Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Oggi abbiamo un’impressione di oblio, del Signore.
La fossa sembra riesca a celarlo e zittirlo, tanto che non c’è neppure bisogno di contestarlo - basterebbe trascurarlo o compatirlo.
Vogliamo invece meditare ancora sulla rivoluzione di Cristo e la sua nuova Luce, per riconoscerla nostra, assimilarla e viverla - sin dalle radici dell’essere e nel nostro cammino.
Il Silenzio di Dio è parte della Rivelazione: Gloria e Vita che ci corrispondono; in modo democratico, poliedrico, non unilaterale.
Silenzio che ha rispetto del nostro ‘fiore’.
In tal guisa, tra gli alti e bassi anche della nostra vita, ecco il deporsi e il misterioso brigare dei ‘semi’ - tutta una serie di alternative:
Un differente Volto di Dio, creatore e redentore della nostra intelligenza e libertà; educatore mai arcigno - né dominatore pronto a scatenare rappresaglie.
Non sovrano che governa emanando leggi, ma Genitore che trasmette la sua stessa Vita.
Non Lo incontriamo innalzandoci e forzando, perché è Lui che incessantemente si propone, si rivela, e Viene.
Non sta “a capo” e tu dietro; non si piazza sopra mentre tu resti sotto.
Non si mette “davanti” nel modo che qualcuno sia destinato a retrocedere [coi più forti, svelti e organizzati sempre vicini, senza possibilità di ricambio].
Un’attività di denuncia della falsa religione: quella degli adempimenti ripetitivi - e delle idee fisse o troppo sofisticate, disincarnate - sotto una cappa di plagio, paure, intimidazioni.
Il Signore è giusto, perché ci comprende. Bando alle maniere vuote, futili, dispersive.
Chi si ritrova socialmente costretto non è mai se stesso e non può amare, in quanto condizionato; soverchiato da confronti e necessità esterne.
Una nuova autenticità della donna e dell’uomo, non più identificati in ruoli e personaggi da ricalcare e confrontare, bensì autonomi e realizzati per Chiamata personale.
Non attratti dal connubio cultura-devozione-potere-interesse, bensì affascinati dalla Sapienza che abita ogni lieve e piccola Unicità.
Così liberi e non ambiziosi, da potersi chinare volentieri sui meno fortunati. Senza intime dissociazioni.
Un nuovo volto di società, non competitiva né appannaggio di astuti, cordate, o cerchie, ma caratterizzata dallo scambio dei ‘doni’.
Convivialità delle differenze che accentua e lascia fiorire la vita, di tutti e ciascuno.
Insomma, non siamo una tipologia di eterni fallimenti.
Il Padre vuole persone che viaggiano verso se stesse, e sogna una Famiglia umanizzante.
Amabile, perché non assorbe le nostre energie, bensì le trasmette.
Sabato Santo, Sepoltura del Signore [19 aprile 2025]
PRIMA MEDITAZIONE
Con sempre maggior insistenza si sente parlare nel nostro tempo della morte di Dio. Per la prima volta, in Jean Paul, si tratta solo di un sogno da incubo: Gesù morto annuncia ai morti, dal tetto del mondo, che nel suo viaggio nell’aldilà non ha trovato nulla, né cielo, né Dio misericordioso, ma solo il nulla infinito, il silenzio del vuoto spalancato. Si tratta ancora di un sogno orribile che viene messo da parte, gemendo nel risveglio, come un sogno appunto, anche se non si riuscirà mai a cancellare l’angoscia subita, che stava sempre in agguato, cupa, nel fondo dell’anima. Un secolo dopo, in Nietzsche, è una serietà mortale che si esprime in un grido stridulo di terrore: «Dio è morto! Dio rimane morto! E noi lo abbiamo ucciso!». Cinquant’anni dopo, se ne parla con distacco accademico e ci si prepara a una “teologia dopo la morte di Dio”, ci si guarda intorno per vedere come poter continuare e si incoraggiano gli uomini a prepararsi a prendere il posto di Dio. Il mistero terribile del Sabato santo, il suo abisso di silenzio, ha acquistato quindi nel nostro tempo una realtà schiacciante. Giacché questo è il Sabato santo: giorno del nascondimento di Dio, giorno di quel paradosso inaudito che noi esprimiamo nel Credo con le parole «disceso agli inferi», disceso dentro il mistero della morte. Il Venerdì santo potevamo ancora guardare il trafitto. Il Sabato santo è vuoto, la pesante pietra del sepolcro nuovo copre il defunto, tutto è passato, la fede sembra essere definitivamente smascherata come fanatismo. Nessun Dio ha salvato questo Gesù che si atteggiava a Figlio suo. Si può essere tranquilli: i prudenti che prima avevano un po’ titubato nel loro intimo se forse potesse essere diverso, hanno avuto invece ragione.
Sabato santo: giorno della sepoltura di Dio; non è questo in maniera impressionante il nostro giorno? Non comincia il nostro secolo a essere un grande Sabato santo, giorno dell’assenza di Dio, nel quale anche i discepoli hanno un vuoto agghiacciante nel cuore che si allarga sempre di più, e per questo motivo si preparano pieni di vergogna e angoscia al ritorno a casa e si avviano cupi e distrutti nella loro disperazione verso Emmaus, non accorgendosi affatto che colui che era creduto morto è in mezzo a loro?
Dio è morto e noi lo abbiamo ucciso: ci siamo propriamente accorti che questa frase è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana e che noi spesso nelle nostre viae crucis abbiamo ripetuto qualcosa di simile senza accorgerci della gravità tremenda di quanto dicevamo? Noi lo abbiamo ucciso, rinchiudendolo nel guscio stantio dei pensieri abitudinari, esiliandolo in una forma di pietà senza contenuto di realtà e perduta nel giro di frasi fatte o di preziosità archeologiche; noi lo abbiamo ucciso attraverso l’ambiguità della nostra vita che ha steso un velo di oscurità anche su di lui: infatti che cosa avrebbe potuto rendere più problematico in questo mondo Dio se non la problematicità della fede e dell’amore dei suoi credenti?
L’oscurità divina di questo giorno, di questo secolo che diventa in misura sempre maggiore un Sabato santo, parla alla nostra coscienza. Anche noi abbiamo a che fare con essa. Ma nonostante tutto essa ha in sé qualcosa di consolante. La morte di Dio in Gesù Cristo è nello stesso tempo espressione della sua radicale solidarietà con noi. Il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più chiaro di una speranza che non ha confini. E ancora una cosa: solo attraverso il fallimento del Venerdì santo, solo attraverso il silenzio di morte del Sabato santo, i discepoli poterono essere portati alla comprensione di ciò che era veramente Gesù e di ciò che il suo messaggio stava a significare in realtà. Dio doveva morire per essi perché potesse realmente vivere in essi. L’immagine che si erano formata di Dio, nella quale avevano tentato di costringerlo, doveva essere distrutta perché essi attraverso le macerie della casa diroccata potessero vedere il cielo, lui stesso, che rimane sempre l’infinitamente più grande. Noi abbiamo bisogno del silenzio di Dio per sperimentare nuovamente l’abisso della sua grandezza e l’abisso del nostro nulla che verrebbe a spalancarsi se non ci fosse lui.
C’è una scena nel Vangelo che anticipa in maniera straordinaria il silenzio del Sabato santo e appare quindi ancora una volta come il ritratto del nostro momento storico. Cristo dorme in una barca che, sbattuta dalla tempesta, sta per affondare. Il profeta Elia aveva una volta irriso i preti di Baal, che inutilmente invocavano a gran voce il loro dio perché volesse far discendere il fuoco sul sacrificio, esortandoli a gridare più forte, caso mai il loro dio stesse a dormire. Ma Dio non dorme realmente? Lo scherno del profeta non tocca alla fin fine anche i credenti del Dio di Israele che viaggiano con lui in una barca che sta per affondare? Dio sta a dormire mentre le sue cose stanno per affondare, non è questa l’esperienza della nostra vita? La Chiesa, la fede, non assomigliano a una piccola barca che sta per affondare, che lotta inutilmente contro le onde e il vento, mentre Dio è assente? I discepoli gridano nella disperazione estrema e scuotono il Signore per svegliarlo, ma egli si mostra meravigliato e rimprovera la loro poca fede. Ma è diversamente per noi? Quando la tempesta sarà passata, ci accorgeremo di quanto la nostra poca fede fosse carica di stoltezza. E tuttavia, o Signore, non possiamo fare a meno di scuotere te, Dio che stai in silenzio e dormi, e gridarti: svegliati, non vedi che affondiamo? Destati, non lasciar durare in eterno l’oscurità del Sabato santo, lascia cadere un raggio di Pasqua anche sui nostri giorni, accompàgnati a noi quando ci avviamo disperati verso Emmaus perché il nostro cuore possa accendersi alla tua vicinanza. Tu che hai guidato in maniera nascosta le vie di Israele per essere finalmente uomo con gli uomini, non ci lasciare nel buio, non permettere che la tua parola si perda nel gran sciupio di parole di questi tempi. Signore, dacci il tuo aiuto, perché senza di te affonderemo.
Amen.
SECONDA MEDITAZIONE
Il nascondimento di Dio in questo mondo costituisce il vero mistero del Sabato santo, mistero accennato già nelle parole enigmatiche secondo cui Gesù è «disceso all’inferno». Nello stesso tempo l’esperienza del nostro tempo ci ha offerto un approccio completamente nuovo al Sabato santo, giacché il nascondimento di Dio nel mondo che gli appartiene e che dovrebbe con mille lingue annunciare il suo nome, l’esperienza dell’impotenza di Dio che è tuttavia l’onnipotente – questa è l’esperienza e la miseria del nostro tempo.
