don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Venerdì, 11 Aprile 2025 16:11

Pasqua indipendente: per noi, che scatta

I Vangeli non descrivono la cronaca della Risurrezione di Cristo, ma l’esperienza del Risorto nella chiesa delle origini.

Tutti gli evangelisti accennano al fatto che l’adempimento di legge e di massa (sabato) ritarda sia la comprensione irripetibile che la consapevolezza della forza della Vita sprigionatesi dalla Persona, dalla Parola, da tutta la vicenda e dalla proposta di Gesù.

Mc e in specie Mt ribadiscono l’appuntamento della «Galilea»: territorio teologico ed esistenziale contrapposto alla Giudea osservante.

Oggi parleremmo forse di “spirito delle origini” - esperienza primigenia del Signore - o di “quotidianità sommaria”; ovvero di assemblea «in uscita»...

Esodo verso periferie frammiste, distinte da un Centro identificato ma inerte e senza immaginazione, predisposto al solo giudizio [che non rispetta ciò che appartiene profondamente alla donna e all’uomo di ogni tempo].

 

Mt specifica che si tratta dell’evento de «il Monte»: sperimentiamo il Vivente nell’incarnare le Beatitudini, lo Spirito dell’Amore dimesso ma vitale.

Rovesciamento che talora butta all’aria gli idoli per costringerci all’incontro, nella dignità della propria impronta - portata dentro l’unicità, nello spirito di famiglia, per l’eternità.

Lc raccomanda di non cercare l’Amico (la nostra partenza, guida, brio e sapere silenzioso) fra «morti» che ingombrano.

Ai discepoli di Emmaus si rivela in una capacità d’interpretazione ribaltata degli eventi ingloriosi, e in una intesa ardente delle Scritture.

In specie si manifesta nello ‘spezzare la vita’: nella reciprocità di chi riceve e si fa alimento, senza inibire il carattere e le scelte eccezionali.

 

Gv insiste sul dover voltare lo sguardo piantato sulla tomba. Nella fossa d’un sepolcro non c’è nulla, se non una Nascita.

Il quarto Vangelo dona il criterio essenziale per riconoscere la manifestazione di Gesù vivo: la sua Pace.

Non il tipo della Pax Romana [l’impero era in pace] bensì Shalôm-pienezza. Oggi diremmo: Gioia completa; realizzazione totale, poliedrica.

 

Codice per la comprensione dei Vangeli è la fioritura e la Felicità delle persone così come sono.

Criterio assoluto - vera età dell’oro.

Quindi il Mandato missionario che il Signore ci lancia non proclama una dottrina diversa, da “altre”.

È l’invito a essere in Lui se stessi pienamente, e così poter incarnare la medesima Tenerezza del Padre - vasta, difforme, inclusiva.

 

Cosa è cambiato per noi con la Risurrezione? Ci sono prove che vive? Perché non appare? Quali sarebbero i segni? E i grandi benefici?

O. Wilde affermava: «Quando gli dèi vogliono punirci, esaudiscono le nostre preghiere».

Di questo genere di richieste, dobbiamo sbarazzarci.

Le orazioni arenate da aspettative o propositi comuni sono a volte come le «donne» dei Vangeli della mattina di Pasqua.

Ancora piantate su lamenti funebri, esse cercano Vita in posti sbagliati: luoghi infecondi, perché legati a idee accette [di passato o conformiste] e cadaveri.

C’è un diverso binario caratterizzante, per ciascuno, che trascina da dentro, e crescente; per una vetta decisiva, non esterna.

Vittoria della vita significa: smettere di legarsi a idolatrie inattive, calzanti però di ripiego.

Facciamo volare l’Appello innato dell’essenza che ancora non vediamo ma che pulsa ardente, inestinguibile.

Non sarà l’obbiettivo convenzionale, condizionato, conforme, a tono e “come si conviene” ma unilaterale, scadente - a darci Letizia.

Esso cattura l’energia inedita, «per nome». Che vuole germogliare dai lati oscuri e opposti.

 

Nascita e morte sono esperienze di molte volte: perché? Per ininterrotte “Genesi”, e altre possibilità.

A motivo d’una sana crescita verso la realizzazione umanizzante, nella generosità e nell’attitudine battesimale, bisogna librare l’anima incagliata.

La nostra inusualità si sente sperduta nei circoli viziosi delle aspettative normali.

E ciò che avevamo immaginato inesorabilmente uguale, quindi vano e stagnante - infanga lo stupore delle sorprese che travalicano attese e intenzioni.

Eliminando i propositi convenzionali e altrui in favore di Sogni personali che esagerano, conosceremo l’atipicità di Dio che balza fra le macerie e dal caos degli schemi.

I missionari lo sanno: non è dalla Giudea che viene la certezza, ma dalla Galilea ossia dall’incertezza. La loro sicurezza è nell’insicurezza.

È il buio che fa rinascere.

 

Deponendo ciò che prima interpretavamo con senso di permanenza, sbalordiremo di Tesori che si celano dietro i lati malfermi.

E della Vita indipendente che scatta, fra segni di morte.

 

Forse non pochi restano ancora sorpresi dalla «tomba vuota»: ossia un Gesù Risorto solo ‘personale’, vissuto nell’amore, nel gratis normale, nel dono di sé che vince la morte. Ma senza ‘mausoleo’ alcuno.

 

 

Discepolo amato e Pietro

 

Per non affievolire l’Incontro personale

(Gv 20,2-8)

 

«Ora, correvano i due insieme, e l’altro discepolo corse avanti più presto di Pietro e venne per primo al sepolcro, e chinatosi vede i panni di lino ravvolti a parte; tuttavia non entrò» (Gv 20,4-5).

 

Nel quarto Vangelo, il discepolo amato è figura individuale ed ecclesiale: di ciascuno di noi, ai piedi della Croce insieme alla Madre - Israele credente, sensibile e fedele.

In aggiunta, lo stesso discepolo amato è icona più ampia, collettiva: della nuova comunità che nasce attorno a Gesù.

Sorge appunto la Chiesa; non sulla base d’una successione prevista, bensì per adesione piena e spontanea, impredicibile.

A fine primo secolo il Vangelo di Gv acquista la quarta-quinta e definitiva stesura, in un clima di conflitto crescente tra l’istituzione antica [ridotta ormai a sinagoga, senza Tempio] e la nuova, adorante assemblea dei figli.

Altre tensioni sorgono tra scuola giovannea - francamente profetica - e quella apostolica, che definiremmo da carisma petrino, ossia di governo.  Realtà più diplomatica, e attenuata negli spunti [con attriti evidenti in tutta la redazione di Gv, nonché nel testo che stiamo commentando].

 

Nell’Asia Minore gli amici del Signore, ellenisti meno legati alle consuetudini, intendevano contrapporsi all’atteggiamento incerto e compromissorio dei giudaizzanti.

Buona parte dei fedeli delle chiese giovannee pensavano di abbandonare sinagoga e Primo Testamento, che li attardavano.

In alternativa, essi desideravano abbracciare esclusivamente il Nuovo, mediante la Fede personale nel Cristo vivo, senza incertezze.

Il quarto Vangelo tenta di riequilibrare le posizioni estremiste.

“Figlio” e Madre - ossia il popolo del Patto antico [in ebraico «Israèl» è di genere femminile] - devono rimanere uniti (Gv 19,26-27).

Insomma, Fede e opere di legge vanno di pari passo.

 

La Fede è una relazione progressiva che si accende in una ricerca colma di tensione e passione [«correre»].

Essa trasmette percezioni progressive, le quali fanno accedere a un mondo nuovo [«entrare»], dove vediamo cose che non sappiamo.

Era già stata questa in parte la reazione costernata della Maddalena, che in Gv accorre sola alla tomba - non accompagnata da altre “donne” come narrano i sinottici.

Uno sgomento che però spinge all’Annuncio: il sepolcro (la condizione dello Sheôl, anfratto di tenebre) non era più nell’assetto in cui era stato lasciato dopo la sepoltura del Cristo.

E appunto, quel lenzuolo «ravvolto [con cura] a parte» dice che non avrà mai bisogno di alcun sudario. La morte non ha più potere su di Lui.

 

Così, sebbene il giovane sia più veloce del veterano e arrivi primo ad avvistare i segni della verità e del mondo nuovo, cede il passo.

Al pari d’un profeta che coglie tutto anzitempo, il discepolo schietto e la comunità genuina aspettano che anche gli attardati giungano alla medesima esperienza, all’identico acume delle cose; al credere nel misterioso processo che porta guadagno nella perdita e vita dalla morte.

L’occhio dell’innamorato percepisce immediatamente; ha lo sguardo intimo e acuto che afferra e fa propria la Novità del Risorto.

Prima dei semplici ammiratori, che attendono risultati e prevedono i favori prima di coinvolgersi, subito il fratello empatico e verace coglie Vita fra segni di morte.

Come se per relazione di Fede che ci anima, nell’attenzione degli accadimenti, fossimo già introdotti in una realtà che comunica sensi nuovi. E il distinguere-udire del cuore.

Un Ascolto che fa acuto l’occhio - proiettando l’Annuncio.

Sorge in tal guisa un nuovo Popolo, che “vede dentro”, che avverte l’Infinito affacciarsi nella finitezza, e vita completa che si svela nella fragilità dell’evento (persino oscuro).

 

Dice il Tao Tê Ching [LII]: «Chi accresce le sue imprese, per tutta la vita non ha scampo. Illuminazione è vedere il piccolo; forza è attenersi alla mollezza».

Commenta il maestro Ho-shang Kung: «Solo la chiara comprensione delle piccole cose appare come illuminazione. Chi si attiene alla debolezza, ogni dì diviene grande e forte».

Così il maestro Wang Pi: «L’opera meritoria di chi governa non sta nelle grandi cose: vedere le grandi cose non è illuminazione; è illuminazione vedere le piccole cose. Attenersi alla forza non è forza».

 

Per il transatlantico della Chiesa istituzionale e di governo, il motoscafo dell’appassionato è imprendibile; nella migliore delle ipotesi, lo tallona. O almeno, non dovrebbe perderlo di vista.

Nella sua sensibilità, il Discepolo Amato - sgorgato dal Cuore del Trafitto e che porta in vetta anche la Tradizione - avverte il Signore vivente ben prima di quello commemorato.

Ne viene rapito, e nella sua esperienza si accorge all’istante della potenza della Vita su qualsiasi legaccio.

Condizione divina, illuminante, dispiegata nella storia.

Ma bisognerà esercitare molta pazienza, affinché tra mille lungaggini e retromarce che rendono i figli stagnanti, almeno qua e là non svaporiamo il carisma dei battistrada e l’Incontro personale.

 

Coloro che giocano d’anticipo e fanno scattare il coinvolgimento del cuore a un livello nuovo, tracciano presente e futuro per l’intero settore dei responsabili che - incerti o ben volentieri - ancora si attardano.

Venerdì, 11 Aprile 2025 16:04

Viaggio verso di sé, Pasqua d’ogni giorno

Preghiera-evento, per lo stupore

 

L’incontro con il Signore ha una sua essenziale radicalità. È proprio l’evento pasquale a rivelare e comunicare la novità assoluta della vicenda dei figli di Dio.

È la nascita di una vita nuova che consente di liberare gli eventi da ogni limite. Gesù li assume tutti.

Detta assolutezza è in grado di portare a fioritura ogni vicissitudine e condizione, trasformando tutti gli oranti in santuari di novità assoluta.

