Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
15a Domenica Tempo Ordinario (anno C) [13 Luglio 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Viviamo l’estate lasciandoci accompagnare e guidare dalla Parola di Dio.
*Prima Lettura dal Libro del Deuteronomio (30,10-14)
Il libro del Deuteronomio contiene l’ultimo discorso di Mosè, una sorta di suo testamento spirituale anche se di sicuro non è stato scritto da Mosè, visto che si ripete spesso: “Mosè ha detto…Mosè ha fatto”. L’autore poi è molto solenne nel ricordare il contributo maggiore di Mosè: aver fatto uscire Israele dall’Egitto e aver concluso l’Alleanza con Dio sul Sinai. In questa Alleanza, Dio si impegna a a proteggere il suo popolo per sempre e il popolo promette di rispettare la sua Legge, riconoscendo in essa la migliore garanzia della libertà ritrovata. Israele s’impegna, ma non si mostra spesso fedele. Quando il regno del Nord, annientato dagli Assiri, scompare dalla carta geografica, l’autore invita gli abitanti del regno del Sud, imparando da tale disfatta, ad ascoltare la voce del Signore, a osservare i suoi comandi e decreti scritti nella Torah. Non sono infatti né difficili da capire né da mettere in pratica: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te né troppo lontano da te” (v.11).
Una domanda: Se osservare la Legge non è difficile perché non si mettono in pratica i comandamenti di Dio? Per Mosè la ragione sta nel fatto che Israele è “un popolo di dura cervice”: ha provocato l’ira del Signore nel deserto e poi è stato ribelle al Signore dal giorno in cui è uscito dall’Egitto fino al suo arrivo della terra promessa (Cf. Dt 9,6-7). L’espressione “dura cervice” evoca un animale che si rifiuta di piegare il collo sotto il giogo e l’Alleanza tra Dio e il suo popolo era paragonata a un giogo di aratura. Per raccomandare l’obbedienza alla Legge, Ben Sira, scrive: “Mettete il vostro collo sotto il giogo e ricevete l’istruzione” (Sir 51,26). Mentre Geremia, rimprovera a Israele le sue infedeltà alla Legge: “Da tempo tu hai spezzato il tuo giogo, hai rotto i tuoi legami” (Ger 2,20; 5,5). E Gesù: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me… Sì, il mio giogo è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11,29-30). Questa frase trova proprio qui, nel nostro testo del Deuteronomio, le sue radici: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te né troppo lontano da te”(v11) . Sia nel Deuteronomio come nel vangelo emerge il messaggio positivo della Bibbia: la Legge divina è alla nostra portata e il male non è irrimediabile per cui se l’umanità cammina verso la salvezza, che consiste nell’amare Dio e il prossimo, sperimenta la felicità. Eppure l’esperienza dimostra che la pratica di una vita conforme al progetto di Dio è impossibile per l’uomo quando si affida solo alle proprie forze. Ma se questo è impossibile agli uomini, tutto è invece possibile a Dio (Cf Mt 19,26) che, come leggiamo in questo testo, trasforma la nostra “dura cervice” e cambia il nostro cuore: egli “circonciderà il tuo cuore e il cuore della tua discendenza, perché tu ami il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima, e viva” (Dt 30,6). Per circoncisione del cuore si intende l’adesione di tutto il nostro essere alla volontà di Dio, possibile, come annotano i profeti specialmente Geremia ed Ezechiele, solamente grazie a un intervento diretto di Dio: “Metterò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo”(Ger 31,33).
*Salmo responsoriale 18/19
L’obbedienza alla Legge è un cammino verso la vera Terra Promessa e questo salmo sembra una litania in onore della Legge: “la Legge del Signore”, ”i precetti del Signore», “il comando del Signore”, “i giudizi del Signore”. Il Signore ha scelto il suo popolo, lo ha liberato e gli ha proposto la sua Alleanza per accompagnarlo lungo tutta la sua esistenza, educandolo con l’osservanza della Torah. Non bisogna dimenticare che, prima di ogni altra cosa, il popolo ebraico ha fatto l’esperienza di essere stato liberato dal suo Dio. La Legge e i comandamenti si collocano dunque nella prospettiva dell’uscita dall’Egitto: sono un’impresa di liberazione da tutte le catene che impediscono all’uomo di essere felice e si tratta di un’Alleanza eterna. Il libro del Deuteronomio insiste su questo punto: “Ascolta dunque, Israele, osserva e metti in pratica ciò che ti renderà felice” (Dt 6,3). E il nostro salmo fa eco: “I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore”. La grande certezza acquisita dagli uomini della Bibbia è che Dio vuole la felicità dell’uomo e gli offre un mezzo molto semplice perché basta ascoltare la sua Parola scritta nella Legge: “Il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi”. Il cammino è tracciato, i comandamenti sono come segnali stradali che indicano eventuali pericoli e la Legge è il nostro maestro: del resto la radice della parola Torah in ebraico significa prima di tutto insegnare. Non c’è altra esigenza e non c’è nemmeno un’altra via per essere felici: “I giudizi del Signore sono tutti giusti, più preziosi dell’oro, più dolci del miele”. Se per noi, come per il salmista, l’oro è un metallo al tempo stesso incorruttibile e prezioso, quindi desiderabile, il miele invece non evoca per noi ciò che rappresentava per un abitante della Palestina. Quando Dio chiama Mosè e gli affida la missione di liberare il suo popolo, gli promette: “Io vi farò salire dalla miseria d’Egitto… verso un paese dove scorre latte e miele” (Es 3,17). Quest’espressione, molto antica, caratterizza l’abbondanza e la dolcezza. Il miele, ovviamente, si trova anche altrove persino nel deserto dove Giovanni Battista si nutriva di locuste e miele selvatico (Cf Mt 3,4), ma resta comunque una rarità e proprio questo rende meravigliosa la Terra Promessa dove la presenza del miele indica la dolcezza dell’azione di Dio, che ha preso l’iniziativa di salvare il suo popolo, semplicemente per amore. Per questo d’ora in poi non si parlerà più delle cipolle d’Egitto, ma del miele di Canaan e Israele è certo che Dio lo salverà perché, come inizia il salmo, “la Legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima, la testimonianza del Signore è stabile, rende saggio il semplice”.
