Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
“Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3, 16). Il mondo è amato da Dio e sarà amato fino alla fine. Il Cuore del Figlio di Dio trafitto sulla croce e aperto, testimonia in modo profondo e definitivo l’amore di Dio. Scriverà San Bonaventura: “Per divina disposizione è stato permesso che un soldato trafiggesse e aprisse quel sacro costato. Ne uscì sangue ed acqua, prezzo della nostra salvezza” (Liturgia delle Ore, vol. III, p. 601).
Ci presentiamo con il cuore trepidante e in umiltà davanti al grande mistero di Dio, che è amore. Oggi qui, a Gliwice, vogliamo esprimerGli la nostra lode ed insieme una immensa gratitudine.
E’ con grande gioia che vengo da voi, poiché mi siete cari. Tutto il popolo della Slesia è caro al mio cuore. Come metropolita di Kraków ogni anno andavo in pellegrinaggio alla Madonna di Piekary e là ci incontravamo per la comune preghiera. Apprezzavo molto ogni invito. Era sempre per me un’esperienza profonda. Però nella diocesi di Gliwice mi trovo per la prima volta, perché è una diocesi giovane istituita alcuni anni fa. Ricevete perciò il mio cordiale saluto, che rivolgo prima al vostro vescovo Jan e al vescovo ausiliare Gerard. Saluto anche il clero, le famiglie religiose, tutte le persone consacrate e il popolo fedele di questa diocesi. Sono lieto perché sul percorso del mio pellegrinaggio in Patria c’è anche Gliwice, una città che ho visitato più volte, alla quale mi legano speciali ricordi. Con grande gioia visito questa terra di uomini abituati al duro lavoro: è la terra del minatore polacco, la terra delle acciaierie, delle miniere e dei forni delle fabbriche, ma anche la terra che possiede una ricca tradizione religiosa. I miei pensieri e il mio cuore oggi si aprono a voi qui presenti, a tutti gli uomini dell’Alta Slesia e di tutta la terra di Slesia. Vi saluto tutti nel nome di Dio uno e trino.
2. "Dio è amore" (1 Gv 4, 16). Queste parole di San Giovanni evangelista costituiscono il tema guida del pellegrinaggio del Papa in Polonia. Alla vigilia del Grande Giubileo dell’Anno 2000 bisogna che sia di nuovo trasmessa al mondo questa gioiosa e impressionante notizia su un Dio che ama. Dio è una realtà che sfugge alla nostra capacità di esauriente comprensione. Perché è Dio, non saremo in grado di comprendere con la nostra ragione la sua infinità, né di chiuderla nelle strette dimensioni umane. E’ Lui che ci valuta, che ci governa, ci guida e ci comprende, anche quando non ne siamo consapevoli. Però questo Dio, irraggiungibile nella sua essenza, si è fatto vicino all’uomo mediante il suo amore paterno. La verità su Dio che è amore costituisce quasi una sintesi e al contempo il culmine di tutto ciò che Dio ci ha rivelato su se stesso, di ciò che ci ha detto per mezzo dei Profeti e per mezzo di Cristo su ciò che egli è.
Dio ha rivelato questo amore in vari modi. Prima, nel mistero della creazione. La creazione è opera dell’onnipotenza di Dio, guidata dalla sapienza e dall’amore. “Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà” - dirà Dio ad Israele per bocca del profeta Geremia (31, 3). Dio ha amato il mondo che ha creato, e in esso sopra ogni cosa ha amato l’uomo. E perfino quando l’uomo prevaricò contro questo amore originale, Dio non cessò di amarlo e lo alzò dalla caduta, poiché è Padre, poiché è Amore. Nel modo più perfetto e definitivo Dio ha rivelato il suo amore in Cristo - nella sua croce e nella sua risurrezione. San Paolo dirà: “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo” (Ef 2, 4-5). Ho scritto nel messaggio di quest’anno per i giovani: “Il Padre vi ama”. Questa magnifica notizia è stata depositata nel cuore dell’uomo che crede, il quale come il discepolo prediletto di Gesù, poggia il capo sul petto del Maestro ed ascolta le sue confidenze: “Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14, 21).
“Il Padre vi ama” - queste parole del Signore Gesù costituiscono il centro stesso del Vangelo. Allo stesso tempo nessuno mette in risalto quanto Cristo il fatto che tale amore è esigente: “facendosi obbediente fino alla morte” (Fil 2, 8) ha insegnato nel modo più perfetto che l’amore attende la risposta da parte dell’uomo. Esige la fedeltà ai comandamenti e alla vocazione che l’uomo ha ricevuto da Dio.
3. “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi” (1 Gv 4, 16).
Mediante la grazia, l’uomo è chiamato all’alleanza con il suo Creatore, a dare la risposta di fede e di amore che nessun’altro può dare al posto suo. Tale risposta non è mancata qui, nella Slesia. L’avete data a Dio per secoli interi con la vostra vita cristiana. Nella storia sempre siete stati uniti alla Chiesa e ai suoi Pastori, fortemente attaccati alla tradizione religiosa dei vostri avi. In modo particolare il lungo periodo del dopoguerra, fino ai cambiamenti, avvenuti nel nostro paese nel 1989, era tempo anche per voi di una grande prova di fede. Avete fedelmente perseverato presso Dio, resistendo all’ateizzazione e alla laicizzazione della nazione e alla lotta contro la religione. Mi ricordo come migliaia di operai della Slesia ripetevano con fermezza, nel Santuario di Piekary, il motto: “La Domenica è di Dio e nostra”. Sempre avete avvertito il bisogno della preghiera e dei luoghi da cui essa può meglio innalzarsi. Perciò non vi è mancata la volontà di spirito e la generosità per adoperarvi nella costruzione di nuove chiese e di luoghi di culto, che sono sorti numerosi in quel tempo nelle città e nei villaggi dell’Alta Slesia. Vi stava a cuore anche il bene della famiglia. Per questo reclamavate i diritti ad essa dovuti, specialmente quello della libera educazione nella fede dei vostri figli e dei giovani. Spesso vi radunavate nei santuari e in molti altri luoghi cari al vostro cuore, per esprimere l’attaccamento a Dio e per rendergli testimonianza. Invitavate anche me a queste comuni celebrazioni nella Slesia. Tanto volentieri vi annunciavo la parola di Dio, perché avevate bisogno di essere confortati nel difficile periodo di lotte per la conservazione dell’identità cristiana, per avere la forza di obbedire “a Dio piuttosto che agli uomini” (cfr At 5, 29).
Guardando al passato, oggi rendiamo grazie alla Provvidenza per questo esame sulla fedeltà a Dio e al Vangelo, alla Chiesa e ai suoi Pastori. Questo era anche un esame sulla responsabilità per la nazione, per la Patria cristiana e per il suo millenario patrimonio, che nonostante tutte le grandi prove non subì la distruzione o l’oblio. Accadde così perché “avete riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi” e avete voluto rispondere sempre con amore a Dio.
4. “Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, ma si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte” (cfr Sal 1, 1-2).
Abbiamo ascoltato queste parole del Salmista nella breve lettura durante i Vespri di oggi. Rimanete fedeli all’esperienza delle generazioni, che vissero in questa terra con Dio nel cuore e con la preghiera sulle labbra. Nella Slesia vinca sempre la fede e la sana moralità, il vero spirito cristiano e il rispetto dei comandamenti divini. Conservate ciò che era fonte di forza spirituale per i vostri padri come il più grande tesoro. Essi sapevano includere Dio nella loro vita e in Lui sconfiggere tutte le manifestazioni del male. Eloquente simbolo di ciò è il saluto “Dio ti sia propizio!” che è proprio dei minatori. Sappiate conservare il cuore sempre aperto ai valori annunziati dal Vangelo, custoditeli; essi decidono della vostra identità.