Una potenza che respinge il tormento della vulnerabilità, anzi trasforma la precarietà in risorsa (qualità di progresso etico).

Per un’esperienza di pienezza di essere non basta lo sforzo virtuoso e singolare dello strazio solitario e titanico di chi pur intende liberarsi coi suoi muscoli dalle infrazioni.

La religiosità non ci costituisce.

L’autentica Potenza è solo accolta - nello Spirito, che fa risorgere la vita dalle polveri e dall’offuscamento.

Illusorio eliminare ogni limite personale e condizionamento: saremmo fuori della verità dell’Evento Pasqua.

Dono, non apparenza d’ipocrisia impossibile, fuori scala.

 

Tale la dimensione del “Diverso” pasquale fra religiosità e Fede,

S’inizia ad accogliere sul serio il Progetto divino e Dio stesso anche negli altri, proprio quando cominciamo ad avere pazienza con le nostre vicende equivoche, mediocri di tanta insufficienza.

Ad es. evitando accelerazioni, o riconoscendo la fecondità dei propri confini - comprese le pigrizie da redimere, o qualsiasi genere di scuse accampate per non smuoversi; ma a tempo opportuno.

Quello dell’Amore è un Cammino.

In tal guisa, dopo il variegato percorso, come nei Vangeli del mattino e del giorno di Pasqua, iniziamo a scorgere Vita anche fra segni di morte! 

E lo sguardo fissato sulla tomba si volge al Risorto, Vivente che ci ravviva di altri processi, inattesi.

Accettare se stessi e la propria storia è una tappa fondamentale dell’itinerario credente: nuova Alleanza.

Artificioso è avere comprensione dei fratelli se si è severi e non ci si tollera - neppure nei modi.

In ottica di Fede, proprio le nostre stramberie [e le più strampalate] sono interessanti vicende da comprendere. Anche quelle che ci hanno mandato in crisi e svergognato.

Nell’intimo parlano della nostra essenza e aprono orizzonti missionari, culturali, affettivi, inconsueti, da stupore.

 

I traguardi raggiunti possono volatilizzare, i successi dintorno sono spesso effimeri. Ciò che non passa è il rapporto profondo con il proprio ‘io’. 

Saper stare con se stessi significa stimarsi senza calcolo, quindi non tormentarsi - e di rimando non assillare i malcapitati attorno.

Nello sconforto per l’Amore tradito… forse l’aspetto più rilevante dell’uomo devoto che cerca la Perfezione è paradossalmente quello verso il proprio .

La soluzione gliela porge il credente nella Fede, affettivamente integrato perché nella Preghiera profonda ha capito che una vita da salvati non è identificabile con la fortuna, l’aspetto, le prestazioni.

È realtà assai più sorgiva e incondizionata.

Ed è fioritura che si presenta, ora, stupefacente; non richiede una lotta contro se stessi, per andare in scena.

Anzi, si sposa con la consapevolezza crescente che è bene iniziare ad avere cura proprio delle «ombre».

Zone grigie magari accentuate dal senso di colpa - inculcato e sottolineato dalle nostre inevitabili negligenze ai ruoli, ai manierismi, alla “regola”.

Attenzione al filtro delle aspettative esterne: soprattutto quelle considerate spirituali rischiano di essere illusorie.

E nella pastorale del consenso [io ti dò quello che tu vuoi] totalmente conformiste.

 

I veleni delle critiche o autocritiche vanno spazzati via, ma non con lacerazione.

È opportuno intraprendere il sapiente cammino che amplifichi l’orizzonte e metta le attese dei nostri occhiali immaginari prima sullo sfondo, poi alle spalle.

Lasciati scorrere, poi forse avranno un ruolo.

Non bisogna farsi incartare su considerazioni frammentarie o mète schematiche. Così scontentando l’anima personale col paragone di ciò che si ha in mente, rendendo protagonista l’insufficienza ai modelli!

Basta un poco di esperienza per fare memoria di quante sicurezze di cui eravamo un tempo convinti, sono svanite, evaporate d’improvviso.

E malgrado ciò, restiamo magari ancora esteriormente pieni di certezze e finte perizie; talora con le persone sembriamo come un fiume in piena, su questo.

Allora non siamo più noi stessi in campo con le nostre attitudini, ma il nostro personaggio ufficiale, o il sogno altrui.

E non vediamo bene proprio ciò di cui effettivamente abbiamo bisogno, che la vita reale porge spontaneamente - più forte di noi.

Nell’intimo cogliamo la Presenza come d’un ‘sapere innato’, una Sapienza originaria che è traccia della firma di Dio nella nostra anima - che ogni tanto sbotta.

Presenza che non vuol farsi sommergere da idee indotte; quelle che fanno naufragare il carattere personale e il suo destino.

Questo Amico invisibile ci suggerisce, e guida assai meglio di una falsariga indefettibile.

Perché conduce la partita vera in sinergia con la nostra inclinazione e Chiamata profonda, che è traccia della Creazione.

Se non ascoltiamo la Voce di questo navigatore che sa dove andare è perché ci siamo lasciati identificare con mansioni, vesti, uffici, cariche, posizioni, livelli, titoli, stili, ideologie o modelli mentali che portano via dall’Essenza - così come dal tipo di cambiamento che ci appartiene.

Ma sebbene pieni di progetti e sogni nel cassetto, l'anima sceglie per noi.

Ogni tanto le Radici spaccano l’asfalto e vengono su inaspettatamente. 

Si palesano come quelle dei pini; sono ramificate presenze orizzontali, appena sotto lo strato di terra che le copre.

 

Per arricchire l’Amore pasquale, il grande lavoro non è quello di sembrare a tutti i costi “migliori”, bensì di avere cura di quanto emerge come straniamento dallo standard delle “disposizioni” identificate.

E su di esso rinascere. Anche d’improvviso; non è frutto di propositi, intenzioni e prestazione!

Rigenerarsi... è quando scatta qualcosa di non ordinario: anche un bel No alle gabbie (entro le quali idoli e fissazioni rimbalzano).

Quindi ci si potrebbe anche concedere ogni tanto una mente duale o addirittura distratta, onde superare il modello di perfezione assodato.

Distacco non conforme, né configurato; collocandosi in condizione di accogliere il regalo della realtà.

E concedersi il diritto di vagare, o d’inseguire la propria Immagine-Visione dove si annida una Chiamata.

Tintinnio di vocazione eccentrica, apparentemente assurda - e che non sa stare al mondo.

 

È importante tollerarsi - non è un lusso - per non avere una vita sempre uguale, anzi riconoscendo di possedere capacità sottostanti.

Lasciarsi salvare senza pretendere di redimersi col proprio genio e muscoli significa accogliere quanto accade.

E lasciare che sia la vita, l’istinto personale nello Spirito, a condurci; con una percezione più consapevole, con uno sguardo nel ‘presente’.

Amare Dio è imparare a corrispondersi nell’intimo, a ciò che dentro di noi arriva, anche nel sommario - perfino come fastidio.

È un degno Ospite energetico, sebbene difforme: per una Annunciazione. Pasqua quotidiana. 

Segno che la nostra anima non vuole porre in oblio le sue risorse celate.

Non dimentichiamo: allorché la nostra natura profonda si è sentita insoddisfatta [o addirittura ci ha voluto ridicolizzare] è perché intendeva esprimere dei saperi reconditi forti.

Modi di essere o qualcosa che alla nostra “identità” non quadra - e francamente (spontaneamente) non va bene.

Spesso il fallimento materiale è dietro l’angolo proprio perché siamo già identificati nel “personaggio” e ci distraiamo dagli accadimenti, trascurandone la portata.

Sentiamo però che una situazione prefissata allontana da noi stessi,

La «maniera» anche glamour spegne la vampa e il brio del Fuoco sacro, inestinguibile, che arde in cuore.

Nessuno può farlo impallidire. Neppure una ponderata scelta di accomodamento, entro la quale ci siamo costretti e seduti.

 

In fondo sappiamo che la felicità non è il passato o la moda, né può essere posticipata.

Tantomeno ridotta alla stregua d’un viaggio su un mezzo in salita a tappe prefissate, che termina al previsto capolinea - il quale poi si rivela anonimo e ancora incerto, persino desertico.

Le cose che non piacciono e fanno provare fastidio all’anima recano una grande saggezza all’Amore e alla Vita.

Non sono un problema, bensì segnali che se presi sul serio portano con sé la soluzione delle grandi e vere incognite, delle lacerazioni rilevanti dell’esistere personale, della relazione con sorelle e fratelli, del mondo che ci circonda.

 

Come interiorizzare in modo saggio le nostre emozioni e gli eventi?

Se qualche volta ci siamo giudicati e continuiamo a riattualizzare l’episodio con senso d’indegnità, la vicenda si trascina e devasta. E quando ci si sente in colpa o compressi non si può amare.

Riempire di pesi, lamenti, aspettative indotte o calcolate, la luminosità riposta della Coscienza, diventa un veleno che non solo non rende onore al Signore che vuole germogliare e incarnarsi ancora, dentro. Svigorisce e appesta l’esistenza di tutti i cuori a nostro fianco.

Ne smorzeremmo anche il sistema mentale, insieme al nostro. E tutti i risvolti e le attività che rinneghiamo si trasformeranno in zavorre: paure che bloccano i nuovi percorsi, ogni reale sintonia con Dio e il prossimo.

Per una sana crescita nella generosità e nell’attitudine pasquale, bisogna liberare e integrare la potenza stagnante; sperduta nei circoli viziosi dell’insoddisfazione di ciò che “vogliamo”. Comunque, stupendo delle Sorprese sulle intenzioni.

Oscar Wilde affermava: «quando gli Dei vogliono punirci, esaudiscono le nostre preghiere».

Pasqua significa: niente rimorsi! Smettere di tormentarsi dicendosi che siamo sbagliati.

Allora coltiviamo le passioni, inseguiamo l’Icona che ci caratterizza, facciamo volare il Richiamo senza progetto di sé.

E lo vediamo Presente - sognando, ma ad occhi aperti.

Non è l’obbiettivo che ci dona la gioia dell’esperienza di pienezza di essere.

 

Non spacciamo l’identità che non ci appartiene, o un’affettività di contrabbando, con quanto suggerisce Gesù.

Egli viene non a imputarci d’inesorabile fallimento perfino nei dettagli - come nelle religioni arcaiche - ma a farci crescere e valorizzare in tutto.

La scelta discriminante è tra una illusione di vittoria sulla morte, che poi disgrega, o la Pasqua smagliante nella Fede, che recupera l’essere e ci costituisce.

Ritrovandoci, raggiungendo noi stessi puntualmente.

Dalla debolezza alla vita completa, eliminando i propositi artificiosi.

E allorché ci cogliessimo scrutati dagli uomini - forse da noi stessi - conosceremo di essere redenti da dentro.

Contemplati da Dio, nella realtà che scorge Vita anche dietro lati oscuri, e fra segni di morte.

 

Forse non pochi restano ancora sorpresi dalla «tomba vuota»: ossia un Gesù Risorto solo ‘personale’, vissuto nell’amore, nel gratis normale, nel dono di sé che vince la morte. Ma senza ‘mausoleo’ alcuno.

Venerdì, 11 Aprile 2025 15:50

La chiave della porta ferrea

Cari fratelli e sorelle!