*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi (1,15-20)
Comincio parafrasando l’ultima frase, che forse per noi è la più difficile: Dio ha giudicato bene che tutto, per mezzo di Cristo, gli sia finalmente riconciliato, facendo la pace per tutti gli esseri sulla terra e nel cielo mediante il sangue della sua croce (vv19-20). Paolo qui paragona la morte di Cristo a un sacrificio come quelli che si offrivano abitualmente nel tempio di Gerusalemme. In particolare, esistevano dei sacrifici chiamati “sacrifici di comunione” o “sacrifici di pace”. Paolo sa bene che quanti hanno condannato Gesù non avevano di certo l’intenzione di offrire un sacrificio sia perché i sacrifici umani non esistevano più in Israele, sia perché Gesù è stato condannato a morte come un malfattore ed è stato giustiziato fuori dalla città di Gerusalemme. Paolo qui contempla una cosa inaudita: nella sua grazia, Dio ha trasformato l’orribile passione inflitta al suo Figlio dagli uomini in un’opera di pace. In altre parole, l’odio umano che uccide il Cristo, in un misterioso rovesciamento ad opera della grazia divina, diventa strumento di riconciliazione e di pacificazione perché finalmente conosciamo Dio così com’è: Dio è puro amore e perdono. Questa scoperta può trasformare i nostri cuori di pietra in cuori di carne (cf. Ezechiele), se lasciamo agire in noi il suo Spirito. In questa lettera ai Colossesi troviamo la stessa meditazione che troviamo nel vangelo di Giovanni ispirata dalle parole del profeta Zaccaria: “Riverserò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di supplica. Guarderanno a me, a colui che hanno trafitto… piangeranno per lui amaramente» (Zc 12,10). Quando contempliamo la croce, da questa contemplazione può nascere la nostra conversione e riconciliazione. Nel Cristo in croce contempliamo l’uomo così come Dio lo ha voluto e scopriamo nel Gesù trafitto l’uomo giusto per eccellenza, l’uomo perfetto immagine di Dio. Per questo Paolo parla di pienezza, nel senso di compimento: “E’ piaciuto a Dio che abiti in lui tutta la pienezza”. Riprendiamo ora l’inizio del testo: “Cristo Gesù è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili… Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui”. In Gesù contempliamo Dio stesso; in Gesù Cristo, Dio si lascia vedere o, per dirlo in un altro modo, Gesù è la visibilità del Padre: “Chi ha visto me ha visto il Padre”, dice lui stesso nel vangelo di Giovanni (Gv 14,9). Contemplando il Cristo, contempliamo l’uomo, contemplando il Cristo, contempliamo Dio. Resta ancora un versetto fondamentale: “Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose” (v.18). Questo è forse il testo del Nuovo Testamento, dove si dice il più chiaramente possibile, che siamo il Corpo di Cristo, cioè è il capo di un grande corpo di cui noi siamo le membra. Se altrove aveva già detto che siamo tutti membra di un unico corpo (Rm 12,4-5) e (1 Cor 12,12), qui lo precisa chiaramente: “Il Cristo è il capo del corpo, che è Chiesa” (come anche in Ef 1,22; 4,15; 5,23) e tocca a noi fare in modo che questo Corpo cresca in maniera armoniosa.
*Dal Vangelo secondo Luca (10,25-37)
Un dottore della Legge pone a Gesù due domande impegnative: “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?” e, ancor più impegnativa, “E chi è il mio prossimo? La risposta che riceve è esigente. Partendo infatti dalle sue domande, Gesù lo conduce al cuore stesso di Dio e colloca tale percorso in un contesto concreto e familiare ai suoi ascoltatori: la strada di trenta chilometri che separa Gerusalemme da Gerico, una strada in pieno deserto, che all’epoca era davvero un luogo di agguati per cui il racconto dell’assalto e della cura del ferito suonava estremamente verosimile. Scendeva un uomo da Gerusalemme a Gerico è cadde nelle mani dei briganti, che lo derubano e lo lasciano mezzo morto. Alla sua disgrazia fisica e morale si aggiunge anche un’esclusione di tipo religioso perché toccato da “impuri”, diventa egli stesso impuro. Questa è la ragione dell’apparente indifferenza, anzi della repulsione del sacerdote e del levita, preoccupati di preservare la propria integrità rituale. Un samaritano, invece, non si pone questi scrupoli. Questa scena sul ciglio della strada esprime in immagini ciò che Gesù stesso ha fatto tante volte quando guariva anche di sabato, quando si chinava sui lebbrosi, quando accoglieva i peccatori, citando più volte il profeta Osea: “Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6,6). Alla prima domanda del dottore della Legge Gesù risponde a sua volta come i rabbini con una domanda: “Nella Legge, cosa vi è scritto? Come leggi?”e l’interlocutore recita con entusiasmo: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. “Hai risposto bene”, replica Gesù, perché la sola cosa che conta per Israele, è la fedeltà a questo duplice amore. Il segreto di questa conoscenza, che l’intera Bibbia ci rivela, è che Dio è “misericordioso” (letteralmente in ebraico: “le sue viscere fremono”). Non è un caso se Luca utilizza la stessa espressione per descrivere l’emozione di Gesù alla vista della vedova di Nain che portava il figlio unico al cimitero (Lc 7) o per raccontare la commozione del Padre al ritorno del figlio prodigo (Lc 15). Anche il buon samaritano quando vide l’uomo ferito, “ne ebbe compassione” (si commosse nelle viscere). Anche se è misericordioso per i giudei resta solo un samaritano, cioè uno dei meno raccomandabili dato che giudei e samaritani erano nemici: i giudei disprezzavano i samaritani perché eretici (un disprezzo antico: nel libro del Siracide si cita tra i popoli detestabili «il popolo stolto che abita in Sichem» (Sir 50,26)), mentre i samaritani non perdonavano ai giudei la distruzione del loro santuario sul monte Garizim (nel 129 a.C.). Eppure, quest’uomo disprezzato è dichiarato da Gesù più vicino a Dio dei dignitari e dei servitori del Tempio, che passarono oltre senza fermarsi. La “compassione nelle viscere” del samaritano — miscredente agli occhi dei giudei — diventa “immagine di Dio” e Gesù propone un rovesciamento di prospettiva. Alla domanda “chi è il mio prossimo?”, non risponde con una “definizione” di prossimo (in definizione c’è la anche parola latina “finis” che significa limite), ma ne fa una questione di cuore. Attenzione al vocabolario: la parola “prossimo” fa intendere che ci siano anche dei lontani. E allora, alla domanda: “Chi è dunque il mio prossimo?” il Signore risponde: Spetta a te decidere fino a dove vuoi tu farti prossimo. E propone come esempio proprio il samaritano semplicemente perché è capace di compassione. E chiude Gesù: “Va’, e anche tu fa’ lo stesso”. Non è un semplice consiglio. Al dottore della Legge aveva già detto prima: “Fa’ questo e vivrai” e ora Luca evidenzia l’esigenza di coerenza tra parole e fatti: è bello parlare come un libro (è il caso del dottore della Legge), ma non basta perché Gesù diceva: “Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,21). In definitiva Gesù ci provoca a un amore senza confini!
NOTA La domanda «Qual è il più grande comandamento?» compare anche nei vangeli di Matteo e Marco, mentre la parabola del buon Samaritano è propria di Luca. È interessante anche osservare che la presentazione così positiva di un samaritano (Lc 10) segue immediatamente il rifiuto di un villaggio samaritano di accogliere Gesù e i suoi discepoli in cammino verso Gerusalemme (Lc 9). Gesù rifiuta ogni tipo di generalizzazione e questa parabola evidenzia, in fondo, una questione di scelte prioritarie nella nostra vita.
+Giovanni D’Ercole
Non dal precetto, ma dal rovesciamento
(Lc 10,25-37)
«Tu sei un pazzo e un samaritano!» - accusarono i capi giudei (Gv 8,48). «No, non sono pazzo...»: così lo Straniero si difese dall'accusa che i fanatici gli muovevano, di essere un posseduto, ossesso e malato mentale.