Cari Fratelli e Sorelle, volevo anche dirvi che conosco le vostre difficoltà, i timori e le sofferenze che ora state vivendo; i timori e le sofferenze che sperimenta il mondo del lavoro in questa diocesi e in tutta la Slesia. Mi rendo conto dei pericoli uniti a questo stato di cose specialmente per molte famiglie e per tutta la vita sociale. E' necessaria un’attenta considerazione sia delle cause di tali pericoli che delle possibili soluzioni. Ho già parlato di ciò durante questo pellegrinaggio a Sosnowiec. Oggi mi rivolgo un’altra volta a tutti i miei connazionali nella Patria. Costruite il futuro della nazione sull’amore di Dio e degli uomini, sul rispetto dei comandamenti di Dio e sulla vita di grazia. E’ felice infatti l’uomo, è felice la nazione, che si compiace della legge del Signore.
La consapevolezza che Dio ci ama, dovrebbe sollecitare all’amore per gli uomini, di tutti gli uomini senza alcuna eccezione e senza alcuna divisione in amici e nemici. L’amore per l’uomo consiste nel desiderare per ognuno il vero bene. Consiste anche nella premura per garantire questo bene e respingere ogni forma di male e di ingiustizia. Bisogna sempre e con perseveranza cercare le vie di un giusto sviluppo per tutti, per "rendere - come dice il Concilio - più umana la vita dell’uomo” (cfr Gaudium et spes, 38). Abbondino nel nostro paese l’amore e la giustizia, producendo ogni giorno frutti nella vita della società. Soltanto grazie ad esse questa terra può diventare una casa felice. Senza un grande ed autentico amore non c’è casa per l’uomo. Pur raggiungendo grandi successi nel campo dello sviluppo materiale, senza di esso sarebbe condannato ad una vita priva di vero senso.
“L’uomo è la sola creatura sulla terra che Dio abbia voluto per se stesso” (cfr Gaudium et spes, 24). E’ stato chiamato a partecipare alla vita di Dio, è stato chiamato alla pienezza di grazia e di verità. La propria grandezza, il valore e la dignità della propria umanità egli la trova proprio in questa vocazione.
Dio che è amore, sia la luce della vostra vita per oggi e per i tempi che verranno. Sia la luce per tutta la nostra Patria. Costruite un futuro degno dell’uomo e della sua vocazione.
Depongo voi tutti, le vostre famiglie e i vostri problemi ai piedi della Madre Santissima, che è venerata in molti santuari di questa diocesi e in tutta la Slesia. Essa insegni l’amore di Dio e dell’uomo, come lo ha praticato Lei nella sua vita.
A tutti “Dio vi sia propizio”!
[Papa Giovanni Paolo II, omelia a Gliwice 15 giugno 1999]
«Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito» (Gv 3,16). Qui c’è il cuore del Vangelo, qui c’è il fondamento della nostra gioia. Il contenuto del Vangelo, infatti, non è un’idea o una dottrina, ma è Gesù, il Figlio che il Padre ci ha donato perché noi avessimo la vita. Gesù è il fondamento della nostra gioia: non è una bella teoria su come essere felici, ma è sperimentare di essere accompagnati e amati nel cammino della vita. “Ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio”. Soffermiamoci, fratelli e sorelle, un momento su questi due aspetti: “ha tanto amato” e “ha dato”.
Prima di tutto, Dio ha tanto amato. Queste parole, che Gesù rivolge a Nicodemo – un anziano giudeo che voleva conoscere il Maestro – ci aiutano a scorgere il vero volto di Dio. Egli da sempre ci ha guardati con amore e per amore è venuto in mezzo a noi nella carne del Figlio suo. In Lui ci è venuto a cercare nei luoghi in cui ci siamo smarriti; in Lui è venuto a rialzarci dalle nostre cadute; in Lui ha pianto le nostre lacrime e guarito le nostre piaghe; in Lui ha benedetto per sempre la nostra vita. Chiunque crede in Lui, dice il Vangelo, non va perduto (ibid.). In Gesù, Dio ha pronunciato la parola definitiva sulla nostra vita: tu non sei perduto, tu sei amato. Sempre amato.
Se l’ascolto del Vangelo e la pratica della nostra fede non ci allargano il cuore per farci cogliere la grandezza di questo amore, e magari scivoliamo in una religiosità seriosa, triste, chiusa, allora è segno che dobbiamo fermarci un po’ e ascoltare di nuovo l’annuncio della buona notizia: Dio ti ama così tanto da darti tutta la sua vita. Non è un dio che ci guarda indifferente dall’alto, ma è un Padre, un Padre innamorato che si coinvolge nella nostra storia; non è un dio che si compiace della morte del peccatore, ma un Padre preoccupato che nessuno vada perduto; non è un dio che condanna, ma un Padre che ci salva con l’abbraccio benedicente del suo amore.
E veniamo alla seconda parola: Dio “ha dato” il suo Figlio. Proprio perché ci ama così tanto, Dio dona sé stesso e ci offre la sua vita. Chi ama esce sempre da sé stesso – non dimenticatevi di questo: chi ama esce sempre da sé stesso. L’amore sempre si offre, si dona, si spende. La forza dell’amore è proprio questa: frantuma il guscio dell’egoismo, rompe gli argini delle sicurezze umane troppo calcolate, abbatte i muri e vince le paure, per farsi dono. Questa è la dinamica dell’amore: è farsi dono, darsi. Chi ama è così: preferisce rischiare nel donarsi piuttosto che atrofizzarsi trattenendosi per sé. Per questo Dio esce da sé stesso, perché “ha tanto amato”. Il suo amore è così grande che non può fare a meno di donarsi a noi. Quando il popolo in cammino nel deserto fu attaccato dai serpenti velenosi, Dio fece fare a Mosè il serpente di bronzo; in Gesù, però, innalzato sulla croce, Lui stesso è venuto a guarirci dal veleno che dà la morte, si è fatto peccato per salvarci dal peccato. Non ci ama a parole Dio: ci dona suo Figlio perché chiunque lo guarda e crede in Lui sia salvato (cfr Gv 3,14-15).
Più si ama e più si diventa capaci di donare. Questa è anche la chiave per comprendere la nostra vita. È bello incontrare persone che si amano, che si vogliono bene e condividono la vita; di loro si può dire come di Dio: si amano così tanto da dare la loro vita. Non conta solo ciò che possiamo produrre o guadagnare, conta soprattutto l’amore che sappiamo donare.
E questa è la sorgente della gioia! Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio. Da qui prende senso l’invito che la Chiesa rivolge in questa domenica: «Rallegrati [...]. Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza: saziatevi dell’abbondanza della vostra consolazione» (Antifona d’ingresso; cfr Is 66,10-11). Ripenso a ciò che abbiamo vissuto una settimana fa in Iraq: un popolo martoriato ha esultato di gioia; grazie a Dio, alla sua misericordia.
A volte cerchiamo la gioia dove non c’è, la cerchiamo nelle illusioni che svaniscono, nei sogni di grandezza del nostro io, nell’apparente sicurezza delle cose materiali, nel culto della nostra immagine, e tante cose... Ma l’esperienza della vita ci insegna che la vera gioia è sentirci amati gratuitamente, sentirci accompagnati, avere qualcuno che condivide i nostri sogni e che, quando facciamo naufragio, viene a soccorrerci e a condurci in un porto sicuro.
[Papa Francesco, omelia in occasione dei 500 anni dell’evangelizzazione delle Filippine, 14 marzo 2021]
Scienziati e Piccoli: mondo astratto e incarnazione
(Mt 11,25-30)
I capi guardavano la religiosità con scopi d’interesse. I professori di teologia erano abituati a valutare ogni virgola partendo dal proprio sapere, ridicolo ma supponente - estraneo alle vicende reali.
Ciò che rimane vincolato a costumanze e soliti protagonisti non fa sognare, non è apparizione e testimonianza stupefacente d’Altrove; toglie ricchezza espressiva all’Annuncio e alla vita.
Il Maestro si rallegra della sua stessa esperienza, che reca una gioia non epidermica e un insegnamento dallo Spirito - su chi è ben disposto, e capace di comprendere le profondità del Regno, nelle cose comuni.
Insomma, dopo un primo momento di folle entusiaste, il Maestro approfondisce le tematiche e si ritrova tutti contro, tranne Dio e i minimi: i senza peso, ma con tanta voglia di cominciare da zero.
