don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Martedì, 28 Ottobre 2025 11:21

Ognissanti e Tutti i Fedeli Defunti

Solennità di Tutti i Santi [1° Novembre 2025]

 

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. La solennità di Tutti i Santi è occasione importante per riflettere sulla nostra vocazione cristiana: con il Battesimo siamo tutti chiamati ad essere “beati “, cioè in cammino verso la gioia dell’Amore eterno.

Prima Lettura dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni Apostolo (7, 2 - 4. 9 – 14)

Giovanni, nell’Apocalisse, racconta una visione mistica ricevuta a Patmos, non da interpretare letteralmente ma simbolicamente. Egli vede un angelo e una folla immensa, composta da due gruppi distinti: I 144.000 battezzati, segnati dal sigillo del Dio vivente, rappresentano i credenti fedeli, contemporanei di Giovanni, perseguitati dall’imperatore Domiziano. Essi sono i servitori di Dio, protetti e consacrati, il popolo dei battezzati che testimonia la fede nonostante la persecuzione. La folla innumerevole, di tutte le nazioni, tribù, popoli e lingue, vestita di bianco, con palme in mano e in piedi davanti al Trono e all’Agnello, rappresenta l’umanità salvata grazie alla fede e alle sofferenze dei battezzati. La posizione eretta simboleggia la risurrezione, la tunica bianca la purificazione, e le palme la vittoria. Il messaggio centrale è che la sofferenza dei fedeli produce la salvezza degli altri: la prova dei perseguitati diventa mezzo di redenzione per l’umanità, in continuità con il tema del servo sofferente di Isaia e di Zaccaria. Giovanni utilizza un linguaggio simbolico e cifrato, tipico delle Apocalissi, per comunicare segretamente ai credenti perseguitati e incoraggiarli nel perseverare nella fede senza essere scoperto dalle autorità romane. Il testo vuole idunque invitare alla perseveranza: anche se il male sembra trionfare, il Padre celeste con il Cristo hanno già vinto e i fedeli, pur piccoli e oppressi, partecipano a questa vittoria. Il battesimo viene percepito così come un sigillo protettivo, paragonabile al marchio dei soldati romani. Questo testo, con il suo linguaggio mistico e profetico, rivela che la vittoria dei poveri e dei piccoli non è vendetta, ma manifestazione del trionfo di Dio sulle forze del male, portando salvezza e speranza all’umanità intera, grazie alla perseveranza fedele dei giusti.

Salmo Responsoriale (23/24)

Questo salmo ci conduce nel Tempio di Gerusalemme, luogo santo costruito in alto. Una gigantesca processione arriva alle porte del Tempio. Due cori alternati cantano in dialogo: “Chi potrà salire il monte del Signore? Chi potrà stare nel suo luogo santo?” I riferimenti biblici di questo salmo sono Isaia (cap.33) che paragona Dio a un fuoco divorante, chiedendo chi può reggere la sua vista. La domanda è retorica: da soli non possiamo sostenere Dio, ma Lui si fa vicino all’uomo e il salmo celebra la scoperta del popolo eletto: Dio è Santo e trascendente, ma anche sempre vicino all’uomo. Oggi questo salmo risuona nella festa di Ognissanti con il canto degli angeli che ci invita a unirci in questa sinfonia di lode verso Dio: “con tutti gli angeli del cielo, vogliamo cantarti”. La condizione necessaria per stare davanti a Dio è qui ben espressa: può soltanto l’uomo dal cuore puro, dalle mani innocenti, che non offre la sua anima agli idoli. Non è una questione di meriti morali: il popolo è ammesso quando ha fede, cioè fiducia totale nel Dio unico e rifiuta decisamente ogni forma di dolatria. Letteralmente, “non ha elevato la sua anima verso dei vuoti “ cioè non prega idoli mentre alzare gli occhi corrisponde a pregare e riconoscere Dio. Il salmo insiste sul cuore puro e le mani innocenti. Il cuore è puro quando è totalmente rivolto a Dio, senza impurità cioè senza mescolare il vero e il falso, Dio e gli idoli.  Le mani isono nnocenti quando non hanno offerto sacrifici o pregato falsi dèi. Il parallelismo tra cuore e mani sottolinea che purezza interiore e azione fisica concreta devono andare insieme. Il salmo richiama la lotta dei profeti perché Israele ha dovuto combattere l’idolatria dalla uscita dall’Egitto (vitello d’oro) fino all’Esilio e oltre e il salmo riafferma la fedeltà al Dio unico come condizione per stare davanti a Lui. “Ecco la generazione che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe”. Ricercare la faccia di Dio è un’espressione usata per cortigiani ammessi alla presenza del re e indica che Dio è l’unico vero Re e la fedeltà a Lui permette di ricevere la benedizione promessa ai patriarchi. Da qui scaturiscono le conseguenze concrete della fedeltà: l’uomo dal cuore puro non conosce odio; l’uomo dalle mani innocenti non compie il male, anzi ottiene da Dio la giustizia vivendo in conformità al progetto divino perché ogni vita ha una missione e ogni vero figlio di Dio ha un impatto positivo nella società. Evidente in questo salmo è anche il collegamento alle Beatitudini del vangelo: “Beati gli affamati e assetati di giustizia… Beati i cuori puri, essi vedranno Dio”.  “Ecco la generazione che lo cerca, che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe”: non è questa una semplice definizione di povertà di cuore, condizione fondamentale per entrare nel Regno dei cieli?

Seconda Lettura dalla prima lettera di san Giovanni apostolo (3, 1 – 3)

