don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Lunedì, 16 Giugno 2025 06:35

Uomo: chiamato, non succube

Le particolari circostanze della nascita di Giovanni ci sono state tramandate dall’evangelista Luca. Secondo un’antica tradizione, essa avvenne ad Ain-Karim, davanti alle porte di Gerusalemme. Le circostanze che accompagnarono questa nascita erano tanto inconsuete, che già a quell’epoca la gente si domandava: “Che sarà mai questo bambino?” (Lc 1, 66). Per i suoi genitori credenti, per i vicini e per i parenti era evidente, che la sua nascita fosse un segno di Dio. Essi vedevano chiaramente che la “mano del Signore” era su di lui. Lo dimostrava già l’annuncio della sua nascita al padre Zaccaria, mentre questi provvedeva al servizio sacerdotale nel tempio di Gerusalemme. La madre, Elisabetta, era già avanti negli anni e si riteneva fosse sterile. Anche il nome “Giovanni” che gli fu dato era inconsueto per il suo ambiente. Il padre stesso dovette dare ordine che fosse chiamato “Giovanni” e non, come tutti gli altri volevano,“Zaccaria” (cf. Lc 1, 59-63).

Il nome Giovanni significa, in lingua ebraica “Dio è misericordioso”. Così già nel nome si esprime il fatto che il neonato un giorno annuncerà il piano di salvezza di Dio.

Il futuro avrebbe pienamente confermato le predizioni e gli avvenimenti che circondarono la sua nascita: Giovanni, figlio di Zaccaria e di Elisabetta, divenne la “voce di uno che grida nel deserto” (Mt 3, 3), che sulle rive del Giordano chiamava la gente alla penitenza e preparava la via a Cristo.

Cristo stesso ha detto di Giovanni il Battista che “tra i nati di donna non è sorto uno più grande” (cf. Mt 11, 11). Per questo anche la Chiesa ha riservato a questo grande messaggero di Dio una venerazione particolare, fin dall’inizio. Espressione di questa venerazione è la festa odierna.

4. Cari fratelli e sorelle! Questa celebrazione, con i suoi testi liturgici, ci invita a riflettere sulla questione del divenire dell’uomo, delle sue origini e della sua destinazione. È vero, ci sembra di sapere già molto su questo argomento, sia per la lunga esperienza dell’umanità, sia per le sempre più approfondite ricerche biomediche. Ma è la parola di Dio che ristabilisce sempre di nuovo la dimensione essenziale della verità sull’uomo: l’uomo è creato da Dio e da Dio voluto a sua immagine e somiglianza. Nessuna scienza puramente umana può dimostrare questa verità. Al massimo essa può avvicinarsi a questa verità o supporre intuitivamente la verità su questo “essere sconosciuto” che è l’uomo fin dal momento del suo concepimento nel grembo materno.

Allo stesso tempo però ci troviamo ad essere testimoni di come, in nome di una presunta scienza, l’uomo venga “ridotto” in un drammatico processo e rappresentato in una triste semplificazione; e così accade che si adombrino anche quei diritti che si fondano sulla dignità della sua persona, che lo distingue da tutte le altre creature del mondo visibile. Quelle parole del libro della Genesi, che parlano dell’uomo come della creatura creata ad immagine e somiglianza di Dio, mettono in rilievo, in modo conciso e al tempo stesso profondo, la piena verità su di lui.

5. Questa verità sull’uomo possiamo apprenderla anche dalla liturgia odierna, in cui la Chiesa prega Dio, il creatore, con le parole del salmista:

“Signore, tu mi scruti e mi conosci . . . 

Sei tu che hai creato le mie viscere 

e mi hai tessuto nel seno di mia madre . . . 

tu mi conosci fino in fondo. 

Quando venivo formato nel segreto . . . 

non ti erano nascoste le mie ossa . . . 

Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio” (Sal 139 [138], 1. 13-15).

L’uomo quindi è consapevole di ciò che è - di ciò che è fin dall’inizio, fin dal grembo materno. Egli sa di essere una creatura che Dio vuole incontrare e con la quale vuole dialogare. Di più: nell’uomo vorrebbe incontrare l’intero creato.

Per Dio, l’uomo è un “qualcuno”: unico ed irripetibile. Egli, come dice il Concilio Vaticano II, “in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa” (cf. Gaudium et Spes, 24).

“Il Signore dal seno materno mi ha chiamato; fin dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome” (Is 49, 1); come il nome del bambino che è nato in Ain-Karim: “Giovanni”. L’uomo è quell’essere, che Dio chiama per nome. Per Iddio egli è il “tu” creato, Tra tutte le creature egli è quell’“io” personale, che può rivolgersi a Dio e chiamarlo per nome. Dio vuole nell’uomo quel partner che si rivolga a lui come al proprio creatore e Padre: “Tu, mio Signore e mio Dio”. Al “tu” divino.

6. Cari fratelli e sorelle! Come rispondiamo noi uomini a questa chiamata di Dio? Come intende l’uomo di oggi la sua vita? In nessuna altra epoca sono stati compiuti tanti sforzi mediante la tecnica e la medicina, per salvaguardare la vita umana contro la malattia, per prolungarla sempre più e per salvarla dalla morte. Allo stesso tempo, però, nessun’altra epoca, come la nostra, ha prodotto tanti luoghi e tanti metodi di disprezzo e di distruzione dell’uomo. Le amare esperienze del nostro secolo con le macchine di morte di due guerre mondiali, la persecuzione e la distruzione di interi gruppi di uomini a causa della loro appartenenza etnica o religiosa, la corsa agli armamenti atomici fino all’estremo limite, l’impotenza degli uomini di fronte alle grandi miserie in molte parti della terra potrebbero indurci a dubitare, se non addirittura a rinnegare, l’affetto e l’amore che Dio ha per l’uomo e per l’intero creato.