Barlume del Mistero che lievita la storia - senza farne un possesso.
In un primo tempo anche Gesù rimane sbalordito per il rifiuto di chi si riteneva già soddisfatto e non attendeva più nulla che potesse destare le abitudini.
Poi comprende, loda e benedice il disegno del Padre: la persona autentica nasce dai bassifondi, e possiede «lo spirito del vicinato» (FT n.152).
Dio è Relazione semplice: demitizza l’idolo della grandezza.
L’Eterno non è il padrone del creato: è Ristoro che rinfranca, perché fa sentire completi e amabili; ci cerca, si fa attento al linguaggio del cuore.
Egli è Custode del mondo, anche dei non istruiti - degli «infanti» (v.25) spontaneamente vuoti di spirito borioso, ossia di coloro che non restano chiusi nella loro sufficiente appartenenza.
Così il rapporto Padre-Figlio viene comunicato ai poveri di Dio: coloro che sono dotati di un’attitudine da famigliari (v.27).
Insignificanti e invisibili privi di grandi doti, ma che si abbandonano alle proposte della vita provvidente che viene, come bimbi in braccio a dei genitori.
In tal guisa, con Spirito di pietas che favorisce chi si lascia colmare di saggezza innata.
Unica realtà che ci corrisponde e non presenta il “conto”: essa non procede sulle vie del pensiero funzionale, dell’iniziativa calcolante.
Sapienza che trasmette freschezza nella disponibilità a ricevere accogliere ritemprare personalmente la Verità come Dono, e l’entusiasmo spontaneo stesso, in grado di realizzarla.
Una preghiera di benedizione semplice, per i semplici - questa di Gesù (v.25) - che ci fa crescere nella stima, calza perfettamente con la nostra esperienza, e va d’accordo con noi stessi.
I nuovi, le nullità, i senza voce e invisibili non ragionano in termini di dottrina e leggi [vv.29-30: «giogo» insopportabile che schiaccia le persone e vocazioni concrete, particolari] ma di vita e di umanità.
Così arricchiscono l’esperienza fondamentale e spontanea della Fede-Amore, appagante senza manierismi né intime forzature.
Mentre l’esteriorità del mondo piramidale, la diffidenza di chi vuol “contare”, l’ansia della società competitiva, impoveriscono lo sguardo e contaminano l’onda vitale.
Anche noi, non apprezziamo troppo l’energia dei ‘modelli’, né la potenza aggressiva dei “pezzi grossi”.
Invece che solo con il “grande” ed esterno, desideriamo vivere di Comunione - pur con il ‘piccolo’ di sé, o non ci sarà amabilità, né autentica vita.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa provi quando ti senti dire: «Tu non conti»?
Rimane un disprezzo umiliante o la consideri una grande Luce ricevuta, come ha fatto Gesù?
[s. Caterina da Siena, 29 aprile]
(Mt 11,25-30)
L’unica preghiera di Gesù poco insegnata
Scienziati e Piccoli: mondo astratto e incarnazione
(Mt 11,25-27)
«Il mondo dà credito ai “sapienti” e ai “dotti”, mentre Dio predilige i “piccoli”. L’insegnamento generale che ne deriva è che vi sono due dimensioni del reale: una più profonda, vera ed eterna, l’altra segnata dalla finitezza, dalla provvisorietà e dall’apparenza» [Papa Benedetto].
La Ragione larga di Dio non è secondo “fortuna”, o “misura”
A commento del Tao Tê Ching (iv) il maestro Ho-shang Kung scrive:
«I desideri umani sono acuminati e sottili, si sforzano di appropriarsi di merito e gloria. Quando sono smussati, l’uomo li padroneggia, e a imitazione della Via, non si riempie».
I capi guardavano la religiosità con scopi d’interesse. I professori di teologia erano abituati a valutare ogni virgola partendo dal proprio sapere, ridicolo ma supponente - estraneo alle vicende reali.
Gesù si trova contro persino i suoi famigliari. Sotto la cappa e il ricatto delle convenzioni sociali abitudinarie, anch’essi subivano il preconcetto del parere dei “grandi” e della evasiva tradizione orale, che non trasmetteva alimento al tessuto concreto del tempo umano.
Il Signore constata: persino gli Apostoli non sono persone libere; per questo non emancipano nessuno e addirittura impediscono qualsiasi svolta (cf. Lc 9).
Il loro modo di essere è talmente fondato su atteggiamenti standard e comportamenti obbligati da tradursi in armature mentali impermeabili.
La loro prevedibilità è troppo limitante: non dà respiro al cammino di coloro che invece vogliono riattivarsi, scoprire e valorizzare sorprese dietro i lati segreti della realtà e della personalità.
Ciò che rimane vincolato ad antiche costumanze [o astrazioni] e soliti protagonisti [o pseudo maestri sofisticati] non fa sognare, non è apparizione e testimonianza stupefacente d’Altrove; toglie ricchezza espressiva all’Annuncio e alla vita.
Il Maestro si rallegra della sua stessa esperienza, che reca una gioia non epidermica e un insegnamento dallo Spirito - su chi è ben disposto, e capace di comprendere le profondità del Regno, nelle cose comuni.
[A un certo punto del cammino spirituale, in Cristo ci si accorge di doversi distaccare dall’idolatria delle deferenze: soffocano e deridono la vita.
La Fede procede sul binario della Felicità della donna e dell’uomo concreti, resi viceversa fantoccio da una falsa pietà tutta esibizionista o disincarnata].
Insomma, dopo un primo momento di folle entusiaste, il Maestro approfondisce le tematiche e si ritrova tutti contro, tranne Dio e i minimi: i senza peso, ma con tanta voglia di cominciare da zero.
Barlume del Mistero che lievita la storia - senza farne un possesso.
A conclusione dell’enciclica Fratelli Tutti, Papa Francesco cita la figura e l’esperienza di Charles de Foucauld, il quale - sovvertendo tutto - «solo identificandosi con gli ultimi arrivò ad essere fratello di tutti» (n.287).
In un primo tempo anche Gesù rimane sbalordito per il rifiuto di chi si riteneva già soddisfatto della struttura religiosa ufficiale e non attendeva più nulla che potesse spodestare la pista battuta, destando abitudini (o fantasie) e tornaconto.
Poi supera la sorpresa iniziale: coglie pienamente, loda e benedice il disegno del Padre, facendolo proprio, stringendolo a sé.
Porta a piena e propria contezza il suo Segreto: che Radice della trasformazione dell’essere nell’Imprevedibile di Dio è il nascondimento, la “tapineria” [(tapeínōsis, “abbassamento”), da ταπεινός (tapeinós, “basso”) [v.29; Lc 1,48].
Qui il Figlio conosce e intende il nucleo delle Attese e delle Promesse dell’Alleanza, e i suoi protagonisti - a contrario: la Persona affidabile nasce appunto dai bassifondi, non dal ceto delle élites.
Insomma, Cristo intuisce l’autenticità a tutto tondo proprio dei malfermi - impulso profondo, motivo, motore, quintessenza e unica energia della storia della salvezza.
Trasparenza dell’Eterno, che viene da un’altra elaborazione.
Genesi stessa che sconvolge il rapporto religioso consolidato, talora divenuto inerte e “rassicurante” - mai profondo né decisivo per le sorti umane.
Dio è Relazione semplice: demitizza l’idolo della grandezza.
L’Eterno non è più il padrone del creato [Colui che si manifestava forte e perentorio; nella sua azione, ancora nel Patto antico illustrato attraverso le potenze incontenibili della natura].
Tutto il contrario. In tal guisa, di riflesso, e anche nel cammino spirituale, il Padre non ci porta all’alienazione, all’isterismo delle forzature che non vogliamo, alle dissociazioni interiori.
È Amico e Ristoro che rinfranca, perché fa sentire completi e amabili; ci cerca per Nome, si fa attento al linguaggio del cuore.
Egli è Custode del mondo, anche dei non istruiti - degli «infanti» (v.25) spontaneamente vuoti di spirito borioso, ossia di coloro che non restano chiusi nella loro sufficiente appartenenza.