Ma anche se il Sabato santo in tal modo ci si è avvicinato profondamente, anche se noi comprendiamo il Dio del Sabato santo più della manifestazione potente di Dio in mezzo ai tuoni e ai lampi, di cui parla il Vecchio Testamento, rimane tuttavia insoluta la questione di sapere che cosa si intende veramente quando si dice in maniera misteriosa che Gesù «è disceso all’inferno». Diciamolo con tutta chiarezza: nessuno è in grado di spiegarlo veramente. Né diventa più chiaro dicendo che qui inferno è una cattiva traduzione della parola ebraica shêol, che sta a indicare semplicemente tutto il regno dei morti, e quindi la formula vorrebbe originariamente dire soltanto che Gesù è disceso nella profondità della morte, è realmente morto e ha partecipato all’abisso del nostro destino di morte. Infatti sorge allora la domanda: che cos’è realmente la morte e che cosa accade effettivamente quando si scende nella profondità della morte? Dobbiamo qui porre attenzione al fatto che la morte non è più la stessa cosa dopo che Cristo l’ha subita, dopo che egli l’ha accettata e penetrata, così come la vita, l’essere umano, non sono più la stessa cosa dopo che in Cristo la natura umana poté venire a contatto, e di fatto venne, con l’essere proprio di Dio. Prima la morte era soltanto morte, separazione dal paese dei viventi e, anche se con diversa profondità, qualcosa come “inferno”, lato notturno dell’esistere, buio impenetrabile. Adesso però la morte è anche vita e quando noi oltrepassiamo la glaciale solitudine della soglia della morte, ci incontriamo sempre nuovamente con colui che è la vita, che è voluto divenire il compagno della nostra solitudine ultima e che, nella solitudine mortale della sua angoscia nell’orto degli ulivi e del suo grido sulla croce «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», è divenuto partecipe delle nostre solitudini.
Se un bambino si dovesse avventurare da solo nella notte buia attraverso un bosco, avrebbe paura anche se gli si dimostrasse centinaia di volte che non c’è alcun pericolo. Egli non ha paura di qualcosa di determinato, a cui si può dare un nome, ma nel buio sperimenta l’insicurezza, la condizione di orfano, il carattere sinistro dell’esistenza in sé. Solo una voce umana potrebbe consolarlo; solo la mano di una persona cara potrebbe cacciare via come un brutto sogno l’angoscia. C’è un’angoscia – quella vera, annidata nella profondità delle nostre solitudini – che non può essere superata mediante la ragione, ma solo con la presenza di una persona che ci ama. Quest’angoscia infatti non ha un oggetto a cui si possa dare un nome, ma è solo l’espressione terribile della nostra solitudine ultima. Chi non ha sentito la sensazione spaventosa di questa condizione di abbandono? Chi non avvertirebbe il miracolo santo e consolatore suscitato in questi frangenti da una parola di affetto? Laddove però si ha una solitudine tale che non può essere più raggiunta dalla parola trasformatrice dell’amore, allora noi parliamo di inferno. E noi sappiamo che non pochi uomini del nostro tempo, apparentemente così ottimistico, sono dell’avviso che ogni incontro rimane in superficie, che nessun uomo ha accesso all’ultima e vera profondità dell’altro e che quindi nel fondo ultimo di ogni esistenza giace la disperazione, anzi l’inferno. Jean-Paul Sartre ha espresso questo poeticamente in un suo dramma e nello stesso tempo ha esposto il nucleo della sua dottrina sull’uomo. Una cosa è certa: c’è una notte nel cui buio abbandono non penetra alcuna parola di conforto, una porta che noi dobbiamo oltrepassare in solitudine assoluta: la porta della morte. Tutta l’angoscia di questo mondo è in ultima analisi l’angoscia provocata da questa solitudine. Per questo motivo nel Vecchio Testamento il termine per indicare il regno dei morti era identico a quello con cui si indicava l’inferno: shêol. La morte infatti è solitudine assoluta. Ma quella solitudine che non può essere più illuminata dall’amore, che è talmente profonda che l’amore non può più accedere a essa, è l’inferno.
«Disceso all’inferno»: questa confessione del Sabato santo sta a significare che Cristo ha oltrepassato la porta della solitudine, che è disceso nel fondo irraggiungibile e insuperabile della nostra condizione di solitudine. Questo sta a significare però che anche nella notte estrema nella quale non penetra alcuna parola, nella quale noi tutti siamo come bambini cacciati via, piangenti, si dà una voce che ci chiama, una mano che ci prende e ci conduce. La solitudine insuperabile dell’uomo è stata superata dal momento che Eglisi è trovato in essa. L’inferno è stato vinto dal momento in cui l’amore è anche entrato nella regione della morte e la terra di nessuno della solitudine è stata abitata da lui. Nella sua profondità l’uomo non vive di pane, ma nell’autenticità del suo essere egli vive per il fatto che è amato e gli è permesso di amare. A partire dal momento in cui nello spazio della morte si dà la presenza dell’amore, allora nella morte penetra la vita: ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata – prega la Chiesa nella liturgia funebre.
Nessuno può misurare in ultima analisi la portata di queste parole: «disceso all’inferno». Ma se una volta ci è dato di avvicinarci all’ora della nostra solitudine ultima, ci sarà permesso di comprendere qualcosa della grande chiarezza di questo mistero buio. Nella certa speranza che in quell’ora di estrema solitudine non saremo soli, possiamo già adesso presagire qualcosa di quello che avverrà. E in mezzo alla nostra protesta contro il buio della morte di Dio cominciamo a diventare grati per la luce che viene a noi proprio da questo buio.
TERZA MEDITAZIONE
Nel breviario romano la liturgia del triduo sacro è strutturata con una cura particolare; la Chiesa nella sua preghiera vuole per così dire trasferirci nella realtà della passione del Signore e, al di là delle parole, nel centro spirituale di ciò che è accaduto. Se si volesse tentare di contrassegnare in poche battute la liturgia orante del Sabato santo, allora bisognerebbe soprattutto parlare dell’effetto di pace profonda che traspira da essa. Cristo è penetrato nel nascondimento (Verborgenheit), ma nello stesso tempo, proprio nel cuore del buio impenetrabile, egli è penetrato nella sicurezza (Geborgenheit), anzi egli è diventato la sicurezza ultima. Ormai è diventata vera la parola ardita del salmista: e anche se mi volessi nascondere nell’inferno, anche là sei tu. E quanto più si percorre questa liturgia, tanto più si scorgono brillare in essa, come un’aurora del mattino, le prime luci della Pasqua. Se il Venerdì santo ci pone davanti agli occhi la figura sfigurata del trafitto, la liturgia del Sabato santo si rifà piuttosto all’immagine della croce cara alla Chiesa antica: alla croce circondata da raggi luminosi, segno, allo stesso modo, della morte e della risurrezione.
Il Sabato santo ci rimanda così a un aspetto della pietà cristiana che forse è stato smarrito nel corso dei tempi. Quando noi nella preghiera guardiamo alla croce, vediamo spesso in essa soltanto un segno della passione storica del Signore sul Golgota. L’origine della devozione alla croce è però diversa: i cristiani pregavano rivolti a Oriente per esprimere la loro speranza che Cristo, il sole vero, sarebbe sorto sulla storia, per esprimere quindi la loro fede nel ritorno del Signore. La croce è in un primo tempo legata strettamente con questo orientamento della preghiera, essa viene rappresentata per così dire come un’insegna che il re inalbererà nella sua venuta; nell’immagine della croce la punta avanzata del corteo è già arrivata in mezzo a coloro che pregano. Per il cristianesimo antico la croce è quindi soprattutto segno della speranza. Essa non implica tanto un riferimento al Signore passato, quanto al Signore che sta per venire. Certo era impossibile sottrarsi alla necessità intrinseca che, con il passare del tempo, lo sguardo si rivolgesse anche all’evento accaduto: contro ogni fuga nello spirituale, contro ogni misconoscimento dell’incarnazione di Dio, occorreva che fosse difesa la prodigalità inimmaginabile dell’amore di Dio che, per amore della misera creatura umana, è diventato egli stesso un uomo, e quale uomo! Occorreva difendere la santa stoltezza dell’amore di Dio che non ha scelto di pronunciare una parola di potenza, ma di percorrere la via dell’impotenza per mettere alla gogna il nostro sogno di potenza e vincerlo dall’interno.
Ma così non abbiamo dimenticato un po’ troppo la connessione tra croce e speranza, l’unità tra l’Oriente e la direzione della croce, tra passato e futuro esistente nel cristianesimo? Lo spirito della speranza che alita sulle preghiere del Sabato santo dovrebbe nuovamente penetrare tutto il nostro essere cristiani. Il cristianesimo non è soltanto una religione del passato, ma, in misura non minore, del futuro; la sua fede è nello stesso tempo speranza, giacché Cristo non è soltanto il morto e il risorto ma anche colui che sta per venire.
O Signore, illumina le nostre anime con questo mistero della speranza perché riconosciamo la luce che è irraggiata dalla tua croce, concedici che come cristiani procediamo protesi al futuro, incontro al giorno della tua venuta.
Amen.
PREGHIERA
Signore Gesù Cristo, nell’oscurità della morte Tu hai fatto luce; nell’abisso della solitudine più profonda abita ormai per sempre la protezione potente del Tuo amore; in mezzo al Tuo nascondimento possiamo ormai cantare l’alleluia dei salvati. Concedici l’umile semplicità della fede, che non si lascia fuorviare quando Tu ci chiami nelle ore del buio, dell’abbandono, quando tutto sembra apparire problematico; concedici, in questo tempo nel quale attorno a Te si combatte una lotta mortale, luce sufficiente per non perderti; luce sufficiente perché noi possiamo darne a quanti ne hanno ancora più bisogno. Fai brillare il mistero della Tua gioia pasquale, come aurora del mattino, nei nostri giorni; concedici di poter essere veramente uomini pasquali in mezzo al Sabato santo della storia. Concedici che attraverso i giorni luminosi e oscuri di questo tempo possiamo sempre con animo lieto trovarci in cammino verso la Tua gloria futura.
Amen.
[Papa Benedetto, brano tratto da “Il sabato della storia”; https://www.sabinopaciolla.com/benedetto-xvi-il-mistero-terribile-del-sabato-santo/]
1. “Cercate Gesù il Crocifisso”? (Mt 28,5).
È la domanda che sentiranno le donne quando, “all’alba del primo giorno della settimana” (Mt 28,1), esse verranno al sepolcro.
Crocifisso!
Prima del sabato egli fu condannato a morte e spirò sulla croce gridando: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46).