Dai tempi più antichi la liturgia del giorno di Pasqua comincia con le parole: Resurrexi et adhuc tecum sum – sono risorto e sono sempre con te; tu hai posto su di me la tua mano. La liturgia vi vede la prima parola del Figlio rivolta al Padre dopo la risurrezione, dopo il ritorno dalla notte della morte nel mondo dei viventi. La mano del Padre lo ha sorretto anche in questa notte, e così Egli ha potuto rialzarsi, risorgere.

La parola è tratta dal Salmo 138 e lì ha inizialmente un significato diverso. Questo Salmo è un canto di meraviglia per l’onnipotenza e l’onnipresenza di Dio, un canto di fiducia in quel Dio che non ci lascia mai cadere dalle sue mani. E le sue mani sono mani buone. L’orante immagina un viaggio attraverso tutte le dimensioni dell’universo – che cosa gli accadrà? “Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra. Se dico: «Almeno l’oscurità mi copra…», nemmeno le tenebre per te sono oscure … per te le tenebre sono come luce” (Sal 138 [139],8-12).

Nel giorno di Pasqua la Chiesa ci dice: Gesù Cristo ha compiuto per noi questo viaggio attraverso le dimensioni dell’universo. Nella Lettera agli Efesini leggiamo che Egli è disceso nelle regioni più basse della terra e che Colui che è disceso è il medesimo che è anche asceso al di sopra di tutti i cieli per riempire l’universo (cfr 4,9s). Così la visione del Salmo è diventata realtà. Nell’oscurità impenetrabile della morte Egli è entrato come luce – la notte divenne luminosa come il giorno, e le tenebre divennero luce. Perciò la Chiesa giustamente può considerare la parola di ringraziamento e di fiducia come parola del Risorto rivolta al Padre: “Sì, ho fatto il viaggio fin nelle profondità estreme della terra, nell’abisso della morte e ho portato la luce; e ora sono risorto e sono per sempre afferrato dalle tue mani”. Ma questa parola del Risorto al Padre è diventata anche una parola che il Signore rivolge a noi: “Sono risorto e ora sono sempre con te”, dice a ciascuno di noi. La mia mano ti sorregge. Ovunque tu possa cadere, cadrai nelle mie mani. Sono presente perfino alla porta della morte. Dove nessuno può più accompagnarti e dove tu non puoi portare niente, là ti aspetto io e trasformo per te le tenebre in luce.

Questa parola del Salmo, letta come colloquio del Risorto con noi, è allo stesso tempo una spiegazione di ciò che succede nel Battesimo. Il Battesimo, infatti, è più di un lavacro, di una purificazione. È più dell’assunzione in una comunità. È una nuova nascita. Un nuovo inizio della vita. Il passo della Lettera ai Romani, che abbiamo appena ascoltato, dice con parole misteriose che nel Battesimo siamo stati “innestati” nella somiglianza con la morte di Cristo. Nel Battesimo ci doniamo a Cristo – Egli ci assume in sé, affinché poi non viviamo più per noi stessi, ma grazie a Lui, con Lui e in Lui; affinché viviamo con Lui e così per gli altri. Nel Battesimo abbandoniamo noi stessi, deponiamo la nostra vita nelle sue mani, così da poter dire con san Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. Se in questo modo ci doniamo, accettando una specie di morte del nostro io, allora ciò significa anche che il confine tra morte e vita diventa permeabile. Al di qua come al di là della morte siamo con Cristo e per questo, da quel momento in avanti, la morte non è più un vero confine. Paolo ce lo dice in modo molto chiaro nella sua Lettera ai Filippesi: “Per me il vivere è Cristo. Se posso essere presso di Lui (cioè se muoio) è un guadagno. Ma se rimango in questa vita, posso ancora portare frutto. Così sono messo alle strette tra queste due cose: essere sciolto – cioè essere giustiziato – ed essere con Cristo, sarebbe assai meglio; ma rimanere in questa vita è più necessario per voi” (cfr 1,21ss). Di qua e di là del confine della morte egli è con Cristo – non esiste più una vera differenza. Sì, è vero: “Alle spalle e di fronte tu mi circondi. Sempre sono nelle tue mani”. Ai Romani Paolo ha scritto: “Nessuno … vive per se stesso e nessuno muore per se stesso … sia che viviamo, sia che moriamo, siamo … del Signore” (Rm 14,7s).

Cari battezzandi, è questa la novità del Battesimo: la nostra vita appartiene a Cristo, non più a noi stessi. Ma proprio per questo non siamo soli neppure nella morte, ma siamo con Lui che vive sempre. Nel Battesimo, insieme con Cristo, abbiamo già fatto il viaggio cosmico fin nelle profondità della morte. Accompagnati da Lui, anzi, accolti da Lui nel suo amore, siamo liberi dalla paura. Egli ci avvolge e ci porta, ovunque andiamo – Egli che è la Vita stessa.

Ritorniamo ancora alla notte del Sabato Santo. Nel Credo professiamo circa il cammino di Cristo: “Discese agli inferi”. Che cosa accadde allora? Poiché non conosciamo il mondo della morte, possiamo figurarci questo processo del superamento della morte solo mediante immagini che rimangono sempre poco adatte. Con tutta la loro insufficienza, tuttavia, esse ci aiutano a capire qualcosa del mistero. La liturgia applica alla discesa di Gesù nella notte della morte la parola del Salmo 23 [24]: “Sollevate, porte, i vostri frontali, alzatevi, porte antiche!” La porta della morte è chiusa, nessuno può tornare indietro da lì. Non c’è una chiave per questa porta ferrea. Cristo, però, ne possiede la chiave. La sua Croce spalanca le porte della morte, le porte irrevocabili. Esse ora non sono più invalicabili. La sua Croce, la radicalità del suo amore è la chiave che apre questa porta. L’amore di Colui che, essendo Dio, si è fatto uomo per poter morire – questo amore ha la forza per aprire la porta. Questo amore è più forte della morte. Le icone pasquali della Chiesa orientale mostrano come Cristo entra nel mondo dei morti. Il suo vestito è luce, perché Dio è luce. “La notte è chiara come il giorno, le tenebre sono come luce” (cfr Sal 138 [139],12). Gesù che entra nel mondo dei morti porta le stimmate: le sue ferite, i suoi patimenti sono diventati potenza, sono amore che vince la morte. Egli incontra Adamo e tutti gli uomini che aspettano nella notte della morte. Alla loro vista si crede addirittura di udire la preghiera di Giona: “Dal profondo degli inferi ho gridato, e tu hai ascoltato la mia voce” (Gio 2,3). Il Figlio di Dio nell’incarnazione si è fatto una cosa sola con l’essere umano – con Adamo. Ma solo in quel momento, in cui compie l’atto estremo dell’amore discendendo nella notte della morte, Egli porta a compimento il cammino dell’incarnazione. Mediante il suo morire Egli prende per mano Adamo, tutti gli uomini in attesa e li porta alla luce.

Ora, tuttavia, si può domandare: Ma che cosa significa questa immagine? Quale novità è lì realmente accaduta per mezzo di Cristo? L’anima dell’uomo, appunto, è di per sé immortale fin dalla creazione – che cosa di nuovo ha portato Cristo? Sì, l’anima è immortale, perché l’uomo in modo singolare sta nella memoria e nell’amore di Dio, anche dopo la sua caduta. Ma la sua forza non basta per elevarsi verso Dio. Non abbiamo ali che potrebbero portarci fino a tale altezza. E tuttavia, nient’altro può appagare l’uomo eternamente, se non l’essere con Dio. Un’eternità senza questa unione con Dio sarebbe una condanna. L’uomo non riesce a giungere in alto, ma anela verso l’alto: “Dal profondo grido a te…” Solo il Cristo risorto può portarci su fino all’unione con Dio, fin dove le nostre forze non possono arrivare. Egli prende davvero la pecora smarrita sulle sue spalle e la porta a casa. Aggrappati al suo Corpo noi viviamo, e in comunione con il suo Corpo giungiamo fino al cuore di Dio. E solo così è vinta la morte, siamo liberi e la nostra vita è speranza.

È questo il giubilo della Veglia Pasquale: noi siamo liberi. Mediante la risurrezione di Gesù l’amore si è rivelato più forte della morte, più forte del male. L’amore Lo ha fatto discendere ed è al contempo la forza nella quale Egli ascende. La forza per mezzo della quale ci porta con sé. Uniti col suo amore, portati sulle ali dell’amore, come persone che amano scendiamo insieme con Lui nelle tenebre del mondo, sapendo che proprio così saliamo anche con Lui. Preghiamo quindi in questa notte: Signore, dimostra anche oggi che l’amore è più forte dell’odio. Che è più forte della morte. Discendi anche nelle notti e negli inferi di questo nostro tempo moderno e prendi per mano coloro che aspettano. Portali alla luce! Sii anche nelle mie notti oscure con me e conducimi fuori! Aiutami, aiutaci a scendere con te nel buio di coloro che sono in attesa, che gridano dal profondo verso di te! Aiutaci a portarvi la tua luce! Aiutaci ad arrivare al “sì” dell’amore, che ci fa discendere e proprio così salire insieme con te! Amen.

[Papa Benedetto, omelia alla Veglia di Pasqua 7 aprile 2007]

Venerdì, 11 Aprile 2025 15:34

L’Attesa diventa Canto

1.  "Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato" (Lc 24,5-6).

Queste parole di due uomini "in vesti sfolgoranti" riaccendono la fiducia nelle donne accorse al sepolcro, sul far del mattino. Avevano vissuto gli eventi tragici culminati nella crocifissione di Cristo sul Calvario; avevano sperimentato la tristezza e lo smarrimento. Non avevano abbandonato, però, nell'ora della prova il loro Signore.

Vanno di nascosto nel luogo dove Gesù era stato sepolto per rivederlo ancora e abbracciarlo l'ultima volta. Le spinge l'amore; quello stesso amore che le aveva portate a seguirlo per le strade della Galilea e della Giudea sino al Calvario.

Donne fortunate! Non sapevano ancora che quella era l'alba del giorno più importante della storia. Non potevano sapere che loro, proprio loro, sarebbero state le prime testimoni della risurrezione di Gesù.

2. "Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro" (Lc 24,2).

Così narra l'evangelista Luca, e aggiunge che, "entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù" (24, 3). In un sol colpo tutto cambia. Gesù "non è qui, è risuscitato". Quest'annuncio, che ha trasformato la tristezza di queste pie donne in gioia, risuona con immutata eloquenza nella Chiesa, nel corso di questa Veglia pasquale.

Singolare Veglia di una notte singolare. Veglia, madre di tutte le Veglie, durante la quale la Chiesa intera resta in attesa presso la tomba del Messia, sacrificato sulla Croce. La Chiesa attende e prega, riascoltando le Scritture che ripercorrono l'intera storia della salvezza.

Ma questa notte non sono le tenebre a dominare, bensì il fulgore d'una luce improvvisa, che irrompe con l'annuncio sconvolgente della risurrezione del Signore. L'attesa e la preghiera diventano allora un canto di gioia: "Exultet iam angelica turba caelorum... Esulti il coro degli Angeli!".

Si ribalta totalmente la prospettiva della storia: la morte cede il passo alla vita. Vita che non muore più. Nel Prefazio canteremo tra poco che Cristo "morendo ha distrutto la morte e risorgendo ha ridato a noi la vita". Ecco la verità che noi proclamiamo con le parole, ma soprattutto con la nostra esistenza. Colui che le donne credevano morto è vivo. La loro esperienza diventa la nostra.

3. O Veglia permeata di speranza, che esprimi in pienezza il senso del mistero! O Veglia ricca di simboli, che manifesti il cuore stesso della nostra esistenza cristiana! Questa notte tutto si riassume prodigiosamente in un nome, nel nome di Cristo risorto.

