Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
La tempesta sedata sul lago di Genesaret può essere riletta come “segno” di una costante presenza di Cristo nella “barca” della Chiesa, che molte volte nel corso della storia viene esposta alla furia dei venti nelle ore di tempesta. Gesù, svegliato dai discepoli, comanda ai venti e al mare e si fa una grande bonaccia. Poi dice loro: “Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?” (Mc 4, 40). In questo, come in altri episodi, si vede la volontà di Gesù di inculcare negli apostoli e nei discepoli la fede nella sua presenza operatrice e protettrice anche nelle ore più tempestose della storia, nelle quali potrebbe infiltrarsi nello spirito il dubbio sulla sua divina assistenza. Di fatto nella omiletica e nella spiritualità cristiana il miracolo è stato spesso interpretato come “segno” della presenza di Gesù e garanzia della fiducia in lui da parte dei cristiani e della Chiesa.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 2 dicembre 1987]
Nella liturgia di oggi si narra l’episodio della tempesta sedata da Gesù (Mc 4,35-41). La barca su cui i discepoli attraversano il lago è assalita dal vento e dalle onde ed essi temono di affondare. Gesù è con loro sulla barca, eppure se ne sta a poppa sul cuscino e dorme. I discepoli, pieni di paura, gli urlano: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (v. 38).
E tante volte anche noi, assaliti dalle prove della vita, abbiamo gridato al Signore: “Perché resti in silenzio e non fai nulla per me?”. Soprattutto quando ci sembra di affondare, perché l’amore o il progetto nel quale avevamo riposto grandi speranze svanisce; o quando siamo in balìa delle onde insistenti dell’ansia; oppure quando ci sentiamo sommersi dai problemi o persi in mezzo al mare della vita, senza rotta e senza porto. O ancora, nei momenti in cui viene meno la forza di andare avanti, perché manca il lavoro oppure una diagnosi inaspettata ci fa temere per la salute nostra o di una persona cara. Sono tanti i momenti nei quali ci sentiamo in una tempesta, ci sentiamo quasi finiti.
In queste situazioni e in tante altre, anche noi ci sentiamo soffocare dalla paura e, come i discepoli, rischiamo di perdere di vista la cosa più importante. Sulla barca, infatti, anche se dorme, Gesù c’è, e condivide con i suoi tutto quello che sta succedendo. Il suo sonno, se da una parte ci stupisce, dall’altra ci mette alla prova. Il Signore è lì, presente; infatti, attende – per così dire – che siamo noi a coinvolgerlo, a invocarlo, a metterlo al centro di quello che viviamo. Il suo sonno provoca noi a svegliarci. Perché, per essere discepoli di Gesù, non basta credere che Dio c’è, che esiste, ma bisogna mettersi in gioco con Lui, bisogna anche alzare la voce con Lui. Sentite questo: bisogna gridare a Lui. La preghiera, tante volte, è un grido: “Signore, salvami!”. Stavo vedendo, nel programma “A sua immagine”, oggi, Giorno del Rifugiato, tanti che vengono in barconi e nel momento di annegare gridano: “Salvaci!”. Anche nella nostra vita succede lo stesso: “Signore, salvaci!”, e la preghiera diventa un grido.
Oggi possiamo chiederci: quali sono i venti che si abbattono sulla mia vita, quali sono le onde che ostacolano la mia navigazione e mettono in pericolo la mia vita spirituale, la mia vita di famiglia, la mia vita psichica pure? Diciamo tutto questo a Gesù, raccontiamogli tutto. Egli lo desidera, vuole che ci aggrappiamo a Lui per trovare riparo contro le onde anomale della vita. Il Vangelo racconta che i discepoli si avvicinano a Gesù, lo svegliano e gli parlano (cfr v. 38). Ecco l’inizio della nostra fede: riconoscere che da soli non siamo in grado di stare a galla, che abbiamo bisogno di Gesù come i marinai delle stelle per trovare la rotta. La fede comincia dal credere che non bastiamo a noi stessi, dal sentirci bisognosi di Dio. Quando vinciamo la tentazione di rinchiuderci in noi stessi, quando superiamo la falsa religiosità che non vuole scomodare Dio, quando gridiamo a Lui, Egli può operare in noi meraviglie. È la forza mite e straordinaria della preghiera, che opera miracoli.
Gesù, pregato dai discepoli, calma il vento e le onde. E pone loro una domanda, una domanda che riguarda anche noi: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40). I discepoli si erano fatti catturare dalla paura, perché erano rimasti a fissare le onde più che a guardare a Gesù. E la paura ci porta a guardare le difficoltà, i problemi brutti e non a guardare il Signore, che tante volte dorme. Anche per noi è così: quante volte restiamo a fissare i problemi anziché andare dal Signore e gettare in Lui i nostri affanni! Quante volte lasciamo il Signore in un angolo, in fondo alla barca della vita, per svegliarlo solo nel momento del bisogno! Chiediamo oggi la grazia di una fede che non si stanca di cercare il Signore, di bussare alla porta del suo Cuore. La Vergine Maria, che nella sua vita non ha mai smesso di confidare in Dio, ridesti in noi il bisogno vitale di affidarci a Lui ogni giorno.
[Papa Francesco, Angelus 20 giugno 2021]
Piena dedizione, ma per una traversata tutta nostra
(Mt 8,18-22)
Continuando a venerare sicurezze, punti di riferimento e abitudini non si fa altro che gestire un mondo di morti (v.22).
Chi accoglie Cristo si apre a una Novità - splendida ma rischiosa - che non sa.
Il credente deve mettere in conto che siamo tutti chiamati a fare traversate faticose verso altre sponde (v.18), rispetto alle solite.
Per superare quest’insicurezza e il naturale timore, non basta l’entusiasmo iniziale.
In vista dei momenti duri dell’evangelizzazione, è bene che il figlio di Dio comprenda le sue forze o inclinazioni - e se esse sono in grado di condurlo fino al punto di trasgredire legami irrinunciabili (v.21).
