Celebriamo la festa del Sacro Cuore di Gesù e gettiamo con la liturgia, per così dire, uno sguardo dentro il cuore di Gesù, che nella morte fu aperto dalla lancia del soldato romano. Sì, il suo cuore è aperto per noi e davanti a noi – e con ciò ci è aperto il cuore di Dio stesso. La liturgia interpreta per noi il linguaggio del cuore di Gesù, che parla soprattutto di Dio quale pastore degli uomini, e in questo modo ci manifesta il sacerdozio di Gesù, che è radicato nell’intimo del suo cuore; così ci indica il perenne fondamento, come pure il valido criterio, di ogni ministero sacerdotale, che deve sempre essere ancorato al cuore di Gesù ed essere vissuto a partire da esso. Vorrei oggi meditare soprattutto sui testi con i quali la Chiesa orante risponde alla Parola di Dio presentata nelle letture. In quei canti parola e risposta si compenetrano. Da una parte, essi stessi sono tratti dalla Parola di Dio, ma, dall’altra, sono al contempo già la risposta dell’uomo a tale Parola, risposta in cui la Parola stessa si comunica ed entra nella nostra vita. Il più importante di quei testi nell’odierna liturgia è il Salmo 23 (22) – “Il Signore è il mio pastore” –, nel quale l’Israele orante ha accolto l’autorivelazione di Dio come pastore, e ne ha fatto l’orientamento per la propria vita. “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla”: in questo primo versetto si esprimono gioia e gratitudine per il fatto che Dio è presente e si occupa di noi. La lettura tratta dal Libro di Ezechiele comincia con lo stesso tema: “Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura” (Ez 34,11). Dio si prende personalmente cura di me, di noi, dell’umanità. Non sono lasciato solo, smarrito nell’universo ed in una società davanti a cui si rimane sempre più disorientati. Egli si prende cura di me. Non è un Dio lontano, per il quale la mia vita conterebbe troppo poco. Le religioni del mondo, per quanto possiamo vedere, hanno sempre saputo che, in ultima analisi, c’è un Dio solo. Ma tale Dio era lontano. Apparentemente Egli abbandonava il mondo ad altre potenze e forze, ad altre divinità. Con queste bisognava trovare un accordo. Il Dio unico era buono, ma tuttavia lontano. Non costituiva un pericolo, ma neppure offriva un aiuto. Così non era necessario occuparsi di Lui. Egli non dominava. Stranamente, questo pensiero è riemerso nell’Illuminismo. Si comprendeva ancora che il mondo presuppone un Creatore. Questo Dio, però, aveva costruito il mondo e poi si era evidentemente ritirato da esso. Ora il mondo aveva un suo insieme di leggi secondo cui si sviluppava e in cui Dio non interveniva, non poteva intervenire. Dio era solo un’origine remota. Molti forse non desideravano neppure che Dio si prendesse cura di loro. Non volevano essere disturbati da Dio. Ma laddove la premura e l’amore di Dio vengono percepiti come disturbo, lì l’essere umano è stravolto. È bello e consolante sapere che c’è una persona che mi vuol bene e si prende cura di me. Ma è molto più decisivo che esista quel Dio che mi conosce, mi ama e si preoccupa di me. “Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” (Gv 10,14), dice la Chiesa prima del Vangelo con una parola del Signore. Dio mi conosce, si preoccupa di me. Questo pensiero dovrebbe renderci veramente gioiosi. Lasciamo che esso penetri profondamente nel nostro intimo.
[Papa Benedetto, omelia 11 giugno 2010]