri vangeli si trova poco sull’Ascensione: Matteo non ne parla affatto, riferisce solo l’apparizione alle donne e l’invio in Galilea (Mt 28,18-20). Giovanni narra diverse apparizioni, ma omette l’Ascensione. Marco menziona l’Ascensione brevemente alla fine (Mc 16,19). Le differenze dimostrano che i vangeli non mirano a un resoconto geografico preciso ma a sottolineare aspetti teologici: Matteo insiste sulla Galilea, Luca su Gerusalemme. Infatti, è a Gerusalemme che Gesù aveva ordinato di attendere lo Spirito: “Ecco io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città finché non siate rivestiti di potenza dall’alto” (Lc 24,49).

 

*Salmo responsoriale (46 (47),2-3,6-7,8-9)

In questo salmo Israele canta e acclama Dio non solo come suo re, ma come re di tutta la terra. Prima dell’esilio a Babilonia nessun re di Israele aveva immaginato che Dio potesse essere il Signore dell’intero universo e perciò il salmo data di un’epoca tarda della storia d’Israele. Dio è il re d’Israele e per questo in Israele il re non deteneva ogni potere perché il vero re era Dio stesso. Il re non poteva disporre della legge a suo piacimento e, come tutti, doveva sottomettersi alla Torah, vale a dire alle norme che Dio aveva dato a Mosè sul Sinai. Anzi, secondo il libro del Deuteronomio, egli doveva leggere l’intera Legge ogni giorno e, anche seduto sul trono, non era (in linea di principio) che un esecutore degli ordini di Dio, a lui trasmessi dai profeti. Nei Libri dei Re, i re domandano il parere del profeta in carica prima di intraprendere una campagna militare o, nel caso di Davide, prima di iniziare la costruzione del Tempio così che i profeti intervenivano liberamente nella vita dei re, criticando con forza le loro azioni. Una tale concezione della sovranità di Dio fu persino un ostacolo all’istituzione della monarchia, come avvenne quando il profeta Samuele, al tempo dei Giudici, reagì con forza verso i capi delle tribù che chiedevano un re per essere come tutte le altre nazioni. Desiderare di essere come gli altri popoli, quando si è il popolo eletto da Dio e in alleanza con Lui, era qualcosa di blasfemo e, se Samuele cedette alle pressioni, non mancò di avvertire  però della rovina che stavano  procurando a se stessi. Quando consacrò il primo re, Saul, si premurò di precisare che questi diventava il custode del patrimonio di Dio perché il popolo rimaneva il popolo di Dio, non del re, e il re stesso era solo un servitore di Dio. Durante gli anni della monarchia, i profeti furono incaricati di ricordare ai re questa verità essenziale. Si comprende allora che in onore di Dio questo salmo utilizza il vocabolario che altrove era riservato ai re. Anche “terribile” è un’espressione tipica del gergo di corte che va inteso così: il re  (Dio) non spaventa i suoi sudditi, ma li rassicura e per questo si avvertono i nemici che il “nostro re” sarà invincibile. Il Dio re dell’universo, “il grande re su tutta la terra” (v. 3), acclamato in ogni verso del salmo è proprio il Dio del Sinai, il “Signore” e a questa festa tutti i popoli partecipano: “Popoli tutti battete le mani, acclamate Dio con grida di gioia!” così che la dimensione universale pervade profondamente il salmo fino a dire “Dio regna sulle genti” (v. 9) riconoscendolo come unico Dio dell’intero universo.