O non sarà piuttosto il caso di porci la domanda al contrario, quando consideriamo i terribili eventi che a causa degli uomini si sono abbattuti sul mondo e di fronte alle molteplici minacce del nostro tempo: non è l’uomo che si è allontanato da Dio, che è la sua origine, non si è forse discostato da lui, e non ha forse innalzato se stesso a centro e metro della propria vita? Non credete che negli esperimenti che si conducono sull’uomo, esperimenti che contraddicono la sua dignità, nell’atteggiamento mentale di molti verso l’aborto e l’eutanasia si esprima una preoccupante perdita del rispetto della vita? Non è forse evidente, anche nella vostra società, quando si guarda alla vita di molti - caratterizzata da vuoto interiore, paura e fuga - che l’uomo stesso ha reciso le proprie radici? Il sesso, l’alcol e la droga non debbono forse intendersi come segnali di allarme? Non indicano, forse, una grande solitudine dell’uomo odierno, un desiderio di cure, una fame di amore che un mondo ripiegato su se stesso non riesce a quietare?

In effetti, quando l’uomo non è più legato alla sua radice, che è Dio, egli si impoverisce di valori interiori e pian piano diventa succube di diverse minacce. La storia ci insegna che uomini e popoli che credono di poter esistere senza Dio sono immancabilmente destinati alla catastrofe dell’autodistruzione. Il poeta Ernst Wiechert lo ha espresso in questa frase: “Siate pur certi che nessuno cadrà fuori da questo mondo, che prima non sia caduto fuori da Dio”.

Al contrario, da un rapporto vivo con Dio l’uomo acquisisce la consapevolezza della unicità e del valore della propria vita e della propria coscienza personale. Nella sua vita vissuta concretamente egli sa di essere chiamato, sorretto e spronato da Dio. Nonostante le ingiustizie e le sofferenze personali egli comprende che la sua vita è un dono; egli ne è grato e sa di esserne responsabile davanti a Dio. In questo modo, Dio diventa per l’uomo fonte di forza e di fiducia, e a questa fonte l’uomo può rendere la sua vita degna e sa anche metterla generosamente al servizio dei fratelli.

7. Dio ha chiamato Giovanni il Battista già “nel grembo materno” perché divenisse “la voce di uno che grida nel deserto” e preparasse quindi la via a suo Figlio. In modo molto simile, Dio ha “posto la sua mano” anche su ciascuno di noi. Per ciascuno di noi ha una chiamata particolare, a ciascuno di noi viene affidato un compito pensato da lui per noi.

In ciascuna chiamata, che può giungerci nel modo più diverso, si avverte quella voce divina, che allora parlò attraverso Giovanni: “Preparate la via del Signore!” (Mt 3, 3).

Ogni uomo dovrebbe domandarsi in che modo può contribuire nell’ambito del proprio lavoro e della propria posizione, ad aprire a Dio la via in questo mondo. Tutte le volte che ci apriamo alla chiamata di Dio, prepariamo, come Giovanni, la via del Signore tra gli uomini.

[Papa Giovanni Paolo II, 24 giugno 1988]

Lunedì, 16 Giugno 2025 06:23

Stupore, o niente si muove dentro?

Oggi la liturgia ci invita a celebrare la festa della Natività di San Giovanni Battista. La sua nascita è l’evento che illumina la vita dei suoi genitori Elisabetta e Zaccaria, e coinvolge nella gioia e nello stupore i parenti e i vicini. Questi anziani genitori avevano sognato e anche preparato quel giorno, ma ormai non l’aspettavano più: si sentivano esclusi, umiliati, delusi: non avevano figli. Di fronte all’annuncio della nascita di un figlio (cfr Lc 1,13), Zaccaria era rimasto incredulo, perché le leggi naturali non lo consentivano: erano vecchi, erano anziani; di conseguenza il Signore lo rese muto per tutto il tempo della gestazione (cfr. v. 20). E’ un segnale. Ma Dio non dipende dalle nostre logiche e dalle nostre limitate capacità umane. Bisogna imparare a fidarsi e a tacere di fronte al mistero di Dio e a contemplare in umiltà e silenzio la sua opera, che si rivela nella storia e che tante volte supera la nostra immaginazione.

E ora che l’evento si compie, ora che Elisabetta e Zaccaria sperimentano che «nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37), grande è la loro gioia. L’odierna pagina evangelica (Lc 1,57-66.80) annuncia la nascita e poi si sofferma sul momento dell’imposizione del nome al bambino. Elisabetta sceglie un nome estraneo alla tradizione di famiglia e dice: «Si chiamerà Giovanni» (v. 60), dono gratuito e ormai inatteso, perché Giovanni significa “Dio ha fatto grazia”. E questo bambino sarà araldo, testimone della grazia di Dio per i poveri che aspettano con umile fede la sua salvezza. Zaccaria conferma inaspettatamente la scelta di quel nome, scrivendolo su una tavoletta – perché era muto –, e «all’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava normalmente, benedicendo Dio» (v. 64).

Tutto l’avvenimento della nascita di Giovanni Battista è circondato da un gioioso senso di stupore, di sorpresa e di gratitudine. Stupore, sorpresa, gratitudine. La gente è presa da un santo timore di Dio «e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose» (v. 65). Fratelli e sorelle, il popolo fedele intuisce che è accaduto qualcosa di grande, anche se umile e nascosto, e si domanda: «Che sarà mai questo bambino?» (v. 66). Il popolo fedele di Dio è capace di vivere la fede con gioia, con senso di stupore, di sorpresa e di gratitudine. Guardiamo quella gente che chiacchierava bene su questa cosa meravigliosa, su questo miracolo della nascita di Giovanni, e lo faceva con gioia, era contenta, con senso di stupore, di sorpresa e gratitudine. E guardando questo domandiamoci: come è la mia fede? E’ una fede gioiosa, o è una fede sempre uguale, una fede “piatta”? Ho senso dello stupore, quando vedo le opere del Signore, quando sento parlare dell’evangelizzazione o della vita di un santo, o quanto vedo tanta gente buona: sento la grazia, dentro, o niente si muove nel mio cuore? So sentire le consolazioni dello Spirito o sono chiuso? Domandiamoci, ognuno di noi, in un esame di coscienza: Come è la mia fede? E’ gioiosa? E’ aperta alle sorprese di Dio? Perché Dio è il Dio delle sorprese. Ho “assaggiato” nell’anima quel senso dello stupore che dà la presenza di Dio, quel senso di gratitudine? Pensiamo a queste parole, che sono stati d’animo della fede: gioia, senso di stupore, senso di sorpresa e gratitudine.