Già così come sono, “perfetti” in ordine alla loro missione nel mondo. Non bicchieri vuoti, solo da rieducare in funzione istituzionale.
Non più anime da cesellare secondo modelli.
Semmai, cuori da guidare a consapevolezza totale; anime da completare nel senso della scoperta completa di se stesse, negli opposti dell’essenza caratteriale, e vocazionale.
In tal guisa, il rapporto Padre-Figlio viene comunicato ai poveri di Dio: i dotati di un’attitudine da famigliari (v.27).
Capaci di convivenza, eppure più autonomi degli identificati e ben inseriti… totalmente impegnati a ricalcare, per farsi riconoscere.
I poveri restano genuini: ciò che sono; non esterni.
Insignificanti e invisibili, privi di grandi doti, ma stranamente sempre colmi di un’Altra “potenza”.
È la “virtù” dei malfermi, i quali si abbandonano alle proposte della vita provvidente che Viene, come bimbi in braccio a genitori.
Con Spirito di ‘pietas’ - che favorisce chi si lascia colmare di saggezza innata.
Unica realtà che ci corrisponde e non presenta il “conto”: essa non procede sulle vie del pensiero funzionale, dell’iniziativa calcolante.
Sapienza che trasmette freschezza nella disponibilità a ricevere, accogliere, ritemprare personalmente la Verità come Dono - e l’entusiasmo spontaneo stesso, in grado di realizzarla.
Una preghiera di benedizione semplice, per i semplici - questa di Gesù (v.25) - che ci fa crescere nella stima, calza perfettamente con la nostra esperienza, e va d’accordo con noi stessi; a partire dall’intimo.
Ma che stranamente i dotti sul territorio i quali non vivono «lo spirito del vicinato» (FT n.152) però sul territorio rivendicano posizioni e giocano sempre d’astuzia, non ci hanno mai voluto trasmettere.
I nuovi, le nullità, i senza voce e invisibili non ragionano in termini di dottrina e leggi - vv.29-30: «giogo» insopportabile che schiaccia le persone e vocazioni concrete, particolari - ma di vita e umanità.
Così arricchiscono l’esperienza fondamentale e spontanea della Fede-Amore, appagante senza manierismi né intime forzature che poi ci tirano fuori di noi stessi.
Perché l’esteriorità del mondo piramidale, la diffidenza di chi vuol “contare”, l’ansia della società competitiva ed epidermica, impoveriscono lo sguardo; contaminano l’onda vitale.
Per Dio, meglio “contare” poco.
Egli non ci forza nell’energia dei modelli, né prospetta come ideale la potenza aggressiva dei “pezzi grossi”.
In tal guisa, i suoi intimi, invece che solo con il “grande” ed esterno, vivranno di Comunione pur con il ‘piccolo’ di sé; o non godranno amabilità, né autentica vita.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa provi quando ti senti dire: «Tu non conti»?
Rimane un disprezzo umiliante o la consideri una grande Luce ricevuta, come ha fatto Gesù?
Il Giogo sui Piccoli
Religione trasformata in ossessione - per “trattenuti”
(Mt 11,28-30)
I rabbini sceglievano i discepoli fra coloro che avevano maggiori capacità intellettive e ascetiche. Gesù invece va a cercare i fuori del giro, gli «infanti» (v.25) che neppure avevano stima di sé.
Anche per la rinascita che oggi si prospetta, Cristo non ha bisogno di finti fenomeni, anzi è Lui che libera da costrizioni esterne; sprigiona la forza interiore [e sana pure il cervello].
Nell’intimità del Mistero della vita divina entra chi sa ricevere tutto e molla la presa - ma rimane se stesso.
Dio non è lontanissimo, bensì vicinissimo; non è grande, ma piccolo: l’itinerario efficace per diventare intimi col Padre non è farsi subalterni con sforzo, ma sapersi famigliari disciolti.
Solo qui possiamo coglierlo nel centro del suo svelamento: potenza sapiente, soccorrevole, unita; per noi, come siamo.
Gli esperti della religione ufficiale - stracolmi di amor proprio e senso d’elezione - predicavano un Dio da convincere con atteggiamenti sicuri e fare artificioso, tagliente, imperioso.
Non lasciavano essere né diventare. L’intransigenza era segno che non conoscevano il Padre.
L’Eterno trasformato in Controllore era divenuto fonte di discriminazione e ossessione per la vita intima delle persone minute, vessate dall’insicurezza del distinguere-evitare-osservare, e dai dubbi di coscienza.
Scomodati dal vivere in prima persona (e come ceto) la conversione che predicavano agli altri, i professori non s’accorgevano di doversi svuotare di assurde presunzioni e diventare - loro - alunni della gente normale.
Insomma, come figli siamo incessantemente invitati a edificare Famiglia poliedrica, dove non si sta sempre in allerta.
Non siamo i sottoposti d’un Signore accigliato e tutto distante - però manipolatore.
Piuttosto, i chiamati a una scelta paradossale, personale e di ceto: e senza forzature, riconoscersi - mettersi a fianco degli umiliati e vessati.
Ciò mentre la falsa pietà di provincia continua a far trascinare fardelli - proprio quelli dei contrastati e stancati, dall’esistenza resa più esitante anziché libera; ossessionata e greve, anziché leggera.
Perché? Senza giri di parole, l’Enciclica Fratelli Tutti risponderebbe:
«Il modo migliore per dominare e avanzare senza limiti è seminare la mancanza di speranza e suscitare la sfiducia costante, benché mascherata con la difesa di alcuni valori» (n.15).
Come dire: quando le autorità e i primi della classe sono poco credibili, unicamente la seminagione della paura produce significativi condizionamenti nel popolo, e lo mette a guinzaglio.
Nella Chiesa diffusa, solo da pochi decenni abbiamo superato il cliché delle predicazioni moralistiche e terroristiche [ad es. anche in tempo di Avvento] disgiunte da un meridiano senso di umanizzazione.
Gli esclusi, abbattuti e sfiancati da adempimenti senza senso hanno tuttavia continuato a incontrare il Salvatore francamente, trovando riposo dell’anima, convinzione, pace, equilibrio, speranza.
D’istinto, sono riusciti a ritagliarsi ciò che nessuna religione piramidale aveva mai saputo porgere e dispiegare.
In tal guisa, i nuovi, le nullità, i senza voce inadeguati e invisibili, mai sanno calcolare in termini di dottrina e leggi, norma e codice - «giogo» antico (vv.29-30) insopportabile, che schiaccia persone e vocazioni concrete; autonomie o comunionalità particolari.
Insomma, nessun “patriarca” è abilitato da Dio a impacchettare la nostra anima, forzare le direzioni, e tenerci d’occhio in modo maniacale, perfezionista e meticoloso.
Esasperando i fallimenti, a tutto campo.
Ciascuno ha un modo di stare al mondo connaturato, tutto suo - perfino se abitudinario. È opportunità d’impulso e ricchezza per tutti.
Noi stessi non vogliamo esacerbare gli eventi regolando ogni dettaglio anche “spirituale” a partire da schemi irritanti di vigilanza che non ci appartengono.
Preferiamo lasciar fluire i modi personali di affrontare la realtà; così rintracciandone le energie essenziali e spontanee.
Ragioniamo secondo codici di vita e umanizzazione: indole, storia irripetibile, influssi culturali, amicizie di carattere largo. Non viviamo per prevenire.
Solo così possiamo arricchire l’esperienza fondamentale: l’Amore - che non viene da giudizi, tagli e separazioni, ma dalla relazione Padre-Figlio. Unica che non stizzisce.
Radice della trasformazione dell’essere nell’Imprevedibile di Dio è appunto il nascondimento, la ‘tapineria’ [(tapeínōsis, ‘abbassamento’), da ταπεινός (tapeinós, “basso”) [v.29 testo greco; Lc 1,48].
Solo chi ama la forza inizia dal troppo distante da sé.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
In comunità ti cogli più o meno libero e sereno?
La tua Chiamata ottiene respiro o senti l’aggravio altrui di dubbi, giudizi, divieti e prescrizioni?