 

NOTA. La vera scoperta del monoteismo avvenne soltanto con l’esilio babilonese: fino ad allora Israele non era monoteista nel senso pieno del termine, bensì monolatra, ossia riconosceva come proprio un solo Dio—quello dell’Alleanza del Sinai—ma ammetteva che i popoli confinanti avessero ciascuno il proprio dio, sovrano nella loro terra e difensore in battaglia. Questo salmo fu dunque probabilmente composto dopo il ritorno dall’esilio non nella sala del trono, ma nel Tempio ricostruito di Gerusalemme, in un contesto liturgico in cui si evocava il grande progetto di Dio sull’umanità, anticipando il giorno in cui finalmente Dio sarà riconosciuto come Padre di ogni bene. Noi cristiani facciamo nostro questo salmo e l’espressione “ascende Dio tra le acclamazioni” sembra ben adatta per l’odierna celebrazione dell’Ascensione di Gesù. Tributando a Cristo re dell’universo questo splendido omaggio, anticipiamo il canto che nell’ultimo giorno i figli di Dio finalmente riuniti intoneranno insieme: “Popoli tutti, battete le mani! Acclamate Dio con grida di gioia”.

 

*Seconda Lettura dalla Lettera agli Ebrei (9, 24-28 ; 10,19-23)     

Nella prima parte di questo testo l’autore medita sul mistero di Cristo; nella seconda ne ricava le conseguenze per la vita di fede con l’intento di rassicurare i suoi lettori, i cristiani di origine ebraica, che provavano una certa nostalgia del culto antico dato che nella pratica cristiana non c’è più il tempio, né più sacrifici di sangue e si domandavano se davvero fosse questo ciò che Dio vuole. L’autore ripercorre tutti i riti e le realtà della religione ebraica dimostrando che sono ormai superati. Ttratta soprattutto del Tempio, chiamato santuario, e chiarisce che bisogna distinguere il vero santuario in cui Dio dimora — il cielo stesso — dal tempio costruito dagli uomini, che ne è solo una pallida immagine. Gli ebrei erano giustamente orgogliosi del Tempio di Gerusalemme, ma non dimenticavano che ogni costruzione umana, per definizione, resta debole, imperfetta e destinata a perire. Inoltre, nessuno in Israele sosteneva che si potesse rinchiudere la presenza di Dio in un edificio, per quanto maestoso. Lo aveva già detto il primo costruttore del Tempio, il re Salomone: “Forse che Dio dimorerebbe sulla terra? I cieli e i cieli dei cieli non ti possono contenere; figuriamoci questa Casa che io ho edificato!” (1 Re 8,27).  Per i cristiani il vero Tempio — il luogo dell’incontro con Dio — non è più un edificio, perché l’Incarnazione del Verbo ha cambiato tutto. Il luogo d’incontro tra Dio e l’uomo è Cristo, il Dio fatto uomo e san Giovanni lo spiegha quando narra Gesù che caccia  dal Tempio i cambiamonete e venditori di animali. A coloro che gli chiesero: “Quale segno ci mostrerai per fare questo?”, (cioè «in nome di chi fai questa rivoluzione? rispose: “Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo ristabilirò”. Solo dopo la risurrezione i discepoli capiranno che parlava del suo corpo (Gv 2,13-21). Qui, nella Lettera agli Ebrei, si afferma la stessa cosa: solo restando innestati in Cristo, nutriti del suo corpo, entriamo nel mistero del Dio che “non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo” (Eb 9,24). Questo avvenne con la morte di Cristo rendendo chiara la centralità della Croce nel mistero cristiano, come confermano tutti gli autori del Nuovo Testamento. L’autore della Lettera agli Ebrei precisa più avanti che il culmine dell’offerta della vita di Cristo è la sua morte ma il suo sacrificio abbraccia l’intera sua esistenza non solo quindi la sua Passione (cp10). Nel passo che leggiamo oggi l’attenzione si concentra sul sacrificio della Passione, contrapposto a quello che ogni anno offriva il sommo sacerdote nel Giorno dell’Espiazione (Yom Kippur). Entrava da solo nel Santo dei Santi, pronunciava l’indicibile nome di Dio (YHVH), spargeva il sangue di un toro per i propri peccati e quello di un capro per quelli del popolo, rinnovando così solennemente l’Alleanza e, quando usciva, il popolo sapeva che i suoi peccati erano perdonati. Quell’alleanza andava rinnovata ogni anno, invece la nuova Alleanza stabilita con il Padre è definitiva in Cristo crocifisso e risorto. Sulla croce si rivela il vero volto di Dio, che ci ama fino all’estremo, padre di ognuno di noi per cui non c’è più da temere il giudizio di Dio. Quando nel Credo proclamiamo che Gesù verrà a giudicare i vivi e i morti, sappiamo che, in Dio giudizio significa salvezza, come leggiamo qui: “Cristo dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato a coloro che lo aspettano per la loro salvezza” (Eb 9,28). Questa certezza della fede ci permette di vivere il rapporto con Dio in piena serenità e azione di grazie. Ma è importante testimoniarlo, come ci esorta questo testo: “Continuiamo senza esitare a professare la nostra speranza, perché Colui che ha promesso è fedele» (Eb. 10,23). Gesù Cristo è “il sommo sacerdote dei beni futuri” (Eb 9,11).