Eppure accettò tranquillo il titolo infamante di «samaritano»... epiteto che designava uno fuori dal giro, vilipeso dalla gente perbene.
Un escluso dal recinto sacro; praticamente estraneo, irritante, avulso, eretico e impuro: un «bastardo» e squilibrato che si permetteva di predicare l’amore in tutte le decisioni [cuore], in ogni istante del cammino [vita], con qualsiasi delle risorse [forze], non escludendo l'intelligenza, né il legittimo desiderio di vita altrui (v.27).
Insomma, la percezione non disattenta e l’opera sensibilissima d’un “meticcio” sembrano proprio quelle di Dio!
Rispondono al cruciale, intimo quesito: «Chi mi ama per primo, affinché sentendomi accolto, adeguato e apprezzato, possa anch’io amare il prossimo?» (v.29).
Conosciamo la narrazione. Gli ossessi della purezza rituale [sacerdote e levita che avevano appena officiato] diventano spietati.
Ecco invece un nuovo Decalogo, con un accumulo di “verbi” del «farsi carico»:
«Venne presso, lo vide, si mosse a pietà, scese, versò il suo pronto soccorso, fasciò le ferite, caricò sulla cavalcatura, portò nella dimora che accoglie tutti, si prese cura, tirò fuori denari».
Infine si espose, con speciale riguardo anche per un affacciarsi premuroso e ulteriore: «Ritornerò a pagare, dove necessario».
Gli autentici dieci nuovi Decreti ci divinizzano senza inganno, in sintonia col progetto e il sentimento del Padre in nostro favore: né Lui né i suoi ‘passano oltre’ le vittime.
Promessa e premura che si ramificano sul nostro futuro: allorché ci dovesse esser qualcos'altro da porre in aggiunta, la donerà in più e sempre l’Amico Soccorritore.
Da qui parte l’Amore: da Qualcuno che ci considera, senza condizioni.
Perciò, malgrado si rischi di rimanere impigliati nella situazione, anche il comune figlio di Dio ‘si accorge’ e non “passa sopra” la persona malferma.
Vi si identifica, preferendo sfidare le incognite - e riscattare il bastonato, messo all'angolo come un rifiuto che ormai attende solo il colpo di grazia.
È un Dio dall’esperienza concreta; senza schemi. E ci dice:
Siamo totalmente amabili in ogni condizione, non “sbagliati” o segnati a vita.
Da tale consapevolezza scaturisce il desiderio e l’energia dell’amore altruista - anche ignoto e senza reputazione.
Come sottolinea l’enciclica Fratelli Tutti, così sarà «possibile cominciare dal basso e caso per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo, con la stessa cura che il viandante di Samaria ebbe per ogni piaga dell’uomo ferito» (n.78).
Nel deserto di Giuda, su una pietra incisa d'un caravanserraglio che una tradizione ha voluto individuare come la Casa Comune [immagine della Chiesa] cui Gesù faceva riferimento nella parabola - più o meno a metà strada fra Gerusalemme e Gerico - un anonimo pellegrino ha scritto in latino medievale:
«Se persino i sacerdoti e gli uomini di chiesa passano oltre la tua angoscia, sappi che Cristo è il buon Samaritano, che avrà sempre compassione di te, e nell'ora della tua morte t'introdurrà nella locanda eterna. Chiunque tu sia, Lui ti porterà là».
[15.a Domenica (anno C), 13 luglio 2025]
Non dal precetto, ma dal rovesciamento
(Lc 10,25-37)
«Tu sei un pazzo e un samaritano!» - accusarono i capi giudei (Gv 8,48). «No, non sono pazzo...»: così lo Straniero si difese dall'accusa che i fanatici gli muovevano, di essere un posseduto, ossesso e malato mentale.
Eppure accettò tranquillo il titolo infamante di «samaritano»... epiteto che designava uno fuori dal giro, vilipeso dalla gente perbene.
Un escluso dal recinto sacro; praticamente estraneo, irritante, avulso, eretico e impuro: un «bastardo» e squilibrato, disinteressato alla carriera, di fronte al quale bisognava trovare forza nella coalizione.
La religione antica sembrava aver raggiunto equilibri sperimentati, sostenuti dai vertici dell'alleanza interessata fra trono e altare. Eppure nei fedeli c'era nervosismo e insoddisfazione.
I capi citavano la Scrittura a memoria, ma per creare restrizioni - demonizzando i diversi che non li riconoscevano immediatamente “autorità”.
Secondo la Legge - Levitico e Numeri - le norme di purità impedivano a chi officiava nel Tempio di toccare un ferito.
Ma i professionisti del sacro non capiscono che le antiche procedure non valgono nulla se causano sofferenza al prossimo.
Sacralizzando le proprie grettezze, i legalisti della parabola immaginano di non dover apprendere nulla, così diventano forse peggiori degli insensibili e qualunquisti: a noi appaiono piuttosto, crudeli e disumani.
In caso di conflitto tra norme religiose e bene dei fratelli, essi hanno già pronte le scuse: neppure s’accorgono degli altri. Le vicende dolorose non li richiamano, non li riguardano.
In tal guisa, anche le trappole dei vanitosi contro Gesù mai erano dialogo: sempre delle proiezioni.
E le domande venivano scagliate solo per metterlo in ridicolo, non per capire - interrogarsi - o creare libertà.
Insomma: per qualcuno conta l’integrità della dottrina-disciplina e il prestigio dell’istituzione (che la norma).
Eppure ci chiediamo: quanto vale la gioia dell’umanità, e il bene di un malcapitato?
L’uomo dei “titoli” non ha dubbio alcuno.
Invece la percezione non disattenta e l’opera sensibilissima d’un «meticcio» sembrano quelle di Dio stesso!
Il Signore narrava volentieri la sua proposta di condivisione, e di nuovo volto del credente.
Diciamola con parole più vicine a noi:
«Ascolta... niente cortine: l’Amore non ha un punto d’arrivo, e il credente non è chi obbedisce a disposizioni esterne, bensì chi somiglia a Dio!».
Dopo un breve sussulto riflessivo che tentò di camuffare, l’esperto della disposizione ribatté:
«Bello a dirsi, certo; ma come si fa in concreto?».
E Gesù:
«Al pari di come pensi e ti attrezzi e desideri pienezza di vita per te stesso: in tutte le decisioni [cuore], in ogni istante del cammino [vita], con qualsiasi delle tue risorse [forze], non escludendo l'intelligenza» (cf. Mc 12,29-31), né il legittimo desiderio di vita altrui (v.27).
Già in ebollizione, il veterano dei battibecchi giocò le sue ultime carte:
«Dovrò pur mettere un confine al mio prossimo, no?! E mi giustifico ancora: chi è “mio” prossimo?» (Lc 10,29).
«Ossia: chi mai ascolta e mi ama per primo, in modo tale che io possa davvero fare agli altri ciò che sempre desidero per me, persino ai lontani e nemici?»
«Loro non ci danno da mangiare… e forse neanche ci rispettano! Dunque, chi è per primo “a me” prossimo?».
Ancora il dottore della legge si «ergeva sopra», incombendo sugli astanti; ma il diverso Rabbi non si scompose.
Nei colloqui era spesso costretto (e abituato) a sollevare la testa, guardando l’interlocutore dal basso verso l’alto.