Subisci da qualche guida o da te stesso una sorta di complesso del controllore?
Il mondo reputa fortunato chi vive a lungo, ma Dio, più che all’età, guarda alla rettitudine del cuore. Il mondo dà credito ai “sapienti” e ai “dotti”, mentre Dio predilige i “piccoli”. L’insegnamento generale che ne deriva è che vi sono due dimensioni del reale: una più profonda, vera ed eterna, l’altra segnata dalla finitezza, dalla provvisorietà e dall’apparenza. Ora, è importante sottolineare che queste due dimensioni non sono poste in semplice successione temporale, come se la vita vera cominciasse solo dopo la morte. In realtà, la vita vera, la vita eterna inizia già in questo mondo, pur entro la precarietà delle vicende della storia; la vita eterna inizia nella misura in cui noi ci apriamo al mistero di Dio e lo accogliamo in mezzo a noi. E’ Dio il Signore della vita e in Lui “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28), come ebbe a dire san Paolo all’Areopago di Atene.
Dio è la vera sapienza che non invecchia, è la ricchezza autentica che non marcisce, è la felicità a cui aspira in profondità il cuore di ogni uomo. Questa verità, che attraversa i Libri sapienziali e riemerge nel Nuovo Testamento, trova compimento nell’esistenza e nell’insegnamento di Gesù.
[Papa Benedetto, omelia 3 novembre 2008]
1. Una innumerevole schiera di “vergini sagge” come quelle lodate dalla parabola evangelica che abbiamo ascoltato, hanno saputo, nei secoli cristiani, attendere lo Sposo con le loro lampade, ben fornite d’olio, per partecipare con lui alla festa della grazia in terra, e della gloria in cielo. Tra di esse, oggi splende dinanzi al nostro sguardo la grande e cara santa Caterina da Siena, splendido fiore d’Italia, gemma fulgidissima dell’ordine domenicano, stella di impareggiabile bellezza nel firmamento della Chiesa, che qui onoriamo nel VI centenario della sua morte, avvenuta un mattino di domenica, circa l’ora terza, il 29 aprile 1380, mentre si celebrava la festa di san Pietro martire, da lei tanto amato.
Felice di potervi dare un primo segno della mia viva partecipazione alla celebrazione del centenario, saluto cordialmente voi tutti, cari fratelli e sorelle, che per commemorare degnamente la gloriosa data vi siete raccolti in questa Basilica vaticana, dove sembra aleggiare lo spirito ardente della grande senese. Saluto in modo particolare il maestro generale dei frati predicatori, padre Vincenzo de Couesnongle, e l’Arcivescovo di Siena, monsignor Mario Ismaele Castellano, principali promotori di questa celebrazione; saluto i membri del terz’ordine domenicano e dell’associazione ecumenica dei caterinati, i partecipanti al congresso internazionale di studi cateriniani, e voi tutti, cari pellegrini, che avete percorso tante strade d’Italia e d’Europa per unirvi in questo centro della cattolicità, in un giorno di festa così bello e significativo.
2. Noi guardiamo oggi a santa Caterina anzitutto per ammirare in lei ciò che immediatamente colpiva quanti l’avvicinavano: la straordinaria ricchezza di umanità, per nulla offuscata, ma anzi accresciuta e perfezionata dalla grazia, che ne faceva quasi un’immagine vivente di quel verace e sano “umanesimo” cristiano, la cui legge fondamentale è formulata dal confratello e maestro di Caterina, san Tommaso d’Aquino, col noto aforisma: “La grazia non sopprime, ma suppone e perfeziona la natura” (S. Tommaso, Summa Theologiae, I, q. 1, a. 8, ad 2). L’uomo di dimensioni complete è quello che si attua nella grazia di Cristo.
Quando nel mio ministero insisto nel richiamare l’attenzione di tutti sulla dignità e i valori dell’uomo, che oggi bisogna difendere, rispettare e servire, è soprattutto di questa natura uscita dalle mani del Creatore e rinnovata nel sangue di Cristo redentore che io parlo: una natura in sé buona, e quindi risanabile nelle sue infermità e perfettibile nelle sue doti, chiamata a ricevere quel “di più” che la rende partecipe della natura divina e della “vita eterna”. Quando questo elemento soprannaturale s’innesta nell’uomo e vi può agire con tutta la sua forza, si ha il prodigio della “nuova creatura”, che nella sua trascendente elevatezza non annulla, ma rende più ricco, più denso, più saldo tutto ciò che è schiettamente umano.
Così la nostra santa, nella sua natura di donna dotata largamente di fantasia, di intuito, di sensibilità, di vigore volitivo e operativo, di capacità e di forza comunicativa, di disponibilità alla donazione di sé ed al servizio, viene trasfigurata, ma non impoverita, nella luce di Cristo che la chiama ad essere sua sposa e ad identificarsi misticamente con lui nella profondità del “conoscimento interiore”, come anche ad impegnarsi nell’azione caritativa, sociale e persino politica, in mezzo a grandi e piccoli, a ricchi e poveri, a dotti e ignoranti. E lei, quasi analfabeta, diventa capace di farsi ascoltare, e leggere, e prendere in considerazione da governatori di città e di regni, da príncipi e prelati della Chiesa, da monaci e teologi, da molti dei quali è venerata addirittura come “maestra” e “mamma”.
È una donna prodigiosa, che in quella seconda metà del Trecento mostra in sé di che cosa sia resa capace una creatura umana, e - insisto - una donna, figlia di umili tintori, quando sa ascoltare la voce dell’unico pastore e maestro, e nutrirsi alla mensa dello Sposo divino, al quale, da “vergine saggia”, ha generosamente consacrato la sua vita.
Si tratta di un capolavoro della grazia rinnovatrice ed elevatrice della creatura fino alla perfezione della santità, che è anche realizzazione piena dei fondamentali valori dell’umanità.
3. Il segreto di Caterina nel rispondere così docilmente, fedelmente e fruttuosamente alla chiamata del suo Sposo divino, si può cogliere dalle stesse spiegazioni e applicazioni della parabola delle “vergini sagge”, che essa fa più volte nelle lettere ai suoi discepoli. In particolare in quella inviata a una giovane nipote che vuol essere “sposa di Cristo”, essa fissa una piccola sintesi di vita spirituale, che vale specialmente per chi si consacra a Dio nello stato religioso, ma è di orientamento e di guida per tutti.
“Se vuoi essere vera sposa di Cristo - scrive la santa - ti conviene avere la lampada, l’olio e il lume”.
“Sai che s’intende con questo, figliola mia?”.
Ed ecco il simbolismo della lampada: “Con la lampada si intende il cuore, che deve assomigliare ad una lampada. Tu vedi bene che la lampada è larga di sopra, e di sotto è stretta: e così è fatto il nostro cuore, per significare che dobbiamo averlo sempre largo di sopra, mediante i santi pensieri, le sante immaginazioni e la continua orazione; con la memoria sempre rivolta a ricordare i benefici di Dio e massimamente il beneficio del sangue dal quale siamo stati ricomperati...”.
“Ti ho anche detto che la lampada è stretta di sotto: così è pure il nostro cuore, per significare che deve essere stretto verso queste cose terrene, non desiderandole né amandole disordinatamente, né appetendole in maggiore quantità di quanto Dio ce ne voglia dare, ma dobbiamo ringraziarlo sempre, ammirando come dolcemente egli ci provvede, sicché non ci manca mai nulla...” (Lettera 23).
Nella lampada ci vuole l’olio. “Non basterebbe la lampada se non ci fosse l’olio dentro. E per l’olio s’intende quella dolce virtù piccola della profonda umiltà... Quelle cinque vergini stolte, gloriandosi solamente e vanamente della integrità e verginità del corpo perdettero la verginità dell’anima, perché non portarono con sé l’olio dell’umiltà...” (Ivi).
“Occorre infine che la lampada sia accesa e vi arda la fiamma: altrimenti non basterebbe a farci vedere. Questa fiamma è il lume della santissima fede. Dico la fede viva, perché dicono i santi che la fede senza le opere è morta...” (Ivi; cf. Lettere 79, 360).