La Vergine Santa ci aiuti a comprendere che in ogni persona umana c’è l’impronta di Dio, sorgente della vita. Lei, Madre di Dio e Madre nostra, ci renda sempre più consapevoli che nella generazione di un figlio i genitori agiscono come collaboratori di Dio. Una missione veramente sublime che fa di ogni famiglia un santuario della vita e risveglia – ogni nascita di un figlio – la gioia, lo stupore, la gratitudine.

[Papa Francesco, Angelus 24 giugno 2018]

Domenica, 15 Giugno 2025 23:50

Corpus Domini

Domenica, 15 Giugno 2025 04:11

Travi e pagliuzze: eliminare preconcetti

Per una convivenza trasparente

(Mt 7,1-5)

 

Il Discorso della Montagna (Mt 5-7) elenca catechesi su questioni salienti del vissuto nelle comunità di Galilea e Siria - composte di giudei convertiti a Cristo.

Da parte dei veterani non mancavano episodi di disprezzo nei confronti dei nuovi che si presentavano alla soglia delle chiese - per il loro modello di vita lontano dalla norma riconosciuta, o anche per inezie.

«Teatrante» (v.5) è chi pensa in grande di sé e ha sempre la manìa di guardarsi attorno per convincersi di poter primeggiare - senza porsi in atteggiamento di riguardo nei confronti dell’enigma della vita, dove invece i fardelli possono tramutarsi in progresso.

Lo sguardo obbiettivo su noi stessi e la nostra crescita personale - spesso scaturita proprio da deviazioni a stereotipi o nomenclature - può renderci benevolenti. Può convincere di rispetto e perfino di ossequio dovuto, nei confronti del ‘di più’ che ci circonda e chiama.

Il legalismo dei dettagli ingessati porta infatti la trascuratezza dell’essenziale, nell’amore vicendevole (cf. vv.3-5).

Negli anni 70 del primo secolo la consapevolezza della diversa relazione famigliare e serena con Dio - e il modo nuovo di vivere la sua Legge - stava interrogando i credenti e coinvolgeva i rapporti con i fratelli e sorelle di comunità.

Dopo aver introdotto sia gl’inediti criteri di ‘Giustizia maggiore’ che il recupero dei princìpi della Creazione, l’evangelista suggerisce alcuni  spunti essenziali per la qualità di vita interna delle fraternità.

 

L’estrazione culturale dei membri di chiesa anziani era di stampo accanitamente legalista. Tale bagaglio non favoriva la libertà delle valutazioni reciproche: la convivenza doveva essere più trasparente.

Per incoraggiare la comunione, Mt vuole presentare un Gesù libero e tranquillo - non superuomo, né idolo o modello: viceversa, Persona genuina; Maestro non unilaterale.

Egli infatti sapeva recuperare e desiderava valorizzare tutte le singole sensibilità, per consentire l’espressione dell’amicizia e dell’arricchimento in ogni realtà umana.

Solo la sua forte ‘radice’ nella relazione col Padre doveva essere di esempio sacro per ciascuno, e paragone inviolabile per tutti, sempre.

In Palestina il Signore non si era mostrato fondamentalista. 

La «Fiducia» nel Padre e nella sua «vita che viene» donava al Figlio stesso la certezza di potersi totalmente aprire alle situazioni e a ciascuno - in qualsivoglia realtà si trovasse a districarsi.

Un’apertura conviviale alle differenze, per non bloccare i varchi e l’esito della Novità, nello Spirito delle Beatitudini.

Questo perché siamo stati chiamati a rendere esponenziale l’esistenza nostra e di tutti, non a smorzarla di preconcetti e convincimenti relativi.

 

Accettiamo la Provvidenza, noi stessi e l’altro così com’è: consapevoli che c’è un segreto prezioso, un destino inedito, un Mistero che ci supera… dietro ogni evento, in ognuno dei nostri stessi ‘volti intimi’ [sostenuti dal Padre], o nel fratello pur eccentrico.

I modi della sequela che risuonano in fondo al cuore sono tanto vari quante le persone, gli accadimenti, i ritmi commisurati all’anima, le età.

Essi abbracciano la medesima Proposta - senza che in tale poliedricità si perda il Mistero perdurante, né alcun legame.

Solo qui… Mondo reale, Persona, Natura ed Eternità si alleano.

 

 

[Lunedì 12.a sett. T.O.  23 giugno 2025]

Domenica, 15 Giugno 2025 04:07

Travi e pagliuzze: eliminare preconcetti

Per una convivenza trasparente

(Mt 7,1-5)

 

Il Discorso della Montagna (Mt 5-7) elenca catechesi su questioni salienti del vissuto nelle comunità di Galilea e Siria - composte di giudei convertiti a Cristo.

Non mancavano episodi di disprezzo anche reciproco, acceso in specie da veterani abituati a mettere sotto inchiesta i nuovi che si presentavano alla soglia delle chiese - per il loro modello di vita lontano dalla norma riconosciuta, o anche per inezie.

Ma non siamo giudici, bensì famigliari. E certo, in ultima analisi è proprio la malizia che aguzza l’occhio sui minimi difetti altrui: in genere, pagliuzze e mancanze esterne.

Ciò mentre la medesima scaltrezza sorvola enormità proprie - pesantissima trave che ci separa non solo da Dio e da tutti, ma perfino da noi stessi, accostandoci all’io egoista e arrogante.

«Teatrante» (v.5) è chi pensa in grande di sé e ha sempre la manìa di guardarsi attorno per convincersi di poter primeggiare - senza porsi in atteggiamento di riguardo nei confronti dell’enigma della vita, dove invece i fardelli possono tramutarsi in progresso.