Non per sforzo e “resilienza”. In tal guisa non dilapidiamo attenzioni ed energie per sorreggere cose che non hanno futuro (v.22).
Fin dai primi tempi il Risorto non veniva identificato come un semplice modello di privazioni e umiliazioni, da “imitare”.
Il Signore era un Motivo non esteriore e un Motore (tutto intimo) di vita nuova. Questo il punto.
Nelle religioni si insegna una sola “materia”: la vicenda e lo stile del Fondatore, che ti fa apprendere splendide “nozioni” e gesta eroiche.
Nella spiritualità del Passaggio in Cristo verso altri lidi [v.18] si può solo essere in sinergia con la Sorgente che zampilla dentro.
La crescita sarà fedele al proprio Seme. La fioritura si commisurerà sulle proprie Radici e il fluire della Linfa, non sulla sporgenza delle foglie.
Nell’avventura di Fede il nostro Nucleo ci genera e ci porta per introdurre nel rapporto con noi stessi, con gli altri e le cose, nel modo più diverso.
L’amore è spontaneo e rischioso; non ha mai il contorno dei meccanismi standard.
Nella sequela del Signore c’è sobrietà, eppure mancano schemi prestabiliti. Come nell’Amicizia: anch’essa è “malsicura”, ma vi è una Fonte.
È l’inedito personale che nelle fatiche continua a trasmettere Gioia creativa - e ci fa scendere in campo, per rimanere qualitativi e profondi.
La mancanza di binari imposti insegna la Strada della spontaneità che apre brecce sbalorditive.
La natura stessa recupera gli opposti e i lati in penombra, o malfermi, considerati superflui.
Qui si attinge alla genuinità della nostra essenza particolare, in modo incontaminato da tabù cerebrali o di costume.
Scoprendola più sfaccettata di quanto pensavamo.
Allontanandosi da giudizi ovvi (e dall’andare d’accordo coi manierismi attorno) veniamo introdotti sulla Via libera dell’indipendenza e ricchezza vocazionale.
Sotto l’azione dello Spirito, sarà proprio nel pericolo reale che ciascuno accederà finalmente alla ‘dimensione mistica della Sequela’.
E se continuassimo a provare la vertigine delle continue traversate - di un compito troppo grande, per un «io» così inferiore, incapace di performance costante, riconosciuta?
Ma proprio qui, senza impalcature, incontrando personalmente il Signore, abbiamo già percepito e sentito con tutto il nostro essere il suo sottile Appello:
«Non ti abbandono; tu non lasciare te stesso: Me in te».
[Lunedì 13.a sett. T.O. 30 giugno 2025]
Piena dedizione, ma per una traversata tutta nostra
(Mt 8,18-22)
Gesù vuole che lasciamo nuovo spazio alla sua Parola; che ascoltandolo, gli permettiamo di parlare. E attraverso le nostre scelte, che Egli ridiventi significativo.
La sua Parola è esigente, ma ci libera dalle zavorre, da cappe mentali che si solidificano nel tempo e nella testa. Il nostro vero sopruso.
La Sequela è semplice ma non facilona. Facile, in fondo; nella gratuità della sintonia profonda e immediata, senza filtri esterni.
Continuando a venerare sicurezze, punti di riferimento e abitudini non si fa altro che gestire un mondo di morti (v.22).
Chi accoglie Cristo si apre a una Novità - splendida ma rischiosa - che non sa.
Il credente deve mettere in conto che siamo tutti chiamati a fare traversate faticose verso altre sponde (v.18), rispetto alle solite.
Per superare quest’insicurezza e il naturale timore, non basta l’entusiasmo iniziale.
In vista dei momenti duri dell’evangelizzazione, è bene che il figlio di Dio comprenda le sue forze o inclinazioni - e se esse sono in grado di condurlo fino al punto di trasgredire legami irrinunciabili, interessi di famiglia, doveri “sacri” (v.21).
Ciò per consentire la nascita e fioritura di nuove modalità espressive e forme pastorali. Non per sforzo e “resilienza”.
È inutile continuare a spendere la vita a puntellare rami secchi, tenere in piedi idee sofisticate o tradizioni pur conclamate, dilapidando attenzioni ed energie per sorreggere cose che non hanno futuro (v.22).
Come fare per scovare energia in noi stessi quando ad es. veniamo ostacolati e disprezzati?
Fin dai primi tempi il Risorto non veniva identificato come un semplice modello di privazioni e umiliazioni, da “imitare”.
Il Signore era un Motivo non esteriore e un Motore (tutto intimo) di vita nuova. Questo il punto.
Nelle religioni si insegna una sola “materia”: la vicenda e lo stile del Fondatore, che ti fa apprendere splendide “nozioni” e gesta eroiche.
Nella spiritualità del Passaggio in Cristo verso altri lidi [v.18] si può solo essere in sinergia con la Sorgente che zampilla dentro.
La crescita sarà fedele al proprio Seme. La fioritura si commisurerà sulle proprie Radici e il fluire della Linfa, non sulla sporgenza delle foglie.
Nell’avventura di Fede il nostro Nucleo ci genera e ci porta per introdurre nel rapporto con noi stessi, con gli altri e le cose, nel modo più diverso.
L’amore è spontaneo e rischioso; non ha mai il contorno dei meccanismi standard.
Nella sequela del Signore c’è sobrietà, eppure mancano schemi prestabiliti. Come nell’Amicizia: anch’essa è “malsicura”, ma vi è una Fonte.
Così non si spreca la vita a imbalsamare chimere da camposanto, o inseguire idee altrui, fantasie disincarnate, (o violenze disumanizzanti) alla moda, che ci sgretolano dentro.
È l’inedito personale che nelle fatiche continua a trasmettere Gioia creativa - e ci fa scendere in campo, per rimanere qualitativi e profondi.
La mancanza di binari imposti - tipici delle religioni - insegna la Strada della spontaneità che apre brecce sbalorditive.