 

*Dal Vangelo secondo san Luca (24, 46-53)

I sinottici, Matteo, Marco, Luca si differenziano nel racconto dell’Ascensione del Signore, 

Matteo lo colloca su un monte in Galilea, dove Gesù aveva fissato il suo appuntamento con gli apostoli; Marco non fornisce alcuna indicazione geografica; Luca, al contrario, situa l’evento sul Monte degli Ulivi verso Betania. In tal modo conclude il vangelo là dove era iniziato, a Gerusalemme: la città santa del popolo eletto da cui la rivelazione del Dio unico si era irradiata al mondo; la città del tempio-segno della presenza di Dio fra gli uomini. Ma anche la città dell’adempimento della salvezza per mezzo della morte e risurrezione di Cristo, e la città del dono dello Spirito. Infine la città da cui deve irradiarsi sull’universo l’ultima rivelazione e Luca fa risuonare nelle nostre orecchie le parole di Gesù: “Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26). Ciò che è nuovo qui, rispetto alle tre profezie della sua passione pronunciate da Gesù prima degli eventi e alle due affermazioni subito dopo la risurrezione e sul cammino di Emmaus, è la conclusione della frase, che assume la forma di un invio missionario degli apostoli: “ Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni (Lc 24, 46-49) Per i primi cristiani era difficile spiegare quale passo delle Scritture aveva annunciato le sofferenze del Messia e la sua risurrezione il terzo giorno; fra gli ultimi profeti dell’Antico Testamento erano molto più diffuse le profezie sulla conversione di tutte le nazioni, cominciando da Gerusalemme, come leggiamo in Geremia: “In quel giorno chiameranno Gerusalemme trono del Signore; tutte le nazioni vi si troveranno affluire, al nome del Signore, a Gerusalemme» (3,17); e nel terzo Isaia: “La casa mia sarà chiamata casa di preghiera per tutti i popoli” (56,7); “Di luna in luna, di sabato in sabato, verrà ogni creatura a prostrarsi davanti a me” (66,23). Zaccaria poi sviluppa questo tema: “In quel giorno molte nazioni si raccoglieranno al Signore e saranno per me un popolo” (Za 2,15), “Molti popoli e nazioni potenti verranno a Gerusalemme a cercare il Signore degli eserciti” (8,22).Gli esegeti affermano che, anche se queste riflessioni sono presenti in numerosi salmi, furono soprattutto i canti del Servo nei DeuteroIsaia (Is 42; 49; 50; 52-53) a ispirare la meditazione degli evangelisti e a chiarire l’espressione di Gesù “Bisognava che:::” perché in questi quattro cantici emerge la figura del Messia sofferente e glorificato e l’annuncio del bene per tutte le nazioni: “Io, il Signore”, ti ho chiamato con giustizia, ti ho preso per mano, ti ho formato; ti ho fatto alleanza del popolo, luce delle nazioni» (Is 42,6);

“Il giusto, mio servo, giustificherà le moltitudini” (Is 53,11). Questa conclusione del vangelo di Luca assume dunque i toni della liturgia: Gesù, vero sommo sacerdote, benedice i suoi e li invia nel mondo e il popolo adora e rende grazie: “Alzate le mani, li benedisse. E mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio” (Lc 24, 50-53). Il vangelo di Luca si chiude tornando al suo inizio, quando Zaccaria, sacerdote dell’Antica Alleanza, aveva udito l’annuncio della salvezza di Dio (Lc 1,5-19 e l’ultima immagine che i discepoli custodirono del Maestro è un gesto di benedizione. Per questo si capisce perché tornano a Gerusalemme con grande gioia. In quest’immagine conclusiva è racchiuso il mistero della luce e della gioia dell’Ascensione, una partenza che non è abbandono, ma certezza di una presenza diversa, invisibile ma ancor più potente ed efficace.