 “Carissimi vedete quale grande amore ci ha dato il Padre”: l’urgenza di aprire gli occhi.  San Giovanni invita i credenti a “vedere”, cioè a contemplare con gli occhi del cuore. perché lo sguardo del cuore è la chiave della fede. Anzi l’intera storia umana è un’educazione dello sguardo. Il dramma dell’uomo, secondo i profeti, è proprio “avere occhi e non vedere”. Ciò che occorre imparare a guardare è l’amore di Dio e “il suo disegno di salvezza” (cf. Ef. 1,3-10) per l’umanità. La Bibbia intera insiste su questo: saper guardare bene è riconoscere il volto del Dio, mentre uno sguardo distorto conduce alla menzogna. L’esempio di Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden mostra come il peccato nasca da uno sguardo falsato. L’umanità, ascoltando il serpente, perde di vista l’albero della vita e concentra il suo sguardo sull’albero proibito: è l’inizio del disordine interiore. Lo sguardo diventa sedotto, ingannato, e quando “i loro occhi si aprirono”, gli uomini non videro la divinità promessa, ma la loro nudità, la loro povertà e fragilità. In opposizione a questo sguardo ingannato, Giovanni invita a guardare con il cuore nella verità: “Carissimi vedete quale grande amore ci ha dato il Padre”. Dio non è geloso dell’uomo — come aveva insinuato il serpente — ma lo ama e lo vuole figlio. Tutto il messaggio di Giovanni si riassume in questa rivelazione: “Dio è amore”. La vita vera consiste nel non dubitare mai di questo amore; conoscere Dio, come dice Gesù nel vangelo di Giovanni (17,3), è la vita eterna. Il progetto di Dio, rivelato da Giovanni e da Paolo, è un “disegno benevolo, disegno di salvezza”: fare dell’umanità in Cristo, il Figlio per eccellenza, di cui noi siamo le membra, un solo corpo. Per mezzo del Battesimo, siamo innestati in Cristo e siamo realmente figli di Dio, rivestiti di Lui. Lo Spirito Santo ci fa riconoscere Dio come Padre, mettendo nel nostro cuore la preghiera filiale: “Abbà, Padre!”. Tuttavia, il mondo non conosce ancora Dio, perché non ha aperto gli occhi. Solo chi crede può comprendere la verità dell’amore divino; per gli altri, essa appare incomprensibile o persino scandalosa. Tocca ai credenti testimoniare questo amore con la parola e con la vita, affinché i non credenti possano, a loro volta, aprire gli occhi e riconoscere Dio come Padre. Alla fine dei tempi, quando il Figlio di Dio apparirà, l’umanità sarà trasformata a sua immagine: l’uomo ritroverà lo sguardo puro che aveva perduto alle origini. Così risuona il desiderio di Cristo alla Samaritana (4,1-42): “Se tu conoscessi il dono di Dio!” un invito sempre attuale ad aprire gli occhi per riconoscere l’amore che salva.

Dal Vangelo secondo Matteo (5, 1-12a)

Gesù proclama: “Beati quelli che piangono, perché saranno consolati”: è il dono delle lacrime.. Questa beatitudine, apparentemente paradossale, non esalta il dolore ma lo trasforma in via di grazia e speranza. Gesù, che ha sempre cercato di guarire e consolare, non invita a compiacersi nella sofferenza, ma incoraggia a non scoraggiarsi nella prova e a restare fedeli nel pianto, perché chi soffre è già in cammino verso il Regno. Il termine “beati” nell’originale biblico non indica fortuna, ma una chiamata a perseverare: significa “in marcia”, “coraggio, tieni il passo, cammina”. Le lacrime, allora, non sono un male da subire, ma possono diventare luogo d’incontro con Dio. Vi sono lacrime benefiche, come quelle del pentimento di Pietro, dove si sperimenta la misericordia di Dio, o quelle che nascono dalla compassione per la sofferenza altrui, segno che il cuore di pietra sta diventando cuore di carne (Ez 36,26). Anche le lacrime versate davanti alla durezza del mondo partecipano alla compassione divina: esse annunciano che è giunto il tempo messianico, in cui la consolazione promessa diventa realtà. La prima beatitudine “Beati i poveri di cuore, perché di essi è il Regno dei cieli” racchiude tutte le altre e ne rivela il segreto. La povertà evangelica non è miseria materiale, ma apertura del cuore: i poveri (anawim) sono coloro che non si bastano a sé stessi, che non sono orgogliosi né autosufficienti, ma attendono tutto da Dio. Sono gli umili, i piccoli, coloro che hanno “il dorso curvo” davanti al Signore. Come nella parabola del fariseo e del pubblicano, solo chi riconosce la propria povertà può accogliere la salvezza. Il povero di spirito vive nella fiducia totale in Dio, riceve tutto come dono, e prega con semplicità: “Signore, abbi pietà”. Da questo atteggiamento interiore scaturiscono tutte le altre beatitudini: la misericordia, la mitezza, la pace, la sete di giustizia — tutte sono frutti dello Spirito, ricevuti e non conquistati. Essere poveri in spirito significa credere che solo Dio colma, e che le vere ricchezze non sono l’avere, il potere o il sapere, ma la presenza di Dio nel cuore umile. Per questo Gesù proclama una felicità futura e paradossale: “Beati i poveri”, cioè presto vi invidieranno, perché Dio riempirà il vostro vuoto delle sue ricchezze divine. Le beatitudini, dunque, non sono regole morali ma buone notizie: annunciano che lo sguardo di Dio è diverso da quello degli uomini. Dove il mondo vede fallimento — povertà, lacrime, persecuzione — Dio vede la materia prima del suo Regno. Gesù ci insegna a guardare noi stessi e gli altri con gli occhi di Dio, a scoprire la presenza del Regno là dove non l’avremmo mai sospettata. La vera felicità nasce perciò dallo sguardo purificato e dalla debolezza accolta, che diventano luogo della grazia. Chi piange, chi è povero di cuore, chi cerca la giustizia e la pace, sperimenta già ora la consolazione promessa: la gioia dei figli che sanno e si sentono amati dal Padre. Come ricorda Ezechiele, nel giorno del giudizio saranno riconosciuti coloro che hanno pianto sul male del mondo (Ez 9,4): le loro lacrime sono pertanto già il segno del Regno che viene.

+ Giovanni D’Ercole

 

Commemorazione di Tutti i Fedeli Defunti [2 Novembre 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Dopo aver contemplato la gloria del Cielo oggi commemoriamo il destino di luce che ci attende il giorno della nostra morte terrena 