Tutti si atteggiavano a periti ed eletti, pronti a scrutare e sentenziare; nessuno a fare il discepolo, sottoposto e servitore come lui.
Così si era comportato sia con Zaccheo (Lc 19,5) che con l'adultera - forse colta sul fatto dal gruppo di guardoni e vigilanti della pubblica decenza in Gerusalemme (Gv 8, vv. 2.6-8.10; testo greco).
Quel figlio di falegname proclamava Padre Colui che si relazionava dal di sotto, senza giudizio previo; che si faceva Servo dell'uomo, mettendosi alla pari dei minimi.
Insomma, la domanda cruciale era la seguente:
«Chi mi ama per primo, affinché sentendomi accolto, adeguato e apprezzato, possa anch’io amare il prossimo»?
Il giovane Rabbi narrò allora una storia, per sottolineare chi è prossimo - Chi ci è per primo Intimo e Vicino; affinché anche noi veniamo generati alla prossimità.
L'antico elenco dei Dieci Comandamenti era divenuto nel tempo quasi solo una sottolineatura della caducità naturale.
Un codice che intristiva e sfibrava proprio le anime più attente all’ideale di perfezione.
L'ultima delle celebri Parole era riassuntiva, ma tremenda: «Non Desiderare»!
Essa aveva diffuso lacerazioni drammatiche e senso di vuoto nelle vicende di coloro che più da presso continuavano a tentare l'avventura impossibile.
Così, gli ossessi della purezza rituale [sacerdote e sagrestano che avevano appena officiato] diventavano - per Legge - spietati.
Ecco invece proclamato - dall’estraneo appena pervenuto - un nuovo Decalogo, con un accumulo di “verbi” del «farsi carico»:
«Venne presso, lo vide, si mosse a pietà, scese, versò il suo pronto soccorso, fasciò le ferite, caricò sulla cavalcatura, portò nella dimora che accoglie tutti, si prese cura, tirò fuori denari».
Infine si espose, con speciale riguardo anche per un affacciarsi premuroso e ulteriore: «Ritornerò a pagare, dove necessario».
Gli autentici dieci nuovi Decreti ci divinizzano senza inganno, in sintonia col progetto e il sentimento del Padre in nostro favore: né Lui né i suoi “passano oltre” le vittime.
Il Signore annunciava insomma un diverso “Sacrificio”.
Nell'uso del tempo, mediante il culto si supponeva di poter trarre la vittima dal contatto profano, in modo cruento; su un altare.
Con tale pratica sacrale i sacerdoti la introducevano idealmente nel mondo dell'Altissimo, attraverso l'effusione del sangue o un olocausto.
Invece il Messia non voleva distanziare i criteri di santificazione dalla vita della gente comune.
Ciò che sul serio è reso sacro [sacrificio: sacer-sacrum facere] non si deve mai allontanare dalla realtà. Non passa alla sfera della purità mediante una “separazione” dall'immondo feriale.
Per Gesù è la Comunione - convivialità delle differenze - che trasfigura l’ordinario in “Santo”, perché tale relazione rende forte il debole; e solleva tutti dalla miseria.
Promessa e premura che si ramificano sul nostro futuro: allorché ci dovesse esser qualcos'altro da porre in aggiunta, la donerà in più e sempre l’Amico Soccorritore.
Da qui parte l’Amore: da Qualcuno che ci considera, senza condizioni.
Perciò, malgrado si rischi di rimanere impigliati nella situazione, anche il comune figlio di Dio si accorge e non passa sopra la persona malferma.
Vi s’identifica, preferendo sfidare le incognite - e riscattare il bastonato, messo all'angolo come un rifiuto che ormai attende solo il colpo di grazia.
È un Dio dall’esperienza concreta; senza schemi. E ci dice:
Siamo totalmente amabili in ogni condizione, non “sbagliati” o segnati a vita.
Da tale consapevolezza scaturisce il desiderio e l’energia dell’amore altruista - anche ignoto e senza reputazione.
Come sottolinea l’enciclica Fratelli Tutti, così sarà «possibile cominciare dal basso e caso per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo della patria e del mondo, con la stessa cura che il viandante di Samaria ebbe per ogni piaga dell’uomo ferito» (n.78).
Nel deserto di Giuda, su una pietra incisa d'un caravanserraglio che una tradizione ha voluto individuare come la Casa comune [immagine della Chiesa] cui Gesù faceva riferimento nella parabola - più o meno a metà strada fra Gerusalemme e Gerico - un anonimo pellegrino ha scritto in latino medievale:
«Se persino i sacerdoti e gli uomini di chiesa passano oltre la tua angoscia, sappi che Cristo è il buon Samaritano, che avrà sempre compassione di te, e nell'ora della tua morte t'introdurrà nella locanda eterna. Chiunque tu sia, Lui ti porterà là».
Il Vangelo di questa domenica si apre con la domanda che un dottore della Legge pone a Gesù: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» (Lc 10,25). Sapendolo esperto nelle Sacre Scritture, il Signore invita quell’uomo a dare lui stesso la risposta, che infatti egli formula perfettamente, citando i due comandamenti principali: amare Dio con tutto il cuore, tutta la mente e tutte le forze, e amare il prossimo come se stessi. Allora il dottore della Legge, quasi per giustificarsi, chiede: “E chi è mio prossimo?” (Lc 10,29). Questa volta, Gesù risponde con la celebre parabola del “buon Samaritano” (cfr Lc 10,30-37), per indicare che sta a noi farci “prossimo” di chiunque abbia bisogno di aiuto. Il Samaritano, infatti, si fa carico della condizione di uno sconosciuto, che i briganti hanno lasciato mezzo morto lungo la strada; mentre un sacerdote e un levita erano passati oltre, forse pensando che a contatto con il sangue, in base ad un precetto, si sarebbero contaminati. La parabola, pertanto, deve indurci a trasformare la nostra mentalità secondo la logica di Cristo, che è la logica della carità: Dio è amore, e rendergli culto significa servire i fratelli con amore sincero e generoso.
Questo racconto evangelico offre il “criterio di misura”, cioè “l’universalità dell’amore che si volge verso il bisognoso incontrato «per caso» (cfr Lc 10,31), chiunque egli sia” (Enc. Deus caritas est, 25). Accanto a questa regola universale, vi è anche un’esigenza specificamente ecclesiale: che “nella Chiesa stessa, in quanto famiglia, nessun membro soffra perché nel bisogno” (ibid.). Il programma del cristiano, appreso dall’insegnamento di Gesù, è “un cuore che vede” dove c’è bisogno di amore, e agisce in modo conseguente (cfr ivi, 31).
[Papa Benedetto, Angelus 11 luglio 2010]
I diversi comandamenti del Decalogo non sono in effetti che la rifrazione dell'unico comandamento riguardante il bene della persona, a livello dei molteplici beni che connotano la sua identità di essere spirituale e corporeo, in relazione con Dio, col prossimo e col mondo delle cose. Come leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica, «i dieci comandamenti appartengono alla rivelazione di Dio. Al tempo stesso ci insegnano la vera umanità dell'uomo. Mettono in luce i doveri essenziali e, quindi, indirettamente, i diritti fondamentali inerenti alla natura della persona umana».