O Cristo, come non ringraziarTi per il dono ineffabile che in questa notte ci elargisci? Il mistero della tua morte e della tua risurrezione si trasfonde nell'acqua battesimale che accoglie l'uomo antico e carnale e lo rende puro della stessa giovinezza divina.

Nel tuo mistero di morte e di risurrezione ci immergeremo tra poco, rinnovando le promesse battesimali; in esso saranno immersi specialmente i sei catecumeni, che riceveranno il Battesimo, la Cresima e l'Eucaristia.

4. Carissimi Fratelli e Sorelle catecumeni, vi saluto con grande cordialità, e a nome della Comunità ecclesiale vi accolgo con fraterno affetto. Voi provenite da diverse nazioni: dal Giappone, dall'Italia, dalla Cina, dall'Albania, dagli Stati Uniti d'America e dal Perù.

La vostra presenza in questa Piazza esprime la molteplicità delle culture e dei popoli che hanno aperto il loro cuore al Vangelo. Anche per voi, come per ogni battezzato, questa notte la morte cede il passo alla vita. Il peccato è cancellato e inizia un'esistenza tutta nuova. Perseverate sino alla fine nella fedeltà e nell'amore. E non temete dinanzi alle prove, perché "Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui" (Rm 6,9).

5. Sì, Fratelli e Sorelle carissimi, Gesù è vivo e noi viviamo in Lui. Per sempre. Ecco il dono di questa notte, che ha definitivamente svelato al mondo la potenza di Cristo, Figlio della Vergine Maria, a noi data per Madre ai piedi della Croce.

Questa Veglia ci introduce in un giorno che non conosce tramonto. Giorno della Pasqua di Cristo, che inaugura per l'umanità una rinnovata primavera di speranza.

"Haec dies quam fecit Dominus: exsultemus et laetamur in ea - Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo di gioia". Alleluja!

[Papa Giovanni Paolo II, omelia alla Veglia di Pasqua 14 aprile 2001]

Cari fratelli e sorelle!

1. Nel Vangelo di questa Notte luminosa della Vigilia Pasquale incontriamo per prime le donne che si recano al sepolcro di Gesù con gli aromi per ungere il suo corpo (cfr Lc 24,1-3). Vanno per compiere un gesto di compassione, di affetto, di amore, un gesto tradizionale verso una persona cara defunta, come ne facciamo anche noi. Avevano seguito Gesù, l’avevano ascoltato, si erano sentite comprese nella loro dignità e lo avevano accompagnato fino alla fine, sul Calvario, e al momento della deposizione dalla croce. Possiamo immaginare i loro sentimenti mentre vanno alla tomba: una certa tristezza, il dolore perché Gesù le aveva lasciate, era morto, la sua vicenda era terminata. Ora si ritornava alla vita di prima. Però nelle donne continuava l’amore, ed è l’amore verso Gesù che le aveva spinte a recarsi al sepolcro. Ma a questo punto avviene qualcosa di totalmente inaspettato, di nuovo, che sconvolge il loro cuore e i loro programmi e sconvolgerà la loro vita: vedono la pietra rimossa dal sepolcro, si avvicinano, e non trovano il corpo del Signore. E’ un fatto che le lascia perplesse, dubbiose, piene di domande: “Che cosa succede?”, “Che senso ha tutto questo?” (cfr Lc 24,4). Non capita forse anche a noi così quando qualcosa di veramente nuovo accade nel succedersi quotidiano dei fatti? Ci fermiamo, non comprendiamo, non sappiamo come affrontarlo. La novità spesso ci fa paura, anche la novità che Dio ci porta, la novità che Dio ci chiede. Siamo come gli Apostoli del Vangelo: spesso preferiamo tenere le nostre sicurezze, fermarci ad una tomba, al pensiero verso un defunto, che alla fine vive solo nel ricordo della storia come i grandi personaggi del passato. Abbiamo paura delle sorprese di Dio. Cari fratelli e sorelle, nella nostra vita abbiamo paura delle sorprese di Dio! Egli ci sorprende sempre! Il Signore è così.

Fratelli e sorelle, non chiudiamoci alla novità che Dio vuole portare nella nostra vita! Siamo spesso stanchi, delusi, tristi, sentiamo il peso dei nostri peccati, pensiamo di non farcela. Non chiudiamoci in noi stessi, non perdiamo la fiducia, non rassegniamoci mai: non ci sono situazioni che Dio non possa cambiare, non c’è peccato che non possa perdonare se ci apriamo a Lui.

2. Ma torniamo al Vangelo, alle donne e facciamo un passo avanti. Trovano la tomba vuota, il corpo di Gesù non c’è, qualcosa di nuovo è avvenuto, ma tutto questo ancora non dice nulla di chiaro: suscita interrogativi, lascia perplessi, senza offrire una risposta. Ed ecco due uomini in abito sfolgorante, che dicono: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto» (Lc 24, 5-6). Quello che era un semplice gesto, un fatto, compiuto certo per amore - il recarsi al sepolcro – ora si trasforma in avvenimento, in un evento che cambia veramente la vita. Nulla rimane più come prima, non solo nella vita di quelle donne, ma anche nella nostra vita e nella nostra storia dell’umanità. Gesù non è un morto, è risorto, è il Vivente! Non è semplicemente tornato in vita, ma è la vita stessa, perché è il Figlio di Dio, che è il Vivente (cfr Nm 14,21-28; Dt 5,26; Gs 3,10). Gesù non è più nel passato, ma vive nel presente ed è proiettato verso il futuro, Gesù è l’«oggi» eterno di Dio. Così la novità di Dio si presenta davanti agli occhi delle donne, dei discepoli, di tutti noi: la vittoria sul peccato, sul male, sulla morte, su tutto ciò che opprime la vita e le dà un volto meno umano. E questo è un messaggio rivolto a me, a te, cara sorella, a te caro fratello. Quante volte abbiamo bisogno che l’Amore ci dica: perché cercate tra i morti colui che è vivo? I problemi, le preoccupazioni di tutti i giorni tendono a farci chiudere in noi stessi, nella tristezza, nell’amarezza… e lì sta la morte. Non cerchiamo lì Colui che è vivo!

Accetta allora che Gesù Risorto entri nella tua vita, accoglilo come amico, con fiducia: Lui è la vita! Se fino ad ora sei stato lontano da Lui, fa’ un piccolo passo: ti accoglierà a braccia aperte. Se sei indifferente, accetta di rischiare: non sarai deluso. Se ti sembra difficile seguirlo, non avere paura, affidati a Lui, stai sicuro che Lui ti è vicino, è con te e ti darà la pace che cerchi e la forza per vivere come Lui vuole.

3. C’è un ultimo semplice elemento che vorrei sottolineare nel Vangelo di questa luminosa Veglia Pasquale. Le donne si incontrano con la novità di Dio: Gesù è risorto, è il Vivente! Ma di fronte alla tomba vuota e ai due uomini in abito sfolgorante, la loro prima reazione è di timore: «tenevano il volto chinato a terra» - nota san Luca -, non avevano il coraggio neppure di guardare. Ma quando ascoltano l’annuncio della Risurrezione, l’accolgono con fede. E i due uomini in abito sfolgorante introducono un verbo fondamentale: ricordate. «Ricordatevi come vi parlò, quando era ancora in Galilea… Ed esse si ricordarono delle sue parole» (Lc 24,6.8). Questo è l’invito a fare memoria dell’incontro con Gesù, delle sue parole, dei suoi gesti, della sua vita; ed è proprio questo ricordare con amore l’esperienza con il Maestro che conduce le donne a superare ogni timore e a portare l’annuncio della Risurrezione agli Apostoli e a tutti gli altri (cfr Lc 24,9). Fare memoria di quello che Dio ha fatto e fa per me, per noi, fare memoria del cammino percorso; e questo spalanca il cuore alla speranza per il futuro. Impariamo a fare memoria di quello che Dio ha fatto nella nostra vita! 

In questa Notte di luce, invocando l’intercessione della Vergine Maria, che custodiva ogni avvenimento nel suo cuore (cfr Lc 2,19.51), chiediamo che il Signore ci renda partecipi della sua Risurrezione: ci apra alla sua novità che trasforma, alle sorprese di Dio, tanto belle; ci renda uomini e donne capaci di fare memoria di ciò che Egli opera nella nostra storia personale e in quella del mondo; ci renda capaci di sentirlo come il Vivente, vivo ed operante in mezzo a noi; ci insegni, cari fratelli e sorelle, ogni giorno a non cercare tra i morti Colui che è vivo. Amen.

[Papa Francesco, omelia alla Veglia di Pasqua 30 marzo 2013]

Oggi abbiamo un’impressione di oblio, del Signore.

La fossa sembra riesca a celarlo e zittirlo, tanto che non c’è neppure bisogno di contestarlo - basterebbe trascurarlo o compatirlo.

Vogliamo invece meditare ancora sulla rivoluzione di Cristo e la sua nuova Luce, per riconoscerla nostra, assimilarla e viverla - sin dalle radici dell’essere e nel nostro cammino.

Il Silenzio di Dio è parte della Rivelazione: Gloria e Vita che ci corrispondono; in modo democratico, poliedrico, non unilaterale.

Silenzio che ha rispetto del nostro ‘fiore’.

 

In tal guisa, tra gli alti e bassi anche della nostra vita, ecco il deporsi e il misterioso brigare dei ‘semi’ - tutta una serie di alternative:

 

Un differente Volto di Dio, creatore e redentore della nostra intelligenza e libertà; educatore mai arcigno - né dominatore pronto a scatenare rappresaglie.

Non sovrano che governa emanando leggi, ma Genitore che trasmette la sua stessa Vita.

Non Lo incontriamo innalzandoci e forzando, perché è Lui che incessantemente si propone, si rivela, e Viene.

Non sta “a capo” e tu dietro; non si piazza sopra mentre tu resti sotto.

Non si mette “davanti” nel modo che qualcuno sia destinato a retrocedere [coi più forti, svelti e organizzati sempre vicini, senza possibilità di ricambio].

 

Un’attività di denuncia della falsa religione: quella degli adempimenti ripetitivi - e delle idee fisse o troppo sofisticate, disincarnate - sotto una cappa di plagio, paure, intimidazioni. 

Il Signore è giusto, perché ci comprende. Bando alle maniere vuote, futili, dispersive.

Chi si ritrova socialmente costretto non è mai se stesso e non può amare, in quanto condizionato; soverchiato da confronti e necessità esterne.

 

Una nuova autenticità della donna e dell’uomo, non più identificati in ruoli e personaggi da ricalcare e confrontare, bensì autonomi e realizzati per Chiamata personale.

Non attratti dal connubio cultura-devozione-potere-interesse, bensì affascinati dalla Sapienza che abita ogni lieve e piccola Unicità.

Così liberi e non ambiziosi, da potersi chinare volentieri sui meno fortunati. Senza intime dissociazioni.

 

Un nuovo volto di società, non competitiva né appannaggio di astuti, cordate, o cerchie, ma caratterizzata dallo scambio dei ‘doni’.

Convivialità delle differenze che accentua e lascia fiorire la vita, di tutti e ciascuno.

Insomma, non siamo una tipologia di eterni fallimenti.

Il Padre vuole persone che viaggiano verso se stesse, e sogna una Famiglia umanizzante.

Amabile, perché non assorbe le nostre energie, bensì le trasmette.