La natura stessa recupera gli opposti e i lati in penombra, o malfermi, considerati superflui.
Qui si attinge alla genuinità della nostra essenza particolare, in modo trasparente e incontaminato da tabù cerebrali o di costume.
Scoprendola più sfaccettata di quanto pensavamo.
Allontanandosi da giudizi ovvi (e dall’andare d’accordo coi manierismi attorno) veniamo introdotti sulla Via libera dell’indipendenza e ricchezza vocazionale.
Sotto l’azione dello Spirito, sarà proprio nel pericolo reale che ciascuno accederà finalmente alla dimensione mistica della Sequela.
Lo faremo con smalto e sino a edificare l’impensata completezza e Felicità per sé e per tutti.
A volte anche noi proseguiamo a chiederci se quella Via che stiamo percorrendo sia effettivamente “la” nostra.
E forse continuiamo a provare la vertigine o lo spavento delle continue traversate - di un compito troppo grande, per un «io» così inferiore, incapace di performance costante, riconosciuta.
Ma proprio qui, senza impalcature, incontrando personalmente il Signore, abbiamo percepito e sentito con tutto il nostro essere il suo sottile Appello:
«Non ti abbandono; tu non lasciare te stesso: Me in te».
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa ti ha spinto a deciderti per la traversata? Come hai lasciato tutto o le opinioni?
Dove condividi la durezza e la gioia dell’apostolato intenso e personale (es. nel chiostro) o della nuova evangelizzazione (es. fra i baraccati)?
Ti prodighi per l’educazione dei giovani con formazione variegata, e l’azione di dialogo e ascolto dei lontani?
Come approcci le fatiche e zone d’ombra che non t’aspetti? Torni alla tana e al nido rassicuranti?
Le letture bibliche della santa Messa […] mi danno l’opportunità di riprendere il tema della chiamata di Cristo e delle sue esigenze, tema sul quale mi sono soffermato anche una settimana fa, in occasione delle Ordinazioni dei nuovi presbiteri della Diocesi di Roma. In effetti, chi ha la fortuna di conoscere un giovane o una ragazza che lascia la famiglia di origine, gli studi o il lavoro per consacrarsi a Dio, sa bene di che cosa si tratta, perché ha davanti un esempio vivente di risposta radicale alla vocazione divina. E’ questa una delle esperienze più belle che si fanno nella Chiesa: vedere, toccare con mano l’azione del Signore nella vita delle persone; sperimentare che Dio non è un’entità astratta, ma una Realtà così grande e forte da riempire in modo sovrabbondante il cuore dell’uomo, una Persona vivente e vicina, che ci ama e chiede di essere amata.
L’evangelista Luca ci presenta Gesù che, mentre cammina per la strada, diretto a Gerusalemme, incontra alcuni uomini, probabilmente giovani, i quali promettono di seguirlo dovunque vada. Con costoro Egli si mostra molto esigente, avvertendoli che “il Figlio dell’uomo – cioè Lui, il Messia – non ha dove posare il capo”, vale a dire non ha una propria dimora stabile, e che chi sceglie di lavorare con Lui nel campo di Dio non può più tirarsi indietro (cfr Lc 9,57-58.61-62). Ad un altro invece Cristo stesso dice: “Seguimi”, chiedendogli un taglio netto dei legami familiari (cfr Lc 9,59-60). Queste esigenze possono apparire troppo dure, ma in realtà esprimono la novità e la priorità assoluta del Regno di Dio che si fa presente nella Persona stessa di Gesù Cristo. In ultima analisi, si tratta di quella radicalità che è dovuta all’Amore di Dio, al quale Gesù stesso per primo obbedisce. Chi rinuncia a tutto, persino a se stesso, per seguire Gesù, entra in una nuova dimensione della libertà, che san Paolo definisce “camminare secondo lo Spirito” (cfr Gal 5,16). “Cristo ci ha liberati per la libertà!” – scrive l’Apostolo – e spiega che questa nuova forma di libertà acquistataci da Cristo consiste nell’essere “a servizio gli uni degli altri” (Gal 5,1.13). Libertà e amore coincidono! Al contrario, obbedire al proprio egoismo conduce a rivalità e conflitti.
Cari amici, volge ormai al termine il mese di giugno, caratterizzato dalla devozione al Sacro Cuore di Cristo. Proprio nella festa del Sacro Cuore abbiamo rinnovato con i sacerdoti del mondo intero il nostro impegno di santificazione. Oggi vorrei invitare tutti a contemplare il mistero del Cuore divino-umano del Signore Gesù, per attingere alla fonte stessa dell’Amore di Dio. Chi fissa lo sguardo su quel Cuore trafitto e sempre aperto per amore nostro, sente la verità di questa invocazione: “Sei tu, Signore, l’unico mio bene” (Salmo resp.), ed è pronto a lasciare tutto per seguire il Signore. O Maria, che hai corrisposto senza riserve alla divina chiamata, prega per noi!
[Papa Benedetto, Angelus 27 giugno 2010]
1. Tra le richieste di rinunzia, fatte da Gesù ai suoi discepoli, vi è quella che riguarda i beni terreni, ed in particolare la ricchezza (cf. Mt 19, 21; Mc 10, 21; Lc 12, 33; 18, 22). È una richiesta rivolta a tutti i cristiani per ciò che riguarda lo spirito di povertà, cioè il distacco interiore dai beni terreni, distacco che rende generosi nel condividerli con altri. La povertà è un impegno di vita ispirato dalla fede in Cristo e dall’amore per Lui. È uno spirito. che esige anche una pratica, in una misura di rinuncia ai beni corrispondente alla condizione di ciascuno sia nella vita civile, sia nello stato in cui viene a trovarsi nella Chiesa in forza della vocazione cristiana, sia come singolo che come membro di un determinato ceto di persone. Per tutti vale lo spirito di povertà; per ciascuno è necessaria una certa pratica conforme al Vangelo.