1. La commemorazione di Tutti i Fedeli Defunti fu fissata al 2 novembre solo dall’inizio dell’XI secolo collegandola alla solennità di Tutti i Santi. Del resto la festività del 1° novembre non poteva non richiamare alla memoria anche i fedeli defunti, che la Chiesa ricorda nella sua preghiera ogni giorno. In ogni Messa si prega anzitutto «per tutti coloro che riposano in Cristo» (Preghiera eucaristica I), poi si estende la preghiera a «tutti i defunti, dei quali tu solo conosci la fede» (Preghiera eucaristica IV), a «tutti gli uomini che hanno lasciato questa vita» (Preghiera eucaristica II) e «dei quali tu solo conosci la rettitudine» (Preghiera eucaristica III). E a rendere questa commemorazione ancor più partecipata, oggi si possono celebrare tre sante messe con una vasta gamma di letture che qui mi limito a indicare: A. Prima Messa  Prima Lettura Giobbe 19,1.23-27°; Salmo 26/27; Seconda Lettura san Paolo ai Romani  5,5-11; Dal Vangelo secondo Giovanni 6,37—40; B. Seconda Messa: Prima Lettura  Is 25,6°-7-9; Salmo  24/25; Seconda Lettura  Rom.8,14-23; Dal Vangelo s  Matteo 25,31-46); C. Terza Messa: Prima Lettura Libro della Sapienza  3,1-9; Salmo 41/42 2 $2/43; Seconda Lettura  Apocalisse  21,1-5°.6b-7; Vangelo secondo Matteo 5,1-12°) .Visto il numero delle letture bibliche, invece di fornire un commento per ciascun brano biblico come ogni domenica, preferisco offrire una riflessione sul significato e il valore dell’odierna celebrazione che affonda le sue origini nella lunga storia della Chies cattolica.  Basta leggere le letture bibliche per cominciare a dubitare che il termine “morti” sia il più adatto per l’odierna Commemorazione. Infatti, è nella luce pasquale e nella misericordia del Signore che siamo invitati a meditare e a pregare in questo giorno per tutti coloro che ci hanno preceduti. Essi sono stati chiamati a già vivere nella luce della vita divina, e  anche noi, segnati dal sigillo della fede, un giorno li seguiremo. Scrive l’apostolo Paolo “Non vogliamo, fratelli, che siate nell’ignoranza riguardo a quelli che dormono nel Signore, per non essere tristi come coloro che non hanno speranza” (1Ts 4,13-14), I Santi, quando possibile, non sono ricordati nell’anniversario della loro nascita ma sono celebrati nel giorno della loro morte, che la tradizione cristiana chiama in latino “dies natalis”, cioè giorno della nascita al Regno. Per tutti i defunti, cristiani, musulmani, buddisti o di altre fedi, questo è il loro dies natalis come ripetiamo nella santa messa: “Ricordati di tutti gli uomini che hanno lasciato questo mondo e di cui conosci la rettitudine; accoglili nel tuo Regno, dove speriamo di essere colmati della tua gloria insieme per l’eternità” (Preghiera eucaristica III). La liturgia rifiuta di usare l’espressione popolare “giorno dei morti”, poiché questo giorno si apre sulla vita divina. La Chiesa lo chiama: Commemorazione di tutti i fedeli defunti. “Morto” o “defunto” non sono sinonimi: il termine defunto viene dal latino functus, che significa “colui che ha compiuto”, “colui che ha portato a termine”. Il defunto è dunque “colui che ha portato a compimento la vita” ricevuta da Dio. Questa festa liturgica è al tempo stesso giornata di memoria e di intercessione: si fa memoria dei defunti e si prega per essi. Alla luce della solennità di Tutti i Santi, questo giorno offre ai cristiani l’occasione di rinnovare e vivere la speranza della vita eterna, dono della risurrezione di Cristo. Per questo motivo, in occasione di queste celebrazioni, molte persone si recano nei cimiteri per onorare i propri cari defunti e ornare le loro tombe di fiori. Si pensa a tutti coloro che ci hanno lasciato, ma che non abbiamo dimenticato. Si prega per loro perché, secondo la fede cristiana, hanno bisogno di una purificazione per poter essere pienamente con Dio. La nostra preghiera può aiutarli in questo cammino di purificazione, in virtù di ciò che si chiama la “comunione dei santi”, comunione di vita che esiste tra noi e coloro che ci hanno preceduti: nel Cristo esiste un legame reale e una solidarietà tra i vivi e i defunti.

2. Un po’ di storia. Perché la festa di Tutti i Santi (istituita in Francia nell’835) conservasse il suo carattere proprio, e perché non diventasse una giornata dedicata ai morti, sant’Odilone, abate di Cluny, verso l’anno 1000, impose a tutti i suoi monasteri la commemorazione dei defunti mediante una messa solenne il 2 novembre. Questa giornata non fu chiamata “giornata di preghiera per i defunti”, ma “commemorazione dei defunti”. In quel tempo la dottrina del purgatorio non era ancora chiaramente formulata (lo sarà solo verso la fine del XII secolo): si trattava soprattutto di fare memoria dei defunti più che di pregare per loro. Nel XV secolo i Domenicani, in Spagna, introdussero l’uso di celebrare tre messe in questo giorno. Il papa Benedetto XV (+1922) estese poi a tutta la Chiesa la possibilità di celebrare tre messe il 2 novembre, invitando a pregare in particolare per le vittime della guerra. San Giovanni Paolo II in occasione del millenario dell’istituzione della Commemorazione dei fedeli defunti (13 settembre 1998) scrive: «Infatti, il giorno dopo la festa di Tutti i Santi, in cui la Chiesa celebra con gioia la comunione dei santi e la salvezza degli uomini, sant’Odilone volle esortare i suoi monaci a pregare in modo particolare per i defunti, contribuendo così misteriosamente al loro ingresso nella beatitudine. Dall’abbazia di Cluny, questa pratica si diffuse progressivamente, diventando una celebrazione solenne in suffragio dei defunti, che sant’Odilone chiamò Festa dei Morti, oggi universalmente osservata in tutta la Chiesa.» «Pregando per i defunti, la Chiesa contempla anzitutto il mistero della Risurrezione di Cristo, che attraverso la sua Croce ci dona la salvezza e la vita eterna. Con sant’Odilone possiamo ripetere: “La Croce è il mio rifugio, la Croce è la mia via e la mia vita… La Croce è la mia arma invincibile. Essa respinge ogni male e disperde le tenebre”. La Croce del Signore ci ricorda che ogni vita è abitata dalla luce pasquale: nessuna situazione è perduta, perché Cristo ha vinto la morte e ci apre il cammino verso la vera vita.» «La Redenzione si compie mediante il sacrificio di Cristo, attraverso il quale l’uomo è liberato dal peccato e riconciliato con Dio» (Tertio millennio adveniente, n. 7). «In attesa che la morte sia definitivamente vinta, alcuni uomini “continuano il loro pellegrinaggio sulla terra; altri, dopo aver terminato la loro vita, si purificano ancora; altri infine godono già della gloria del cielo e contemplano la Trinità nella piena luce” (Lumen Gentium, n. 49). Unita ai meriti dei santi, la nostra preghiera fraterna viene in aiuto a coloro che sono ancora in attesa della visione beatifica. L’intercessione per i defunti è un atto di carità fraterna, proprio dell’unica famiglia di Dio, mediante la quale “rispondiamo alla più profonda vocazione della Chiesa” (Lumen Gentium, n. 51), cioè “salvare anime che ameranno Dio per l’eternità” (santa Teresa di Lisieux, Preghiere, 6).» «Per le anime del purgatorio, l’attesa del gaudio eterno e dell’incontro con l’Amato è fonte di sofferenza, a causa della pena dovuta al peccato che le tiene lontane da Dio; ma hanno la certezza che, terminato il tempo della purificazione, incontreranno Colui che desiderano (Sal 42; 62).. A più riprese i vari pontefici della storia hanno esortato a pregare con fervore per i defunti, per i propri familiari e per tutti i fratelli e sorelle defunti, affinché ottengano la remissione delle pene dovute ai loro peccati e ascoltino la voce del Signore che li chiama.