Lo sguardo obbiettivo su noi stessi e la nostra crescita personale - spesso scaturita proprio da deviazioni a stereotipi o nomenclature - può renderci benevolenti. Può convincere di rispetto e perfino di ossequio dovuto, nei confronti del di più che ci circonda e chiama.

Il legalismo dei dettagli ingessati porta infatti la trascuratezza dell’essenziale, nell’amore vicendevole (cf. vv.3-5).

Ben sappiamo quant’è dura metterci in discussione, o educare proprio i religiosi perfezionisti a successivi distacchi da loro convincimenti accidentali [o mode], diventati per abitudine sclerotici come totem.

Insomma, negli anni 70 del primo secolo la consapevolezza della diversa relazione famigliare e serena con Dio - e il modo nuovo di vivere la sua Legge - stava interrogando i credenti e coinvolgeva i rapporti con i fratelli e sorelle di comunità.

 

Dopo aver introdotto sia gl’inediti criteri di ‘Giustizia maggiore’ che il recupero dei princìpi della Creazione, l’evangelista suggerisce alcuni  spunti essenziali per la qualità di vita interna delle fraternità.

L’estrazione culturale dei membri di chiesa anziani era di stampo accanitamente legalista. 

Tale bagaglio non favoriva la libertà delle valutazioni reciproche: la convivenza doveva essere più trasparente.

I preconcetti devoti parevano un macigno insuperabile per la vita personalizzante e di condivisione reciproca secondo la nuova logica delle Beatitudini [Mt 5,1-12: Autoritratto di Cristo come ‘libro aperto’ (a colpi di lancia)].

Il bagaglio culturale legato agli adempimenti, al senso di dovere e gerarchia, allo stile di vita assuefatto, e alle credenze che facevano fatica a essere deposte, moltiplicava giudizi severi reciproci fra generazioni e tra variegate impostazioni culturali.

 

Per incoraggiare la comunione, Mt vuole presentare un Gesù libero e tranquillo - non superuomo, né idolo o modello: viceversa, Persona genuina; Maestro non unilaterale.

Egli infatti sapeva recuperare; desiderava valorizzare tutte le poliedriche, singole sensibilità, per consentire l’espressione dell’amicizia e dell’arricchimento in ogni realtà umana.

Solo la sua forte ‘radice’ nella relazione col Padre doveva essere di esempio sacro per ciascuno, e paragone inviolabile per tutti, sempre.

Ciò per una trasparenza ricca e globale, da proporre anche ai discepoli.

In tal guisa, non si configurava l’adesione a credenze particolari, né la ripetizione delle solite discipline di perfezione.

Neppure dovevano prediligersi le pie osservanze di massa, talora primo impedimento al dialogo e all’Esodo - nelle sue differenti opulenze.

Poi la vita stessa avrebbe guidato ciascuno in modo provvidente, verso una specifica testimonianza, che potesse essa stessa creare un’altra apertura - attinente il proprio carattere e vocazione d’anima.

 

In Palestina il Signore non si era mostrato ossessivo e unilaterale, né ridotto a schemi normali e verosimili - sulla base di codici culturali, prudenze valutative, o paradigmi morali e religiosi.

La fiducia nel Padre e nella vita che viene donava al Maestro Gesù la certezza di potersi totalmente aprire alle situazioni e a ciascuno - in qualsivoglia realtà si trovasse a districarsi.

Un’apertura conviviale alle differenze più eccezionali, per non bloccare i varchi e l’esito della Novità, nello Spirito delle Beatitudini.

 

Il senza-condizioni dell’Amore vale sempre in primis per il discepolo, i membri della medesima comunità, e il prossimo.

Questo perché siamo stati chiamati a rendere esponenziale l’esistenza nostra e di tutti, non a smorzarla con versioni glamour, o di preconcetti-a-monte, e convincimenti relativi.

Creati per amare la verità eccezionale della donna e dell’uomo, non per spegnere le unicità - sentenziando sui nonnulla.

Accettiamo la Provvidenza, noi stessi e l’altro così com’è: consapevoli che c’è un segreto prezioso, un destino di novità, un Mistero che ci supera… dietro ogni evento, in ognuno dei nostri stessi volti intimi [sostenuti dal Padre], o nel fratello pur eccentrico.

 

I modi della sequela che risuonano in fondo al cuore sono tanto vari quante le persone, gli accadimenti, i ritmi commisurati all’anima, le età.

Essi abbracciano la medesima Proposta - senza che in tale poliedricità si perda il Mistero perdurante, né alcun legame.

Solo qui… Mondo reale, Persona, Natura ed Eternità si alleano.

 

«Quando il tessitore alza un piede, l’altro si abbassa. Quando il movimento cessa e uno dei piedi si ferma, il tessuto non si fa più. Le sue mani lanciano la spola che passa dall’una all’altra; ma nessuna mano può sperare di tenerla. Come i gesti del tessitore, è l’unione dei contrari a tessere la nostra vita» [Tradizione orale africana Peul].

«Siamo assolutamente perduti se ci viene a mancare questa particolare Individualità, l’unica cosa che possiamo dire veramente nostra e la cui perdita costituisce anche una perdita per il mondo intero. Essa è preziosissima, appunto perché non è universale» [Tagore].

«Dobbiamo imparare ad abbandonare le nostre difese e il nostro bisogno di controllare, e fidarci totalmente della guida dello spirito» [Sobonfu Somé].

«La vera moralità non consiste nel seguire la via battuta, ma nel trovare il sentiero vero per noi e nel seguirlo senza paura» [Gandhi].

 

 

Travi e pagliuzze: situazione paradossale, dove talora c’è un eccesso di “credo” - eppure manca la Fede.

Domenica, 15 Giugno 2025 03:58

Prestare attenzione

“Prestiamo attenzione”: la responsabilità verso il fratello.