I comandamenti, ricordati da Gesù al giovane interlocutore, sono destinati a tutelare il bene della persona, immagine di Dio, mediante la protezione dei suoi beni. «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso» sono regole morali formulate in termini di divieto. I precetti negativi esprimono con particolare forza l'esigenza insopprimibile di proteggere la vita umana, la comunione delle persone nel matrimonio, la proprietà privata, la veridicità e la buona fama.
I comandamenti rappresentano, quindi, la condizione di base per l'amore del prossimo; essi ne sono al contempo la verifica. Sono la prima tappa necessaria nel cammino verso la libertà, il suo inizio: «La prima libertà — scrive sant'Agostino — consiste nell'essere esenti da crimini... come sarebbero l'omicidio, l'adulterio, la fornicazione, il furto, la frode, il sacrilegio e così via. Quando uno comincia a non avere questi crimini (e nessun cristiano deve averli), comincia a levare il capo verso la libertà, ma questo non è che l'inizio della libertà, non la libertà perfetta...».
14. Ciò non significa, certo, che Gesù intenda dare la precedenza all'amore del prossimo o addirittura separarlo dall'amore di Dio. Lo testimonia il suo dialogo col dottore della Legge: questi, che pone una domanda molto simile a quella del giovane, si sente rimandato da Gesù ai due comandamenti dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo (cf Lc 10, 25-27) e invitato a ricordare che solo la loro osservanza conduce alla vita eterna: «Fa' questo e vivrai» (Lc 10,28). È comunque significativo che sia proprio il secondo di questi comandamenti a suscitare la curiosità e l'interrogativo del dottore della Legge: «Chi è il mio prossimo?» (Lc 10,29). Il Maestro risponde con la parabola del buon Samaritano, la parabola-chiave per la piena comprensione del comandamento dell'amore del prossimo (cf Lc 10,30-37).
I due comandamenti, dai quali «dipende tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22,40), sono profondamente uniti tra loro e si compenetrano reciprocamente. La loro unità inscindibile è testimoniata da Gesù con le parole e con la vita: la sua missione culmina nella Croce che redime (cf Gv 3,14-15), segno del suo indivisibile amore al Padre e all'umanità (cf Gv 13,1).
Sia l'Antico che il Nuovo Testamento sono espliciti nell'affermare che senza l'amore per il prossimo, che si concretizza nell'osservanza dei comandamenti, non è possibile l'autentico amore per Dio. Lo scrive con vigore straordinario san Giovanni: «Se uno dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi, infatti, non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20). L'evangelista fa eco alla predicazione morale di Cristo, espressa in modo mirabile e inequivocabile nella parabola del buon Samaritano (cf Lc 10, 19-37) e nel «discorso» sul giudizio finale (cf Mt 25,31-46).
15. Nel «Discorso della Montagna», che costituisce la magna charta della morale evangelica, Gesù dice: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento» (Mt 5,17). Cristo è la chiave delle Scritture: «Voi scrutate le Scritture: esse parlano di me» (cf Gv 5,39); è il centro dell'economia della salvezza, la ricapitolazione dell'Antico e del Nuovo Testamento, delle promesse della Legge e del loro compimento nel Vangelo; è il legame vivente ed eterno tra l'Antica e la Nuova Alleanza. Commentando l'affermazione di Paolo «Il termine della legge è Cristo» (Rm 10,4), sant'Ambrogio scrive: «Fine non in quanto mancanza, ma in quanto pienezza della legge: questa si compie in Cristo (plenitudo legis in Christo est), dal momento che Egli è venuto non a dissolvere la legge, ma a portarla a compimento. Allo stesso modo in cui c'è un Testamento Antico, ma ogni verità sta all'interno del Nuovo Testamento, così avviene per la legge: quella che è stata data per mezzo di Mosè è figura della vera legge. Dunque, quella legge mosaica è copia della verità».
Gesù porta a compimento i comandamenti di Dio, in particolare il comandamento dell'amore del prossimo, interiorizzando e radicalizzando le sue esigenze: l'amore del prossimo scaturisce da un cuore che ama, e che, proprio perché ama, è disposto a vivere le esigenze più alte. Gesù mostra che i comandamenti non devono essere intesi come un limite minimo da non oltrepassare, ma piuttosto come una strada aperta per un cammino morale e spirituale di perfezione, la cui anima è l'amore (cf Col 3,14). Così il comandamento «Non uccidere» diventa l'appello ad un amore sollecito che tutela e promuove la vita del prossimo; il precetto che vieta l'adulterio diventa l'invito ad uno sguardo puro, capace di rispettare il significato sponsale del corpo: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio... Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda ad una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5,21-22.27-28). È Gesù stesso il «compimento» vivo della Legge in quanto egli ne realizza il significato autentico con il dono totale di sé: diventa Lui stesso Legge vivente e personale, che invita alla sua sequela, dà mediante lo Spirito la grazia di condividere la sua stessa vita e il suo stesso amore e offre l'energia per testimoniarlo nelle scelte e nelle opere (cf Gv 13,34-35).
[Papa Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor nn.13-15]
Oggi il Vangelo presenta la celebre parabola del “buon samaritano” (cfr Lc 10,25-37). Interrogato da un dottore della legge su ciò che è necessario per ereditare la vita eterna, Gesù lo invita a trovare la risposta nelle Scritture e dice: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso» (v. 27). C’erano però diverse interpretazioni su chi si dovesse intendere come “prossimo”. Infatti quell’uomo chiede ancora: «E chi è il mio prossimo?» (v. 29). A questo punto, Gesù risponde con la parabola, questa bella parabola: invito tutti voi a prendere il Vangelo oggi, Vangelo di Luca, capitolo decimo, versetto 25. È una delle più belle parabole del Vangelo. E questa parabola è diventata paradigmatica della vita cristiana. È diventata il modello di come deve agire un cristiano. Grazie all’evangelista Luca, abbiamo questo tesoro.
Protagonista del breve racconto è un samaritano, che incontra lungo la strada un uomo derubato e percosso dai briganti e si prende cura di lui. Sappiamo che i giudei trattavano con disprezzo i samaritani, considerandoli estranei al popolo eletto. Non è dunque un caso che Gesù scelga proprio un samaritano come personaggio positivo della parabola. In questo modo vuole superare il pregiudizio, mostrando che anche uno straniero, anche uno che non conosce il vero Dio e non frequenta il suo tempio, è capace di comportarsi secondo la sua volontà, provando compassione per il fratello bisognoso e soccorrendolo con tutti i mezzi a sua disposizione.
Per quella stessa strada, prima del samaritano, erano già passati un sacerdote e un levita, cioè persone dedite al culto di Dio. Però, vedendo il poveraccio a terra, erano andati oltre senza fermarsi, probabilmente per non contaminarsi col suo sangue. Avevano anteposto una regola umana – non contaminarsi col sangue – legata al culto al grande comandamento di Dio, che vuole anzitutto la misericordia.