3. Perché questo giorno è importante: Istituendo una messa per la commemorazione dei fedeli defunti, la Chiesa ci ricorda il posto che i defunti occupano nella vita familiare e sociale e riconosce la realtà dolorosa del lutto: l’assenza di una persona amata è una ferita costante. Questa celebrazione può essere vista anche come una risposta alla supplica del buon ladrone che, sulla croce, si rivolse a Gesù: «Ricordati di me». Nel ricordare i nostri defunti, rispondiamo simbolicamente a quella stessa supplica: “Ricordatevi di noi”. È un invito a non dimenticarli, a continuare a pregare per loro, mantenendo una memoria viva e operante, segno della nostra speranza nella vita eterna. Quella odierna è dunque Una giornata per tutti: non è solo per le famiglie in lutto, ma per tutti. Essa aiuta a sensibilizzare i fedeli sul mistero della morte e del lutto, ma anche sulla speranza e sulla promessa della vita eterna. Per i cristiani, la morte non è la fine, ma un passaggio. Attraverso la prova del lutto, comprendiamo che la nostra vita terrena non è eterna: i nostri defunti ci precedono sul cammino dell’eternità. Il 2 novembre diventa così anche un insegnamento sulle “ultime cose” (le realtà escatologiche), per prepararci a questo passaggio con serenità, senza paura né tristezza, perché è una tappa verso la vita eterna. La Chiesa non si sente mai dispensata dal pregare: intercede costantemente per la salvezza del mondo, affidando ogni anima alla misericordia e al giudizio di Dio, affinché Egli conceda il perdono e la pace del Regno. Sappiamo bene che “compiere la vita” ha senso solo nella fedeltà al Signore. La preghiera della Chiesa riconosce la nostra fragilità e prega perché nessuno dei suoi figli si perda. Così, il 2 novembre diventa un giorno di fede e di speranza, oltre la separazione che segna la fine della vita terrena — nella pace o nella sofferenza, nella solitudine o in famiglia, nel martirio o nella bontà delle cure amorevoli. La morte è l’ora dell’incontro e resta sempre un luogo di combattimento. La parola “agonia”, infatti, deriva dal greco e significa “lotta”. Per il cristiano, la morte è l’incontro con il Risorto, la speranza nella fede professata: Credo nella risurrezione dei morti e nella vita del mondo che verrà. Il credente entra nella morte con fede, rifiuta la disperazione e ripete con Gesù: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Per il cristiano, anche la morte più dura è passaggio in Gesù Risorto, esaltato dal Padre. Assai spesso la civiltà moderna occidentale tende a nascondere la morte: la teme, la traveste, la allontana. Persino nella preghiera, diciamo distrattamente: Adesso e nell’ora della nostra morte. Eppure ogni anno attraversiamo, senza saperlo, la data che sarà un giorno quella della nostra morte. Un tempo, la predicazione cristiana lo ricordava spesso, sebbene a volte con toni di molto accentuati. Oggi, invece, la paura della morte sembra voler spegnere la realtà del morire che fa parte di ogni vita sulla terra. L’odierna Commemorazione di Tutti i Fedeli Defunti è utile occasione per fermarsi a riflettere e soprattutto pregare rinnovando la nostra fedeltà al battesimo e alla nostra vocazione: Insieme invochiamo Maria, che, elevata in cielo, veglia sulla nostra vita e sulla nostra morte. Maria, icona della bontà di Dio e segno sicuro della nostra speranza, Tu hai speso la vita nell’amore e con la tua stessa assunzione al Cielo ci annunci che il Signore non è il Dio dei morti, ma dei viventi, sostienici nel nostro cammino quotidiano e fa’ che viviamo in modo da essere pronti in ogni momento a incontrare il Signore della Vita nell’ultimo istante del nostro pellegrinaggio terreno quando, avendo chiusi gli occhi alle realtà di questo mondo, si apriranno nella visione eterna di Dio.

+ Giovanni D’Ercole

Martedì, 28 Ottobre 2025 03:15

Tre impegni, poca adrenalina

E preoccuparsi del numero

(Lc 14,25-33)

 

Gesù è preoccupato di vedere attorno a sé «molte folle» (v.25).

Inusuale che una proposta di dono totale e rischio dell’intera vita - beni, relazioni, prestigio, speranze - possa trovare consenso oceanico.

In effetti non sono pochi coloro che non sanno «dove» va. Non a prendere il potere e parteciparlo agli amici - insieme al bottino.

Il Signore è preoccupato (v.25) e deve ricominciare a insegnare. Avere tanti ammiratori è cosa strana per Chi propone d’implicarsi e non cedere all’indifferenza.

Ancora oggi il Maestro interpella, e c’incalza, punge.

Per coloro che fanno la scelta dell’amore gratuito, la prima disposizione è l’integrazione degli affetti, persino “famigliari”. Non per farci rinunciare a vivere.

Le cerchie possono staccarci dalle esigenze sconfinate d’un rapporto tra persone che condividono grandi ideali oltre confine.

Sentimenti e legami vanno ricollocati; devono acquistare una luce nuova.

Nessuno è tanto eroe da riuscire a non pensare più a se stesso e i suoi, ma subentra una dimensione prospettica, nell’esperienza di un Padre che provvede a creare svolte più sapienti.

Tutte le logiche di buonsenso assumono un altro significato.

Persino l’attaccamento alla propria immagine e reputazione: «prendere, sollevare, portare il braccio della Croce» [v.27: senso del verbo greco].

Era il momento della massima solitudine e percezione di fallimento.