2. La povertà richiesta da Gesù agli Apostoli è un filone di spiritualità che non poteva esaurirsi con loro, né ridursi a gruppi particolari: lo spirito di povertà è necessario per tutti, in ogni luogo e in ogni tempo; venirvi meno sarebbe tradire il Vangelo. La fedeltà allo spirito non comporta però, né per i cristiani in generale né per i sacerdoti, la pratica di una povertà radicale con la rinuncia ad ogni proprietà, o addirittura con l’abolizione di questo diritto dell’uomo. Il magistero della Chiesa ha più volte condannato coloro che sostenevano questa necessità (cf. Denz. 760; 930-931; 1097), cercando di condurre su una via di moderazione il pensiero e la prassi. E però confortante constatare che, nella evoluzione dei tempi e sotto l’influsso di tanti Santi antichi e moderni, è maturata sempre più nel clero la coscienza di una chiamata alla povertà evangelica, sia come spirito sia come pratica, in correlazione con le esigenze della consacrazione sacerdotale. Le situazioni sociali ed economiche in cui è venuto a trovarsi il clero in quasi tutti i Paesi del mondo hanno contribuito a rendere effettiva la condizione di povertà reale delle persone e delle istituzioni, anche quando queste per la loro stessa natura hanno bisogno di molti mezzi per poter adempiere i loro compiti. In molti casi è una condizione difficile e affliggente, che la Chiesa cerca di superare in vari modi, e principalmente appellandosi alla carità dei fedeli per avere da loro il contributo necessario per provvedere al culto, alle opere di carità, al mantenimento dei pastori d’anime, alle iniziative missionarie. Ma l’acquisizione di un nuovo senso della povertà è una benedizione per la vita sacerdotale, come per quella di tutti i cristiani, perché permette di meglio adeguarsi ai consigli e alle proposte di Gesù.
3. La povertà evangelica – è opportuno chiarirlo – non comporta disprezzo per i beni terreni, messi da Dio a disposizione dell’uomo per la sua vita e per la sua collaborazione al disegno della creazione. Secondo il Concilio Vaticano II, il Presbitero – come ogni altro cristiano –, avendo una missione di lode e di azione di grazie, deve riconoscere e magnificare la generosità del Padre celeste che si rivela nei beni creati (Presbyterorum Ordinis, 17).
Tuttavia, aggiunge il Concilio, i Presbiteri, pur vivendo in mezzo al mondo devono avere sempre presente che, come ha detto il Signore, non appartengono al mondo (cf. Gv 17,14-16), e devono perciò liberarsi da ogni disordinato attaccamento, per acquistare “la discrezione spirituale che consente di mettersi nel giusto rapporto con il mondo e le realtà terrestri” (Ivi; cf. Pastores dabo vobis, 30). Occorre riconoscere che si tratta di un problema delicato. Da una parte, “la missione della Chiesa si svolge in mezzo al mondo, e i beni creati sono del tutto necessari per lo sviluppo personale dell’uomo”. Gesù non ha vietato ai suoi Apostoli di accettare i beni necessari per la loro esistenza terrena. Anzi egli ha affermato il loro diritto in proposito quando ha detto in un discorso di missione: “Mangiate e bevete di quello che hanno, perché l’operaio è degno della sua mercede” (Lc 10, 7; cf. Mt 10, 10). San Paolo rammenta ai Corinzi che “il Signore ha disposto che quelli che annunziano il Vangelo vivano del Vangelo” (1 Cor 9, 14). Egli stesso prescrive con insistenza che “chi viene istruito nella dottrina faccia parte di quanto possiede a chi lo istruisce” (Gal 6, 6). È giusto dunque che i Presbiteri abbiano dei beni terreni e ne usino “per quei fini ai quali possono essere destinati, d’accordo con la dottrina di Cristo Signore e gli orientamenti della Chiesa” (PO 17). Il Concilio non ha mancato di proporre, al riguardo, concrete indicazioni.
Anzitutto, l’amministrazione dei beni ecclesiastici propriamente detti deve essere assicurata “a norma delle leggi ecclesiastiche, e possibilmente con l’aiuto di esperti laici”. Tali beni devono essere sempre impiegati per “l’ordinamento del culto divino, il dignitoso mantenimento del clero, il sostenimento delle opere di apostolato e di carità, specialmente per i poveri” (Ivi).
I beni procurati dall’esercizio di qualche ufficio ecclesiastico devono essere impiegati prima di tutto “per il proprio onesto mantenimento e per l’assolvimento dei doveri del proprio stato; il rimanente sarà bene destinarlo per il bene della Chiesa e per le opere di carità”. Questo va particolarmente sottolineato: l’ufficio ecclesiastico non può essere per i Presbiteri – e neppure per i Vescovi – occasione di arricchimento personale né di profitti per la propria famiglia. “I sacerdoti, quindi, senza affezionarsi in modo alcuno alle ricchezze, debbono evitare ogni bramosia e astenersi da qualsiasi tipo di commercio” (Ivi). In ogni caso si dovrà tener presente che tutto, nell’uso dei beni, deve svolgersi alla luce del Vangelo.
4. Lo stesso si deve dire circa l’impegno del Presbitero nelle attività profane, ossia attinenti la trattazione di affari terreni fuori dell’ambito religioso e sacro. Il Sinodo dei Vescovi del 1971 ha dichiarato che, “come norma ordinaria, si deve attribuire tempo pieno al ministero sacerdotale... Per nulla, infatti, è da considerare quale fine principale la partecipazione alle attività secolari degli uomini, né può essa bastare ad esprimere la specifica responsabilità dei Presbiteri” (Ench. Vat., IV, 1191).Era una presa di posizione di fronte alla tendenza, apparsa qua e là, alla secolarizzazione dell’attività del Sacerdote, nel senso che egli potesse impegnarsi, come i laici, nell’esercizio di un mestiere o d’una professione secolare.