Il primo elemento è l'invito a «fare attenzione»: il verbo greco usato è katanoein,che significa osservare bene, essere attenti, guardare con consapevolezza, accorgersi di una realtà. Lo troviamo nel Vangelo, quando Gesù invita i discepoli a «osservare» gli uccelli del cielo, che pur senza affannarsi sono oggetto della sollecita e premurosa Provvidenza divina (cfr Lc 12,24), e a «rendersi conto» della trave che c’è nel proprio occhio prima di guardare alla pagliuzza nell'occhio del fratello (cfr Lc 6,41). Lo troviamo anche in un altro passo della stessa Lettera agli Ebrei, come invito a «prestare attenzione a Gesù» (3,1), l'apostolo e sommo sacerdote della nostra fede. Quindi, il verbo che apre la nostra esortazione invita a fissare lo sguardo sull’altro, prima di tutto su Gesù, e ad essere attenti gli uni verso gli altri, a non mostrarsi estranei, indifferenti alla sorte dei fratelli. Spesso, invece, prevale l’atteggiamento contrario: l’indifferenza, il disinteresse, che nascono dall’egoismo, mascherato da una parvenza di rispetto per la «sfera privata». Anche oggi risuona con forza la voce del Signore che chiama ognuno di noi a prendersi cura dell'altro. Anche oggi Dio ci chiede di essere «custodi» dei nostri fratelli (cfr Gen 4,9), di instaurare relazioni caratterizzate da premura reciproca, da attenzione al bene dell'altro e a tutto il suo bene. Il grande comandamento dell'amore del prossimo esige e sollecita la consapevolezza di avere una responsabilità verso chi, come me, è creatura e figlio di Dio: l’essere fratelli in umanità e, in molti casi, anche nella fede, deve portarci a vedere nell'altro un vero alter ego, amato in modo infinito dal Signore. Se coltiviamo questo sguardo di fraternità, la solidarietà, la giustizia, così come la misericordia e la compassione, scaturiranno naturalmente dal nostro cuore. Il Servo di Dio Paolo VI affermava che il mondo soffre oggi soprattutto di una mancanza di fraternità: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (Lett. enc. Populorum progressio [26 marzo 1967], n. 66).

[Papa  Benedetto, Messaggio per la Quaresima 2012]

Domenica, 15 Giugno 2025 03:49

Cecità, travi, pagliuzze

Nella liturgia della parola il Vangelo di Luca ci ha riproposto l’interrogativo di Gesù: “Può forse un cieco guidare un altro cieco?” (Lc 6, 39). Il Signore intende dire che una guida non può essere cieca, deve vedere bene, se non vuol rischiare di arrecare danno alle persone che le sono state affidate. Gesù richiama così l’attenzione di tutti coloro che hanno compiti educativi o di comando: i pastori d’anime, i reggitori dei popoli, i legislatori, i maestri, i genitori, esortandoli ad avere coscienza, a sentire la responsabilità, a interrogarsi sulla strada giusta e a percorrerla essi stessi per primi.

3. E il percorso giusto è quello tracciato dal divin Maestro. Lo ha detto Lui stesso con un’espressione semitica, che suona così: “Il discepolo non è da più del maestro, ma ognuno ben preparato sarà come il suo maestro” (Lc 6, 40). Con essa Gesù si presenta come Modello e ci invita a seguire la sua condotta e i suoi insegnamenti. Solo così si è guide sicure e sagge. Gli insegnamenti del Signore, per quanto attiene alla vita morale, sono contenuti principalmente nel discorso della montagna, che da tre domeniche leggiamo nella celebrazione della Santa Messa. Nel brano d’oggi troviamo un’altra frase molto significativa, quella che esorta a non essere presuntuosi e ipocriti. “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non t’accorgi della trave che è nel tuo?” (Lc 6, 41). Com’è facile scorgere i difetti e i peccati altrui e non vedere i propri! E come possiamo accorgerci se il nostro occhio è libero o se è impedito da una trave? La verifica ci viene dalle nostre azioni. È ancora Gesù che ce lo dice: “Ogni albero si riconosce dal suo frutto” (Lc 6, 44). Il frutto sono le azioni, ma anche le parole. Anche da queste si conosce la qualità dell’albero. Infatti, chi è buono trae fuori dal suo cuore e dalla sua bocca il bene e chi è cattivo trae fuori il male. Questo insegnamento di Gesù fa eco agli antichi detti sapienziali del Siracide, che abbiamo ascoltato nella prima lettura: “Il frutto dimostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela il sentimento dell’uomo” (Sir 27, 6).

[Papa Giovanni Paolo II, omelia a Corviale 1 marzo 1992]

Domenica, 15 Giugno 2025 03:17

Davanti allo specchio

Ci sono regole chiare suggerite da Gesù per non cadere nell’ipocrisia: non giudicare gli altri per non essere a nostra volta giudicati con la stessa misura; e quando ci viene la tentazione di farlo, è meglio guardarsi prima allo specchio, non per nasconderci con il trucco ma per vedere bene come siamo realmente. Ricordando che l’unico vero giudizio è quello di Dio con la sua misericordia, Papa Francesco — nella messa celebrata lunedì mattina 20 giugno nella cappella della Casa Santa Marta — ha raccomandato di non cedere alla tentazione di mettersi al posto del Signore, dubitando della sua parola.

«Gesù parla alla gente e insegna tante cose sulla preghiera, sulle ricchezze, sulle preoccupazioni vane, tante, su come deve comportarsi un suo discepolo» ha affermato Francesco. E così «arriva a questo passo del Vangelo sul giudizio», proposto dalla liturgia (Matteo, 7, 1-5). È un brano in cui «il Signore è molto concreto». Se infatti «alcune volte il Signore per farci capire ci racconta una parabola, qui è: “ta, ta, ta”: diretto, perché il giudizio è una cosa che può fare solo lui».

«Il fatto incomincia» con una parola chiara di Gesù: «Non giudicate, per non essere giudicati». Dunque, «se tu non vuoi essere giudicato non giudicare gli altri: “tac, tac”, chiaro». E il Signore «va un passo avanti», indicando appunto il criterio della misura: «Perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi».