Chi è agitato per l’opinione-attorno si limita, non inizia percorsi, non s’affida alle proprie doti e neppure le scopre; non impara a prendere il passo di ciò che avviene, né sovverte ciò che va detestato.

Il contrasto coi poteri forti che chiedono la solita fedeltà a doppio taglio, è semplicemente da mettere in conto.

 

Terzo “impegno” (v.33): i beni in eccesso servono solo per costruire Relazione. Questa è la soglia della Felicità: rende simili a Dio.

Affare assurdo, ma fonte di gioia incondizionata, che ci porta assai più dell’emozione. Quindi bisogna aprire bene gli occhi.

Perché in missione non si vive di adrenalina, ma di convinzioni che riflettono la vita intima e la pienezza di essere.

Chi ci mette la faccia deve però prima incontrare e misurare se stesso molto molto a fondo, perché egli va come in guerra (vv.31-32).

Qui non si scherza: i gendarmi dei clan consolidati sono capaci di tutto, per continuare a darsi importanza e occupare posizioni.

Si paga di persona. Non si partecipa di un corteo trionfale: piuttosto, si viene respinti.

Ma la Fede sostiene: crede che il Signore non eserciti soprusi, né voglia attorno testimoni rassegnati.

Il suo Sogno valica il buonsenso - per farci trasalire d’un imprevisto ‘pondus’ che ritroviamo gratis in cuore.

D’ora in poi non si mercanteggia più: questa la nuova Torre (vv.28-30) da costruire.

 

 

[Mercoledì 31.a sett. T.O.  5 novembre 2025]

Martedì, 28 Ottobre 2025 03:11

Tre impegni, poca adrenalina

E preoccuparsi del numero

(Lc 14,25-33)

 

Nel suo commento al Tao Tê Ching (vii) il maestro Ho-shang Kung scrive: «Il santo è privo di interessi personali e non si cura di darsi importanza: perciò può realizzare il suo interesse».

Gesù è preoccupato di vedere attorno a sé «molte folle» [v.25 testo greco]: avere tanti ammiratori è cosa strana per Chi propone d’implicarsi e non cedere all’indifferenza.

Inusuale che una proposta di dono totale e rischio dell’intera vita (beni, relazioni, prestigio, speranze) possa trovare consenso oceanico.

Davvero insolito, forse grottesco, che tanta gente desideri giocarsi tutto, persino la salute, per un ideale che in genere non “vende” granché.

Chi fa scelte autentiche sa bene che sequela Christi non è partecipare a un corteo trionfale.

In effetti non sono pochi coloro che non sanno «dove» va…

Non a prendere il potere e parteciparlo - accanto al bottino - agli amici della sua cerchia!

Nella migliore delle ipotesi lo hanno frainteso, immaginando di riuscire a sacralizzare un’esperienza tranquilla e senza scossoni - con Lui sul comodino.

Ovvero, pittoresca e brillante in società - intimista dentro (con Lui nel cuoricino). Tutte cappe che attenuano le sporgenze di principio.

Gesù si accorge di chi lo segue per motivi indotti, quasi di festival entusiasti, o addirittura venali, opportunisti, e vuole solo spartirsi il malloppo del nuovo Re della Città santa. 

Comprende per quale motivo si ritrova attorno tanti assiepati. Non hanno colto che Dio è al di là della loro portata.

Ancora ai giorni nostri, le molte folle che partecipano agli appuntamenti della «Chiesa degli eventi» - direbbe Papa Francesco - meravigliano.

Per questo motivo, il Cristo invia e fa verifiche, interpella e continua a incitare lo sgretolamento di qualsiasi illusione riflessa, quietista, esterna, interessata o facilona - che però aggrega.

 

La prima disposizione d’animo che incalza e punge è l’integrazione degli affetti, persino “famigliari”. Non per farci rinunciare a vivere.

Essi possono staccarci dalle esigenze sconfinate d’un rapporto tra persone che condividono grandi ideali oltre confine.

L’intralcio di vecchi sentimenti e legami devono essere infatti ricollocati, acquistando una luce nuova.

Obbiettivo è l’autentica festa. Non l’utile e immediato; neppure le mortificazioni devote o l’astratto perfezionismo di chi insegue atti di forza concitati e artificiosi.

Nessuno è tanto eroe da riuscire a non pensare più a se stesso e i suoi, ma subentra una dimensione prospettica; nonché l’esperienza del Padre, che provvede a creare svolte più sapienti.

Tutte le logiche di buonsenso ed equilibrio vengono valorizzate, eppure assumono un altro significato. In vista di un Amore nel quale ogni altro bene acquista pieno valore.

 

Persino l’attaccamento alla propria immagine e reputazione: «prendere, sollevare e portare il braccio della Croce» [v.27 senso del verbo greco].

Era il momento della massima solitudine e percezione di fallimento, personale, religioso, sociale.

Chi è agitato per l’opinione-attorno si limita, non inizia percorsi, non s’affida alle proprie doti e neppure le scopre; non impara a prendere il passo di ciò che avviene, né sovverte ciò che va detestato.

Parafrasando l'enciclica Fratelli Tutti (n.187, «I sacrifici dell’amore») si potrebbe dire che proprio «a partire da lì, le vie che si aprono sono diverse da quelle d’un pragmatismo senz’anima».

 

Non basta accettare le normali contrarietà.

 

Non possono essere in sequela Christi coloro che permangono attaccati all’idolo delle aspettative tranquille, del look, delle folle inneggianti e dell’opinione (tonificante) altrui.

Bugie, ma in fondo preziose - a rovescio. Perché non è questo l’entusiasmo che cerchiamo.

Lo sperimentiamo dentro: la brama di prestigio non ascolta gli autentici bisogni, non reinventa il presente.

La soggezione al timore del disprezzo sociale [questa la proposta della Croce] non costruisce la sorte di svolta che ci appartiene; la perde.

Malgrado il concitato vociare delle apparenze esteriori, nel giudizio dei Vangeli i conformisti e qualunquisti non scorgono il Sacro autentico.

 

La Parola di Dio non dichiara Fede certa “quanto ci serve” o quel che si riesce a “vendere”.

La disciplina e il discernimento tradizionali - ma anche le grandi idee disincarnate del pensiero modaiolo - mai vorranno rendere importante ciò che caratterizza la donna e l’uomo reali.

Secondo le attuali sofisticazioni, eventualmente, prima costoro dovranno accontentarsi d’essere numeri, ricalcare la consuetudine, adeguarsi.