 

 

Sabato Santo, Sepoltura del Signore [19 aprile 2025]

Venerdì, 11 Aprile 2025 04:31

Tre meditazioni

PRIMA MEDITAZIONE

Con sempre maggior insistenza si sente parlare nel nostro tempo della morte di Dio. Per la prima volta, in Jean Paul, si tratta solo di un sogno da incubo: Gesù morto annuncia ai morti, dal tetto del mondo, che nel suo viaggio nell’aldilà non ha trovato nulla, né cielo, né Dio misericordioso, ma solo il nulla infinito, il silenzio del vuoto spalancato. Si tratta ancora di un sogno orribile che viene messo da parte, gemendo nel risveglio, come un sogno appunto, anche se non si riuscirà mai a cancellare l’angoscia subita, che stava sempre in agguato, cupa, nel fondo dell’anima. Un secolo dopo, in Nietzsche, è una serietà mortale che si esprime in un grido stridulo di terrore: «Dio è morto! Dio rimane morto! E noi lo abbiamo ucciso!». Cinquant’anni dopo, se ne parla con distacco accademico e ci si prepara a una “teologia dopo la morte di Dio”, ci si guarda intorno per vedere come poter continuare e si incoraggiano gli uomini a prepararsi a prendere il posto di Dio. Il mistero terribile del Sabato santo, il suo abisso di silenzio, ha acquistato quindi nel nostro tempo una realtà schiacciante. Giacché questo è il Sabato santo: giorno del nascondimento di Dio, giorno di quel paradosso inaudito che noi esprimiamo nel Credo con le parole «disceso agli inferi», disceso dentro il mistero della morte. Il Venerdì santo potevamo ancora guardare il trafitto. Il Sabato santo è vuoto, la pesante pietra del sepolcro nuovo copre il defunto, tutto è passato, la fede sembra essere definitivamente smascherata come fanatismo. Nessun Dio ha salvato questo Gesù che si atteggiava a Figlio suo. Si può essere tranquilli: i prudenti che prima avevano un po’ titubato nel loro intimo se forse potesse essere diverso, hanno avuto invece ragione.

Sabato santo: giorno della sepoltura di Dio; non è questo in maniera impressionante il nostro giorno? Non comincia il nostro secolo a essere un grande Sabato santo, giorno dell’assenza di Dio, nel quale anche i discepoli hanno un vuoto agghiacciante nel cuore che si allarga sempre di più, e per questo motivo si preparano pieni di vergogna e angoscia al ritorno a casa e si avviano cupi e distrutti nella loro disperazione verso Emmaus, non accorgendosi affatto che colui che era creduto morto è in mezzo a loro? 

Dio è morto e noi lo abbiamo ucciso: ci siamo propriamente accorti che questa frase è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana e che noi spesso nelle nostre viae crucis abbiamo ripetuto qualcosa di simile senza accorgerci della gravità tremenda di quanto dicevamo? Noi lo abbiamo ucciso, rinchiudendolo nel guscio stantio dei pensieri abitudinari, esiliandolo in una forma di pietà senza contenuto di realtà e perduta nel giro di frasi fatte o di preziosità archeologiche; noi lo abbiamo ucciso attraverso l’ambiguità della nostra vita che ha steso un velo di oscurità anche su di lui: infatti che cosa avrebbe potuto rendere più problematico in questo mondo Dio se non la problematicità della fede e dell’amore dei suoi credenti?

L’oscurità divina di questo giorno, di questo secolo che diventa in misura sempre maggiore un Sabato santo, parla alla nostra coscienza. Anche noi abbiamo a che fare con essa. Ma nonostante tutto essa ha in sé qualcosa di consolante. La morte di Dio in Gesù Cristo è nello stesso tempo espressione della sua radicale solidarietà con noi. Il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più chiaro di una speranza che non ha confini. E ancora una cosa: solo attraverso il fallimento del Venerdì santo, solo attraverso il silenzio di morte del Sabato santo, i discepoli poterono essere portati alla comprensione di ciò che era veramente Gesù e di ciò che il suo messaggio stava a significare in realtà. Dio doveva morire per essi perché potesse realmente vivere in essi. L’immagine che si erano formata di Dio, nella quale avevano tentato di costringerlo, doveva essere distrutta perché essi attraverso le macerie della casa diroccata potessero vedere il cielo, lui stesso, che rimane sempre l’infinitamente più grande. Noi abbiamo bisogno del silenzio di Dio per sperimentare nuovamente l’abisso della sua grandezza e l’abisso del nostro nulla che verrebbe a spalancarsi se non ci fosse lui. 

C’è una scena nel Vangelo che anticipa in maniera straordinaria il silenzio del Sabato santo e appare quindi ancora una volta come il ritratto del nostro momento storico. Cristo dorme in una barca che, sbattuta dalla tempesta, sta per affondare. Il profeta Elia aveva una volta irriso i preti di Baal, che inutilmente invocavano a gran voce il loro dio perché volesse far discendere il fuoco sul sacrificio, esortandoli a gridare più forte, caso mai il loro dio stesse a dormire. Ma Dio non dorme realmente? Lo scherno del profeta non tocca alla fin fine anche i credenti del Dio di Israele che viaggiano con lui in una barca che sta per affondare? Dio sta a dormire mentre le sue cose stanno per affondare, non è questa l’esperienza della nostra vita? La Chiesa, la fe­de, non assomigliano a una piccola barca che sta per affondare, che lotta inutilmente contro le onde e il vento, mentre Dio è assente? I discepoli gridano nella disperazione estrema e scuotono il Signore per svegliarlo, ma egli si mostra meravigliato e rimprovera la loro poca fede. Ma è diversamente per noi? Quando la tempesta sarà passata, ci accorgeremo di quanto la nostra poca fede fosse carica di stoltezza. E tuttavia, o Signore, non possiamo fare a meno di scuotere te, Dio che stai in silenzio e dormi, e gridarti: svegliati, non vedi che affondiamo? Destati, non lasciar durare in eterno l’oscurità del Sabato santo, lascia cadere un raggio di Pasqua anche sui nostri giorni, accompàgnati a noi quando ci avviamo disperati verso Emmaus perché il nostro cuore possa accendersi alla tua vicinanza. Tu che hai guidato in maniera nascosta le vie di Israele per essere finalmente uomo con gli uomini, non ci lasciare nel buio, non permettere che la tua parola si perda nel gran sciupio di parole di questi tempi. Signore, dacci il tuo aiuto, perché senza di te affonderemo.

Amen.

SECONDA MEDITAZIONE 

Il nascondimento di Dio in questo mondo costituisce il vero mistero del Sabato santo, mistero accennato già nelle parole enigmatiche secondo cui Gesù è «disceso all’inferno». Nello stesso tempo l’esperienza del nostro tempo ci ha offerto un approccio completamente nuovo al Sabato santo, giacché il nascondimento di Dio nel mondo che gli appartiene e che dovrebbe con mille lingue annunciare il suo nome, l’esperienza dell’impotenza di Dio che è tuttavia l’onnipotente – questa è l’esperienza e la miseria del nostro tempo.

Ma anche se il Sabato santo in tal modo ci si è avvicinato profondamente, anche se noi comprendiamo il Dio del Sabato santo più della manifestazione potente di Dio in mezzo ai tuoni e ai lampi, di cui parla il Vecchio Testamento, rimane tuttavia insoluta la questione di sapere che cosa si intende veramente quando si dice in maniera misteriosa che Gesù «è disceso all’inferno». Diciamolo con tutta chiarezza: nessuno è in grado di spiegarlo veramente. Né diventa più chiaro dicendo che qui inferno è una cattiva traduzione della parola ebraica shêol, che sta a indicare semplicemente tutto il regno dei morti, e quindi la formula vorrebbe originariamente dire soltanto che Gesù è disceso nella profondità della morte, è realmente morto e ha partecipato all’abisso del nostro destino di morte. Infatti sorge allora la domanda: che cos’è realmente la morte e che cosa accade effettivamente quando si scende nella profondità della morte? Dobbiamo qui porre attenzione al fatto che la morte non è più la stessa cosa dopo che Cristo l’ha subita, dopo che egli l’ha accettata e penetrata, così come la vita, l’essere umano, non sono più la stessa cosa dopo che in Cristo la natura umana poté ve­nire a contatto, e di fatto venne, con l’essere proprio di Dio. Prima la morte era soltanto morte, separazione dal paese dei viventi e, anche se con diversa profondità, qualcosa come “inferno”, lato notturno dell’esistere, buio impenetrabile. Adesso però la morte è anche vita e quando noi oltrepassiamo la glaciale solitudine della soglia della morte, ci incontriamo sempre nuovamente con colui che è la vita, che è voluto divenire il compagno della nostra solitudine ultima e che, nella solitudine mortale della sua angoscia nell’orto degli ulivi e del suo grido sulla croce «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», è divenuto partecipe delle nostre solitudini.

Se un bambino si dovesse avventurare da solo nella notte buia attraverso un bosco, avrebbe paura anche se gli si dimostrasse centinaia di volte che non c’è alcun pericolo. Egli non ha paura di qualcosa di determinato, a cui si può dare un nome, ma nel buio sperimenta l’insicurezza, la condizione di orfano, il carattere sinistro dell’esistenza in sé. Solo una voce umana potrebbe consolarlo; solo la mano di una persona cara potrebbe cacciare via come un brutto sogno l’angoscia. C’è un’angoscia – quella vera, annidata nella profondità delle nostre solitudini – che non può essere superata mediante la ragione, ma solo con la presenza di una persona che ci ama. Quest’angoscia infatti non ha un oggetto a cui si possa dare un nome, ma è solo l’espressione terribile della nostra solitudine ultima. Chi non ha sentito la sensazione spaventosa di questa condizione di abbandono? Chi non avvertirebbe il miracolo santo e consolatore suscitato in questi frangenti da una parola di affetto? Laddove però si ha una solitudine tale che non può essere più raggiunta dalla parola trasformatrice dell’amore, allora noi parliamo di inferno. E noi sappiamo che non pochi uomini del nostro tempo, apparentemente così ottimistico, sono dell’avviso che ogni incontro rimane in superficie, che nessun uomo ha accesso all’ultima e vera profondità dell’altro e che quindi nel fondo ultimo di ogni esistenza giace la disperazione, anzi l’inferno. Jean-Paul Sartre ha espresso questo poeticamente in un suo dramma e nello stesso tempo ha esposto il nucleo della sua dottrina sull’uomo. Una cosa è certa: c’è una notte nel cui buio abbandono non penetra alcuna parola di conforto, una porta che noi dobbiamo oltrepassare in solitudine assoluta: la porta della morte. Tutta l’angoscia di questo mondo è in ultima analisi l’angoscia provocata da questa solitudine. Per questo motivo nel Vecchio Testamento il termine per indicare il regno dei morti era identico a quello con cui si indicava l’inferno: shêol. La morte infatti è solitudine assoluta. Ma quella solitudine che non può essere più illuminata dall’amore, che è talmente profonda che l’amore non può più accedere a essa, è l’inferno. 