«Tutti noi vogliamo, il giorno del giudizio, che il Signore ci guardi con benevolenza, che il Signore si dimentichi di tante cose brutte che abbiamo fatto nella vita» ha detto Francesco. E «questo è giusto, perché siamo figli, e un figlio dal padre si aspetta questo, sempre». Ma «se tu giudichi continuamente gli altri, con la stessa misura tu sarai giudicato: questo è chiaro».

«Primo, il comandamento, il fatto: “Non giudicate per non essere giudicati”» ha ribadito il Papa, aggiungendo: «Secondo, la misura sarà la stessa che voi usate per i fratelli». E poi «il terzo passo: guardati allo specchio ma non per truccarti perché non si vedano le rughe; no, no, no, quello non è il consiglio!». Piuttosto, ha suggerito Francesco, «guardati allo specchio per guardare te, come tu sei». Le parole di Gesù sono chiare: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? O come dirai a tuo fratello: “lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio” mentre nel tuo occhio c’è la trave?”».

«Come ci qualifica il Signore — si è chiesto il Pontefice — quando facciamo questo? Una sola parola: “Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”». In realtà, non dovrebbe sorprendere la reazione del Signore che «si arrabbia; è molto forte, e sembra anche che ci insulti: dice “ipocrita” a chi giudica gli altri».

La ragione è che «chi giudica — ha spiegato il Papa — si mette al posto di Dio, si fa Dio e dubita della parola di Dio». È proprio «quello che il serpente ha convinto a fare ai nostri padri: “No, no, Dio è un bugiardo, se voi mangiate di questo, sarete come lui”. E loro volevano mettersi al posto di Dio».

Per questo, ha insistito il Pontefice, «è tanto brutto giudicare: il giudizio solo a Dio, solo a lui!». A noi compete piuttosto «l’amore, la comprensione, il pregare per gli altri quando vediamo cose che non sono buone», se serve «anche parlare loro» per metterli in guardia se qualcosa non sembra andare per il verso giusto. In ogni caso «mai giudicare, mai», perché «se noi giudichiamo è ipocrisia».

Del resto, ha affermato Francesco, «quando giudichiamo ci mettiamo al posto di Dio, questo è vero, ma il nostro giudizio è un povero giudizio: mai, mai può essere un vero giudizio». Perché, appunto, «il vero giudizio è quello che dà Dio». E «perché il nostro non può essere come quello di Dio? Perché Dio è onnipotente e noi no? No, perché al nostro giudizio manca la misericordia». E «quando Dio giudica, giudica con misericordia».

In conclusione il Papa ha suggerito di pensare «oggi a questo che il Signore ci dice: non giudicare, per non essere giudicato; la misura con la quale giudichiamo sarà la stessa che useranno con noi; e, terzo, guardiamoci allo specchio prima di giudicare». E così quando ci viene da dire: «questa fa quello, questo fa quello», è meglio guardarsi allo specchio prima di parlare. Altrimenti «sarò un ipocrita — ha ripetuto Francesco — perché mi metto al posto di Dio». E comunque «il mio giudizio è un povero giudizio: manca qualcosa di tanto importante che ha il giudizio di Dio, manca la misericordia». Il Signore, ha auspicato il Papa, «ci faccia capire bene queste cose».

[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 20/06/2016]

Corpus Domini

(Lc 9,11b-17)

 

Il Vaticano II non ha speso una sola parola riguardo le molteplici devozioni eucaristiche.

Per farci comprendere appieno la Persona del Cristo, i padri conciliari avevano ben presente che Gesù non ha lasciato una statua o una reliquia.

Ha preferito esprimersi in un gesto, che ci interpella.

Nel mondo ebraico, di sera ogni famiglia si ritrovava attorno alla mensa, e quello dello spezzare il pane era il momento più significativo della loro esperienza di convivialità (e di memoria della consegna di sé agli altri).

L’unico pane veniva frazionato e condiviso fra tutti i famigliari - ma anche un povero affamato poteva affacciarsi all’uscio, che non doveva venire serrato.

Pane e vino, prodotti che avevano assimilato le energie del cielo e della terra, erano percepiti con sensibilità spirituale - doni del Creatore per la vita e la gioia dell’umanità.

In quella cultura, il pane è cibo base. Ma la nostra vita è completa solo se c’è anche l’elemento della festa: ecco il vino.

Il pane ancora oggi non viene tagliato con un coltello, per rispettarne la sacralità: solo spezzato. Esso contiene l’esistere concreto.

Per questo Gesù sceglie il Banchetto come segno della sua Persona, vita, parola, vicenda rischiosa, donate in alimento.

Durante la cena in famiglia, pane e vino non venivano percepiti al pari della manna, ossia come prodotti naturali e grezzi. Neppure era un nutrirsi per ricuperare le forze, e basta.

Nel frumento e nell’uva si erano dati appuntamento anche tutti i variegati contributi del focolare domestico.

Attorno alla mensa, ciascun uomo vedeva nel pane e nel vino il frutto del suo lavoro: pulitura del terreno, aratura, seminagione, mietitura, potature, vendemmia e opera di torchio.

La donna coglieva nel pane il suo lavoro di macinatura, impastatura, cottura. Anche i minori potevano ricordare qualcosa di proprio, perché i ragazzetti si prestavano ad attingere acqua.

La cena era una celebrazione dell’armonia. La mensa era appunto un luogo in cui i giovani venivano educati alla percezione dell’esistere nell’unità, invece che nel disinteresse.

Gratitudine verso i doni di Dio e percezione del proprio apporto, che giunge (realmente) all’obiettivo nello spirito di sinergia e comunione.

Contributi, risorse e capacità convenivano a porgersi in servizio, per la vita di tutti.

Nel gesto eucaristico Gesù dice: cieli e terra nuovi non corrispondono al mondo in cui ciascuno si affretta a mietere per sé o la sua cerchia, onde accaparrarsi il massimo delle risorse.

Il suo Regno? Tutti invitati e fratelli concordi, nessuno padrone o dominatore - destinato a stare davanti o sopra (anche se più svelto degli altri) persino in Cielo.