In tal guisa, a prima vista il testimone critico potrebbe sembrare sbagliato o non equiparato: bisognerebbe allinearsi - non siamo per una ecclesiologia di comunione?.

Ma lo chiede la stessa convivialità delle differenze, anche in una medesima Famiglia.

Ciò che vale è sintonia che recupera tutto l’essere umano, compresi i poli opposti.

Essi ci completano, e dovranno prima o poi scendere in campo; sebbene non corrispondano al tratto fondamentale di ogni carattere.

Lo vediamo: personaggi che per non sentirsi svalutati e poco apprezzati si riadattano a tutte le stagioni - ma solo per assestarsi.

Non valorizzano le loro stesse contraddizioni energetiche… con l’unico scopo di vivacchiare.

Pensano: quando la vita sembra essere più forte di noi, tanto vale pareggiarsi - senza mai tentare di oggettivare le proprie più intime aspirazioni, inedite, personali, sproporzionate.

 

L’appuntamento con l’Imprevisto non s’accontenta di cose ordinate, artificiose, o cerebrali e schematiche, le quali attenuano il potenziale di crescita.

Siamo costretti a rimettere in circolo forze, virtù, risorse, persino quelle più aguzze, eccentriche e imprevedibili - che neppure pensavamo di avere.

Il contrasto coi poteri forti che chiedono la solita fedeltà a doppio taglio, e l’avversione degl’inquilini dei castelli di cartapesta, è semplicemente da mettere in conto.

Il potere cerca utili idioti e portaborse servili, non Apostoli che amano le variegate espressioni della vita.

Apparteniamo a un altro pianeta: non c’interessa la carriera, la gestione e la considerazione, ma la Chiamata per Nome, che attiva capacità sconosciute - quelle che moltiplicano energie e rimettono in moto.

Non c’è strada alternativa migliore, per superare anche l’emergenza globale, che attanaglia la vita odierna e il mondo: ci sta chiedendo di rigenerare, non di tornare come prima.

 

Terzo “impegno” (v.33): i beni in eccesso servono solo per costruire Relazione. Questa è la soglia della Felicità: rende simili a Dio.

Affare assurdo, ma fonte di gioia incondizionata, che ci porta assai più dell’emozione. Quindi bisogna aprire bene gli occhi.

Perché in missione non si vive di adrenalina, ma di convinzioni che riflettono la vita intima e la pienezza di essere - condizione celeste.

Non sogneremo più di cambiare smartphone, né la riga o lo strappo dei pantaloni, e divertirci comunque: allargheremo spazi, inventeremo strade, pianteremo un germe di società alternativa.

Chi ci mette la faccia per rendere saggio e trasparente il mondo anche ecclesiastico, deve però prima incontrare e misurare se stesso molto molto a fondo, perché egli va come in guerra (vv.31-32).

Anche per questo bisogna imparare a mettere in gioco una mente tutta nuova e non limitarsi a pettinare ninnoli da salotto, come fossimo presi dallo squallore delle rincorse - invece che da Mete struggenti e sacre.

Qui non si scherza: i gendarmi e i diversi clan consolidatissimi a guardia del loro antico o à la page sono capaci di tutto il peggio che c’è, per continuare a darsi importanza e occupare posizioni che contano, e rendono.

Si paga di persona. Si viene respinti. Ma la Fede sostiene: crede che il Signore non eserciti soprusi, né voglia attorno seguaci rassegnati.

Il suo Sogno valica il buon senso - per farci trasalire d’un imprevisto pondus che ritroviamo gratis in cuore.

 

A commento del Tao xxvi, il maestro Wang Pi scrive: «Perdere il fondamento è perdere la persona».

E il maestro Ho-shang Kung aggiunge: «Se il sovrano è leggero e arrogante perde i suoi ministri, se chi governa la sua persona è leggero e licenzioso perde l’essenza».

 

Comodino, cuoricino, esteriorità e bottino sono aspettative puerili.

D’ora in poi non si mercanteggia più: questa la nuova Torre (vv.28-30) da costruire.

Martedì, 28 Ottobre 2025 03:05

Con tutti vuole essere chiaro

Nel brano evangelico, tratto da san Luca, Gesù stesso dichiara con franchezza tre condizioni necessarie per essere suoi discepoli: amare Lui più di ogni altra persona e più della stessa vita; portare la propria croce e andare dietro a Lui; rinunciare a tutti i propri averi. Gesù vede una grande folla che lo segue insieme ai suoi discepoli, e con tutti vuole essere chiaro: seguire Lui è impegnativo, non può dipendere da entusiasmi e opportunismi; dev’essere una decisione ponderata, presa dopo essersi domandati in coscienza: chi è Gesù per me? È veramente “il Signore”, occupa il primo posto, come il Sole intorno al quale ruotano tutti i pianeti? E la prima lettura, dal Libro della Sapienza, ci suggerisce indirettamente il motivo di questo primato assoluto di Gesù Cristo: in Lui trovano risposta le domande dell’uomo di ogni tempo che cerca la verità su Dio e su se stesso. Dio è al di là della nostra portata, e i suoi disegni sono imperscrutabili. Ma Egli stesso ha voluto rivelarsi, nella creazione e soprattutto nella storia della salvezza, finché in Cristo ha pienamente manifestato se stesso e la sua volontà. Pur rimanendo sempre vero che “Dio, nessuno lo ha mai visto” (Gv 1,18), ora noi conosciamo il suo “nome”, il suo “volto”, e anche il suo volere, perché ce li ha rivelati Gesù, che è la Sapienza di Dio fattasi uomo. “Così – scrive l’Autore sacro della prima Lettura – gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza” (Sap 9,18).

[Papa Benedetto, omelia a Carpineto Romano 5 settembre 2010]

3. "Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Lc 9, 23). Queste parole esprimono la radicalità di una scelta che non ammette indugi e ripensamenti. E' un'esigenza dura, che ha impressionato gli stessi discepoli e nel corso dei secoli ha trattenuto molti uomini e donne dal seguire Cristo. Ma proprio questa radicalità ha anche prodotto frutti mirabili di santità e di martirio, che confortano nel tempo il cammino della Chiesa. Oggi ancora questa parola suona scandalo e follia (cfr 1 Cor 1, 22‑25). Eppure è con essa che ci si deve confrontare, perché la via tracciata da Dio per il suo Figlio è la stessa che deve percorrere il discepolo, deciso a porsi alla sua sequela. Non ci sono due strade, ma una soltanto: quella percorsa dal Maestro. Al discepolo non è consentito di inventarne un'altra.