Gesù, dunque, propone come modello il samaritano, proprio uno che non aveva fede! Anche noi pensiamo a tanta gente che conosciamo, forse agnostica, che fa del bene. Gesù sceglie come modello uno che non era un uomo di fede. E questo uomo, amando il fratello come sé stesso, dimostra di amare Dio con tutto il cuore e con tutte le forze – il Dio che non conosceva! –, ed esprime nello stesso tempo vera religiosità e piena umanità.
Dopo aver raccontato questa parabola tanto bella, Gesù si rivolge di nuovo al dottore della legge che gli aveva chiesto «Chi è il mio prossimo?», e gli dice: «Chi di questi ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?» (v. 36). In questo modo opera un rovesciamento rispetto alla domanda del suo interlocutore, e anche alla logica di tutti noi. Ci fa capire che non siamo noi che, in base ai nostri criteri, definiamo chi è il prossimo e chi non lo è, ma è la persona in situazione di bisogno che deve poter riconoscere chi è il suo prossimo, cioè «chi ha avuto compassione di lui» (v. 37). Essere capaci di avere compassione: questa è la chiave. Questa è la nostra chiave. Se tu davanti a una persona bisognosa non senti compassione, se il tuo cuore non si commuove, vuol dire che qualcosa non va. Stai attento, stiamo attenti. Non ci lasciamo trascinare dall’insensibilità egoistica. La capacità di compassione è diventata la pietra di paragone del cristiano, anzi dell’insegnamento di Gesù. Gesù stesso è la compassione del Padre verso di noi. Se tu vai per la strada e vedi un senzatetto sdraiato lì e passi senza guardarlo o pensi: “Ma, effetto del vino. È un ubriaco”, domandati non se quell’uomo è ubriaco, domandati se il tuo cuore non si è irrigidito, se il tuo cuore non è diventato ghiaccio. Questa conclusione indica che la misericordia nei confronti di una vita umana in stato di necessità è il vero volto dell’amore. È così che si diventa veri discepoli di Gesù e si manifesta il volto del Padre: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). E Dio, nostro Padre, è misericordioso, perché ha compassione; è capace di avere questa compassione, di avvicinarsi al nostro dolore, al nostro peccato, ai nostri vizi, alle nostre miserie.
La Vergine Maria ci aiuti a comprendere e soprattutto a vivere sempre più il legame inscindibile che c’è tra l’amore per Dio nostro Padre e l’amore concreto e generoso per i nostri fratelli, e ci dia la grazia di avere compassione e crescere nella compassione.
[Papa Francesco, Angelus 14 luglio 2019]
L’Unicità importante non ci lascia “riprendere”: però fa Rinascere
(Mt 10,24-33)
La proposta del Cristo sovverte il quietismo e il senso della vita personale e sociale, pertanto i suoi amici si trovano contromano.
Il discepolo della Verità è esposto agli attacchi.
Non c’è un orientamento prefissato. Ma negli stati di disagio, nella sconfitta, nell’umiliazione, agisce un mondo energetico plasmabile che fa affiorare capacità innate; attiva la persona a volare con proprie ali.
È uno spunto d’origine, che ovunque andiamo non ci si scrolla di dosso. Perché qui siamo noi stessi; nel centro della nostra Missione, non omologabile sotto convenzioni e accomodamenti.
In tal guisa, l’appartenere alla Chiesa non è rifugio sicuro e riparo d’ogni tempesta.
I fedeli non devono sbalordire delle prove, sofferenze, isolamento, ricatti - mezzucci di chi usa il potere [o la stessa religiosità affermata] per tornaconto e come un’arma.
Il timore di venire emarginati non può spingerci a nascondere la verità, che per noi è un fattore di riconoscimento: smarrirne il connubio e trascurare di essere una cosa sola con essa sarebbe peggio delle torture.
A dirla tutta, ciò che ci fa codardi, infedeli, diplomatici e deboli - quindi inutili e irrilevanti - è spesso molto molto meno di un pericolo per la vita, per i beni, o per le nostre più piccine libertà.
Gli scopi troppo prossimi non uniscono l’uomo e il mondo a Dio. Non confermano la giustezza e conformità del grande Fine e Sorgente: continua Presenza che accompagna la nostra attività particolare.
Molti sono i «capelli che cadono», ma ciascuno di essi ha una fisionomia originale: “è” in modo speciale, ha un suo posto e un suo senso.
La Chiamata personale resta costitutiva dell’essenza irripetibile che spalanca all’impegno dell’Unicità.
Apre al compito della ‘rinascita’, nello stupore eccezionale della nuova genesi di ciascuno, e della terra.
È carattere inedito. Grammatica del nostro linguaggio, dell’interagire nel mondo, e dell’ascolto di Dio.
La Vocazione genuina - irripetibile sino in fondo, costi quel che costi - è l’unico sentiero da percorrere per leggere e incontrare il ‘genio del tempo’ prima dei problemi.
L’Atipicità personale fecondata dal Mistero è una sorta d’impulso che trasforma le crisi in opportunità. Volontà-fattore di riconoscimento che ci accompagna e orienta in essi; con l’aiuto della semplicità, per una nuova fioritura.
Qui, anche in situazioni apparentemente irrilevanti o decisamente critiche, possiamo percepire l’energia delle risorse interiori - lasciate libere di agire e nutrire tutte le situazioni contrapposte.
Percorrendo le vie dell’inusitato, diventeremo flessibili; cavalcheremo le onde del cambiamento inatteso.
Ma proprio lì saremo totalmente noi stessi: intenzione cosmica e divina, smisuratamente importanti.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Ti è capitata una persecuzione che - mentre avresti preferito altri obbiettivi prossimi - ha fatto affiorare proprio l'originalità della tua fisionomia vocazionale?
[Sabato 14.a sett. T.O. 12 luglio 2025]
Unicità
11. «Ognuno per la sua via», dice il Concilio. Dunque, non è il caso di scoraggiarsi quando si contemplano modelli di santità che appaiono irraggiungibili. Ci sono testimonianze che sono utili per stimolarci e motivarci, ma non perché cerchiamo di copiarle, in quanto ciò potrebbe perfino allontanarci dalla via unica e specifica che il Signore ha in serbo per noi. Quello che conta è che ciascun credente discerna la propria strada e faccia emergere il meglio di sé, quanto di così personale Dio ha posto in lui (cfr 1 Cor 12,7) e non che si esaurisca cercando di imitare qualcosa che non è stato pensato per lui. Tutti siamo chiamati ad essere testimoni, però esistono molte forme esistenziali di testimonianza. Di fatto, quando il grande mistico san Giovanni della Croce scriveva il suo Cantico spirituale, preferiva evitare regole fisse per tutti e spiegava che i suoi versi erano scritti perché ciascuno se ne giovasse «a modo suo». Perché la vita divina si comunica ad alcuni in un modo e ad altri in un altro.
[Gaudete et Exsultate]
Il Mistero dell’Unicità: l’Unicità importante non ci lascia “riprendere”: però fa Rinascere.
(Mt 10,24-33)
La proposta del Cristo sovverte il quietismo e il senso della vita personale e sociale, pertanto i suoi amici si trovano contromano.
Il discepolo della Verità è esposto agli attacchi.
Non c’è un orientamento prefissato. Ma negli stati di disagio, nella sconfitta, nell’umiliazione, agisce un mondo energetico plasmabile che fa affiorare capacità innate; attiva la persona a volare con proprie ali.