Deposero dunque Gesù in un sepolcro, nel quale nessuno era stato ancora deposto, in un sepolcro prestato da un amico, e si allontanarono. Si allontanarono tutti, in fretta, per adempiere la norma della Legge religiosa. Infatti dovevano iniziare la festa, la Pasqua degli Ebrei, la memoria dell’esodo dalla schiavitù dell’Egitto: la notte prima del sabato.
Poi passo il sabato pasquale e iniziò la seconda notte.
2. Ed ecco, siamo venuti tutti in questo tempio, così come tanti nostri fratelli e sorelle nella fede ai diversi templi in tutto il globo terrestre, perché scenda nelle nostre anime e nei nostri cuori la notte santa: la notte dopo il sabato.
Siete qui, figli e figlie della Chiesa che è a Roma, figli e figlie della Chiesa che è estesa nei vari paesi e continenti, ospiti e pellegrini. Insieme abbiamo vissuto il Venerdì santo: la Via Crucis tra i resti del Colosseo – e l’adorazione della Croce fino al momento in cui una grande pietra fu rotolata sulla porta del sepolcro – e vi fu apposto un sigillo.
Perché siete venuti ora?
Cercate Gesù il Crocifisso?
Sì. Cerchiamo Gesù Crocifisso. Lo cerchiamo in questa notte dopo il sabato, che ha preceduto l’arrivo delle donne al sepolcro, quando esse con grande stupore hanno visto e hanno sentito: “Non è qui...” (Mt 28,6).
Siamo quindi venuti presto, già a tarda sera, per vegliare presso la sua tomba. Per celebrare la veglia pasquale.
E proclamiamo la nostra lode a questa meravigliosa notte, pronunciando con le labbra del diacono l’“Exsultet” della veglia. Ed ascoltiamo le letture sacre, che paragonano questa unica notte al giorno della Creazione e soprattutto alla notte dell’esodo, durante la quale il sangue dell’agnello salvò i figli primogeniti d’Israele dalla morte e li fece uscire dalla schiavitù d’Egitto. E poi nel momento di rinnovata minaccia il Signore li condusse all’asciutto in mezzo al mare.
Vegliamo, quindi, in questa notte unica presso la tomba sigillata di Gesù di Nazaret, consapevoli che tutto ciò che è stato preannunciato dalla Parola di Dio nel corso delle generazioni si compirà in questa notte, e che l’opera della redenzione dell’uomo raggiungerà in questa notte il suo zenit.
Vegliamo dunque, e, anche se la notte è profonda, e il sepolcro sigillato, confessiamo che si è già accesa in essa la Luce e cammina attraverso il buio della notte e le oscurità della morte. È la luce di Cristo: “Lumen Christi”.
3. Siamo venuti per immergerci nella sua morte; sia noi che tempo fa abbiamo già ricevuto il Battesimo che immerge in Cristo, sia anche coloro che riceveranno il Battesimo in questa notte.
Essi sono i nostri nuovi fratelli e sorelle nella fede; finora erano catecumeni, e questa notte possiamo salutarli nella comunità della Chiesa di Cristo, che è una, santa, cattolica e apostolica. Essi sono i nostri nuovi fratelli e sorelle nella fede e nella comunità della Chiesa, e provengono da diversi paesi e continenti: Corea, Giappone, Italia, Nigeria, Olanda, Rwanda, Senegal e Togo.
Li salutiamo cordialmente e con gioia proclamiamo l’“Exsultet” in onore della Chiesa, nostra Madre, che li vede raccolti qui nella piena luce di Cristo: “Lumen Christi”.
E proclamiamo insieme con loro la lode dell’acqua battesimale, nella quale, per opera della morte di Cristo, è discesa la potenza dello Spirito Santo: la potenza della vita nuova che zampilla per l’eternità, per la vita eterna (cf. Gv 4,14).
4. Così, prima ancora che spunti l’alba e le donne arrivino alla tomba da Gerusalemme, noi siamo venuti qui per cercare Gesù Crocifisso,
poiché: “Il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché... noi non fossimo più schiavi del peccato...” (Rm 6,6);
poiché: non ci consideriamo “morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù” (Rm 6,11): “Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio” (Rm 6,10);
poiché: “Per mezzo del Battesimo siamo... stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova (Rm 6,4);
poiché: “Se siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione” (Rm 6,5);
poiché crediamo: che “se siamo morti con Cristo... anche vivremo con lui” (Rm 6,8);
e poiché crediamo che “Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Rm 6,9).
5. Proprio per questo siamo qui. Per questo vegliamo presso la sua tomba.
Veglia la Chiesa. E veglia il mondo. L’ora della vittoria di Cristo sulla morte è l’ora più grande della storia.
[Papa Giovanni Paolo II, omelia alla Veglia Pasquale 18 aprile 1981]
1. Nel Vangelo di questa Notte luminosa della Vigilia Pasquale incontriamo per prime le donne che si recano al sepolcro di Gesù con gli aromi per ungere il suo corpo (cfr Lc 24,1-3). Vanno per compiere un gesto di compassione, di affetto, di amore, un gesto tradizionale verso una persona cara defunta, come ne facciamo anche noi. Avevano seguito Gesù, l’avevano ascoltato, si erano sentite comprese nella loro dignità e lo avevano accompagnato fino alla fine, sul Calvario, e al momento della deposizione dalla croce. Possiamo immaginare i loro sentimenti mentre vanno alla tomba: una certa tristezza, il dolore perché Gesù le aveva lasciate, era morto, la sua vicenda era terminata. Ora si ritornava alla vita di prima. Però nelle donne continuava l’amore, ed è l’amore verso Gesù che le aveva spinte a recarsi al sepolcro. Ma a questo punto avviene qualcosa di totalmente inaspettato, di nuovo, che sconvolge il loro cuore e i loro programmi e sconvolgerà la loro vita: vedono la pietra rimossa dal sepolcro, si avvicinano, e non trovano il corpo del Signore. E’ un fatto che le lascia perplesse, dubbiose, piene di domande: “Che cosa succede?”, “Che senso ha tutto questo?” (cfr Lc 24,4). Non capita forse anche a noi così quando qualcosa di veramente nuovo accade nel succedersi quotidiano dei fatti? Ci fermiamo, non comprendiamo, non sappiamo come affrontarlo. La novità spesso ci fa paura, anche la novità che Dio ci porta, la novità che Dio ci chiede. Siamo come gli Apostoli del Vangelo: spesso preferiamo tenere le nostre sicurezze, fermarci ad una tomba, al pensiero verso un defunto, che alla fine vive solo nel ricordo della storia come i grandi personaggi del passato. Abbiamo paura delle sorprese di Dio. Cari fratelli e sorelle, nella nostra vita abbiamo paura delle sorprese di Dio! Egli ci sorprende sempre! Il Signore è così.
Fratelli e sorelle, non chiudiamoci alla novità che Dio vuole portare nella nostra vita! Siamo spesso stanchi, delusi, tristi, sentiamo il peso dei nostri peccati, pensiamo di non farcela. Non chiudiamoci in noi stessi, non perdiamo la fiducia, non rassegniamoci mai: non ci sono situazioni che Dio non possa cambiare, non c’è peccato che non possa perdonare se ci apriamo a Lui.
[Papa Francesco, omelia alla Veglia Pasquale 30 marzo 2013]
Domenica delle Palme (anno C) [13 aprile 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Entriamo nella Settimana Santa con Gesù accolto a Gerusalemme e prepariamoci nel Triduo Pasquale a seguirlo nel cammino della passione morte e risurrezione.
*Prima lettura dal libro de profeta Isaia (50,4-7)
Questo testo è tratto dalla parte del libro di Isaia che raccoglie i cosiddetti “Canti del Servo”, che sono particolarmente importanti per due ragioni: innanzitutto per il messaggio che Isaia voleva trasmettere ai suoi contemporanei e perché sono stati applicati dai primi cristiani a Cristo, anche se certamente Isaia non pensava a Gesù quando scrisse questo testo probabilmente nel VI secolo a.C. durante l’esilio a Babilonia. Al popolo esiliato in condizioni molto dure, che rischiava di cedere a un grande sconforto, ricorda che Israele è il servo di Dio sostenuto e nutrito ogni mattina dalla Parola, ma perseguitato a causa della sua fede e, nonostante tutto, capace di resistere a ogni prova. Descrive in modo chiaro la straordinaria relazione che unisce al suo Dio il Servo (Israele) la cui caratteristica principale è l’ascolto della Parola, “l’orecchio aperto”, come scrive Isaia. Ascoltare la Parola, lasciarsi istruire da essa, significa vivere nella fiducia. Ascoltare è una parola che nella Bibbia significa fidarsi poiché due sono gli atteggiamenti tra cui oscilla continuamente la nostra esistenza: la fiducia in Dio, l’abbandono sereno alla sua volontà perché si sa, per esperienza, che la sua volontà è solo bene; oppure la diffidenza, il sospetto sulle intenzioni divine e la ribellione davanti alle prove, una ribellione che può portarci a credere che Egli ci abbia abbandonati o, peggio, che possa trovare soddisfazione nelle nostre sofferenze. Tutti i profeti ripetono quest’invito: “Ascolta, Israele” o “ascoltate oggi la Parola di Dio”. Sulle loro labbra, l’esortazione “ascolta” è invito ad avere fiducia in Dio, qualunque cosa accada. A questo proposito san Paolo spiegherà che Dio fa concorrere tutto al bene di coloro che lo amano e si fidano di lui (cf Rm 8,28) perché da ogni male, difficoltà, prova sa trarre il bene; a ogni odio, oppone un amore ancora più forte; in ogni persecuzione, dona la forza del perdono; da ogni morte fa nascere la vita. Tutta la Bibbia è la narrazione della storia di una fiducia reciproca: Dio si fida del suo servo e gli affida una missione; in cambio Israele accetta la missione con fiducia. Ed è proprio questa fiducia che gli dà la forza necessaria per resistere a tutte le opposizioni che inevitabilmente incontrerà. In questo testo la missione consiste nel saper “indirizzare una parola allo sfiduciato” testimoniando la fedeltà del Signore che dona la forza necessaria e il linguaggio adeguato. Anzi è il Signore stesso a nutrire questa fiducia, sorgente di ogni audacia al servizio degli altri: ”Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro”. Tutto allora diventa dono: la missione, la forza e la fiducia che rende incrollabili. Questa è la caratteristica del credente: riconoscere che tutto è dono di Dio. Quando poi fa fruttificare il dono permanente della forza del Signore, il credente è in grado di affrontare tutto, anche la persecuzione che mai è assente, e in verità ogni autentico profeta che parla a nome di Dio, raramente viene riconosciuto e apprezzato in vita.Isaia invita i suoi contemporanei a resistere: il Signore non vi ha abbandonati, anzi, vi ha affidato la sua missione e non meravigliatevi se siete maltrattati perché il Servo che ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica, diventa certamente scomodo e con la sua conversione provoca gli altri: alcuni ne ascoltano l’appello, altri lo respingono e, in nome delle loro buone ragioni, lo perseguitano. Ecco perché il Servo attinge vigore solamente da Colui che gli permette di affrontare tutto: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba …il Signore Dio mi assiste per questo non resto svergognato”. Isaia usa poi un’espressione comune in ebraico: “per questo rendo la mia faccia dura come pietra” che esprime determinazione e coraggio; non orgoglio o presunzione, bensì pura fiducia perché sa bene da dove viene la sua forza. Gesù è ritratto perfetto del Servo di Dio nel cuore della persecuzione e anche nel momento in cui le acclamazioni della folla della Domenica delle Palme segnavano e acceleravano la sua condanna. San Luca riprende esattamente questa espressione quando scrive «Gesù indurì il suo volto per andare a Gerusalemme» (Lc 9,51), che nelle nostre traduzioni diventa: «Gesù prese risolutamente la strada per Gerusalemme».