Nella sua vita, Caterina ha effettivamente alimentato di grande umiltà la lampada del suo cuore, e ha mantenuto acceso il lume della fede, il fuoco della carità, lo zelo delle buone opere compiute per amore di Dio, anche nelle ore di tribolazione e di passione, quando la sua anima raggiunse la massima conformazione a Cristo crocifisso, finché un giorno il Signore celebrò con lei le mistiche nozze nella piccola cella dove abitava, resa tutta splendente da quella divina presenza(cf. Vita, nn. 114-115).
Se gli uomini d’oggi, e specialmente i cristiani, riuscissero a riscoprire le meraviglie che si possono conoscere e godere nella “cella interiore”, e anzi nel cuore di Cristo! Allora, sì, l’uomo ritroverebbe se stesso, le ragioni della sua dignità, il fondamento di ogni suo valore, l’altezza della sua vocazione eterna!
4. Ma la spiritualità cristiana non si esaurisce in un cerchio intimistico, né spinge ad un isolamento individualistico ed egocentrico. L’elevazione della persona avviene nella sinfonia della comunità. E Caterina, che pur custodisce per sé la cella della sua casa e del suo cuore, vive fin dagli anni giovanili in comunione con tanti altri figli di Dio, nei quali sente vibrare il mistero della Chiesa: con i frati di san Domenico, ai quali si unisce in spirito anche quando la campana li chiama in coro, di notte, per il mattutino; con le mantellate di Siena, tra le quali è ammessa per l’esercizio delle opere di carità e la pratica comune della preghiera; con i suoi discepoli, che vanno crescendo per costituire intorno a lei un cenacolo di ferventi cristiani, che accolgono le sue esortazioni alla vita spirituale e gli incitamenti al rinnovamento e alla riforma che essa rivolge a tutti nel nome di Cristo; e si può dire con tutto il “corpo mistico della Chiesa” (cf. Dialogo, can. 166), col quale e per il quale Caterina prega, lavora, soffre, si offre, e infine muore.
La sua grande sensibilità per i problemi della Chiesa del suo tempo si trasforma così in una comunione col “Christus patiens” e con la “Ecclesia patiens”. Questa comunione è all’origine della stessa attività esteriore, che a un certo momento la santa è spinta a svolgere prima con l’azione caritativa e con l’apostolato laicale nella sua città, e ben presto su di un piano più vasto, con l’impegno a raggio sociale, politico, ecclesiale.
In ogni caso Caterina attinge a quella fonte interiore il coraggio dell’azione e quella inesauribile speranza che la sostiene anche nelle ore più difficili, anche quando tutto sembra perduto, e le permette di influire sugli altri, anche ai più alti livelli ecclesiastici, con la forza della sua fede e il fascino della sua persona completamente offerta alla causa della Chiesa.
In una riunione di Cardinali alla presenza di Urbano VI, stando al racconto del beato Raimondo, Caterina “dimostrò che la divina Provvidenza è sempre presente, massime quando la Chiesa soffre”; e lo fece con tale ardore, che il pontefice, alla fine, esclamò: “Di che deve temere il vicario di Gesù Cristo, se anche tutto il mondo gli si mettesse contro? Cristo è più potente del mondo, e non è possibile che abbandoni la sua Chiesa!” (Vita, n. 334).
5. Era quello un momento eccezionalmente grave per la Chiesa e per la sede apostolica. Il demone della divisione era penetrato nel popolo cristiano. Fervevano dappertutto discussioni e risse. A Roma stessa c’era chi tramava contro il Papa, non senza minacciarlo di morte. Il popolo tumultuava.
Caterina, che non cessava di rincuorare pastori e fedeli, sentiva però che era giunta l’ora di una suprema offerta di sé, come vittima di espiazione e di riconciliazione insieme con Cristo. E perciò pregava il Signore: “Per l’onore del tuo nome e per la santa tua Chiesa, io berrò volentieri il calice di passione e di morte, come sempre ho desiderato di bere; tu ne sei testimone, da quando, per grazia tua, ho cominciato ad amarti con tutta la mente e con tutto il cuore” (Ivi, n. 346).
Da quel momento cominciò a deperire rapidamente. Ogni mattina di quella quaresima 1380, “si recava alla chiesa di san Pietro, principe degli apostoli, dove, ascoltata la messa, rimaneva lungamente a pregare; non ritornava a casa che all’ora di vespro”, sfinita. Il giorno dopo. di buon mattino, “partendo dalla strada detta via del Papa (oggi di santa Chiara), dove stava di casa, fra la Minerva e Campo dei Fiori, se ne andava lesta lesta a san Pietro, facendo un cammino da stancare anche un sano” (Ivi, n. 348; cf. Lettera 373).
Ma alla fine d’aprile non riuscì più ad alzarsi. Raccolse allora intorno al letto la sua famiglia spirituale. Nel lungo addio, dichiarò a quei suoi discepoli: “Rimetto la vita, la morte e tutto nelle mani del mio Sposo eterno... Se gli piacerà che io muoia, tenete per fermo, figlioli carissimi, che io ho dato la vita per la santa Chiesa, e questo lo credo per grazia eccezionale che mi ha concesso il Signore” (Ivi, n. 363).
Poco dopo morì. Non aveva che 33 anni: una bellissima giovinezza offerta al Signore dalla “vergine saggia” che era giunta al termine della sua attesa e del suo servizio.
Noi siamo qui raccolti, a seicento anni da quel mattino (Ivi, n. 348), per commemorare quella morte e soprattutto per celebrare quella suprema offerta della vita per la Chiesa.
Miei cari fratelli e sorelle, è consolante che voi siate accorsi così numerosi a glorificare e ad invocare la santa in questa fausta ricorrenza.
È giusto che l’umile vicario di Cristo, al pari di tanti suoi predecessori, vi ispiri, vi preceda e vi guidi nel tributare un omaggio di lode e di ringraziamento a colei che tanto amò la Chiesa, e tanto operò e soffrì per la sua unità e per il suo rinnovamento. Ed io l’ho fatto con tutto il cuore.
Ora lasciate che vi consegni un ricordo finale, che vuol essere un messaggio, una esortazione, un invito alla speranza, uno stimolo all’azione: lo traggo dalle parole che Caterina rivolgeva al suo discepolo Stefano Maconi e a tutti i suoi compagni di azione e di passione per la Chiesa: “Se sarete quello che dovete essere, metterete fuoco in tutta Italia...” (Lettera 368); anzi, io aggiungo: in tutta la Chiesa, in tutto il mondo. Di questo “fuoco” ha bisogno l’umanità anche oggi, ed anzi forse più oggi che ieri. La parola e l’esempio di Caterina suscitino in tante anime generose il desiderio di essere fiamme che ardono e che, come lei, si consumano per donare ai fratelli la luce della fede ed il calore della carità “che non viene meno” (1Cor 13,8).
[Papa Giovanni Paolo II, omelia VI centenario s. Caterina da Siena, 29 aprile 1980]
Oggi celebriamo la festa di Santa Caterina da Siena, compatrona d’Italia. Questa grande figura di donna attinse dalla comunione con Gesù il coraggio dell’azione e quella inesauribile speranza che la sostenne nelle ore più difficili, anche quando tutto sembrava perduto, e le permise di influire sugli altri, anche ai più alti livelli civili ed ecclesiastici, con la forza della sua fede. Il suo esempio aiuti ciascuno a saper unire, con coerenza cristiana, un intenso amore alla Chiesa ad una efficace sollecitudine in favore della comunità civile, specialmente in questo tempo di prova. Chiedo a Santa Caterina che protegga l’Italia durante questa pandemia; e che protegga l’Europa, perché è patrona d’Europa, che protegga tutta l’Europa perché rimanga unita.
[Papa Francesco, saluti dopo l’Udienza Generale 29 aprile 2020]
(Gv 3,1-8)
Gv introduce il passo di Vangelo con il dirigente giudeo assai rappresentativo, insistendo sull’imperfezione del credere a prodigi i quali afferrano solo il lato esteriore.