È uno spunto d’origine, che ovunque andiamo non ci si scrolla di dosso. Perché qui siamo noi stessi; nel centro della nostra Missione, non omologabile sotto convenzioni e accomodamenti.
In tal guisa, l’appartenere alla Chiesa non è rifugio sicuro e riparo d’ogni tempesta.
I fedeli non devono sbalordire delle prove, sofferenze, isolamento, ricatti - mezzucci di chi usa il potere [o la stessa religiosità affermata] per tornaconto e come un’arma.
Il timore di venire emarginati non può spingerci a nascondere la verità, che per noi è un fattore di riconoscimento: smarrirne il connubio e trascurare di essere una cosa sola con essa sarebbe peggio delle torture.
A dirla tutta, ciò che ci fa codardi, infedeli, diplomatici e deboli - quindi inutili e irrilevanti - è spesso molto molto meno di un pericolo per la vita, per i beni, o per le nostre più piccine libertà.
Gli scopi troppo prossimi non uniscono l’uomo e il mondo a Dio. Non confermano la giustezza e conformità del grande Fine e Sorgente: continua Presenza che accompagna la nostra attività particolare.
Molti sono i «capelli che cadono», ma ciascuno di essi ha una fisionomia originale: “è” in modo speciale, ha un suo posto e un suo senso.
La Chiamata personale resta costitutiva dell’essenza irripetibile che spalanca all’impegno dell’Unicità.
Apre al compito della ‘rinascita’: nel tempo della crisi globale, non della “ripresa come prima” - ma dello stupore eccezionale nella nuova genesi di ciascuno, e della terra.
È carattere inedito, persino con noi stessi. Cifra della grammatica del nostro linguaggio quotidiano, dell’interagire nel mondo.
E nell’anima, dell’ascolto di Dio che si rivela innescando energie vitali [complete perché discordi]. Coi suoi impensati processi di guarigione, senza formula alcuna.
La Vocazione genuina - irripetibile sino in fondo, costi quel che costi - è l’unico sentiero da percorrere per leggere e incontrare il ‘genio del tempo’ prima dei problemi.
L’Atipicità personale fecondata dal Mistero è una sorta d’impulso che trasforma le crisi in opportunità.
Volontà-fattore di riconoscimento che ci accompagna e orienta in essi; con l’aiuto della semplicità, per una nuova fioritura.
Qui, anche in situazioni apparentemente irrilevanti o decisamente critiche, possiamo percepire l’energia delle risorse interiori - lasciate libere di agire e nutrire tutte le situazioni contrapposte.
Percorrendo le vie dell’inusitato, diventeremo flessibili; cavalcheremo le onde del cambiamento inatteso.
Ma proprio lì saremo totalmente noi stessi: intenzione cosmica e divina, smisuratamente importanti.
L’enciclica Fratelli Tutti si scaglia contro «un modello di globalizzazione che mira consapevolmente a un’uniformità unidimensionale e cerca di eliminare tutte le differenze e le tradizioni in una superficiale ricerca di unità. Se una globalizzazione pretende di rendere tutti uguali, come se fosse una sfera, questa globalizzazione distrugge la peculiarità di ciascuna persona e di ciascun popolo. Questo falso sogno universalistico finisce per privare il mondo della varietà dei suoi colori, della sua bellezza e in definitiva della sua umanità. Perché il futuro non è monocromatico, ma, se ne abbiamo il coraggio, è possibile guardarlo nella varietà e nella diversità degli apporti che ciascuno può dare. Quanto ha bisogno la nostra famiglia umana di imparare a vivere insieme in armonia e pace senza che dobbiamo essere tutti uguali!» (n.100)
È bene gioire delle dissomiglianze che ci abitano, della varietà di apporti e punti di vista che ciascuno può comunicare - importante: anche nello sguardo sulle difficoltà e modi di risolverle.
L’uomo maturo, integrale, nella diversificazione e nel vario sapere, nella difformità degli approcci e dei processi, nella poliedricità dei canali di espressione, è più completo.
Oggi persino in una cultura fortemente segnata dall’afflato antropologico comunitario come ad es. quella africana, ci si rende conto perfettamente del valore di ciò ch’è personale e inedito - anche in favore dei legami:
«Un giorno verrà in cui anche tu dovrai condividere la tua conoscenza delle cose e degli uomini. Testimone singolare di un evento unico rivelato a te solo, in una lingua ancora inedita. E dirai ai tuoi fratelli l’indicibile saggezza del tuo cuore» [Irénée Guilane Dioh].
Una tradizione orale, similmente africana - cerimoniale e personalistica - recita infatti:
«L’iniziazione esteriore è l’apertura degli occhi, tutto l’insegnamento che viene dato nel corso delle cerimonie tradizionali o dei periodi di ritiro che seguono. Ma tale insegnamento lo si dovrà poi vivere, assimilare, far fruttare, aggiungendovi le proprie osservazioni personali, la propria comprensione, la propria esperienza».
Anche la scena degli esempi spontanei che Gesù trae dalla natura è un eco della vita conciliante sognata per noi dal Padre.
Essa introduce alla Felicità che fa consapevoli di esistere, in tutta la personale realtà.
Il passo di Vangelo mostra infatti il valore delle cose genuine, silenti, poco eclatanti, le quali però ci abitano - non sono “ombre”. E le percepiamo senza sforzo né impegno cerebrale.
Nel tempo delle scelte epocali, dell’emergenza che sembra metterci in scacco - ma vuole farci meno artificiali - tale consapevolezza può rovesciare il nostro giudizio di sostanza, sul ‘piccolo’ e ‘il grande’.
Infatti, per l’avventura d’amore non c’è contabilità.
“Cielo” che vince la morte è in Dio e nella realtà il “posto” per ciascuno di noi senza lacerazioni.
L’aldilà non è impreciso.
Non bisogna snaturarsi per avere consenso… tantomeno per un firmamento costellato.
Il destino dell’Unicità eccezionale non va in rovina: è prezioso e caro, come lo è in natura ogni singolarità.
Bisogna scorgerne la Bellezza, futura e già attuale.
Emarginato il tornaconto immediato, o qualsiasi garanzia sociale che non riguarda il valore della piccolezza - non ci sarà più bisogno di identificarsi con gli scheletri del pensiero e delle maniere assodati [o alla moda].
Neppure conterà collocarsi sopra e davanti: piuttosto, sullo sfondo; già ricchi e perfetti, nel senso intimo della pienezza di essere.
Così non dovremo calpestarci a vicenda (cf. Lc 12,1)... anche per incontrare Gesù.
In breve:
«Siamo assolutamente perduti se ci viene a mancare questa particolare individualità, l’unica cosa che possiamo dire veramente nostra - e la cui perdita costituisce anche una perdita per il mondo intero. Essa è preziosissima anche perché non è universale» [Rabindranath Tagore].
Infatti, persino in un rapporto d’amore profondo e coesistenza «c’è bisogno di liberarsi dall’obbligo di essere uguali» (Amoris Laetitia, n.139).
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Ti è capitata una persecuzione che - mentre avresti preferito altri obbiettivi prossimi - ha fatto affiorare proprio l'originalità della tua fisionomia vocazionale?