È vero che ci sono circostanze in cui il solo modo efficace di ricollegare con la Chiesa un ambiente di lavoro che ignora Cristo può essere la presenza di Sacerdoti che esercitano un mestiere in tale ambiente, facendosi, ad esempio, operai con gli operai. La generosità di questi Sacerdoti è degna di elogio. Occorre tuttavia osservare che, assumendo compiti e posti profani e laicali, il Sacerdote rischia di ridurre ad un ruolo secondario o addirittura di elidere il proprio ministero sacro. In ragione di questo rischio, che aveva avuto riscontro nell’esperienza, già il Concilio aveva sottolineato la necessità dell’approvazione dell’autorità competente per esercitare un mestiere manuale, condividendo la condizioni di vita degli operai (cf. PO 8). Il Sinodo del 1971 diede, come regola da seguire, la convenienza, o meno, di un certo impegno di lavoro profano con le finalità del sacerdozio “a giudizio del Vescovo locale col suo presbiterio, e dopo aver consultato – in quanto è necessario – la Conferenza episcopale” (Ench. Vat., IV, 1192).
D’altronde è chiaro che si possono dare oggi, come in passato, casi speciali nei quali qualche Presbitero, particolarmente dotato e preparato, può svolgere un’attività in campi di lavoro o di cultura non direttamente ecclesiali. Si dovrà tuttavia fare il possibile perché restino casi eccezionali. E anche allora il criterio fissato dal Sinodo sarà sempre da applicare se si vorrà essere fedeli al Vangelo e alla Chiesa.
5. Concluderemo questa catechesi col rivolgerci ancora una volta alla figura di Gesù Cristo, Sacerdote Sommo, Pastore buono e supremo esemplare dei Sacerdoti. Egli è il modello della spoliazione dei beni terreni per il presbitero che vuole conformarsi all’esigenza della povertà evangelica. Gesù infatti è nato e vissuto nella povertà. Ammoniva San Paolo: “Da ricco che era, si è fatto povero per voi” (2 Cor 8, 9). Gesù stesso, ad uno che voleva seguirlo, disse di sé: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli dell’aria i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Lc 9, 57). Queste parole manifestano un distacco completo da tutte le comodità terrene. Non se ne deve concludere, tuttavia, che Gesù vivesse nella miseria. Altri passi dei Vangeli riferiscono che egli riceveva ed accettava inviti a casa di gente ricca (cf. Mt 9, 10-11; Mc 2, 15-16; Lc 5, 29; 7, 36; 19, 5-6), aveva collaboratrici che lo sostenevano nelle necessità economiche (Lc 8, 2-3; cf. Mt 27, 55; Mc 15, 40; Lc 23, 55-56) ed era in grado di fare l’elemosina ai poveri (cf. Gv 13,29). Non vi è dubbio tuttavia sulla vita e sullo spirito di povertà che Lo contraddistinguevano.
Lo stesso spirito di povertà dovrà animare il comportamento del Sacerdote, connotandone l’atteggiamento, la vita e la stessa figura di pastore e uomo di Dio. Esso si tradurrà in disinteresse e distacco nei riguardi del denaro, nella rinuncia ad ogni avidità di possesso dei beni terreni, in uno stile di vita semplice, nella scelta di un’abitazione modesta e accessibile a tutti, nel rifiuto di tutto quello che è o anche solo appare come lussuoso, in una tendenza crescente alla gratuità della dedizione al servizio di Dio e dei fedeli.
6. Aggiungiamo infine che, essendo chiamati da Gesù e secondo il suo esempio, ad “evangelizzare i poveri”, “i Presbiteri – come pure i Vescovi – cercheranno di evitare tutto ciò che possa in qualsiasi modo indurre i poveri ad allontanarsi” (PO 17). Nutrendo invece in loro stessi lo spirito evangelico di povertà, essi si troveranno in condizione di mostrare la propria opzione preferenziale per i poveri, traducendola in condivisione, in opere personali e comunitarie di aiuto anche materiale ai bisognosi. È una testimonianza al Cristo Povero che viene oggi da tanti sacerdoti, poveri e amici dei poveri. È una grande fiamma d’amore accesa nella vita del clero e della Chiesa. Se mai il clero poté apparire talvolta in alcuni luoghi tra le categorie dei ricchi, oggi esso si sente onorato, con tutta la Chiesa, di trovarsi in prima fila tra i “nuovi poveri”. È un grande progresso nella sequela di Cristo sulla via del Vangelo.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 21 luglio 1993]
Sono lieto di accogliervi in questa mia prima Udienza generale. Con grande riconoscenza e venerazione raccolgo il “testimone” dalle mani del mio amato predecessore Benedetto XVI. Dopo la Pasqua riprenderemo le catechesi dell’Anno della fede. Oggi vorrei soffermarmi un po’ sulla Settimana Santa. Con la Domenica delle Palme abbiamo iniziato questa Settimana – centro di tutto l’Anno Liturgico – in cui accompagniamo Gesù nella sua Passione, Morte e Risurrezione.
Ma che cosa può voler dire vivere la Settimana Santa per noi? Che cosa significa seguire Gesù nel suo cammino sul Calvario verso la Croce e la Risurrezione? Nella sua missione terrena, Gesù ha percorso le strade della Terra Santa; ha chiamato dodici persone semplici perché rimanessero con Lui, condividessero il suo cammino e continuassero la sua missione; le ha scelte tra il popolo pieno di fede nelle promesse di Dio. Ha parlato a tutti, senza distinzione, ai grandi e agli umili, al giovane ricco e alla povera vedova, ai potenti e ai deboli; ha portato la misericordia e il perdono di Dio; ha guarito, consolato, compreso; ha dato speranza; ha portato a tutti la presenza di Dio che si interessa di ogni uomo e ogni donna, come fa un buon padre e una buona madre verso ciascuno dei suoi figli. Dio non ha aspettato che andassimo da Lui, ma è Lui che si è mosso verso di noi, senza calcoli, senza misure. Dio è così: Lui fa sempre il primo passo, Lui si muove verso di noi. Gesù ha vissuto le realtà quotidiane della gente più comune: si è commosso davanti alla folla che sembrava un gregge senza pastore; ha pianto davanti alla sofferenza di Marta e Maria per la morte del fratello Lazzaro; ha chiamato un pubblicano come suo discepolo; ha subito anche il tradimento di un amico. In Lui Dio ci ha dato la certezza che è con noi, in mezzo a noi. «Le volpi – ha detto Lui, Gesù – le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Gesù non ha casa perché la sua casa è la gente, siamo noi, la sua missione è aprire a tutti le porte di Dio, essere la presenza di amore di Dio.