Anzi, sembra sottolineare che la religione-spettacolo tanto bramata dai capi religiosi non susciti che aspettative devianti e cuori ambigui (2,18-25).
Nel quarto Vangelo il notabile rappresenta appunto i giudei incuriositi dalla figura di Gesù [denominati Giudei perché affini ai giudaizzanti delle prime comunità].
Alcuni di essi s’interrogano e non tacitano le domande, ma restano perplessi - perché educati ad altre attese messianiche, perentorie e clamorose.
Infatti coltivavano tutta la problematica concernente il Regno di Dio (vv.3.5) in modo approssimativo e conformista.
In aggiunta, Gesù insegna che tutte le speculazioni non recano buoni risultati per la vita nello Spirito.
La nostra esperienza profonda non si genera a partire da ciò che l’uomo escogita o fa per Dio, dalle sue possibilità - come si suppone nelle religioni antiche.
Bisogna far conto sulla Grazia che entra in scena ribaltando le speranze piccine - in tal guisa, non far leva sulle nostre misure, perizie e destrezze; né su pensieri, assodati quanto inadeguati.
Il nuovo Rabbi lascia capire che per comprendere il Mistero bisogna scrollarsi di dosso il libro esterno della Legge, e intraprendere un’esperienza di trasmutazione ideale e pratica, come una Nascita - accanto a un Agente rigeneratore.
Cristo stimola Nicodemo al salto dalla normale devozione tradizionale, coi suoi propositi e aspettative ragionevoli, all’avventura di Fede che coglie, sogna e traccia futuro, surclassando la catena abitudinaria delle attese.
Non si comprende la Novità di Dio secondo il sapere comune, a partire dai patriarchi - o leggendola in filigrana d’una normativa pur condivisibile.
Il nuovo ordine d’esistenza è superiore a tutte le destrezze, le tenute, e le resilienze. Quello che nasce a partire dalla carne è comunque soggetto a tutti i confini.
Viceversa, il sentiero ‘dall’alto’ crea una personalità nuova, grazie alla quale siamo abilitati a corrispondere perfettamente alla Chiamata per Nome, la quale si ripropone onda su onda in modo crescente e difforme.
Ricreati dalla Vita indistruttibile che Viene, anche noi siamo messi in grado di generare qualcosa di simile alla medesima Natura che ci partorisce. Quali scintille in qualche modo conformi al divino: similis sibi similem parit.
Appunto: il troppo normale non è in grado di ridefinire i codici di un nuovo sguardo, e dell’inconcepibile spazio d’amore sconosciuto.
Ciò che non coincide con le idee ereditate, in realtà sta attivando i nuovi sviluppi.
Quel ch’è contrario alle costumanze consolidate, o alle mode, sta preparando un altro mondo, una diversa persona, un’altra scia tutta da percorrere.
Il Regno non si allestisce: lo si accoglie - perché ci spiazza sempre.
Il rapporto col Dio delle religioni sovviene di norma con ricette statiche e rassicuranti, ma l’esperienza di Fede in Cristo convince “per Via” che ad ogni tappa deve invece corrispondere un’altra genesi.
Invero le prove spinose sono tutte Chiamate a un balzo di sovra-natura; a germogliare ancora.
La nascita nello Spirito non avviene una volta per tutte: solo così vivere non sarà un premio, né perire un castigo.
Perché siamo diventati simili a un Vento.
[Lunedì 2.a sett. di Pasqua, 28 aprile 2025]
(Gv 3,1-8)
Gv introduce il passo di Vangelo con il dirigente giudeo assai rappresentativo, insistendo sull’imperfezione del credere ai prodigi. Essi afferrano solo il lato esteriore.
Anzi, sembra sottolineare che la religione-spettacolo tanto bramata dai capi religiosi denominati Giudei, perché affini ai giudaizzanti delle prime comunità, non susciti che aspettative devianti e cuori ambigui (2,18-25).
Nicodemo era un fariseo, persona di spicco, leader fra i responsabili della devozione antica e addirittura membro del Sinedrio [tribunale supremo] che però riconosce in Cristo un inviato da Dio.
Nel quarto Vangelo il notabile rappresenta appunto i giudei incuriositi dalla figura di Gesù. Alcuni di essi s’interrogano e non tacitano le domande, ma restano perplessi - perché educati ad altre attese messianiche, perentorie e clamorose.
Infatti le autorità coltivavano tutta la problematica concernente il «Regno di Dio» (vv.3.5) in modo approssimativo e conformista. [L’espressione così frequente nei sinottici - ‘regno dei cieli’ in Mt - si trova unicamente in questo passo del quarto Vangelo].
Ma è solo un punto d’appoggio, perché Gesù insegna che tutte le speculazioni non recano buoni risultati per la vita nello Spirito, la quale non si genera a partire da ciò che l’uomo escogita o fa per Dio, dalle sue possibilità - come nelle religioni.
Bisogna contare sulla Grazia, che entra in scena ribaltando le speranze piccine - in tal guisa, non far leva sulle nostre misure, perizie e destrezze; né su pensieri, assodati quanto inadeguati.
Il nuovo Rabbi lascia capire che per comprendere il Mistero bisogna scrollarsi di dosso il libro esterno della Legge, e intraprendere un’esperienza di trasmutazione ideale e pratica, come una Nascita - accanto a un Agente rigeneratore.
Cristo stimola Nicodemo al salto dalla normale religiosità tradizionale, coi suoi propositi e aspettative ragionevoli, all’avventura di Fede che coglie, sogna e traccia futuro, surclassando la catena abitudinaria delle attese.
Non si comprende la Novità di Dio secondo il sapere antico, a partire dai patriarchi - o leggendola in filigrana d’una normativa pur condivisibile.
Il nuovo ordine d’esistenza è superiore a tutte le capacità, a tutte le tenute e le resilienze. Quello che nasce a partire dalla carne è comunque soggetto a troppi confini.
Viceversa, il sentiero dall’alto crea una personalità nuova, grazie alla quale siamo abilitati a corrispondere perfettamente alla Chiamata per Nome, la quale si ripropone onda su onda in modo crescente e difforme.
Ricreati dalla Vita indistruttibile che Viene, anche noi siamo messi in grado di generare qualcosa di simile alla medesima Natura che ci partorisce. Quali scintille in qualche modo conformi al divino: similis sibi similem parit.
Appunto: il troppo normale non è in grado di ridefinire i codici di un nuovo sguardo, e dell’inconcepibile spazio d’amore sconosciuto.
Non è questione di cambiare stendardo, o “tagliare qualcosa” e mortificarsi di più. Piuttosto, integrare e far brillare, cambiando le convinzioni.
Ciò che non coincide con le idee ereditate, in realtà sta attivando i nuovi sviluppi.
Quel ch’è contrario alle costumanze consolidate, o alle mode, sta preparando un altro mondo, una diversa persona, una nuova chiamata (nella stessa vocazione personale), un’altra scia tutta da percorrere.
Non è più il Dio delle religioni, tutto ancora e sempre da raggiungere con disposizioni, agilità nei minimi dettagli, e ritmi cesellati, accumulando meriti secondo cliché.
Il Regno non si allestisce: lo si accoglie - perché ci spiazza sempre.
Dunque non lo si può predeterminare: è impossibile allestirlo sulla base del nostro genio, muscoli, virtù, perfezioni. Lo si riceve in dono gratuito e senza i “dovuti” presupposti.
Il Dio che Viene senza preavviso chiama all’ascolto, alla conoscenza di ciò che è incredibile - a lasciarsi salvare in modo impensabile, quindi a farci cogliere anche di sorpresa dai fatti che la Provvidenza porge.
E lì stare, sino alla prossima novità.
Gesù invita Nicodemo a scrutare la realtà dell’anima e gli accadimenti come una sfera globale, di energie complessive che si richiamano in paradossale sinergia, per recuperare i lati opposti - tutti utili.
Forze innate che si attivano da sintonie e modi reciproci, facendosi Guida infallibile: cosmiche fuori e acutamente divine in noi.