Non siamo “massa”, “moltitudine”, per Gesù! Siamo “persone” singole con un valore eterno, sia come creature sia come persone redente! lui ci conosce! lui mi conosce, e mi ama e ha dato se stesso per me! (Gal 2,20) [Giovanni Paolo II]
Unicità
11. «Ognuno per la sua via», dice il Concilio. Dunque, non è il caso di scoraggiarsi quando si contemplano modelli di santità che appaiono irraggiungibili. Ci sono testimonianze che sono utili per stimolarci e motivarci, ma non perché cerchiamo di copiarle, in quanto ciò potrebbe perfino allontanarci dalla via unica e specifica che il Signore ha in serbo per noi. Quello che conta è che ciascun credente discerna la propria strada e faccia emergere il meglio di sé, quanto di così personale Dio ha posto in lui (cfr 1 Cor 12,7) e non che si esaurisca cercando di imitare qualcosa che non è stato pensato per lui. Tutti siamo chiamati ad essere testimoni, però esistono molte forme esistenziali di testimonianza. Di fatto, quando il grande mistico san Giovanni della Croce scriveva il suo Cantico spirituale, preferiva evitare regole fisse per tutti e spiegava che i suoi versi erano scritti perché ciascuno se ne giovasse «a modo suo». Perché la vita divina si comunica ad alcuni in un modo e ad altri in un altro.
[Gaudete et Exsultate]
Di Tertulliano sono famosi soprattutto i suoi scritti di carattere apologetico. Essi manifestano due intenti principali: quello di confutare le gravissime accuse che i pagani rivolgevano contro la nuova religione, e quello – più propositivo e missionario – di comunicare il messaggio del Vangelo in dialogo con la cultura del tempo. La sua opera più nota, l’Apologetico, denuncia il comportamento ingiusto delle autorità politiche verso la Chiesa; spiega e difende gli insegnamenti e i costumi dei cristiani; individua le differenze tra la nuova religione e le principali correnti filosofiche del tempo; manifesta il trionfo dello Spirito, che alla violenza dei persecutori oppone il sangue, la sofferenza e la pazienza dei martiri: «Per quanto raffinata – scrive l’Africano –, a nulla serve la vostra crudeltà: anzi, per la nostra comunità, essa è un invito. A ogni vostro colpo di falce diveniamo più numerosi: il sangue dei cristiani è una semina efficace! (semen est sanguis christianorum!)» (Apologetico 50,13). Il martirio, la sofferenza per la verità sono alla fine vittoriosi e più efficaci della crudeltà e della violenza dei regimi totalitari.
Ma Tertulliano, come ogni buon apologista, avverte nello stesso tempo l’esigenza di comunicare positivamente l’essenza del cristianesimo. Per questo egli adotta il metodo speculativo per illustrare i fondamenti razionali del dogma cristiano. Li approfondisce in maniera sistematica, a cominciare dalla descrizione del «Dio dei cristiani»: «Quello che noi adoriamo – attesta l’Apologista – è un Dio unico». E prosegue, impiegando le antitesi e i paradossi caratteristici del suo linguaggio: «Egli è invisibile, anche se lo si vede; inafferrabile, anche se è presente attraverso la grazia; inconcepibile, anche se i sensi umani lo possono concepire; perciò è vero e grande!» (ibid., 17,1-2).
Tertulliano, inoltre, compie un passo enorme nello sviluppo del dogma trinitario; ci ha dato in latino il linguaggio adeguato per esprimere questo grande mistero, introducendo i termini «una sostanza» e «tre Persone». In modo simile, ha sviluppato molto anche il corretto linguaggio per esprimere il mistero di Cristo Figlio di Dio e vero Uomo.
L’Africano tratta anche dello Spirito Santo, dimostrandone il carattere personale e divino.
[Papa Benedetto, Udienza Generale, 30 maggio 2007]
Are we not perhaps all afraid in some way? If we let Christ enter fully into our lives, if we open ourselves totally to him, are we not afraid that He might take something away from us? Are we not perhaps afraid to give up something significant, something unique, something that makes life so beautiful? Do we not then risk ending up diminished and deprived of our freedom? (Pope Benedict)
Non abbiamo forse tutti in qualche modo paura - se lasciamo entrare Cristo totalmente dentro di noi, se ci apriamo totalmente a lui – paura che Egli possa portar via qualcosa della nostra vita? Non abbiamo forse paura di rinunciare a qualcosa di grande, di unico, che rende la vita così bella? Non rischiamo di trovarci poi nell’angustia e privati della libertà? (Papa Benedetto)
For Christians, volunteer work is not merely an expression of good will. It is based on a personal experience of Christ (Pope Benedict)
Per i cristiani, il volontariato non è soltanto espressione di buona volontà. È basato sull’esperienza personale di Cristo (Papa Benedetto)
"May the peace of your kingdom come to us", Dante exclaimed in his paraphrase of the Our Father (Purgatorio, XI, 7). A petition which turns our gaze to Christ's return and nourishes the desire for the final coming of God's kingdom. This desire however does not distract the Church from her mission in this world, but commits her to it more strongly [John Paul II]
‘Vegna vêr noi la pace del tuo regno’, esclama Dante nella sua parafrasi del Padre Nostro (Purgatorio XI,7). Un’invocazione che orienta lo sguardo al ritorno di Cristo e alimenta il desiderio della venuta finale del Regno di Dio. Questo desiderio però non distoglie la Chiesa dalla sua missione in questo mondo, anzi la impegna maggiormente [Giovanni Paolo II]
Let our prayer spread out and continue in the churches, communities, families, the hearts of the faithful, as though in an invisible monastery from which an unbroken invocation rises to the Lord (John Paul II)
La nostra preghiera si diffonda e continui nelle chiese, nelle comunità, nelle famiglie, nei cuori credenti, come in un monastero invisibile, da cui salga al Signore una invocazione perenne (Giovanni Paolo II)
"The girl is not dead, but asleep". These words, deeply revealing, lead me to think of the mysterious presence of the Lord of life in a world that seems to succumb to the destructive impulse of hatred, violence and injustice; but no. This world, which is yours, is not dead, but sleeps (Pope John Paul II)
“La bambina non è morta, ma dorme”. Queste parole, profondamente rivelatrici, mi inducono a pensare alla misteriosa presenza del Signore della vita in un mondo che sembra soccombere all’impulso distruttore dell’odio, della violenza e dell’ingiustizia; ma no. Questo mondo, che è vostro, non è morto, ma dorme (Papa Giovanni Paolo II)
"Refined as it is", Tertullian writes, "your cruelty serves no purpose. On the contrary, for our community, it is an invitation. We multiply every time one of us is mowed down. The blood of Christians is effective seed" (semen est sanguis christianorum!, Apologeticus, 50: 13) [Pope Benedict]
«Per quanto raffinata – scrive Tertulliano –, a nulla serve la vostra crudeltà: anzi, per la nostra comunità, essa è un invito. A ogni vostro colpo di falce diveniamo più numerosi: il sangue dei cristiani è una semina efficace! (semen est sanguis christianorum!)» (Apologetico 50,13) [Papa Benedetto]
don Giuseppe Nespeca
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