Nella Settimana Santa noi viviamo il vertice di questo cammino, di questo disegno di amore che percorre tutta la storia dei rapporti tra Dio e l’umanità. Gesù entra in Gerusalemme per compiere l’ultimo passo, in cui riassume tutta la sua esistenza: si dona totalmente, non tiene nulla per sé, neppure la vita. Nell’Ultima Cena, con i suoi amici, condivide il pane e distribuisce il calice “per noi”. Il Figlio di Dio si offre a noi, consegna nelle nostre mani il suo Corpo e il suo Sangue per essere sempre con noi, per abitare in mezzo a noi. E nell’Orto degli Ulivi, come nel processo davanti a Pilato, non oppone resistenza, si dona; è il Servo sofferente preannunciato da Isaia che spoglia se stesso fino alla morte (cfr Is 53,12).
Gesù non vive questo amore che conduce al sacrificio in modo passivo o come un destino fatale; certo non nasconde il suo profondo turbamento umano di fronte alla morte violenta, ma si affida con piena fiducia al Padre. Gesù si è consegnato volontariamente alla morte per corrispondere all’amore di Dio Padre, in perfetta unione con la sua volontà, per dimostrare il suo amore per noi. Sulla croce Gesù «mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). Ciascuno di noi può dire: Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. Ciascuno può dire questo “per me”.
Che cosa significa tutto questo per noi? Significa che questa è anche la mia, la tua, la nostra strada. Vivere la Settimana Santa seguendo Gesù non solo con la commozione del cuore; vivere la Settimana Santa seguendo Gesù vuol dire imparare ad uscire da noi stessi - come dicevo domenica scorsa - per andare incontro agli altri, per andare verso le periferie dell’esistenza, muoverci noi per primi verso i nostri fratelli e le nostre sorelle, soprattutto quelli più lontani, quelli che sono dimenticati, quelli che hanno più bisogno di comprensione, di consolazione, di aiuto. C’è tanto bisogno di portare la presenza viva di Gesù misericordioso e ricco di amore!
Vivere la Settimana Santa è entrare sempre più nella logica di Dio, nella logica della Croce, che non è prima di tutto quella del dolore e della morte, ma quella dell’amore e del dono di sé che porta vita. E’ entrare nella logica del Vangelo. Seguire, accompagnare Cristo, rimanere con Lui esige un “uscire”, uscire. Uscire da se stessi, da un modo di vivere la fede stanco e abitudinario, dalla tentazione di chiudersi nei propri schemi che finiscono per chiudere l’orizzonte dell’azione creativa di Dio. Dio è uscito da se stesso per venire in mezzo a noi, ha posto la sua tenda tra noi per portarci la sua misericordia che salva e dona speranza. Anche noi, se vogliamo seguirlo e rimanere con Lui, non dobbiamo accontentarci di restare nel recinto delle novantanove pecore, dobbiamo “uscire”, cercare con Lui la pecorella smarrita, quella più lontana. Ricordate bene: uscire da noi, come Gesù, come Dio è uscito da se stesso in Gesù e Gesù è uscito da se stesso per tutti noi.
Qualcuno potrebbe dirmi: “Ma, padre, non ho tempo”, “ho tante cose da fare”, “è difficile”, “che cosa posso fare io con le mie poche forze, anche con il mio peccato, con tante cose? Spesso ci accontentiamo di qualche preghiera, di una Messa domenicale distratta e non costante, di qualche gesto di carità, ma non abbiamo questo coraggio di “uscire” per portare Cristo. Siamo un po’ come san Pietro. Non appena Gesù parla di passione, morte e risurrezione, di dono di sé, di amore verso tutti, l’Apostolo lo prende in disparte e lo rimprovera. Quello che dice Gesù sconvolge i suoi piani, appare inaccettabile, mette in difficoltà le sicurezze che si era costruito, la sua idea di Messia. E Gesù guarda i discepoli e rivolge a Pietro forse una delle parole più dure dei Vangeli: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8,33). Dio pensa sempre con misericordia: non dimenticate questo. Dio pensa sempre con misericordia: è il Padre misericordioso! Dio pensa come il padre che attende il ritorno del figlio e gli va incontro, lo vede venire quando è ancora lontano… Questo che significa? Che tutti i giorni andava a vedere se il figlio tornava a casa: questo è il nostro Padre misericordioso. E’ il segno che lo aspettava di cuore nella terrazza della sua casa. Dio pensa come il samaritano che non passa vicino al malcapitato commiserandolo o guardando dall’altra parte, ma soccorrendolo senza chiedere nulla in cambio; senza chiedere se era ebreo, se era pagano, se era samaritano, se era ricco, se era povero: non domanda niente. Non domanda queste cose, non chiede nulla. Va in suo aiuto: così è Dio. Dio pensa come il pastore che dona la sua vita per difendere e salvare le pecore.
La Settimana Santa è un tempo di grazia che il Signore ci dona per aprire le porte del nostro cuore, della nostra vita, delle nostre parrocchie - che pena tante parrocchie chiuse! - dei movimenti, delle associazioni, ed “uscire” incontro agli altri, farci noi vicini per portare la luce e la gioia della nostra fede. Uscire sempre! E questo con amore e con la tenerezza di Dio, nel rispetto e nella pazienza, sapendo che noi mettiamo le nostre mani, i nostri piedi, il nostro cuore, ma poi è Dio che li guida e rende feconda ogni nostra azione.