I recuperi che Gesù compie attraverso la qualità di vita dei suoi e delle comunità generano in colui che è nella «notte» del dubbio (v.2) una prima ricerca e dedizione, ma non suscitano Fede attiva.
Insomma, non si comprende Dio dagli argomenti, ma dall’esperienza di coinvolgimento onda su onda; ricreante, a partire dal Dono accettato della propria storia, nel segno dei tempi.
Bisogna deporre le certezze rassicuranti del catechismo religioso normale, e aprire cuore e mano alla realtà che giunge come una marea - non per metterci sulla difensiva, ma affinché la cavalchiamo.
Lanciarsi nella vita dello Spirito ci recupera, ma soppianta e sorvola l’organizzazione delle sinagoghe stanziali; non è alla portata di meccanismi compiaciuti o finti equilibri impersonali.
Al massimo ne comprendiamo la rotta intrinseca - la pienezza di umanizzazione, nel progetto creaturale - non l’Origine e la Meta.
L'umanità nel suo piano volontarista e persino nei suoi buoni propositi a modo, non è in grado di risolvere i veri problemi. Non riesce a darsi salvezza; solo maniere - avviando al contempo processi di comunione e individuazione.
Questa l’inquietudine nuova e la «notte» degli interrogativi che noi come Nicodemo avvertiamo, praticando l’insegnamento e le opere a norma - che non trasmettono senso di pienezza di essere, anzi malgrado grandi promesse sembrano attirare proprio la tristezza.
È lo Spirito d’unicità che domina il caos, che dà forma a cielo e terra, e prende possesso dei personaggi eminenti del Primo Testamento, spingendoli a realizzare azioni in favore dell’emancipazione del popolo - agendo con potenza contagiosa.
Ma posatosi «come colomba» - figura di una forza non più aggressiva - su Gesù nel Battesimo (Gv 1,32) dà inizio a una Creazione nuova, all’Uomo conciliato, in grado di corrispondere alla propria vocazione.
Beninteso, ciò che caratterizza questo Vento è la libertà, non il controllo.
Esso agisce energicamente su di noi, ma noi non agiamo su di Lui. Non possiamo intaccarlo. Solo collocare le vele secondo la sua direzione, e guardare con occhi nuovi.
Anche nelle difficoltà, il Dono dello Spirito ci prepara ad un’altra Nascita. Allora la Parola di Gesù annuncia uno sconvolgimento che va alla radice della vita devota comune.
Il rapporto col Dio delle religioni sovviene di norma con ricette statiche e rassicuranti, ma l’esperienza di Fede in Cristo convince “per Via” che ad ogni tappa deve invece corrispondere un’altra genesi.
Invero le prove spinose sono tutte Chiamate a un balzo di sovra-natura; a germogliare ancora.
La nascita nello Spirito non avviene una volta per tutte: solo così vivere non sarà un premio, né perire un castigo.
Perché siamo diventati simili a un Vento.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Accetti la sorpresa? La senti come Rivelazione dell’azione dello Spirito? Come reagisci di fronte alle novità che l’apostolato propone? In che occasione hai percepito di nascere di nuovo?
Il Vangelo ci presenta un personaggio di nome Nicodemo, membro del Sinedrio di Gerusalemme, che va di notte a cercare Gesù. Si tratta di un uomo per bene, attirato dalle parole e dall’esempio del Signore, ma che ha paura degli altri, esita a compiere il salto della fede. Avverte il fascino di questo Rabbì così diverso dagli altri, ma non riesce a sottrarsi ai condizionamenti dell’ambiente contrario a Gesù e resta titubante sulla soglia della fede. Quanti, anche nel nostro tempo, sono in ricerca di Dio, in ricerca di Gesù e della sua Chiesa, in ricerca della misericordia divina, e attendono un “segno” che tocchi la loro mente e il loro cuore! Oggi come allora l’evangelista ci ricorda che il solo “segno” è Gesù innalzato sulla croce: Gesù morto e risorto è il segno assolutamente sufficiente. In Lui possiamo comprendere la verità della vita e ottenere la salvezza. E’ questo l’annuncio centrale della Chiesa, che resta nei secoli immutato. La fede cristiana pertanto non è ideologia, ma incontro personale con Cristo crocifisso e risorto. Da questa esperienza, che è individuale e comunitaria, scaturisce poi un nuovo modo di pensare e di agire: ha origine, come testimoniano i santi, un’esistenza segnata dall’amore.
[Papa Benedetto, omelia 26 marzo 2006]
Praying, celebrating, imitating Jesus: these are the three "doors" - to be opened to find «the way, to go to truth and to life» (Pope Francis)
Pregare, celebrare, imitare Gesù: sono le tre “porte” — da aprire per trovare «la via, per andare alla verità e alla vita» (Papa Francesco)
In recounting the "sign" of bread, the Evangelist emphasizes that Christ, before distributing the food, blessed it with a prayer of thanksgiving (cf. v. 11). The Greek term used is eucharistein and it refers directly to the Last Supper, though, in fact, John refers here not to the institution of the Eucharist but to the washing of the feet. The Eucharist is mentioned here in anticipation of the great symbol of the Bread of Life [Pope Benedict]
Narrando il “segno” dei pani, l’Evangelista sottolinea che Cristo, prima di distribuirli, li benedisse con una preghiera di ringraziamento (cfr v. 11). Il verbo è eucharistein, e rimanda direttamente al racconto dell’Ultima Cena, nel quale, in effetti, Giovanni non riferisce l’istituzione dell’Eucaristia, bensì la lavanda dei piedi. L’Eucaristia è qui come anticipata nel grande segno del pane della vita [Papa Benedetto]
Work is part of God’s loving plan, we are called to cultivate and care for all the goods of creation and in this way share in the work of creation! Work is fundamental to the dignity of a person. Work, to use a metaphor, “anoints” us with dignity, fills us with dignity, makes us similar to God, who has worked and still works, who always acts (cf. Jn 5:17); it gives one the ability to maintain oneself, one’s family, to contribute to the growth of one’s own nation [Pope Francis]
Il lavoro fa parte del piano di amore di Dio; noi siamo chiamati a coltivare e custodire tutti i beni della creazione e in questo modo partecipiamo all’opera della creazione! Il lavoro è un elemento fondamentale per la dignità di una persona. Il lavoro, per usare un’immagine, ci “unge” di dignità, ci riempie di dignità; ci rende simili a Dio, che ha lavorato e lavora, agisce sempre (cfr Gv 5,17); dà la capacità di mantenere se stessi, la propria famiglia, di contribuire alla crescita della propria Nazione [Papa Francesco]
God loves the world and will love it to the end. The Heart of the Son of God pierced on the Cross and opened is a profound and definitive witness to God’s love. Saint Bonaventure writes: “It was a divine decree that permitted one of the soldiers to open his sacred wide with a lance… The blood and water which poured out at that moment was the price of our salvation” (John Paul II)
Il mondo è amato da Dio e sarà amato fino alla fine. Il Cuore del Figlio di Dio trafitto sulla croce e aperto, testimonia in modo profondo e definitivo l’amore di Dio. Scriverà San Bonaventura: “Per divina disposizione è stato permesso che un soldato trafiggesse e aprisse quel sacro costato. Ne uscì sangue ed acqua, prezzo della nostra salvezza” (Giovanni Paolo II))
[Nicodemus] felt the fascination of this Rabbi, so different from the others, but could not manage to rid himself of the conditioning of his environment that was hostile to Jesus, and stood irresolute on the threshold of faith (Pope Benedict)
[Nicodemo] avverte il fascino di questo Rabbì così diverso dagli altri, ma non riesce a sottrarsi ai condizionamenti dell’ambiente contrario a Gesù e resta titubante sulla soglia della fede (Papa Benedetto)
Those wounds that, in the beginning were an obstacle for Thomas’s faith, being a sign of Jesus’ apparent failure, those same wounds have become in his encounter with the Risen One, signs of a victorious love. These wounds that Christ has received for love of us help us to understand who God is and to repeat: “My Lord and my God!” (Pope Benedict)
don Giuseppe Nespeca
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