Anche gli Apostoli - chiamati da Gesù con sé ma ancora rimasti a distanza di sicurezza da Lui (cf. Lc 9,10.12) - non sono i proprietari del Pane, bensì coloro che lo devono porgere a tutti (vv.13.16), per creare abbondanza dov’essa non c’è.

 

Nel brano di Lc Gesù suscita sconcerto. Non è d’accordo con l’idea che ciascuno s’arrangi; neppure gli va a genio l’elemosina (vv.12-13).

Impone ai suoi che la folla si sdrai (v.14 testo greco) come facevano i signori e le persone libere nei momenti solenni.

Vuole e insiste che siano anzitutto gli apostoli a servire (vv.13.16), non altri schiavi.

E forse la cosa più sbalorditiva è che a nessuno dei presenti impone gesti preventivi di purificazione, com’era abitudine nella religiosità tradizionale.

Prima del pasto essa postulava l’abluzione: una sorta di cerimonia che sottolineasse un distacco sacrale fra puro e impuro.

Unico compito degli apostoli è quello di distribuire l’Alimento - poi da sminuzzare, vagliare e assimilare, per edificare un nuovo Regno - non fare radiografie preventive; tantomeno interessate.

In religione abbiamo una lunga trafila di adempimenti da osservare per presentarci a cospetto di Dio.

Nel cammino di Fede è l’incontro gratuito col Signore che fa crescere, rendendoci puri senza condizioni.

Appello alla Convivialità reale, e Richiamo sempreverde a non accontentarsi.

Sabato, 14 Giugno 2025 04:26

L’Eucaristia in Raffaello e Arcabas

(Lc 9,11b-17)

 

Alimento moltiplicato perché distribuito: Richiamo a non accontentarsi

 

Il Vaticano II non ha speso una sola parola riguardo le molteplici devozioni eucaristiche.

Per farci comprendere appieno la Persona del Cristo, i padri conciliari avevano ben presente che Gesù non ha lasciato una statua o una reliquia. Ha preferito esprimersi in un gesto, che ci interpella.

Nel mondo ebraico, di sera ogni famiglia si ritrovava attorno alla mensa, e quello dello spezzare il pane era il momento più significativo della loro esperienza di convivialità (e di memoria della consegna di sé agli altri).

L’unico pane veniva frazionato e condiviso fra tutti i famigliari - ma anche un povero affamato poteva affacciarsi all’uscio, che non doveva venire serrato.

Pane e vino, prodotti che avevano assimilato le energie del cielo e della terra, erano percepiti con sensibilità spirituale - doni del Creatore per la vita e la gioia dell’umanità.

In quella cultura, il pane è cibo base. Ma la nostra vita è completa solo se c’è anche l’elemento della festa: ecco il vino.

Il pane ancora oggi non viene tagliato con un coltello, per rispettarne la sacralità: solo spezzato. Esso contiene l’esistere concreto.

Per questo Gesù sceglie il Banchetto come segno della sua Persona, vita, parola, vicenda rischiosa, donate in alimento.

 

Durante la cena in famiglia, pane e vino non venivano percepiti al pari della manna, ossia come prodotti naturali e grezzi. Neppure era un nutrirsi per ricuperare le forze, e basta.

Nel frumento e nell’uva si erano dati appuntamento anche tutti i variegati contributi del focolare domestico.

Attorno alla mensa, ciascun uomo vedeva nel pane e nel vino il frutto del suo lavoro: pulitura del terreno, aratura, seminagione, mietitura, potature, vendemmia e opera di torchio.

La donna coglieva nel pane il suo lavoro di macinatura, impastatura, cottura. Anche i minori potevano ricordare qualcosa di proprio, perché i ragazzetti si prestavano ad attingere acqua (se non ai pozzi, a una sorgente).

La cena era una celebrazione dell’armonia. La mensa era appunto un luogo in cui i giovani venivano educati alla percezione dell’esistere nell’unità, invece che nel disinteresse.

Gratitudine verso i doni di Dio e percezione del proprio contributo, ch’era giunto (realmente) all’obiettivo nello spirito di sinergia e comunione.

Contributi, risorse e capacità convenivano a porgersi in servizio, per la vita di tutti.

 

Nel gesto eucaristico Gesù dice: cieli e terra nuovi non corrispondono al mondo in cui ciascuno si affretta a mietere per sé o la sua cerchia, onde accaparrarsi il massimo delle risorse.

Il suo Regno? Tutti invitati e fratelli concordi, nessuno padrone o dominatore - destinato a stare davanti o sopra (anche se più svelto degli altri) persino in Cielo.

Anche gli Apostoli - chiamati da Gesù con sé ma ancora rimasti a distanza di sicurezza da Lui (cf. Lc 9,10.12) - non sono i proprietari del Pane, bensì coloro che lo devono porgere a tutti (vv.13.16), per creare abbondanza dov’essa non c’è.

 

 

Per animare gli incontri sul tema dell’Eucaristia e interiorizzare come nella stessa Chiesa Cattolica ci sia stata un’evoluzione nella comprensione dell’efficacia del Segno, uso comparare due grandi opere d’arte.

Raffaello nella cosiddetta Disputa del Sacramento raffigura un mondo sacrale e statico. Oggi diremmo (a colpo d’occhio) quasi plastificato.

Ambiente che sembra tutto prevedibile e comunque caratterizzato da un modello sociale, culturale e spirituale situato; dove ciascuno è collocato in base a origini, posizione, status, rango spirituale.

Arcabas - artista francese recentemente scomparso - dipinge un quadro che sembra privo di Protagonista: come tagliato, o (meglio) focalizzato sul semplice gesto. A dire: il contorno di addobbi non riguarda questa proposta di vita.

Nell’opera del pittore contemporaneo cogliamo la sobrietà di una Persona e d’una missionarietà ben centrata (che graffia, ma ci fa perdere la testa assai più delle belle sceneggiature); perché nel mondo dell’Amore il meglio deve ancora Venire.

Siamo interrogati.

Arcabas illustra una tavola semplicemente imbandita: un piatto non certo della migliore collezione, un bicchiere di vino senza fronzoli, una tovaglia semplicemente appoggiata alla mensa e connotata dalle sue piegature (neanche stirate) che ricordano il quotidiano reale.