«Disceso all’inferno»: questa confessione del Sabato santo sta a significare che Cristo ha oltrepassato la porta della solitudine, che è disceso nel fondo irraggiungibile e insuperabile della nostra condizione di solitudine. Questo sta a significare però che anche nella notte estrema nella quale non penetra alcuna parola, nella quale noi tutti siamo come bambini cacciati via, piangenti, si dà una voce che ci chiama, una mano che ci prende e ci conduce. La solitudine insuperabile dell’uomo è stata superata dal momento che Eglisi è trovato in essa. L’inferno è stato vinto dal momento in cui l’amore è anche entrato nella regione della morte e la terra di nessuno della solitudine è stata abitata da lui. Nella sua profondità l’uomo non vive di pane, ma nell’autenticità del suo essere egli vive per il fatto che è amato e gli è permesso di amare. A partire dal momento in cui nello spazio della morte si dà la presenza dell’amore, allora nella morte penetra la vita: ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata – prega la Chiesa nella liturgia funebre.

Nessuno può misurare in ultima analisi la portata di queste parole: «disceso all’inferno». Ma se una volta ci è dato di avvicinarci all’ora della nostra solitudine ultima, ci sarà permesso di comprendere qualcosa della grande chiarezza di questo mistero buio. Nella certa speranza che in quell’ora di estrema solitudine non saremo soli, possiamo già adesso presagire qualcosa di quello che avverrà. E in mezzo alla nostra protesta contro il buio della morte di Dio cominciamo a diventare grati per la luce che viene a noi proprio da questo buio.

TERZA MEDITAZIONE 

Nel breviario romano la liturgia del triduo sacro è strutturata con una cura particolare; la Chiesa nella sua preghiera vuole per così dire trasferirci nella realtà della passione del Signore e, al di là delle parole, nel centro spirituale di ciò che è accaduto. Se si volesse tentare di contrassegnare in poche battute la liturgia orante del Sabato santo, allora bisognerebbe soprattutto parlare dell’effetto di pace profonda che traspira da essa. Cristo è penetrato nel nascondimento (Verborgenheit), ma nello stesso tempo, proprio nel cuore del buio impenetrabile, egli è penetrato nella sicurezza (Geborgenheit), anzi egli è diventato la sicurezza ultima. Ormai è diventata vera la parola ardita del salmista: e anche se mi volessi nascondere nell’inferno, anche là sei tu. E quanto più si percorre questa liturgia, tanto più si scorgono brillare in essa, come un’aurora del mattino, le prime luci della Pasqua. Se il Venerdì santo ci pone davanti agli occhi la figura sfigurata del trafitto, la liturgia del Sabato santo si rifà piuttosto all’immagine della croce cara alla Chiesa antica: alla croce circondata da raggi luminosi, segno, allo stesso modo, della morte e della risurrezione.

Il Sabato santo ci rimanda così a un aspetto della pietà cristiana che forse è stato smarrito nel corso dei tempi. Quando noi nella preghiera guardiamo alla croce, vediamo spesso in essa soltanto un segno della passione storica del Signore sul Golgota. L’origine della devozione alla croce è però diversa: i cristiani pregavano rivolti a Oriente per esprimere la loro speranza che Cristo, il sole vero, sarebbe sorto sulla storia, per esprimere quindi la loro fede nel ritorno del Signore. La croce è in un primo tempo legata strettamente con questo orientamento della preghiera, essa viene rappresentata per così dire come un’insegna che il re inalbererà nella sua venuta; nell’immagine della croce la punta avanzata del corteo è già arrivata in mezzo a coloro che pregano. Per il cristianesimo antico la croce è quindi soprattutto segno della speranza. Essa non implica tanto un riferimento al Signore passato, quanto al Signore che sta per venire. Certo era impossibile sottrarsi alla necessità intrinseca che, con il passare del tempo, lo sguardo si rivolgesse anche all’evento accaduto: contro ogni fuga nello spirituale, contro ogni misconoscimento dell’incarnazione di Dio, occorreva che fosse difesa la prodigalità inimmaginabile dell’amore di Dio che, per amore della misera creatura umana, è diventato egli stesso un uomo, e quale uomo! Occorreva difendere la santa stoltezza dell’amore di Dio che non ha scelto di pronunciare una parola di potenza, ma di percorrere la via dell’impotenza per mettere alla gogna il nostro sogno di potenza e vincerlo dall’interno.

Ma così non abbiamo dimenticato un po’ troppo la connessione tra croce e speranza, l’unità tra l’Oriente e la direzione della croce, tra passato e futuro esistente nel cristianesimo? Lo spirito della speranza che alita sulle preghiere del Sabato santo dovrebbe nuovamente penetrare tutto il nostro essere cristiani. Il cristianesimo non è soltanto una religione del passato, ma, in misura non minore, del futuro; la sua fede è nello stesso tempo speranza, giacché Cristo non è soltanto il morto e il risorto ma anche colui che sta per venire.

O Signore, illumina le nostre anime con questo mistero della speranza perché riconosciamo la luce che è irraggiata dalla tua croce, concedici che come cristiani procediamo protesi al futuro, incontro al giorno della tua venuta.

Amen.

PREGHIERA

Signore Gesù Cristo, nell’oscurità della morte Tu hai fatto luce; nell’abisso della solitudine più profonda abita ormai per sempre la protezione potente del Tuo amore; in mezzo al Tuo nascondimento possiamo ormai cantare l’alleluia dei salvati. Concedici l’umile semplicità della fede, che non si lascia fuorviare quando Tu ci chiami nelle ore del buio, dell’abbandono, quando tutto sembra apparire problematico; concedici, in questo tempo nel quale attorno a Te si combatte una lotta mortale, luce sufficiente per non perderti; luce sufficiente perché noi possiamo darne a quanti ne hanno ancora più bisogno. Fai brillare il mistero della Tua gioia pasquale, come aurora del mattino, nei nostri giorni; concedici di poter essere veramente uomini pasquali in mezzo al Sabato santo della storia. Concedici che attraverso i giorni luminosi e oscuri di questo tempo possiamo sempre con animo lieto trovarci in cammino verso la Tua gloria futura.

Amen.

[Papa Benedetto, brano tratto da “Il sabato della storia”; https://www.sabinopaciolla.com/benedetto-xvi-il-mistero-terribile-del-sabato-santo/]

Venerdì, 11 Aprile 2025 04:26

Veglia la Chiesa. E veglia il mondo

1. “Cercate Gesù il Crocifisso”? (Mt 28,5).

È la domanda che sentiranno le donne quando, “all’alba del primo giorno della settimana” (Mt 28,1), esse verranno al sepolcro.

Crocifisso!

Prima del sabato egli fu condannato a morte e spirò sulla croce gridando: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46).

Deposero dunque Gesù in un sepolcro, nel quale nessuno era stato ancora deposto, in un sepolcro prestato da un amico, e si allontanarono. Si allontanarono tutti, in fretta, per adempiere la norma della Legge religiosa. Infatti dovevano iniziare la festa, la Pasqua degli Ebrei, la memoria dell’esodo dalla schiavitù dell’Egitto: la notte prima del sabato.

Poi passo il sabato pasquale e iniziò la seconda notte.

2. Ed ecco, siamo venuti tutti in questo tempio, così come tanti nostri fratelli e sorelle nella fede ai diversi templi in tutto il globo terrestre, perché scenda nelle nostre anime e nei nostri cuori la notte santa: la notte dopo il sabato.

Siete qui, figli e figlie della Chiesa che è a Roma, figli e figlie della Chiesa che è estesa nei vari paesi e continenti, ospiti e pellegrini. Insieme abbiamo vissuto il Venerdì santo: la Via Crucis tra i resti del Colosseo – e l’adorazione della Croce fino al momento in cui una grande pietra fu rotolata sulla porta del sepolcro – e vi fu apposto un sigillo.

Perché siete venuti ora?

Cercate Gesù il Crocifisso?

Sì. Cerchiamo Gesù Crocifisso. Lo cerchiamo in questa notte dopo il sabato, che ha preceduto l’arrivo delle donne al sepolcro, quando esse con grande stupore hanno visto e hanno sentito: “Non è qui...” (Mt 28,6).

Siamo quindi venuti presto, già a tarda sera, per vegliare presso la sua tomba. Per celebrare la veglia pasquale.

E proclamiamo la nostra lode a questa meravigliosa notte, pronunciando con le labbra del diacono l’“Exsultet” della veglia. Ed ascoltiamo le letture sacre, che paragonano questa unica notte al giorno della Creazione e soprattutto alla notte dell’esodo, durante la quale il sangue dell’agnello salvò i figli primogeniti d’Israele dalla morte e li fece uscire dalla schiavitù d’Egitto. E poi nel momento di rinnovata minaccia il Signore li condusse all’asciutto in mezzo al mare.

Vegliamo, quindi, in questa notte unica presso la tomba sigillata di Gesù di Nazaret, consapevoli che tutto ciò che è stato preannunciato dalla Parola di Dio nel corso delle generazioni si compirà in questa notte, e che l’opera della redenzione dell’uomo raggiungerà in questa notte il suo zenit.

Vegliamo dunque, e, anche se la notte è profonda, e il sepolcro sigillato, confessiamo che si è già accesa in essa la Luce e cammina attraverso il buio della notte e le oscurità della morte. È la luce di Cristo: “Lumen Christi”.

3. Siamo venuti per immergerci nella sua morte; sia noi che tempo fa abbiamo già ricevuto il Battesimo che immerge in Cristo, sia anche coloro che riceveranno il Battesimo in questa notte.
Essi sono i nostri nuovi fratelli e sorelle nella fede; finora erano catecumeni, e questa notte possiamo salutarli nella comunità della Chiesa di Cristo, che è una, santa, cattolica e apostolica. Essi sono i nostri nuovi fratelli e sorelle nella fede e nella comunità della Chiesa, e provengono da diversi paesi e continenti: Corea, Giappone, Italia, Nigeria, Olanda, Rwanda, Senegal e Togo.

Li salutiamo cordialmente e con gioia proclamiamo l’“Exsultet” in onore della Chiesa, nostra Madre, che li vede raccolti qui nella piena luce di Cristo: “Lumen Christi”.

E proclamiamo insieme con loro la lode dell’acqua battesimale, nella quale, per opera della morte di Cristo, è discesa la potenza dello Spirito Santo: la potenza della vita nuova che zampilla per l’eternità, per la vita eterna (cf. Gv 4,14).

4. Così, prima ancora che spunti l’alba e le donne arrivino alla tomba da Gerusalemme, noi siamo venuti qui per cercare Gesù Crocifisso,

poiché: “Il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché... noi non fossimo più schiavi del peccato...” (Rm 6,6);

poiché: non ci consideriamo “morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù” (Rm 6,11): “Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio” (Rm 6,10);

poiché: “Per mezzo del Battesimo siamo... stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova (Rm 6,4);

poiché: “Se siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione” (Rm 6,5);

poiché crediamo: che “se siamo morti con Cristo... anche vivremo con lui” (Rm 6,8);

e poiché crediamo che “Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Rm 6,9).

5. Proprio per questo siamo qui. Per questo vegliamo presso la sua tomba.

Veglia la Chiesa. E veglia il mondo. L’ora della vittoria di Cristo sulla morte è l’ora più grande della storia.

[Papa Giovanni Paolo II, omelia alla Veglia Pasquale 18 aprile 1981]

Venerdì, 11 Aprile 2025 04:14

Fermarci a una tomba?