*Salmo responsoriale dal Salmo 21(22) (2, 8-9,17-20,22b-24)
Il Salmo 21/22 riserva alcune sorprese, a partire dall’incipit: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, molto citato che, estrapolato dal contesto, viene interpretato in modo sbagliato. Per capirne il vero significato va letto per intero il salmo composto di trentadue versetti che si chiude con un rendimento di grazie: “Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea”. Chi nel primo versetto grida “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” ringrazia alla fine Dio per la salvezza ricevuta. Non solo non è morto, ma rende grazie proprio perché Dio non lo ha abbandonato. A prima vista, questo salmo sembra scritto per Gesù: “Hanno scavato le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa” allusione chiara alla crocifissione vissuta sotto gli occhi crudeli dei carnefici e della folla: “Un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori… si fanno beffe di me quelli che mi vedono … si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte”. In realtà, non è stato scritto per Gesù Cristo, ma composto per gli esuli tornati da Babilonia, e si paragona la loro liberazione alla risurrezione di un condannato a morte, dato che l’esilio fu vera e propria condanna a morte per Israele che corse il rischio di essere cancellato dalla storia. Ora viene qui paragonato a un condannato che ha rischiato di morire sulla croce, supplizio all’epoca assai comune: ha subito oltraggi, umiliazioni, i chiodi, l’abbandono nelle mani dei carnefici ma miracolosamente ne esce illeso. In altre parole: tornato dall’esilio Israele si abbandona alla gioia che proclama a tutti gridando più forte di quando pianse nella sua angoscia. Il riferimento alla crocifissione non è dunque il centro del salmo, ma serve a mettere in risalto il rendimento di grazie di Israele, che nel pieno della sua angoscia, mai ha smesso di invocare aiuto e mai ha dubitato nemmeno un istante. Il grande grido “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” è di sicuro un grido di angoscia davanti al silenzio di Dio, ma non è un grido di disperazione, né tantomeno esprime dubbi; è piuttosto la preghiera di chi soffre e osa gridare il suo dolore. Quanta luce questo salmo fa scendere sulla nostra preghiera nei momenti di sofferenza di qualunque genere: abbiamo il diritto di gridare e la Bibbia ci incoraggia a farlo. Tornato dall’esilio Israele ricorda il dolore passato, l’angoscia, il silenzio apparente di Dio quando si sentiva abbandonato nelle mani dei suoi nemici, eppure ha continuato a pregare. La preghiera è la prova evidente della sua costante fiducia; continuava a ricordare l’Alleanza e i benefici ricevuti da Dio. Questo salmo somiglia nel suo insieme a un “ex voto” come quando si corre un serio pericolo, si prega e si fa un voto e, a grazia ottenuta, si mantiene la promessa portando l’ex voto in una chiesa o in un santuario. Il salmo 21/22 descrive l’orrore dell’esilio, l’angoscia d’Israele e di Gerusalemme assediata da Nabucodonosor, il senso di impotenza di fronte all’odio degli uomini che suscita un’ardente supplica: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”? e infine la riconoscenza a Dio per la propria salvezza: “Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea. Lodate il Signore voi suoi fedeli”. Nella domenica delle Palme non ci sono gli ultimi versetti che però sentiamo spesso nella liturgia: “I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano; il vostro cuore viva per sempre! Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli…Annunceranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: Ecco l’opera del Signore”.
*Seconda Lettura dalla seconda lettera di san Paolo ai Filippesi (2,6-11)
Questo testo è spesso definito l’Inno della Lettera ai Filippesi, perché si ha l’impressione che Paolo non lo abbia scritto di suo pugno, ma abbia citato un inno in uso nella liturgia. Anzitutto da notare l’insistenza sul tema del Servo: “svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo”: i primi cristiani, di fronte allo scandalo della croce, hanno meditato spesso sui Canti del Servo contenuti nel libro di Isaia, perché offrivano spunti di riflessione per comprendere il mistero della persona di Cristo. “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio non ritenne un privilegio l’essere come Dio”. Si è tentati di leggere: benché fosse di condizione divina, anche se in realtà, è il contrario e bisogna dunque leggere: “proprio perché era nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio”. Uno dei pericoli di questo testo è la tentazione di leggerlo in termini di ricompensa, come se il ragionamento fosse: Gesù si è comportato in modo ammirevole e quindi ha ricevuto una ricompensa straordinaria. La grazia, come suggerisce il suo stesso nome, è gratuita, noi però siamo sempre tentati di parlare di meriti. La meraviglia dell’amore di Dio è che Egli non attende i nostri meriti per colmarci; è questa la scoperta che gli uomini della Bibbia hanno fatto grazie alla Rivelazione. Quindi, per essere fedeli al testo, dobbiamo leggerlo in termini di gratuità. Rischiamo di fraintenderlo se dimentichiamo che tutto è dono di Dio, tutto è grazia, come ripeteva Teresa del Bambino Gesù. Il dono gratuito di Dio è per san Paolo una verità evidente, una convinzione che permea tutte le sue lettere, talmente ovvia che non sente neppure il bisogno di ribadirla esplicitamente per cui possiamo riassumere il suo pensiero così: il progetto di Dio, il disegno della sua misericordia è farci entrare nella sua intimità, nella sua gioia e nel suo amore, un progetto assolutamente gratuito. Non c’è nulla di sorprendente in questo, poiché si tratta di un progetto d’amore, un dono da accogliere: è la partecipazione alla vita divina, anzi con Dio, tutto è dono. Ci si esclude da questo dono quando si assume un atteggiamento di pretesa, se ci si comporta come i progenitori nel giardino dell’Eden che si appropriano del frutto proibito. Gesù, al contrario, non ha fatto altro – “facendosi obbediente” - che accogliere il dono di Dio senza pretenderlo. “Pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio” ed è proprio perché è di condizione divina che non rivendica nulla. Lui sa cosa sia l’amore gratuito, sa che non è giusto pretendere, non considera un bene reclamare il diritto di essere come Dio. E’ la stessa situazione dell’episodio delle tentazioni (vedi il vangelo della prima domenica di Quaresima): satana propone a Gesù solo cose che fanno parte del piano di Dio, ma Gesù rifiuta di appropriarsene con le proprie forze. perché vuole affidarsi al Padre affinché sia Lui a donargliele. Il tentatore lo provoca: “Se sei Figlio di Dio, puoi permetterti tutto, tuo Padre non può rifiutarti nulla: trasforma le pietre in pane quando hai fame… gettati giù dal tempio, ti proteggerà… adorami, e ti darò il dominio su tutto il mondo”. Gesù però aspetta tutto solo da Dio: ha ricevuto il Nome che è al di sopra di ogni altro nome, il Nome di Dio. Dire infatti che Gesù è il Signore significa affermare che è Dio. Nell’Antico Testamento, il titolo di “Signore” era riservato a Dio e pure la genuflessione “ perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi». Ecco un’allusione a un passo del profeta Isaia: «Davanti a me si piegherà ogni ginocchio, si pieghi…ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore!” presterà giuramento» (Is 45,23). Gesù ha vissuto nell’umiltà e nella fiducia; fiducia che san Paolo chiama obbedienza. Obbedire, in latino «ob-audire», significa letteralmente porgere l’orecchio (audire) davanti (ob) alla parola: è l’atteggiamento di un dialogo perfetto, senza ombre, è fiducia totale. L’inno si conclude così: “Ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”. La gloria è la rivelazione dell’amore infinito fatto persona. In altre parole anche noi, come il centurione, vedendo Cristo amarci sommamente accettando di morire per rivelarci fino a che punto arriva l’amore di Dio, proclamiamo,: «Sì, davvero, costui era Figlio di Dio»… perché Dio è amore.