Gesù cammina davanti ai suoi e domanda a ciascuno di fare quanto Lui stesso ha fatto. Dice: io non sono venuto per essere servito, ma per servire; così chi vuol essere come me sia servo di tutti. Io sono venuto a voi come uno che non possiede nulla; così posso chiedere a voi di lasciare ogni tipo di ricchezza che vi impedisce di entrare nel Regno dei cieli. Io accetto la contraddizione, l'essere respin­to dalla maggioranza del mio popolo; posso chiedere anche a voi di accettare la contraddizione e la contestazione, da qualunque parte vengano.

In altre parole, Gesù domanda di scegliere coraggiosamente la sua stessa via; di sceglierla anzitutto "nel cuore", perché l'avere questa o quella situazione esterna non dipende da noi. Da noi dipende la volontà di essere, in quanto è possibile, obbedienti come Lui al Padre e pronti ad accettare fino in fondo il progetto che Egli ha per ciascuno.

4. "Rinneghi se stesso". Rinnegare se stessi significa rinunciare al proprio pro­getto, spesso limitato e meschino, per accogliere quello di Dio: ecco il cammino della conversione, indispensabile per l'esistenza cristiana, che ha portato l'apostolo Paolo ad affermare: "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20).

Gesù non chiede di rinunciare a vivere, ma di accogliere una novità e una pienezza di vita che solo Lui può dare. L'uomo ha radicata nel profondo del suo essere la tendenza a "pensare a se stesso", a mettere la propria persona al centro degli interessi e a porsi come misura di tutto. Chi va dietro a Cristo rifiuta, invece, questo ripiegamento su di sé e non valuta le cose in base al proprio tornaconto. Considera la vita vissuta in termini di dono e gratuità, non di conquista e di possesso. La vita vera, infatti, si esprime nel dono di sé, frutto della grazia di Cristo: un'esistenza libera, in comunione con Dio e con i fratelli (cfr Gaudium et spes, 24).

Se vivere alla sequela del Signore diventa il valore supremo, allora tutti gli altri valori ricevono da questo la loro giusta collocazione ed importanza. Chi punta unicamente sui beni terreni risulterà perdente, nonostante le apparenze di successo: la morte lo coglierà con un cumulo di cose, ma con una vita mancata (cfr Lc 12, 13‑21). La scelta è dunque tra essere e avere, tra una vita piena e un'esistenza vuota, tra la verità e la menzogna.

5. "Prenda la sua croce e mi segua". Come la croce può ridursi ad oggetto ornamentale, così "portare la croce" può diventare un modo di dire. Nell'insegnamento di Gesù quest'espressione non mette, però, in primo piano la mortificazione e la rinuncia. Non si riferisce primariamente al dovere di sopportare con pazienza le piccole o grandi tribolazioni quotidiane; né, ancor meno, intende essere un'esaltazione del dolore come mezzo per piacere a Dio. Il cristiano non ricerca la sofferenza per se stessa, ma l'amore. E la croce accolta diviene il segno dell'amore e del dono totale. Portarla dietro a Cristo vuol dire unirsi a Lui nell'offrire la prova massima dell'amore.

Non si può parlare di croce senza considerare l'amore di Dio per noi, il fatto che Dio ci vuole ricolmare dei suoi beni. Con l'invito *seguimi+ Gesù ripete ai suoi discepoli non solo: prendimi come modello, ma anche: condividi la mia vita e le mie scelte, spendi insieme con me la tua vita per amore di Dio e dei fratelli. Così Cristo apre davanti a noi la *via della vita+, che è purtroppo costantemente minacciata dalla "via della morte". Il peccato è questa via che separa l'uomo da Dio e dal prossimo, provocando divisione e minando dall'interno la società.

La "via della vita", che riprende e rinnova gli atteggiamenti di Gesù, diviene la via della fede e della conversione. La via della croce, appunto. E' la via che conduce ad affidarsi a Lui e al suo disegno salvifico, a credere che Lui è morto per manifestare l'amore di Dio per ogni uomo; è la via di salvezza in mezzo ad una società spesso frammentaria, confusa e contraddittoria; è la via della felicità di seguire Cristo fino in fondo, nelle circostanze spesso drammatiche del vivere quotidiano; è la via che non teme insuccessi, difficoltà, emarginazioni, solitudini, perché riempie il cuore dell'uomo della presenza di Gesù; è la via della pace, del dominio di sé, della gioia profonda del cuore.

6. Cari giovani, non vi sembri strano se, all'inizio del terzo millennio, il Papa vi indica ancora una volta la croce come cammino di vita e di autentica felicità. La Chiesa da sempre crede e confessa che solo nella croce di Cristo c'è salvezza.

Una diffusa cultura dell'effimero, che assegna valore a ciò che piace ed appare bello, vorrebbe far credere che per essere felici sia necessario rimuovere la croce. Viene presentato come ideale un successo facile, una carriera rapida, una sessualità disgiunta dal senso di responsabilità e, finalmente, un'esistenza centrata sulla propria affermazione, spesso senza rispetto per gli altri.

Aprite però bene gli occhi, cari giovani: questa non è la strada che fa vivere, ma il sentiero che sprofonda nella morte. Dice Gesù: "Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà". Gesù non ci illude: "Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?" (Lc 9, 24‑25). Con la verità delle sue parole, che suonano dure, ma riempiono il cuore di pace, Gesù ci svela il segreto della vita autentica (cfr Discorso ai giovani di Roma, 2 aprile 1998).

Non abbiate paura, dunque, di camminare sulla strada che il Signore per primo ha percorso. Con la vostra giovinezza, imprimete al terzo millennio che si apre il segno della speranza e dell'entusiasmo tipico della vostra età. Se lascerete operare in voi la grazia di Dio, se non verrete meno alla serietà del vostro impegno quotidiano, farete di questo nuovo secolo un tempo migliore per tutti.

Con voi cammina Maria, la Madre del Signore, la prima dei discepoli, rimasta fedele sotto la croce, da dove Cristo ci ha affidati a Lei come suoi figli. E vi accompagni anche la Benedizione Apostolica, che vi imparto di gran cuore.