1. Nel Vangelo di questa Notte luminosa della Vigilia Pasquale incontriamo per prime le donne che si recano al sepolcro di Gesù con gli aromi per ungere il suo corpo (cfr Lc 24,1-3). Vanno per compiere un gesto di compassione, di affetto, di amore, un gesto tradizionale verso una persona cara defunta, come ne facciamo anche noi. Avevano seguito Gesù, l’avevano ascoltato, si erano sentite comprese nella loro dignità e lo avevano accompagnato fino alla fine, sul Calvario, e al momento della deposizione dalla croce. Possiamo immaginare i loro sentimenti mentre vanno alla tomba: una certa tristezza, il dolore perché Gesù le aveva lasciate, era morto, la sua vicenda era terminata. Ora si ritornava alla vita di prima. Però nelle donne continuava l’amore, ed è l’amore verso Gesù che le aveva spinte a recarsi al sepolcro. Ma a questo punto avviene qualcosa di totalmente inaspettato, di nuovo, che sconvolge il loro cuore e i loro programmi e sconvolgerà la loro vita: vedono la pietra rimossa dal sepolcro, si avvicinano, e non trovano il corpo del Signore. E’ un fatto che le lascia perplesse, dubbiose, piene di domande: “Che cosa succede?”, “Che senso ha tutto questo?” (cfr Lc 24,4). Non capita forse anche a noi così quando qualcosa di veramente nuovo accade nel succedersi quotidiano dei fatti? Ci fermiamo, non comprendiamo, non sappiamo come affrontarlo. La novità spesso ci fa paura, anche la novità che Dio ci porta, la novità che Dio ci chiede. Siamo come gli Apostoli del Vangelo: spesso preferiamo tenere le nostre sicurezze, fermarci ad una tomba, al pensiero verso un defunto, che alla fine vive solo nel ricordo della storia come i grandi personaggi del passato. Abbiamo paura delle sorprese di Dio. Cari fratelli e sorelle, nella nostra vita abbiamo paura delle sorprese di Dio! Egli ci sorprende sempre! Il Signore è così.

Fratelli e sorelle, non chiudiamoci alla novità che Dio vuole portare nella nostra vita! Siamo spesso stanchi, delusi, tristi, sentiamo il peso dei nostri peccati, pensiamo di non farcela. Non chiudiamoci in noi stessi, non perdiamo la fiducia, non rassegniamoci mai: non ci sono situazioni che Dio non possa cambiare, non c’è peccato che non possa perdonare se ci apriamo a Lui.

[Papa Francesco, omelia alla Veglia Pasquale 30 marzo 2013]

Giovedì, 10 Aprile 2025 10:05

Domenica delle Palme (anno C)

Domenica delle Palme (anno C)  [13 aprile 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Entriamo nella Settimana Santa con Gesù accolto a Gerusalemme e prepariamoci nel Triduo Pasquale a seguirlo nel cammino della passione morte e risurrezione. 

 

*Prima lettura dal libro de profeta Isaia (50,4-7)

Questo testo è tratto dalla parte del libro di Isaia che raccoglie i cosiddetti “Canti del Servo”, che sono particolarmente importanti per due ragioni: innanzitutto per il messaggio che Isaia voleva trasmettere ai suoi contemporanei e perché sono stati applicati dai primi cristiani a Cristo, anche se certamente Isaia non pensava a Gesù quando scrisse questo testo probabilmente nel VI secolo a.C. durante l’esilio a Babilonia. Al popolo esiliato in condizioni molto dure, che rischiava di cedere a un grande sconforto, ricorda che Israele è il servo di Dio sostenuto e nutrito ogni mattina dalla Parola, ma perseguitato a causa della sua fede e, nonostante tutto, capace di resistere a ogni prova. Descrive in modo chiaro la straordinaria relazione che unisce al suo Dio il Servo (Israele) la cui caratteristica principale è l’ascolto della Parola, “l’orecchio aperto”, come scrive Isaia. Ascoltare la Parola, lasciarsi istruire da essa, significa vivere nella fiducia. Ascoltare è una parola che nella Bibbia significa fidarsi poiché due sono gli atteggiamenti tra cui oscilla continuamente la nostra esistenza: la fiducia in Dio, l’abbandono sereno alla sua volontà perché si sa, per esperienza, che la sua volontà è solo bene; oppure la diffidenza, il sospetto sulle intenzioni divine e la ribellione davanti alle prove, una ribellione che può portarci a credere che Egli ci abbia abbandonati o, peggio, che possa trovare soddisfazione nelle nostre sofferenze. Tutti i profeti ripetono quest’invito: “Ascolta, Israele” o “ascoltate oggi la Parola di Dio”. Sulle loro labbra, l’esortazione “ascolta” è invito ad avere fiducia in Dio, qualunque cosa accada. A questo proposito san Paolo spiegherà che Dio fa concorrere tutto al bene di coloro che lo amano e si fidano di lui (cf Rm 8,28) perché da ogni male, difficoltà, prova sa trarre il bene; a ogni odio, oppone un amore ancora più forte; in ogni persecuzione, dona la forza del perdono; da ogni morte fa nascere la vita. Tutta la Bibbia è la narrazione della storia di una fiducia reciproca: Dio si fida del suo servo e gli affida una missione; in cambio Israele accetta la missione con fiducia. Ed è proprio questa fiducia che gli dà la forza necessaria per resistere a tutte le opposizioni che inevitabilmente incontrerà. In questo testo la missione consiste nel saper “indirizzare una parola allo sfiduciato” testimoniando la fedeltà del Signore che dona la forza necessaria e il linguaggio adeguato. Anzi è il Signore stesso a nutrire questa fiducia, sorgente di ogni audacia al servizio degli altri: ”Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro”.  Tutto allora diventa dono: la missione, la forza e la fiducia che rende incrollabili. Questa è la caratteristica del credente: riconoscere che tutto è dono di Dio. Quando poi fa fruttificare il dono permanente della forza del Signore, il credente è in grado di affrontare tutto, anche la persecuzione che mai è assente, e in verità ogni autentico profeta che parla a nome di Dio, raramente viene riconosciuto e apprezzato in vita.Isaia invita i suoi contemporanei a resistere: il Signore non vi ha abbandonati, anzi, vi ha affidato la sua missione e non meravigliatevi se siete maltrattati perché il Servo che ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica, diventa certamente scomodo e con la sua conversione provoca gli altri: alcuni ne ascoltano l’appello, altri lo respingono e, in nome delle loro buone ragioni, lo perseguitano. Ecco perché il Servo attinge vigore solamente da Colui che gli permette di affrontare tutto: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba …il Signore Dio mi assiste per questo non resto svergognato”. Isaia usa poi un’espressione comune in ebraico: “per questo rendo la mia faccia dura come pietra” che esprime determinazione e coraggio; non orgoglio o presunzione, bensì pura fiducia perché sa bene da dove viene la sua forza.  Gesù è ritratto perfetto del Servo di Dio nel cuore della persecuzione e anche nel momento in cui le acclamazioni della folla della Domenica delle Palme segnavano e acceleravano la sua condanna. San Luca riprende esattamente questa espressione quando scrive «Gesù indurì il suo volto per andare a Gerusalemme» (Lc 9,51), che nelle nostre traduzioni diventa: «Gesù prese risolutamente la strada per Gerusalemme».

 

*Salmo responsoriale dal Salmo 21(22) (2, 8-9,17-20,22b-24)

Il Salmo 21/22 riserva alcune sorprese, a partire dall’incipit: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, molto citato che, estrapolato dal contesto, viene interpretato in modo sbagliato. Per capirne il vero significato va letto per intero il salmo composto di trentadue versetti che si chiude con un rendimento di grazie: “Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea”. Chi nel primo versetto grida “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” ringrazia alla fine Dio per la salvezza ricevuta. Non solo non è morto, ma rende grazie proprio perché Dio non lo ha abbandonato. A prima vista, questo salmo sembra scritto per Gesù: “Hanno scavato le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa” allusione chiara alla crocifissione vissuta sotto gli occhi crudeli dei carnefici e della folla: “Un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori… si fanno beffe di me quelli che mi vedono … si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte”. In realtà, non è stato scritto per Gesù Cristo, ma composto per gli esuli tornati da Babilonia, e si paragona la loro liberazione alla risurrezione di un condannato a morte, dato che l’esilio fu vera e propria condanna a morte per Israele che corse il rischio di essere cancellato dalla storia. Ora viene qui paragonato a un condannato che ha rischiato di morire sulla croce, supplizio all’epoca assai comune: ha subito oltraggi, umiliazioni, i chiodi, l’abbandono nelle mani dei carnefici ma miracolosamente ne esce illeso. In altre parole: tornato dall’esilio Israele si abbandona alla gioia che proclama a tutti gridando più forte di quando pianse nella sua angoscia. Il riferimento alla crocifissione non è dunque il centro del salmo, ma serve a mettere in risalto il rendimento di grazie di Israele, che nel pieno della sua angoscia, mai ha smesso di invocare aiuto e mai ha dubitato nemmeno  un istante. Il grande grido “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” è di sicuro un grido di angoscia davanti al silenzio di Dio, ma non è un grido di disperazione, né tantomeno esprime dubbi; è piuttosto la preghiera di chi soffre e osa gridare il suo dolore. Quanta luce questo salmo fa scendere sulla nostra preghiera nei momenti di sofferenza di qualunque genere: abbiamo il diritto di gridare e la Bibbia ci incoraggia a farlo. Tornato dall’esilio Israele ricorda il dolore passato, l’angoscia, il silenzio apparente di Dio quando si sentiva abbandonato nelle mani dei suoi nemici, eppure ha continuato a pregare. La preghiera è la prova evidente della sua costante fiducia; continuava a ricordare l’Alleanza e i benefici ricevuti da Dio. Questo salmo somiglia nel suo insieme a un “ex voto” come quando si corre un serio pericolo, si prega e si fa un voto e, a grazia ottenuta, si mantiene la promessa portando l’ex voto in una chiesa o in un santuario.  Il salmo 21/22 descrive l’orrore dell’esilio, l’angoscia d’Israele e di Gerusalemme assediata da Nabucodonosor, il senso di impotenza di fronte all’odio degli uomini che suscita un’ardente  supplica: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”? e infine la riconoscenza a Dio per la propria salvezza: “Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea. Lodate il Signore voi suoi fedeli”.  Nella domenica delle Palme non ci sono gli ultimi versetti che però sentiamo spesso nella liturgia: “I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano; il vostro cuore viva per sempre! Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli…Annunceranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: Ecco l’opera del Signore”.