* Vangelo. Passione di Gesù Cristo secondo san Luca (22,14 – 23.56)
Ogni anno, per la Domenica delle Palme, torna il racconto della Passione in uno dei tre vangeli sinottici; quest’anno, è quello di Luca e mi limito a commentare gli episodi propri di questo vangelo. Se è vero che i quattro racconti della Passione sono simili, quando però si osservano da vicino, ci si rende conto che ogni evangelista ha accenti particolari, e questo perché sono tutti testimoni di uno stesso evento e raccontano i fatti ciascuno dal loro punto di vista e la Passione di Cristo risulta raccontata in quattro modi diversi: non scelgono tutti gli stessi episodi e le stesse frasi. Ecco dunque gli episodi e le parole che troviamo solo in san Luca. 1.Dopo l’ultima cena, prima di recarsi al Getsemani, Gesù aveva preannunciato a Pietro il suo triplice rinnegamento. In verità lo narrano tutti i vangeli, ma solamente Luca riporta questa frase di Gesù: “Simone, Simone, ecco: satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli” quando sarai tornato, conferma i tuoi fratelli» (22,32). Una delicatezza di Gesù, che aiuterà Pietro dopo il suo tradimento a rialzarsi invece di disperare. Sempre solo Luca nota lo sguardo che Gesù posa su Pietro dopo il suo rinnegamento: per tre volte consecutive, Pietro afferma di non conoscerlo nella casa del sommo sacerdote. Subito dopo Gesù, voltandosi, fissò lo sguardo su Pietro e qui sentiamo l’eco della prima lettura dove Isaia scrive: “Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato”. Questo vuole fare Gesù con Pietro, confortarlo in anticipo perché quando lo rinnegherà non cada nella disperazione. Altro episodio proprio di questo vangelo è Gesù davanti a Erode Antipa. Alla nascita di Gesù, su tutto il territorio regnava sotto l’autorità di Roma, Erode il Grande, ma alla sua morte (nel 4 a.C.), il territorio fu diviso in più province e, al momento della morte di Gesù (nell’anno 30 d.C.), la Giudea, ossia la provincia di Gerusalemme, era governata da un procuratore romano, mentre la Galilea era sotto l’autorità di un re riconosciuto da Roma, che era un figlio di Erode il Grande: il suo nome Erode Antipa, che da tempo desiderava incontrare Gesù e sperava di vederlo compiere un miracolo. Ora gli pone molte domande, ma Gesù tace. Erode lo insulta e lo schernisce facendolo rivestire con un manto splendente e lo rimanda a Pilato rinsaldando quel giorno l’amicizia tra Erode e Pilato.
2.Ci sono poi tre frasi che troviamo solo nel racconto della Passione di Luca. Due parole di Gesù e, se Luca le annota, è perché rivelano ciò che per lui è importante: la prima è la sua preghiera mentre i soldati romani lo stanno crocifiggendo: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno». Ma cosa stanno facendo? Hanno espulso dalla Città Santa il Santo per eccellenza; hanno cacciato il loro Dio, mettendo a morte il Maestro della vita; il Sinedrio, il tribunale di Gerusalemme, in nome di Dio ha condannato Dio. E cosa fa invece Gesù? Perdona i nemici suoi fratelli mostrando fino a che punto si spinge l’amore di Dio. Chi ha visto me ha visto il Padre, aveva detto Gesù, il giorno prima. La seconda frase: “Oggi con me sarai nel Paradiso”. Tutti lo attaccano e per tre volte risuona una stessa provocazione: Se tu sei il Messia, lo scherniscono i capi… Se tu sei il re dei Giudei, si prendono gioco di lui i soldati romani… Se tu sei il Messia, lo insulta uno dei due malfattori crocifissi con lui. L’altro crocifisso con lui comincia a dire la verità: noi meritiamo questo castigo ma non Gesù e si rivolge a Gesù: “ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno”. Riconosce Gesù come il Salvatore, lo invoca con una preghiera umile e di fiduciosa: sembra aver capito tutto. Infine solo Luca riporta quest’ultima frase: “Già brillavano le luci del sabato” (23,54) conclude così il racconto della Passione con un’insistente evocazione del sabato. Parla delle donne che avevano seguito Gesù fin dalla Galilea e ora vanno al sepolcro per osservare come era stato sepolto recando aromi e profumi per i riti della sepoltura. Già brillavano le luci del sabato: tutto si chiude con una nota di luce e di pace: il sabato è prefigurazione del mondo a venire, giorno in cui Dio si era riposato da tutta l’opera della creazione (cf Genesi); giorno in cui, per fedeltà all’Alleanza, si scrutavano le Scritture nell’attesa della nuova creazione. Luca ci fa capire che nel travaglio della Passione di Cristo è nata la nuova umanità che è l’inizio del regno della grazia. Il crocifisso risorto indica la via da seguire: la via dell’amore e del perdono a qualsiasi costo.
+Giovanni D’Ercole
5a Domenica di Quaresima (anno C) [6 aprile 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Domani, mercoledì 2 aprile sarà il XX anniversario della morte di san Giovanni Paolo II. Lo ricordiamo nella preghiera invocando la sua protezione e intercessione.
*Prima Lettura Dal libro del profeta Isaia (43,16-21)
A prima vista, questo testo consta di due parti tra loro contraddittorie: la prima è un richiamo al passato, all’uscita dall’Egitto, mentre nella seconda il profeta esorta a lasciarsi alle spalle il passato. Ma di quale passato si tratta? Proviamo a meglio capire esaminando una dopo l’altra queste due parti. L’incipit è come sempre solenne: “Così dice il Signore” per introdurre parole di grande importanza cui immediatamente segue il riferimento al celebre passaggio nel mare, il miracolo del mare dei Giunchi durante la fuga degli Ebrei dall’Egitto: “Il Signore aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti”. Torna sempre il richiamo alla notte memorabile della liberazione dall’Egitto narrata nel capitolo 14 del libro dell’Esodo. Nella prima lettura Isaia offre ulteriori dettagli: “il Signore fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo e tutti giacciono morti e mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo”. Dio salvò il suo popolo distruggendo gli egiziani ed è interessante notare che Isaia utilizza il nome “Signore” (il Tetragramma YHVH), nome che qualifica il Dio del Sinai come il liberatore del suo popolo. Ecco l’opera di Dio nel passato che costituisce la fonte della speranza per il futuro di Israele e Isaia precisa:”Ecco, io faccio una cosa nuova”. Per capire di che si tratta e a chi il profeta preannuncia un mondo nuovo, occorre rifarsi al contesto storico. Il deuteroIsaia, che qui stiamo leggendo, visse nel VI secolo a.C., durante l’esilio a Babilonia (dal 587 al 538 a.C.), periodo segnato da una prova terribile: deportanti a Babilonia da Nabucodonosor, re di Babilonia, che aveva sconfitto il piccolo regno di Giuda di cui Gerusalemme era la capitale, gli ebrei speravano un giorno di fuggire dalla Babilonia, ma esistevano serie difficoltà perché bisognava attraversare il deserto della Siria, lungo centinaia di chilometri e in condizioni terribili per dei fuggiaschi. Il profeta ha quindi il compito difficile di ridare coraggio ai suoi contemporanei: lo fa in questo libro chiamato il libro della Consolazione di Israele, perché il capitolo 40 inizia così: “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio”. E quando dice: “il vostro Dio” richiama l’Alleanza mai spezzata perché Dio non li ha abbandonati. In effetti, una delle formule dell’Alleanza era: “Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio” e ogni volta che echeggia l’espressione mio Dio o vostro Dio, il possessivo è un incoraggiante richiamo all’Alleanza e, al tempo stesso, una professione di fede. Isaia intende mantenere accesa la speranza degli esiliati ricordando che Dio non solo non li ha abbandonati, anzi al contrario prepara già il loro ritorno in patria. Non si vede ancora nulla, ma avverrà e perché si è certi? Perché Dio è fedele alla sua Alleanza e da quando ha scelto questo popolo non ha mai smesso di liberarlo e di mantenerlo in vita, attraverso tutte le vicissitudini della sua storia. L’ha liberato dal faraone; l’ha protetto lungo tutto il cammino, lo ha fatto passare attraverso il mare all’asciutto al momento dell’uscita dall’Egitto.La speranza di Israele poggia dunque sul suo passato: questo è il significato della parola “Memoriale”, costante memoria dell’opera di Dio che continua ancora oggi e da questo si trae la certezza che continuerà anche nel futuro. Passato, presente, futuro: Dio è sempre presente accanto al suo popolo. Questo è uno dei significati del nome di Dio: “Io sono”, cioè sono con voi in ogni circostanza. E proprio durante il difficile periodo dell’esilio, quando c’era il rischio di cedere alla disperazione, Isaia sviluppa una nuova metafora, quella del germoglio: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” Partendo dall’esperienza straordinaria di un minuscolo seme capace di diventare un grande albero, è facile capire come la parola “germoglio” sia diventata in Israele e oggi per noi simbolo di speranza ed è importante imparare a riconoscere i germogli del mondo nuovo, il Regno che Dio sta costruendo.
*Salmo responsoriale [125 (126)]
Questo salmo fa eco alla prima lettura, dove il profeta Isaia annuncia il ritorno del popolo esiliato a Babilonia e canta questo miracolo così come gli ebrei avevano cantato il prodigio dell’uscita dall’Egitto. Questi gli eventi: nel 587 a.C. Nabucodonosor, re di Babilonia, aveva conquistato Gerusalemme e deportato la popolazione, ma, a sua volta, fu sconfitto da Ciro, re di Persia ben noto per i suoi successi. Le truppe di Nabucodonosor saccheggiavano, depredavano, stupravano, massacravano e devastavano deportando sistematicamente le popolazioni. Ciro, invece, adottò una politica completamente diversa: preferì governare su popoli prosperi e permise a tutte le popolazioni deportate di tornare nelle loro terre d’origine fornendo pure i mezzi per farlo. E così, conquistata Babilonia nel 539 a.C., già nel 538 permise agli ebrei di rientrare a Gerusalemme, concedendo loro anche aiuti economici e restituendo persino gli oggetti saccheggiati dal Tempio dai soldati di Nabucodonosor.