Auguro a tutti di vivere bene questi giorni seguendo il Signore con coraggio, portando in noi stessi un raggio del suo amore a quanti incontriamo.
[Papa Francesco, Udienza Generale 27 marzo 2013]
(Mt 16,13-19)
A oltre metà della sua vita pubblica Gesù non ha ancora dato formule, ma fa una domanda impegnativa - che ha la pretesa di chiederci molto più delle usuali espressioni con struttura di legge.
Globalmente la folla può averlo accostato a personaggi eminenti come il Battista [colui che ha dimostrato di essere estraneo alle cortigianerie] o Elia [per la sua attività di denuncia degli idoli] o Geremia [l’oppositore della compravendita di benedizioni].
Ma Egli non è venuto - come i profeti antichi - a migliorare la situazione o rabberciare devozioni, né a purificare il Tempio, bensì a sostituirlo!
Le immagini della tradizione raffigurano Cristo in molti modi (per gli atei un filantropo), il più diffuso dei quali è ancora quello di un Signore antico, garante di comportamenti convenzionali.
Egli invece - per farci riflettere - porta i discepoli in un ambiente di cantiere [a nord della Palestina, Cesarea di Filippo era in costruzione], lontano dalla nomenclatura interessata della Città “santa”.
La mentalità comune valutava la riuscita della vita - e la verità di una religione - sulla base del successo, del dominio, dell’arricchimento, delle sicurezze in genere.
Il quesito che Gesù pone ai suoi fa trapelare una novità che soppianta tutto il sistema: la Chiamata si rivolge a ogni singola persona.
È una proposta di confine, al pari del luogo geografico simbolico della capitale del regno di Filippo, uno dei tre figli eredi di Erode il Grande: in Palestina, il punto più lontano dal centro della religiosità conformista.
Il Volto del «Figlio dell’uomo» è riconoscibile solo ponendo la massima distanza da schemi politici e veterani - altrimenti anche noi non saremmo in grado di percepirne la ‘luce’ personale.
Nella comunità di Mt si stava appunto facendo esperienza di una sempre più larga partecipazione di pagani, che prima si sentivano degli esclusi e man mano si integravano.
Per la nostra mentalità, le chiavi di casa servono a chiudere e serrare il portone, per non far entrare i malintenzionati.
In quella semitica, erano piuttosto icona dell’apertura dell’uscio.
Nel celebre capolavoro del Perugino sulla parete nord della Cappella Sistina, Gesù consegna al capo della Chiesa due chiavi: quella d’oro del Paradiso e quella d’argento del Purgatorio.
Ma il senso del brano non è l’Aldilà - anzi, non è neppure istituzionale. In ebraico il termine ‘chiave’ è derivante dal verbo ‘aprire’!
Massimo compito missionario dei responsabili di comunità è tenere il Regno dei Cieli spalancato, ossia garantire una Chiesa accogliente!
Pietro non deve ricalcare il tipo del monarca arrogante, immagine dell’autorità; sostitutiva dell’imperatore.
Simone deve farsi primo responsabile dell’accettazione di coloro che sono fuori.
Sembra strano per qualsiasi proposta antica, ove si supponeva che Dio temesse di rendersi impuro nel contatto col mondo.
Il Padre è Colui che osa di più.
Questo il motivo per cui Gesù impone severamente un totale silenzio messianico (v.20) alle labbra e al cervello antico degli Apostoli.
Pietro e i discepoli volevano tornare all’idea consueta de «il» Messia [cf. testo greco] atteso da tutti.
Un canovaccio troppo normale, incapace di rigenerarci.
[Ss. Pietro e Paolo, 29 giugno]
Solennità dei Ss. Pietro e Paolo, 29 giugno
Dissimili: differenza fra religiosità e Fede (la Chiesa che verrà)
In un’identica data la Chiesa celebra Discepoli dissimili.
Entrambi del tutto lontani da modelli di santità conforme e non eccentrica - anzi divagante, non rassicurante né quieta.
Uno cresce accumulando esperienze incerte: un po’ Pietro (testardo e ostile), un po’ Simone (discepolo, ma raramente), un po’ Simon Pietro (pro e contro, coi piedi in due staffe).
L’altro cresce sì, ma per caduta immediata dall’ideologia dello stare e sentirsi più puro e in alto degli altri:
in un attimo, dal “destriero” focoso dei capi e giudicanti, al ceto popolare capace di ascolto e benevolenza.
D’improvviso, da Saulo a Paolo.
Il primo, Apostolo per smania e lunga consuetudine [nell’andirivieni], l’altro per Chiamata diretta. Non per imposizione di mani da parte di superiori dalla vita pia che avrebbero dovuto saperla più lunga di lui.
Vocazione immediata - essa sconvolge, capovolge il modo di vedere.
Nessuno dei due Protagonisti, figlio devoto e obbediente: entrambi piuttosto cocciuti e smaniosi, ma ciascuno a modo suo; in maniera incerta e diplomatica, o tagliente.
A lungo inquieti e persino oppositori del Cristo.
Anche nell’Annuncio, nella Catechesi, nell’Animazione, nella Pastorale e nelle opere di carità iniziamo ad accorgerci che il punto di partenza dell’Evangelizzazione non è quello solito, rassicurante, che solo insegna agli altri [e trasmette finte sicurezze].
L’input è suscitare interrogativi, che coinvolgono in prima persona.
E qualsiasi iniziativa è utile in primo luogo a migliorare chi la propone - non le folle che non avrebbero consapevolezze.
Questo il perno dell’atteggiamento verso il bene pieno e la realizzazione di ogni essere umano.
Nell’unità della Fede confluiscono diversità di Doni.
Non siamo chiamati a fare i paternalisti, né i pompieri: subito a spegnere fuocherelli che neppure conosciamo ma ardono bene (solo oltre la cappa del camino di casa nostra).
La Chiesa che verrà dipende anche dalla nostra forma mentis.
Cardine della Tradizione viva è credere nel mondo a venire - non malgrado, bensì grazie alle sue difformità.