 

*Seconda Lettura dalla seconda lettera di san Paolo ai Filippesi (2,6-11)

Questo testo è spesso definito l’Inno della Lettera ai Filippesi, perché si ha l’impressione che Paolo non lo abbia scritto di suo pugno, ma abbia citato un inno in uso nella liturgia. Anzitutto da notare l’insistenza sul tema del Servo: “svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo”: i primi cristiani, di fronte allo scandalo della croce, hanno meditato spesso sui Canti del Servo contenuti nel libro di Isaia, perché offrivano spunti di riflessione per comprendere il mistero della persona di Cristo. “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio non ritenne un privilegio l’essere come Dio”. Si è tentati di leggere: benché fosse di condizione divina, anche se in realtà, è il contrario e bisogna dunque leggere: “proprio perché era nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio”. Uno dei pericoli di questo testo è la tentazione di leggerlo in termini di ricompensa, come se il ragionamento fosse: Gesù si è comportato in modo ammirevole e quindi ha ricevuto una ricompensa straordinaria. La grazia, come suggerisce il suo stesso nome, è gratuita, noi però siamo sempre tentati di parlare di meriti. La meraviglia dell’amore di Dio è che Egli non attende i nostri meriti per colmarci; è questa la scoperta che gli uomini della Bibbia hanno fatto grazie alla Rivelazione. Quindi, per essere fedeli al testo, dobbiamo leggerlo in termini di gratuità. Rischiamo di fraintenderlo se dimentichiamo che tutto è dono di Dio, tutto è grazia, come ripeteva Teresa del Bambino Gesù. Il dono gratuito di Dio è per san Paolo una verità evidente, una convinzione che permea tutte le sue lettere, talmente ovvia che non sente neppure il bisogno di ribadirla esplicitamente per cui possiamo riassumere il suo pensiero così: il progetto di Dio, il disegno della sua misericordia è farci entrare nella sua intimità, nella sua gioia e nel suo amore, un progetto assolutamente gratuito. Non c’è nulla di sorprendente in questo, poiché si tratta di un progetto d’amore, un dono da accogliere: è la partecipazione alla vita divina, anzi con Dio, tutto è dono. Ci si esclude da questo dono quando si assume un atteggiamento di pretesa, se ci si comporta come i progenitori nel giardino dell’Eden che si appropriano del frutto proibito. Gesù, al contrario, non ha fatto altro – “facendosi obbediente” - che accogliere il dono di Dio senza pretenderlo. “Pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio” ed è proprio perché è di condizione divina che non rivendica nulla. Lui sa cosa sia l’amore gratuito, sa che non è giusto pretendere, non considera un bene reclamare il diritto di essere come Dio. E’ la stessa situazione dell’episodio delle tentazioni (vedi il vangelo della prima domenica di Quaresima): satana propone a Gesù solo cose che fanno parte del piano di Dio, ma Gesù rifiuta di appropriarsene con le proprie forze. perché vuole affidarsi al Padre affinché sia Lui a donargliele. Il tentatore lo provoca: “Se sei Figlio di Dio, puoi permetterti tutto, tuo Padre non può rifiutarti nulla: trasforma le pietre in pane quando hai fame… gettati giù dal tempio, ti proteggerà… adorami, e ti darò il dominio su tutto il mondo”. Gesù però aspetta tutto solo da Dio: ha  ricevuto il Nome che è al di sopra di ogni altro nome, il Nome di Dio. Dire infatti che Gesù è il Signore significa affermare che è Dio. Nell’Antico Testamento, il titolo di “Signore” era riservato a Dio e pure la genuflessione “ perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi». Ecco un’allusione a un passo del profeta Isaia: «Davanti a me si piegherà ogni ginocchio, si pieghi…ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore!” presterà giuramento» (Is 45,23). Gesù ha vissuto nell’umiltà e nella fiducia; fiducia che san Paolo chiama  obbedienza. Obbedire, in latino «ob-audire», significa letteralmente porgere l’orecchio (audire) davanti (ob) alla parola: è l’atteggiamento di un dialogo perfetto, senza ombre, è fiducia totale.  L’inno si conclude così: “Ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”. La gloria è la rivelazione dell’amore infinito fatto persona. In altre parole anche noi, come il centurione, vedendo Cristo amarci sommamente accettando di morire per rivelarci fino a che punto arriva l’amore di Dio, proclamiamo,: «Sì, davvero, costui era Figlio di Dio»… perché Dio è amore.

 

* Vangelo. Passione di Gesù Cristo secondo san Luca (22,14 – 23.56)

Ogni anno, per la Domenica delle Palme, torna il racconto della Passione in uno dei tre vangeli sinottici; quest’anno, è quello di Luca e mi limito a commentare gli episodi propri di questo vangelo. Se è vero che i quattro racconti della Passione sono simili, quando però si osservano da vicino, ci si rende conto che ogni evangelista ha accenti particolari, e questo perché sono tutti testimoni di uno stesso evento e raccontano i fatti ciascuno dal loro punto di vista e la Passione di Cristo risulta raccontata in quattro modi diversi: non scelgono tutti gli stessi episodi e le stesse frasi. Ecco dunque gli episodi e le parole che troviamo solo in san Luca. 1.Dopo l’ultima cena, prima di recarsi al Getsemani, Gesù aveva preannunciato a Pietro il suo triplice rinnegamento. In verità lo narrano tutti i vangeli, ma solamente Luca riporta questa frase di Gesù: “Simone, Simone, ecco: satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli” quando sarai tornato, conferma i tuoi fratelli» (22,32). Una delicatezza di Gesù, che aiuterà Pietro dopo il suo tradimento a rialzarsi invece di disperare. Sempre solo Luca nota lo sguardo che Gesù posa su Pietro dopo il suo rinnegamento: per tre volte consecutive, Pietro afferma di non conoscerlo nella casa del sommo sacerdote. Subito dopo Gesù, voltandosi, fissò lo sguardo su Pietro e qui sentiamo l’eco della prima lettura dove Isaia scrive: “Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato”. Questo vuole fare Gesù con Pietro, confortarlo in anticipo perché quando lo rinnegherà non cada nella disperazione. Altro episodio proprio di questo vangelo è Gesù davanti a Erode Antipa. Alla nascita di Gesù, su tutto il territorio regnava sotto l’autorità di Roma, Erode il Grande, ma alla sua morte (nel 4 a.C.), il territorio fu diviso in più province e, al momento della morte di Gesù (nell’anno 30 d.C.), la Giudea, ossia la provincia di Gerusalemme, era governata da un procuratore romano, mentre la Galilea era sotto l’autorità di un re riconosciuto da Roma, che era un figlio di Erode il Grande: il suo nome Erode Antipa, che da tempo desiderava incontrare Gesù e sperava di vederlo compiere un miracolo. Ora gli pone molte domande, ma Gesù tace. Erode lo insulta e lo schernisce facendolo rivestire con un manto splendente e lo rimanda a Pilato rinsaldando quel giorno l’amicizia tra Erode e Pilato. 

2.Ci sono poi tre frasi che troviamo solo nel racconto della Passione di Luca. Due parole di Gesù e, se Luca le annota, è perché rivelano ciò che per lui è importante: la prima è la sua preghiera mentre i soldati romani lo stanno crocifiggendo: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno». Ma cosa stanno facendo? Hanno espulso dalla Città Santa il Santo per eccellenza; hanno cacciato il loro Dio, mettendo a morte il Maestro della vita; il Sinedrio, il tribunale di Gerusalemme, in nome di Dio ha condannato Dio. E cosa fa invece Gesù? Perdona i nemici suoi fratelli mostrando fino a che punto si spinge l’amore di Dio. Chi ha visto me ha visto il Padre, aveva detto Gesù, il giorno prima. La seconda frase: “Oggi con me sarai nel Paradiso”. Tutti lo attaccano e per tre volte risuona una stessa provocazione: Se tu sei il Messia, lo scherniscono i capi… Se tu sei il re dei Giudei, si prendono gioco di lui i soldati romani… Se tu sei il Messia, lo insulta uno dei due malfattori crocifissi con lui. L’altro crocifisso con lui comincia a dire la verità: noi meritiamo questo castigo ma non Gesù e si rivolge a Gesù: “ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno”. Riconosce Gesù come il Salvatore, lo invoca con una preghiera umile e di fiduciosa: sembra aver capito tutto. Infine solo Luca riporta quest’ultima frase: “Già brillavano le luci del sabato” (23,54) conclude così il racconto della Passione con un’insistente evocazione del sabato. Parla delle donne che avevano seguito Gesù fin dalla Galilea e ora vanno al sepolcro per osservare come era stato sepolto recando aromi e profumi per i riti della sepoltura. Già brillavano le luci del sabato: tutto si chiude con una nota di luce e di pace: il sabato è prefigurazione del mondo a venire, giorno in cui Dio si era riposato da tutta l’opera della creazione (cf Genesi); giorno in cui, per fedeltà all’Alleanza, si scrutavano le Scritture nell’attesa della nuova creazione. Luca ci fa capire che nel travaglio della Passione di Cristo è nata la nuova umanità che è l’inizio del regno della grazia. Il crocifisso risorto indica la via da seguire: la via dell’amore e del perdono a qualsiasi costo.

+Giovanni D’Ercole

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Praying, celebrating, imitating Jesus: these are the three "doors" - to be opened to find «the way, to go to truth and to life» (Pope Francis)
Pregare, celebrare, imitare Gesù: sono le tre “porte” — da aprire per trovare «la via, per andare alla verità e alla vita» (Papa Francesco)
In recounting the "sign" of bread, the Evangelist emphasizes that Christ, before distributing the food, blessed it with a prayer of thanksgiving (cf. v. 11). The Greek term used is eucharistein and it refers directly to the Last Supper, though, in fact, John refers here not to the institution of the Eucharist but to the washing of the feet. The Eucharist is mentioned here in anticipation of the great symbol of the Bread of Life [Pope Benedict]
Narrando il “segno” dei pani, l’Evangelista sottolinea che Cristo, prima di distribuirli, li benedisse con una preghiera di ringraziamento (cfr v. 11). Il verbo è eucharistein, e rimanda direttamente al racconto dell’Ultima Cena, nel quale, in effetti, Giovanni non riferisce l’istituzione dell’Eucaristia, bensì la lavanda dei piedi. L’Eucaristia è qui come anticipata nel grande segno del pane della vita [Papa Benedetto]
Work is part of God’s loving plan, we are called to cultivate and care for all the goods of creation and in this way share in the work of creation! Work is fundamental to the dignity of a person. Work, to use a metaphor, “anoints” us with dignity, fills us with dignity, makes us similar to God, who has worked and still works, who always acts (cf. Jn 5:17); it gives one the ability to maintain oneself, one’s family, to contribute to the growth of one’s own nation [Pope Francis]
Il lavoro fa parte del piano di amore di Dio; noi siamo chiamati a coltivare e custodire tutti i beni della creazione e in questo modo partecipiamo all’opera della creazione! Il lavoro è un elemento fondamentale per la dignità di una persona. Il lavoro, per usare un’immagine, ci “unge” di dignità, ci riempie di dignità; ci rende simili a Dio, che ha lavorato e lavora, agisce sempre (cfr Gv 5,17); dà la capacità di mantenere se stessi, la propria famiglia, di contribuire alla crescita della propria Nazione [Papa Francesco]
God loves the world and will love it to the end. The Heart of the Son of God pierced on the Cross and opened is a profound and definitive witness to God’s love. Saint Bonaventure writes: “It was a divine decree that permitted one of the soldiers to open his sacred wide with a lance… The blood and water which poured out at that moment was the price of our salvation” (John Paul II)
Il mondo è amato da Dio e sarà amato fino alla fine. Il Cuore del Figlio di Dio trafitto sulla croce e aperto, testimonia in modo profondo e definitivo l’amore di Dio. Scriverà San Bonaventura: “Per divina disposizione è stato permesso che un soldato trafiggesse e aprisse quel sacro costato. Ne uscì sangue ed acqua, prezzo della nostra salvezza” (Giovanni Paolo II))
[Nicodemus] felt the fascination of this Rabbi, so different from the others, but could not manage to rid himself of the conditioning of his environment that was hostile to Jesus, and stood irresolute on the threshold of faith (Pope Benedict)
[Nicodemo] avverte il fascino di questo Rabbì così diverso dagli altri, ma non riesce a sottrarsi ai condizionamenti dell’ambiente contrario a Gesù e resta titubante sulla soglia della fede (Papa Benedetto)
Those wounds that, in the beginning were an obstacle for Thomas’s faith, being a sign of Jesus’ apparent failure, those same wounds have become in his encounter with the Risen One, signs of a victorious love. These wounds that Christ has received for love of us help us to understand who God is and to repeat: “My Lord and my God!” (Pope Benedict)

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