Nel salmo non si dice “Quando il re di Persia Ciro ristabilì la sorte di Sion” ma “quando il Signore ristabilì la sorte di Sion”, un modo per affermare che Dio rimane il Signore della storia che ne muove tutti i fili e pertanto non c’è nessun altro dio – ancora un cenno alla lotta contro l’idolatria. Questo salmo, scritto probabilmente molto tempo dopo il ritorno dall’esilio, evoca la gioia e l’emozione della liberazione e del ritorno. Quante volte durante l’esilio, si sognava questo momento! Quando si è realizzato, quasi non si osava crederci: “Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion ci sembrava di sognare…la bocca si riempì di sorriso, la nostra lingua di gioia”. Ci si immagina persino che anche gli altri popoli siano stupiti da questo miracolo: “Allora si diceva tra le genti: “Il Signore ha fatto grandi cose per loro”. In questa frase emergono due elementi: un’infinita gratitudine per la gratuità della scelta di Dio e la consapevolezza del popolo eletto di essere stato scelto per il mondo: la sua vocazione è essere testimone dell’opera di Dio, consapevolezza maturata proprio durante l’esilio. Nel salmo, lo stupore per la scelta di Dio è espresso con i termini: “grandi cose” cioè l’opera di liberazione di Dio, in particolare la liberazione dall’Egitto. Parole come impresa, opera, grandi cose, meraviglie, che si trovano spesso nei salmi, sono sempre un richiamo all’Esodo. Qui, si aggiunge una nuova opera di liberazione di Dio: la fine dell’esilio vissuta dal popolo come una vera e propria risurrezione. Per esprimerlo, il salmista usa due immagini: I torrenti nel deserto: “Ristabilisci, Signore, la nostra sorte, come i torrenti nel Negheb”, deserto a sud di Gerusalemme, dove in primavera fioriscono miriadi di fiori. L’altra immagine è il seme: “chi semina nelle lacrime, mieterà nella gioia”. il grano seminato sembra marcire e morire… ma quando spuntano le spighe, è come una rinascita, immagine eloquente perché il ritorno degli esiliati significava una vera rinascita anche per la terra. Un’ultima osservazione: quando in questo salmo si canta il ritorno dall’esilio babilonese, esso era già avvenuto da molto tempo, ma Israele non parla del passato solo per raccontarlo, bensì per comunicare un messaggio e un insegnamento per il futuro: questo ritorno alla vita, collocato storicamente, diventa ragione per sperare in altre future risurrezioni e liberazioni. Ogni anno, durante la festa delle Capanne, in autunno, questo canto veniva intonato durante il pellegrinaggio a Gerusalemme. Mentre i pellegrini salgono, cantano la liberazione già avvenuta e pregano Dio di affrettare il giorno della liberazione definitiva, quando apparirà il Messia promesso. Esistono anche oggi molti luoghi di schiavitù, molti «Egitto» e «Babilonia». È a questo che si pensa quando si canta: “Ristabilisci, Signore, la nostra sorte come i torrenti nel Negheb” chiedendo la grazia di collaborare con tutte le nostre forze all’opera di liberazione inaugurata dal Messia per affrettare il giorno in cui l’intera umanità possa cantare: “Grandi cose ha fatto il Signore per noi”
*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi (3,8-14)
San Paolo usa l’immagine della corsa e sappiamo quanto sia importante per ogni persona il traguardo e la voglia di raggiungerlo. Qui l’apostolo parla di sé stesso: “So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù in Cristo Gesù”. Per correre verso questa stessa meta e ottenere il premio promesso, occorre voltare le spalle a molte cose, come ha fatto san Paolo da quando si è sentito conquistato da Cristo. Il verbo greco che utilizza (katalambano) significa afferrare, catturare, prendere con forza ed esprime il modo con cui è stato trasformato completamente da persecutore dei cristiani in apostolo del vangelo (At.9) quando Cristo si è letteralmente impossessato di lui sulla via di Damasco. San Paolo presenta la sua fede cristiana come naturale continuazione della sua fede ebraica perché Cristo realizza pienamente le attese dell’Antico Testamento assicurandone la continuità con il Nuovo Testamento. Qui però insiste sulla novità che Gesù Cristo apporta: “Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore”. La conoscenza di Cristo reca una novità radicale perché si diventa realmente una “nuova creatura”, come scrive nella seconda lettera ai Corinzi, che abbiamo letto domenica scorsa (2 Cor 5,17-21). Ora lo dice in un altro modo: “Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui”. In altre parole: quel che prima ai mei occhi appariva importante, cioè un vantaggio e un privilegio , adesso li rifiuto del tutto. I vantaggi di cui parla erano l’orgoglio di appartenere al popolo d’Israele, la fede e l’incrollabile speranza di quel popolo, la pratica assidua e scrupolosa di tutti i comandamenti che egli chiama l’obbedienza alla legge di Mosè. Ma ormai Gesù Cristo ha preso tutto lo spazio nella sua vita ed egli possiede il bene più grande, l’unica vera ricchezza al mondo, il vero tesoro dell’umana esistenza: conoscere Cristo. Conoscere nel linguaggio biblico non significa conoscenza intellettuale ma vivere nell’ intimità con qualcuno, amarlo e condividerne la vita. Paolo insiste su questo legame con Cristo perché nella comunità di Filippi alcuni cristiani di origine ebraica volevano imporre la circoncisione a tutti i cristiani prima del battesimo e questo creava grande divisione come abbiamo letto nella seconda lettura della seconda domenica di Quaresima. Tale questione fu risolta dagli Apostoli durante il primo Concilio a Gerusalemme affermando che nella Nuova Alleanza, la Legge di Mosè è stata superata e il battesimo nel nome di Gesù ci rende figli di Dio per cui la circoncisione non è più indispensabile per far parte del popolo della Nuova Alleanza. Paolo inoltre parla qui di “comunione” alle sofferenze di Cristo, di conformazione alla sua morte nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti, innestati in lui per seguire il suo stesso cammino: “comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte”.
Nota: San Paolo c’invita a vivere come Cristo e ad accettare tutti i rischi dell’annuncio del Vangelo, ma riusciamo a dire, come lui, che l’unico bene per noi è la conoscenza di Cristo e tutto il resto non è che spazzatura? La parola spazzatura che qui è usata traduce il termine greco skubala che ha un significato molto forte traducibile in più modi: come rifiuto, scarto, escrementi secchi e sporcizia, residuo di cibo marcio e avariato. Insomma un rifiuto totale di tutto, quando si conosce Cristo e da lui si è posseduti.
*Dal Vangelo secondo Giovanni (8, 1-11)
Siamo già nel contesto della Passione e la prima riga menziona il Monte degli Ulivi. Dato che gli evangelisti ne parlano solo negli ultimi giorni della vita pubblica di Gesù e i farisei vogliono qui tendergli un tranello, questo fa capire che ormai si è deciso di processarlo e condannarlo. Per questo ogni dettaglio di questo testo va esaminato attentamente perché non si tratta di un semplice episodio della vita di Gesù, ma del cuore stesso della sua missione. All’inizio Gesù è seduto come un maestro: “tutto il popolo andava da lui ed egli sedette e si mise a insegnare loro”. Tuttavia la domanda degli scribi e dei farisei lo mette subito nella posizione di giudice e Gesù è l’unico personaggio seduto. Questo dettaglio ci aiuta a capire che il tema del giudizio, in san Giovanni, è centrale: l’episodio della donna adultera attua ciò che scrive all’inizio del suo vangelo: “Dio ha mandato il Figlio nel mondo, non per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17). Siamo davanti a un finto processo perché la questione è chiara: la donna adultera è stata colta in flagrante e ci sono testimoni; la Legge di Mosè condanna l’adulterio, come uno dei comandamenti dati da Dio sul Sinai (Non commetterai adulterio, Es 20,14; Dt 5,18); il Levitico prescrive la pena di morte: “Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno essere messi a morte” (Lv 20,10). Gli scribi e i farisei, che interrogano Gesù, sono come sempre molto attaccati alla Legge di Mosè, ma dimenticano di aggiungere che la Legge prevede la condanna per entrambi i colpevoli, l’uomo e la donna adultera. Il fatto che pur sapendolo nessuno lo ricorda, ciò dimostra che la vera questione non è l’osservanza della Legge, ma ben altro, e il testo lo dice chiaramente: “Dicevano questo per metterlo alla prova e per aver motivo di accusarlo”. E’ dunque una domanda-trappola e di che cosa vogliono accusare Gesù? Gesù non può approvare la lapidazione perché smentirebbe tutta la predicazione sulla misericordia; se però pubblicamente difende la donna, potrà essere accusato di incitare il popolo a disobbedire alla Legge. Nel Vangelo di Giovanni (capitolo 5), lo abbiamo già visto dire al paralitico guarito di prendere il suo lettuccio, un atto proibito di sabato. Quel giorno non riuscirono a condannarlo, ma questa volta la disobbedienza sarebbe stata pubblica. In fondo, nonostante l’apparente rispetto con cui lo chiamano “Maestro”, Gesù è in pericolo tanto quanto la donna adultera: entrambi rischiano la morte. Gesù non risponde subito: “Si chinò e si mise a scrivere col dito per terra”. Con il suo silenzio, silenzio costruttivo, invita ciascuno a riflettere senza umiliare nessuno e lui, incarnazione della misericordia, non mette in difficoltà né gli scribi e i farisei, né la donna adultera: Desidera che ciascuno faccia un passo avanti cercando di rivelare ai farisei e agli scribi il vero volto del Dio della misericordia. Quando risponde lo fa quasi ponendo una domanda: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. A questo punto tutti se ne vanno, “uno per uno, cominciando dai più anziani». Niente di sorprendente: i più anziani appaiono quelli più pronti ad ascoltare l’appello alla misericordia. Chi sa quante volte hanno sperimentato su di loro la misericordia di Dio… Quante volte hanno letto, cantato, meditato il versetto: «Dio di tenerezza e di pietà, lento all’ira e ricco di amore» (Es 34,6. Quante volte hanno recitato il Salmo 50(51): «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia, nella tua grande bontà cancella il mio peccato”. Ora possono capire che la loro mancanza di misericordia è una colpa, una mancanza di fedeltà al Dio dell’Alleanza. La frase di Gesù potrebbe averli portati a questa riflessione: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra”. Essere il primo a scagliare la pietra era un’espressione nota a tutti nel contesto della lotta contro l’idolatria. La Legge non diceva che doveva essere il testimone dell’adulterio a lanciare la prima pietra; ma lo diceva espressamente per il caso dell’idolatria (Dt 13,9-10; Dt 17,7). Così la risposta di Gesù può essere interpretata come: «Questa donna è colpevole di adulterio, nel senso letterale del termine, è vero; ma voi non state forse commettendo un adulterio ancora più grave, un’infedeltà al Dio dell’Alleanza? I profeti spesso parlano dell’idolatria in termini di adulterio. Alla fine, restano solo Gesù e la donna: è il faccia a faccia, come dice sant’Agostino, tra la miseria e la misericordia. Per lei, il Verbo compie ancora una volta la sua missione, dicendo la parola di riconciliazione. Isaia, parlando del servo di Dio, l’aveva annunciato: «Non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino fumigante…» (Is 42,3). Ma questo non è buonismo perché Gesù dice chiaramente alla donna di non peccare più, il peccato rimane condannato, ma solamente il perdono può permettere al peccatore di rinascere alla speranza.