+Giovanni D’Ercole

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The dialogue of Jesus with the rich young man, related in the nineteenth chapter of Saint Matthew's Gospel, can serve as a useful guide for listening once more in a lively and direct way to his moral teaching [Veritatis Splendor n.6]
Il dialogo di Gesù con il giovane ricco, riferito nel capitolo 19 del Vangelo di san Matteo, può costituire un'utile traccia per riascoltare in modo vivo e incisivo il suo insegnamento morale [Veritatis Splendor n.6]
The Gospel for this Sunday (Lk 12:49-53) is part of Jesus’ teachings to the disciples during his journey to Jerusalem, where death on the cross awaits him. To explain the purpose of his mission, he takes three images: fire, baptism and division [Pope Francis]
Il Vangelo di questa domenica (Lc 12,49-53) fa parte degli insegnamenti di Gesù rivolti ai discepoli lungo la sua salita verso Gerusalemme, dove l’attende la morte in croce. Per indicare lo scopo della sua missione, Egli si serve di tre immagini: il fuoco, il battesimo e la divisione [Papa Francesco]
«And they were certainly inspired by God those who, in ancient times, called Porziuncola the place that fell to those who absolutely did not want to own anything on this earth» (FF 604)
«E furono di certo ispirati da Dio quelli che, anticamente, chiamarono Porziuncola il luogo che toccò in sorte a coloro che non volevano assolutamente possedere nulla su questa terra» (FF 604)
It is a huge message of hope for each of us, for you whose days are always the same, tiring and often difficult. Mary reminds you today that God calls you too to this glorious destiny (Pope Francis)
È un grande messaggio di speranza per ognuno noi; per te, che vivi giornate uguali, faticose e spesso difficili. Maria ti ricorda oggi che Dio chiama anche te a questo destino di gloria (Papa Francesco)
In the divine attitude justice is pervaded with mercy, whereas the human attitude is limited to justice. Jesus exhorts us to open ourselves with courage to the strength of forgiveness, because in life not everything can be resolved with justice. We know this (Pope Francis)
Nell’atteggiamento divino la giustizia è pervasa dalla misericordia, mentre l’atteggiamento umano si limita alla giustizia. Gesù ci esorta ad aprirci con coraggio alla forza del perdono, perché nella vita non tutto si risolve con la giustizia; lo sappiamo (Papa Francesco)
The Second Vatican Council's Constitution on the Sacred Liturgy refers precisely to this Gospel passage to indicate one of the ways that Christ is present:  "He is present when the Church prays and sings, for he has promised "where two or three are gathered together in my name there am I in the midst of them' (Mt 18: 20)" [Sacrosanctum Concilium, n. 7]
La Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II si riferisce proprio a questo passo del Vangelo per indicare uno dei modi della presenza di Cristo: "Quando la Chiesa prega e canta i Salmi, è presente Lui che ha promesso: "Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io  sono in mezzo a loro" (Mt 18, 20)" [Sacrosanctum Concilium, 7]
This was well known to the primitive Christian community, which considered itself "alien" here below and called its populated nucleuses in the cities "parishes", which means, precisely, colonies of foreigners [in Greek, pároikoi] (cf. I Pt 2: 11). In this way, the first Christians expressed the most important characteristic of the Church, which is precisely the tension of living in this life in light of Heaven (Pope Benedict)
Era ben consapevole di ciò la primitiva comunità cristiana che si considerava quaggiù "forestiera" e chiamava i suoi nuclei residenti nelle città "parrocchie", che significa appunto colonie di stranieri [in greco pàroikoi]

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