E soprattutto il gesto normale dello spezzare il pane, quello del passo dopo passo, con le sue briciole non vaporose né candide. Il Banchetto eucaristico non è per l’aldilà - chissà quando.

(Per quasi mille anni la Chiesa cattolica ha celebrato con il pane quotidiano come ancora fa ad es. la Chiesa ortodossa. A testimonianza, ci sono rimasti vassoi-patena molto ampi, oggi ridotti a un piattello).

 

 

Nel brano di Lc Gesù suscita sconcerto. Non è d’accordo con l’idea che ciascuno s’arrangi; neppure gli va a genio l’elemosina (vv.12-13).

Impone ai suoi che la folla si sdrai (v.14 testo greco) come facevano i signori e le persone libere nei momenti solenni.

Vuole e insiste che siano anzitutto gli apostoli a servire (vv.13.16), non altri schiavi.

E forse la cosa più sbalorditiva è che a nessuno dei presenti impone gesti preventivi di purificazione, com’era abitudine nella religiosità tradizionale.

Prima del pasto essa postulava l’abluzione: una sorta di cerimonia che sottolineasse un distacco sacrale fra puro e impuro.

(Il Cristo neppure gradisce che i percorsi di ciascuno siano assoggettati a osservatori esterni, esperti che impongano astratti princìpi e un ritmo disumanizzante, non commisurato alla persona).

Unico compito degli apostoli è quello di distribuire l’Alimento - poi da sminuzzare, vagliare e assimilare, per edificare un nuovo Regno - non fare radiografie preventive; tantomeno interessate.

Criterio assoluto e non negoziabile è la pienezza di vita dell’ultimo arrivato; il viceversa sarebbe (davvero) una valle di lacrime, venata d’insoddisfazione e scontento.

 

In religione abbiamo una lunga trafila di adempimenti da osservare per presentarci a cospetto di Dio.

Nel cammino di Fede è l’incontro gratuito col Signore che fa crescere, rendendoci puri senza condizioni.

Anche nella Disputa del Sacramento il più prossimo all’Altare (quasi a identificarsi) è s. Francesco, accovacciato al di sotto del piano della Mensa. Anche lui un reduce.

Lo sguardo verso l’esterno dell’alter-Christus incrocia e richiama l’attenzione di due giovani collocati sulla nostra sinistra a metà prospettiva, altrettanto accovacciati - e soverchiati da personaggi di alto rango spirituale.

Morale: l’Eucaristia non è un premio per i giusti, bensì (lì dove e come siamo) un Appello alla Convivialità reale. Richiamo sempreverde a non accontentarsi.

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In the New Testament, it is Christ who constitutes the full manifestation of God's light [Pope Benedict]
Nel Nuovo Testamento è Cristo a costituire la piena manifestazione della luce di Dio [Papa Benedetto]
Today’s Gospel reminds us that faith in the Lord and in his Word does not open a way for us where everything is easy and calm; it does not rescue us from life’s storms. Faith gives us the assurance of a Presence (Pope Francis)
Il Vangelo di oggi ci ricorda che la fede nel Signore e nella sua parola non ci apre un cammino dove tutto è facile e tranquillo; non ci sottrae alle tempeste della vita. La fede ci dà la sicurezza di una Presenza (Papa Francesco)
Dear friends, “in the Eucharist Jesus also makes us witnesses of God’s compassion towards all our brothers and sisters. The Eucharistic mystery thus gives rise to a service of charity towards neighbour” (Post-Synodal Apostolic Exhortation Sacramentum Caritatis, 88) [Pope Benedict]
Cari amici, “nell’Eucaristia Gesù fa di noi testimoni della compassione di Dio per ogni fratello e sorella. Nasce così intorno al Mistero eucaristico il servizio della carità nei confronti del prossimo” (Esort. ap. postsin. Sacramentum caritatis, 88) [Papa Benedetto]
The fool in the Bible, the one who does not want to learn from the experience of visible things, that nothing lasts for ever but that all things pass away, youth and physical strength, amenities and important roles. Making one's life depend on such an ephemeral reality is therefore foolishness (Pope Benedict)
L’uomo stolto nella Bibbia è colui che non vuole rendersi conto, dall’esperienza delle cose visibili, che nulla dura per sempre, ma tutto passa: la giovinezza come la forza fisica, le comodità come i ruoli di potere. Far dipendere la propria vita da realtà così passeggere è, dunque, stoltezza (Papa Benedetto)
We see this great figure, this force in the Passion, in resistance to the powerful. We wonder: what gave birth to this life, to this interiority so strong, so upright, so consistent, spent so totally for God in preparing the way for Jesus? The answer is simple: it was born from the relationship with God (Pope Benedict)
Noi vediamo questa grande figura, questa forza nella passione, nella resistenza contro i potenti. Domandiamo: da dove nasce questa vita, questa interiorità così forte, così retta, così coerente, spesa in modo così totale per Dio e preparare la strada a Gesù? La risposta è semplice: dal rapporto con Dio (Papa Benedetto)
Christians are a priestly people for the world. Christians should make the living God visible to the world, they should bear witness to him and lead people towards him (Pope Benedict)
I cristiani sono popolo sacerdotale per il mondo. I cristiani dovrebbero rendere visibile al mondo il Dio vivente, testimoniarLo e condurre a Lui (Papa Benedetto)
The discovery of the Kingdom of God can happen suddenly like the farmer who, ploughing, finds an unexpected treasure; or after a long search, like the pearl merchant who eventually finds the most precious pearl, so long dreamt of (Pope Francis)
La scoperta del Regno di Dio può avvenire improvvisamente come per il contadino che arando, trova il tesoro insperato; oppure dopo lunga ricerca, come per il mercante di perle, che finalmente trova la perla preziosissima da tempo sognata (Papa Francesco)
Christ is not resigned to the tombs that we have built for ourselves (Pope Francis)
Cristo non si rassegna ai sepolcri che ci siamo costruiti (Papa Francesco)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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