Nota: Cosa scrive Gesù per terra? L’evangelista non lo specifica, e questo ha dato origine a diverse interpretazioni: Alcuni Padri della Chiesa, come Sant’Agostino, ipotizzano che Gesù stesse scrivendo i peccati nascosti di coloro che accusavano la donna. Per questo, uno dopo l’altro, essi se ne vanno via; Rimanda alla Legge mosaica: secondo un’interpretazione rabbinica, potrebbe riferirsi a Geremia 17,13: “Quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato il Signore, sorgente di acqua viva.” Se fosse così, Gesù starebbe indicando che gli accusatori stessi sono colpevoli di infedeltà a Dio. Potrebbe essere un atto simbolico di distacco; scrivere nella polvere potrebbe simboleggiare che le accuse contro la donna sono effimere, destinate a svanire; potrebbe indicare un richiamo alla pazienza e alla riflessione; infine potrebbe essere un modo per non rispondere subito, spingendo gli accusatori a riflettere sulla loro ipocrisia.
Il gesto di Gesù invita a spostare l’attenzione non sulla colpa degli altri, ma sulla propria coscienza. Nessuno può condannare un altro senza prima esaminare se stesso. Questo episodio ci insegna che la misericordia di Dio supera la condanna umana, e che il perdono è sempre possibile quando c’è un cuore disposto a cambiare.
La prima lettura e il Vangelo di questa domenica hanno lo stesso messaggio: dimentica il passato, non rimanere attaccato a esso… nulla, nemmeno i ricordi, deve impedirti di andare avanti. Nella prima lettura, Isaia parla al popolo in esilio… nel Vangelo, Gesù parla a una donna colta in flagrante adulterio: apparentemente, due casi molto diversi, ma il messaggio è lo stesso: volgi lo sguardo con decisione verso il futuro, non pensare più al passato.
+Giovanni D’Ercole
Oggi 25 marzo, siamo nel cuore del Giubileo contemplando il mistero dell’Annunciazione e Incarnazione del Verbo. Era prima una festa prevalentemente mariana, come appare tuttora in tante tradizioni religiose popolari. Con la riforma liturgica è stata evidenziata come solennità cristologica importante che c’immerge nel cuore dell’Incarnazione del Verbo eterno: il Dio che si fa uomo per la nostra salvezza. Resta sempre forte la presenza di Maria – L’Annunziata - come colei che con il suo “sì” ha reso possibile il mistero della nostra salvezza, il prodigio appunto dell’Incarnazione; e invita ognuno di noi a unire il nostro “sì” al suo, consapevoli che, soltanto nell’umiltà, il cuore umano è capace di rispondere alla chiamata di Dio.
IV Domenica di Quaresima anno C (30 Marzo 2025)
*Prima Lettura Dal libro di Giosuè (5, 9a 10- 12)
Mosè non è entrato nella terra promessa perché è morto sul monte Nebo, in corrispondenza del Mar Morto, sul lato che oggi corrisponde alla riva giordana. Non è quindi lui che ha introdotto il popolo d’Israele in Palestina, ma il suo servitore e successore Giosuè. Tutto il libro di Giosuè racconta l’ingresso del popolo nella terra promessa, a partire dalla traversata del Giordano dato che le tribù d’Israele sono entrate in Palestina da est. L’obiettivo di chi ha scritto questo libro è abbastanza chiaro: se l’autore ricorda l’opera di Dio a favore d’Israele è per esortare il popolo alla fedeltà. Nelle poche righe del testo odierno si nasconde un vero e proprio sermone che si articola in due insegnamenti: in primo luogo, non bisogna mai dimenticare che Dio ha liberato il popolo dall’Egitto; e in secondo luogo, se l’ha liberato è per dargli questa terra come aveva promesso ai nostri padri. Tutto riceviamo da Dio, ma quando lo dimentichiamo, ci mettiamo da soli in situazioni senza uscita. Per tale ragione il testo fa continui paralleli tra l’uscita dall’Egitto, la vita nel deserto e l’ingresso in Canaan. Ad esempio, nel capitolo 3 del libro di Giosuè, la traversata del Giordano è raccontata in modo solenne come la ripetizione del miracolo del Mar Rosso. Nel testo di questa domenica, l’autore insiste sulla Pasqua: “celebrarono la Pasqua, al quattordici del mese, alla sera”. Come la celebrazione della Pasqua aveva segnato l’uscita dall’Egitto e il miracolo del Mar Rosso, anche ora la Pasqua segue l’ingresso nella terra promessa e il miracolo del Giordano. Si tratta di paralleli intenzionali con i quali l’autore vuol dire che, dall’inizio alla fine di questa incredibile avventura, è lo stesso Dio che agisce per liberare il suo popolo, in vista della terra promessa. Il libro di Giosuè viene immediatamente dopo il Deuteronomio. “Giosuè” non è il suo nome, ma il soprannome datogli da Mosè: all’inizio, si chiamava semplicemente “Hoshéa”, “Osea” che significa “Egli salva” e Il nuovo nome, “Giosuè” (“Yeoshoua”) contiene il nome di Dio a indicare più esplicitamente che solo Dio salva. Giosuè del resto ha ben compreso che lui da solo non può liberare il suo popolo. La seconda parte dell’odierno testo è sorprendente perché all’apparenza si parla solo di cibo, ma c’è ben altro: “Il giorno dopo la Pasqua, mangiarono i prodotti di quella terra: azzimi e frumento abbrustolito. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna: quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan.” Questo cambiamento di cibo fa pensare a uno svezzamento: si volta pagina, inizia una nuova vita e finisce il periodo del deserto con le sue difficoltà, recriminazioni e anche soluzioni miracolose. Ora Israele, arrivato nella terra donata da Dio, non sarà più nomade, ma popolo sedentario di agricoltori nutrendosi dei prodotti del suolo; un popolo adulto e responsabile della propria sussistenza. Avendo i mezzi per provvedere da solo ai propri bisogni, Dio non si sostituisce a lui perché nutre grande rispetto per la sua libertà. Questo popolo però non dimenticherà la manna e ne conserverà la lezione: come il Signore ha provveduto nel deserto, così Israele deve diventare sollecito verso chi per varie ragioni è in difficoltà. E’ detto chiaramente nel Libro del Deuteronomio: Dio ci ha insegnato a nutrire i poveri per aver fatto scendere il pane dal cielo per i figli d’Israele e adesso a noi tocca fare altrettanto (cf Dt.34, 6). Infine, la traversata del Giordano e l’ingresso nella terra promessa, terra della libertà, aiuta a meglio comprendere il battesimo di Gesù nel Giordano che diventerà l segno della nuova entrata nella vera terra della libertà.
*Salmo responsoriale (33 (34) 2-3, 4-5, 6-7)
In questo salmo, come in altri, ogni versetto è costruito in due righe in dialogo e l’ideale sarebbe cantarlo a due cori alternati, riga per riga. E’ composto da 22 versetti corrispondenti alle 22 lettere dell’alfabeto ebraico, in poesia chiamato acrostico: ogni lettera dell’alfabeto è posta verticalmente davanti a ogni versetto, che inizia con la lettera corrispondente nel margine. Questo procedimento, abbastanza frequente nei salmi, indica che ci troviamo di fronte a un salmo di ringraziamento per l’Alleanza. Potremmo dire che è la risposta alla prima lettura tratta dal libro di Giosuè, dove pur raccontando una storia, in realtà c’è un invito a rendere grazie per tutto ciò che Dio ha compiuto per Israele. Il linguaggio del ringraziamento è onnipresente, come si nota già nei primi versetti: “Benedirò il Signore in ogni tempo… sulla mia bocca sempre la sua lode…magnificate con me il Signore… esaltiamo insieme il suo nome”. A parlare è Israele, testimone dell’opera di Dio: un Dio che risponde, libera, ascolta, salva: “Ho cercato il Signore: mi ha risposto; da ogni paura mi ha liberato… questo povero grida e il Signore lo ascolta: lo salva da tutte le sue angosce.” Quest’attenzione di Dio emerge nel passo del capitolo 3 dell’Esodo, che era la prima lettura della scorsa domenica, terza di Quaresima cioè l’episodio del roveto ardente: “Ho visto la miseria del mio popolo… il suo grido è giunto fino a me… conosco le sue sofferenze”. Israele è il povero liberato della misericordia di Dio, come leggiamo in questo salmo e che ha scoperto la sua duplice missione: anzitutto insegnare a tutti gli umili la fede, intesa come dialogo tra Dio e l’uomo che grida la sua angoscia e Dio lo ascolta, lo libera e viene in suo aiuto; in secondo luogo essere disposti a collaborare con l’opera di Dio. Come Mosè e Giosuè sono stati strumenti di Dio per liberare il suo popolo e introdurlo nella terra promessa, così Israele sarà l’orecchio attento ai poveri e lo strumento della sollecitudine di Dio per loro: “i poveri ascoltino e si rallegrino”. Israele deve far risuonare lungo i secoli questo grido, che è una polifonia intrecciata di sofferenza, lode e speranza per alleviare ogni forma di povertà. Occorre però essere poveri nel cuore con il realismo di riconoscersi piccoli e invocare Dio in aiuto nella certezza che ci accompagna in ogni circostanz per aiutarci ad affrontare gli ostacoli della vita.
*Seconda Lettura dalla seconda Lettera di san Paolo ai Corinti (5, 17-21)
Si può comprendere questo testo in due modi e tutto ruota attorno alla frase centrale: “non imputando (Dio) agli uomini le loro colpe” (v.19) che può avere due significati. Il primo: fin dall’inizio del mondo, Dio ha tenuto il conto dei peccati degli uomini, ma, nella sua grande misericordia, ha accettato di cancellarli grazie al sacrificio di Gesù Cristo e questa è la cosiddetta “sostituzione”, cioè Gesù si è fatto carico al nostro posto di un debito troppo grande per noi. Secondo: Dio non ha mai contato i peccati degli uomini e Cristo è venuto nel mondo per mostrarci che Dio è da sempre amore e perdono, come leggiamo nel salmo 102 (103): “Dio allontana da noi i nostri peccati”. L’intero cammino della rivelazione biblica ci fa passare dalla prima ipotesi alla seconda e, per capire meglio, occorre rispondere a queste tre domande: Dio tiene il conto dei nostri peccati? Si può parlare di «sostituzione» nella morte di Cristo? Se Dio non fa calcoli con noi e se non possiamo parlare di «sostituzione», come interpretare questo testo di Paolo?