L’amore divino si manifesta, si fa presente, interviene in molti modi.
Le scintille che alimentano la Fiamma dello Spirito sono variegate: tutte illuminano e riscaldano il mondo... a meno che non le si costruisca attorno un muro di refrattari.
Ciò talora capita sul territorio, ad opera di cordate. Con giovani astuzie già normalizzate, o parrucconi timorosi di perdere privilegi sui quali galleggiano.
Un panorama di astuzie e acque chete, già morta.
Ma nel Cristo personale anche la nostra insicurezza apre sentieri inesplorati verso nuovi mondi.
Ogni missionario conosce la sua ‘certezza’ qual frutto d’un punto interrogativo.
Valore aggiunto che non sa; prodotto d’una forza primordiale che sorge dal caos delle sue o altrui prevedibilità.
La formazione variegata e persino lo scompiglio delle sfaccettature diventano luogo della Pace.
Possibilità d’Immenso, invece che appiglio per un arretramento sotto pena di castigo tipico di condanne religiose.
Mentre dottrina e disciplina inoculano certezze e aspettative ostinate che ci farebbero viaggiare solo su binari già tracciati, la Fede si lascia guidare dalla Provvidenza manifestata nella vita reale, che sorprende.
Un’adesione, una Relazione creativa - la Fede - dalla misteriosa Energia, sempre pura, nitida, trasparente, intatta, incontaminata.
Appello per Nome che porta a tu per tu con noi stessi e Dio, senza mai spersonalizzare.
Solo così rendendo concordi. È la chiesa che verrà.
Infatti, gli incerti che non sanno tirare subito le somme vanno sino in fondo: non abbandonano, non emarginano, non tradiscono; non usano la posizione religiosa come un’arma di ricatto.
Non fanno il male.
«Quando il tessitore alza un piede, l’altro si abbassa. Quando il movimento cessa e uno dei piedi si ferma, il tessuto non si fa più. Le sue mani lanciano la spola che passa dall’una all’altra; ma nessuna mano può sperare di tenerla. Come i gesti del tessitore, è l’unione dei contrari a tessere la nostra vita».
[Tradizione orale africana Peul]
Omaggio al Poliedro e non allo Sfero. Diversità e Pluralità significa spazio per ciascuno di noi, così com’è. Dilatato, non “migliore”.
Non omogeneo, non regolare, non omologato. Anche se la catena di comando locale non vuole.
Omaggio alla chiesa? Non quella uniforme e standard. La strana coppia Pietro e Paolo non lo è stata.
Omaggio alla Chiesa, Omaggio alla vita.
Dear friends, “in the Eucharist Jesus also makes us witnesses of God’s compassion towards all our brothers and sisters. The Eucharistic mystery thus gives rise to a service of charity towards neighbour” (Post-Synodal Apostolic Exhortation Sacramentum Caritatis, 88) [Pope Benedict]
Cari amici, “nell’Eucaristia Gesù fa di noi testimoni della compassione di Dio per ogni fratello e sorella. Nasce così intorno al Mistero eucaristico il servizio della carità nei confronti del prossimo” (Esort. ap. postsin. Sacramentum caritatis, 88) [Papa Benedetto]
The fool in the Bible, the one who does not want to learn from the experience of visible things, that nothing lasts for ever but that all things pass away, youth and physical strength, amenities and important roles. Making one's life depend on such an ephemeral reality is therefore foolishness (Pope Benedict)
L’uomo stolto nella Bibbia è colui che non vuole rendersi conto, dall’esperienza delle cose visibili, che nulla dura per sempre, ma tutto passa: la giovinezza come la forza fisica, le comodità come i ruoli di potere. Far dipendere la propria vita da realtà così passeggere è, dunque, stoltezza (Papa Benedetto)
We see this great figure, this force in the Passion, in resistance to the powerful. We wonder: what gave birth to this life, to this interiority so strong, so upright, so consistent, spent so totally for God in preparing the way for Jesus? The answer is simple: it was born from the relationship with God (Pope Benedict)
Noi vediamo questa grande figura, questa forza nella passione, nella resistenza contro i potenti. Domandiamo: da dove nasce questa vita, questa interiorità così forte, così retta, così coerente, spesa in modo così totale per Dio e preparare la strada a Gesù? La risposta è semplice: dal rapporto con Dio (Papa Benedetto)
Christians are a priestly people for the world. Christians should make the living God visible to the world, they should bear witness to him and lead people towards him (Pope Benedict)
I cristiani sono popolo sacerdotale per il mondo. I cristiani dovrebbero rendere visibile al mondo il Dio vivente, testimoniarLo e condurre a Lui (Papa Benedetto)
The discovery of the Kingdom of God can happen suddenly like the farmer who, ploughing, finds an unexpected treasure; or after a long search, like the pearl merchant who eventually finds the most precious pearl, so long dreamt of (Pope Francis)
La scoperta del Regno di Dio può avvenire improvvisamente come per il contadino che arando, trova il tesoro insperato; oppure dopo lunga ricerca, come per il mercante di perle, che finalmente trova la perla preziosissima da tempo sognata (Papa Francesco)
Christ is not resigned to the tombs that we have built for ourselves (Pope Francis)
Cristo non si rassegna ai sepolcri che ci siamo costruiti (Papa Francesco)
We must not fear the humility of taking little steps, but trust in the leaven that penetrates the dough and slowly causes it to rise (cf. Mt 13:33) [Pope Benedict]
Occorre non temere l’umiltà dei piccoli passi e confidare nel lievito che penetra nella pasta e lentamente la fa crescere (cfr Mt 13,33) [Papa Benedetto]
The disciples, already know how to pray by reciting the formulas of the Jewish tradition, but they too wish to experience the same “quality” of Jesus’ prayer (Pope Francis)
I discepoli, sanno già pregare, recitando le formule della tradizione ebraica, ma desiderano poter vivere anche loro la stessa “qualità” della preghiera di Gesù (Papa Francesco)
don Giuseppe Nespeca
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