Primo: Dio tiene il conto dei nostri peccati? All’inizio della storia dell’Alleanza, sicuramente Israele ne era convinto e si capisce perché. L’uomo non può scoprire Dio se Dio stesso non gli si rivela. Ad Abramo Dio non parla di peccato, ma di alleanza, di promessa, di benedizione, di discendenza, e mai appare la parola “merito”. “Abramo ebbe fede nel Signore e ciò gli fu accreditato come giustizia” (Gen 15,6), dunque la fede è l’unica cosa che conta. Dio non tiene i conti delle nostre azioni, il che però non significa che possiamo fare qualsiasi cosa, perché siamo responsabili della costruzione del Regno. A Mosè il Signore si rivela come misericordioso e clemente, lento all’ira e ricco di amore (cf. Es 34,6). Davide, proprio in occasione del suo peccato, capisce che il perdono di Dio precede persino il nostro pentimento ed Isaia osserva che Dio ci sorprende perché i suoi pensieri non sono i nostri pensieri: Egli è solo perdono per i peccatori (cf Is 55,6-8). Nell’Antico Testamento il popolo eletto sapeva già che Dio è tenerezza e perdono e l’ha chiamato Padre molto prima di noi. La parabola di Giona, ad esempio, è stata scritta proprio per mostrare che Dio si prende cura persino dei Niniviti, nemici storici di Israele.
Secondo: Si può parlare di «sostituzione» nella morte di Cristo? Se Dio non tiene il conto dei peccati e quindi non abbiamo un debito da pagare, non c’è bisogno che Gesù si sostituisca a noi. Inoltre, i testi del Nuovo Testamento parlano di solidarietà, mai di sostituzione e Gesù non agisce al nostro posto e non è nemmeno il nostro rappresentante. Egli è il «primogenito» come dice Paolo, che ci apre la strada e cammina davanti a noi. Mescolato con i peccatori ha chiesto il Battesimo da Giovanni e sulla croce ha accettato di dare la vita sulla croce per noi. Si è avvicinato a noi affinché noi potessimo avvicinarci a Lui.
Terzo: Come va quindi interpretato questo testo di Paolo? Anzitutto, Dio non ha mai tenuto il conto dei peccati degli uomini e Cristo è venuto nel mondo per farcelo comprendere. Quando a Pilato dice: “Sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37), afferma che la sua missione è rivelare il volto di Dio che è da sempre amore e perdono. E quando Paolo scrive: “… non imputando (Dio) agli uomini le loro colpe” intende chiarire che Dio cancella le nostre false idee su di Lui, quelle che lo dipingono come un contabile. Gesù è venuto per mostrare il volto di Dio Amore, ma è stato rifiutato e per questo ha accettato di morire. Era diventato troppo scomodo per le autorità religiose del tempo, che pensavano di sapere meglio di lui chi fosse Dio ed è dunque morto in croce a causa dell’orgoglio umano che si è trasformato in odio implacabile. A Filippo nel cenacolo disse: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9) e pur in mezzo all’umiliazione e all’odio ha proferito solamente parole di perdono. Si comprende a questo punto la frase con cui si chiude questo brano: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (v. 21). Sul volto di Cristo crocifisso contempliamo fino a che punto arriva l’orrore del nostro peccato, ma anche fino a che punto giunge il perdono di Dio e da questa contemplazione può nascere la nostra conversione: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”, testo del profeta Zaccaria (12,10), che troviamo nel IV vangelo (Gv 19,37). Da qui nasce per noi la vocazione di ambasciatori dell’amore di Dio: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (v.20).
*Dal Vangelo secondo Luca (15, 1-3. 11-32)
La chiave interpretativa di questo testo si trova proprio nelle prime parole. Scrive san Luca che “si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo” mentre “i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. I primi sono pubblici peccatori da evitare, mentre gli altri sono persone oneste, che cercano di fare ciò che piace a Dio. In verità i farisei erano in genere persone rette, pie e fedeli alla Legge di Mosè, scioccate però dal comportamento di Gesù che sembra non capire con chi ha a che fare se persino mangia e si mescola con i peccatori. Dio è il Santo e per loro c’era un’incompatibilità totale tra Dio e i peccatori e pertanto Gesù, se era veramente da Dio, doveva evitare di frequentarli. Questa parabola intende aiutare a scoprire il vero volto di Dio che è Padre. In effetti, il personaggio principale di questa storia è Dio stesso, il padre che ha due tipi di figli, entrambi con almeno un punto in comune, cioè il modo di concepire la relazione con il padre in termini di meriti e contabilità anche se si comportano in maniera differente: il minore l’offende gravemente, a differenza del maggiore, e alla fine però riconosce il suo peccato: “Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”; il maggiore invece si vanta di aver sempre obbedito si lamenta però di non aver mai ricevuto nemmeno un capretto come meriterebbe. Il Padre è fuori da questi calcoli e non vuole sentir parlare di meriti perché ama i suoi figli e in questa relazione non c’è spazio per il calcolo della contabilità. Al minore, che aveva preteso “la mia parte di patrimonio che mi spetta”, si era spinto ben oltre la richiesta, come alla fine dirà a entrambi: tutto ciò che è mio è vostro. Al figlio prodigo che torna non lascia nemmeno il tempo di esprimere un qualche pentimento, non esige spiegazioni; al contrario vuole subito fare festa, perché “questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato”. Chiara la lezione: con Dio non è questione di calcoli, meriti, anche se facciamo fatica a debellare questa mentalità e tutta la Bibbia, fin dall’Antico Testamento, mostra la lenta e paziente pedagogia con cui Dio cerca di farsi conoscere come Padre, pronto a far festa ogni volta che ritorniamo da lui.
Due piccoli commenti per concludere:
1. Nella prima lettura, tratta dal libro di Giosuè, Israele viene nutrito dalla manna durante la traversata del deserto, mentre qui non c’è manna per il figlio che rifiuta di vivere con suo padre e si ritrova in un deserto esistenziale, perché si è tagliato fuori da solo.
2. Circa invece il legame con la parabola della pecora smarrita, che si trova sempre in questo capitolo di Luca, si osserva che il pastore va a cercare la pecora smarrita e la riporta indietro mettendola sulle spalle, il padre invece non impedisce al figlio di partire e non lo costringe a tornare perché rispetta fino in fondo la sua libertà.
+Giovanni D’Ercole
If penance today moves from the material to the spiritual side, let's say, from the body to the soul, from the outside to the inside, it is no less necessary and less feasible (Pope Paul VI)
Se la penitenza si sposta oggi dalla parte, diciamo, materiale a quella spirituale, dal corpo all’anima, dall’esterno all’interno, non è meno necessaria e meno attuabile (Papa Paolo VI)
“Love is an excellent thing”, we read in the book the Imitation of Christ. “It makes every difficulty easy, and bears all wrongs with equanimity…. Love tends upward; it will not be held down by anything low… love is born of God and cannot rest except in God” (III, V, 3) [Pope Benedict]
«Grande cosa è l’amore – leggiamo nel libro dell’Imitazione di Cristo –, un bene che rende leggera ogni cosa pesante e sopporta tranquillamente ogni cosa difficile. L’amore aspira a salire in alto, senza essere trattenuto da alcunché di terreno. Nasce da Dio e soltanto in Dio può trovare riposo» (III, V, 3) [Papa Benedetto]
For Christians, non-violence is not merely tactical behaviour but a person's way of being (Pope Benedict)
La nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere (Papa Benedetto)
But the mystery of the Trinity also speaks to us of ourselves, of our relationship with the Father, the Son and the Holy Spirit (Pope Francis)
Ma il mistero della Trinità ci parla anche di noi, del nostro rapporto con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo (Papa Francesco)
Jesus contrasts the ancient prohibition of perjury with that of not swearing at all (Matthew 5: 33-38), and the reason that emerges quite clearly is still founded in love: one must not be incredulous or distrustful of one's neighbour when he is habitually frank and loyal, and rather one must on the one hand and on the other follow this fundamental law of speech and action: "Let your language be yes if it is yes; no if it is no. The more is from the evil one" (Mt 5:37) [John Paul II]
Gesù contrappone all’antico divieto di spergiurare, quello di non giurare affatto (Mt 5, 33-38), e la ragione che emerge abbastanza chiaramente è ancora fondata nell’amore: non si deve essere increduli o diffidenti col prossimo, quando è abitualmente schietto e leale, e piuttosto occorre da una parte e dall’altra seguire questa legge fondamentale del parlare e dell’agire: “Il vostro linguaggio sia sì, se è sì; no, se è no. Il di più viene dal maligno” (Mt 5, 37) [Giovanni Paolo II]
And one thing is the woman before Jesus, another thing is the woman after Jesus. Jesus dignifies the woman and puts her on the same level as the man because he takes that first word of the Creator, both are “God’s image and likeness”, both; not first the man and then a little lower the woman, no, both. And the man without the woman next to him - both as mother, as sister, as bride, as work partner, as friend - that man alone is not the image of God (Pope Francis)
E una cosa è la donna prima di Gesù, un’altra cosa è la donna dopo Gesù. Gesù dignifica la donna e la mette allo stesso livello dell’uomo perché prende quella prima parola del Creatore, tutti e due sono “immagine e somiglianza di Dio”, tutti e due; non prima l’uomo e poi un pochino più in basso la donna, no, tutti e due. E l’uomo senza la donna accanto – sia come mamma, come sorella, come sposa, come compagna di lavoro, come amica – quell’uomo solo non è immagine di Dio (Papa Francesco)
Only one creature has already scaled the mountain peak: the Virgin Mary. Through her union with Jesus, her righteousness was perfect: for this reason we invoke her as Speculum iustitiae. Let us entrust ourselves to her so that she may guide our steps in fidelity to Christ’s Law (Pope Benedict)
don Giuseppe Nespeca
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