Dal Vaticano, 14 Febbraio 2001

[Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la XVI GMG]

Martedì, 28 Ottobre 2025 02:52

Condizioni per essere discepoli

Nel Vangelo di oggi Gesù insiste sulle condizioni per essere suoi discepoli: non anteporre nulla all’amore per Lui, portare la propria croce e seguirlo. Molta gente infatti si avvicinava a Gesù, voleva entrare tra i suoi seguaci; e questo accadeva specialmente dopo qualche segno prodigioso, che lo accreditava come il Messia, il Re d’Israele. Ma Gesù non vuole illudere nessuno. Lui sa bene che cosa lo attende a Gerusalemme, qual è la via che il Padre gli chiede di percorrere: è la via della croce, del sacrificio di se stesso per il perdono dei nostri peccati. Seguire Gesù non significa partecipare a un corteo trionfale! Significa condividere il suo amore misericordioso, entrare nella sua grande opera di misericordia per ogni uomo e per tutti gli uomini. L’opera di Gesù è proprio un’opera di misericordia, di perdono, di amore! È tanto misericordioso Gesù! E questo perdono universale, questa misericordia, passa attraverso la croce. Gesù non vuole compiere questa opera da solo: vuole coinvolgere anche noi nella missione che il Padre gli ha affidato. Dopo la risurrezione dirà ai suoi discepoli: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi … A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati» (Gv 20,21.22). Il discepolo di Gesù rinuncia a tutti i beni perché ha trovato in Lui il Bene più grande, nel quale ogni altro bene riceve il suo pieno valore e significato: i legami familiari, le altre relazioni, il lavoro, i beni culturali ed economici e così via… Il cristiano si distacca da tutto e ritrova tutto nella logica del Vangelo, la logica dell’amore e del servizio.

Per spiegare questa esigenza, Gesù usa due parabole: quella della torre da costruire e quella del re che va alla guerra. Questa seconda parabola dice così: «Quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere la pace» (Lc 14,31-32). Qui Gesù non vuole affrontare il tema della guerra, è solo una parabola. Però, in questo momento in cui stiamo fortemente pregando per la pace, questa Parola del Signore ci tocca sul vivo, e in sostanza ci dice: c’è una guerra più profonda che dobbiamo combattere, tutti! È la decisione forte e coraggiosa di rinunciare al male e alle sue seduzioni e di scegliere il bene, pronti a pagare di persona: ecco il seguire Cristo, ecco il prendere la propria croce! Questa guerra profonda contro il male! A che serve fare guerre, tante guerre, se tu non sei capace di fare questa guerra profonda contro il male? Non serve a niente! Non va… Questo comporta, tra l’altro, questa guerra contro il male comporta dire no all’odio fratricida e alle menzogne di cui si serve; dire no alla violenza in tutte le sue forme; dire no alla proliferazione delle armi e al loro commercio illegale. Ce n’è tanto! Ce n’è tanto! E sempre rimane il dubbio: questa guerra di là, quest’altra di là - perché dappertutto ci sono guerre - è davvero una guerra per problemi o è una guerra commerciale per vendere queste armi nel commercio illegale? Questi sono i nemici da combattere, uniti e con coerenza, non seguendo altri interessi se non quelli della pace e del bene comune.

[Papa Francesco, Angelus 8 settembre 2013]

(Lc 14,15-24)

 

Gesù non paragona il Regno del Padre a un’assemblea solenne, bensì a una grande Cena!

La proposta di novità festante viene però rifiutata. Gli autosufficienti ed esperti hanno altri impegni e interessi.

L’invito a prendere parte alla Festa è stato inizialmente rivolto ai figli d’Israele, che ancora paragonavano i tempi messianici a un Banchetto, caratterizzato da gratitudine e fraternità [interna].

Nelle prime comunità le difficoltà ad allargare i criteri di comunione venivano appunto dai convertiti dal giudaismo, che per lunga pratica conservavano l’usanza di non condividere il cibo coi lontani; così lo spezzare del Pane eucaristico.

Nell’ambito delle loro usanze e delle norme sacrali attestate nella Torah (Dt 20,5-7) il comportamento di coloro che rifiutano l’invito della parabola del Banchetto (vv.18-20) era legittimo dal punto di vista del diritto riconosciuto - non dell’amicizia.

È per accentuare il senso del gesto che il padrone della festa ordina ai servitori di raccogliere proprio coloro che erano socialmente esclusi dalla religione antica, perché considerati impuri: i pagani, i traballanti. Aperti all’attesa.

Cristo continua a tracciare una linea divisoria tra chi propugna un ordine e ideali intoccabili sopra la realtà umana, e coloro che essendo in periferia sono sempre ben disposti a partecipare alla Festa.

Non sono i “tutti preoccupati del rito”, delle maniere, dell’apparire; ma della vita che spargono.

Questi ultimi non si lasciano condizionare da privilegi, loro cose, e leggi: danno senza tenere conti a partita doppia.

Accettano con prontezza naturale; si rallegrano della realtà e non della distinzione fra sacro e profano.

Non pensano di avere già la risposta, e non finiscono con l’esserne schiavi.

 

L’insegnamento di Gesù invita a non limitare gli affetti e non lasciarsi ingombrare il cuore da consuetudini, dalla mentalità particolare o corrente, da blocchi legalisti - o dalle ‘tante cose’.

Nell’assemblea dei figli non sono i ben provveduti [persone serie, piene d’impegni, che non hanno tempo da perdere, con troppi beni e inviti da gestire] ma la gente dappoco... che passa in primo piano. Malgrado le scarse attitudini.

Tutto ciò, perché caratteristica dei Piccoli e pitocchi è la disponibilità a valicare steccati: ciò che rende atti a cogliere la convocazione di Dio.

I lontani - benché alle strette - riempiono la casa del Padre.

‘In società’ il povero è uno dei tanti, ma l’invito [eucaristico] a Mensa gli trasmette il senso dei valori che non soffocano la vita di meschinità, e legami.

Anzi, l’indigente ha spesso una migliore comprensione delle cose divino-umane.

Questa sempre più cosciente rassomiglianza al Figlio di Dio si accentua nello stento dei ‘mezzi adeguati’: penuria che rende veri, che induce altri a riflettere - restando poco eclatanti, incapaci di “fare fulmini”.

 

La nostra solidarietà non è un fatto di simpatia, interessi comuni e spirito di corpo, bensì il risultato di una Chiamata estesa; di un’unica Vita potente che circola in tutti, rispettandone libertà e realtà - nonché le fasi di mutamento.

Parafrasando l'enciclica Fratelli Tutti [nn.13-15, passim] secondo il passo di Lc bisogna rimanere attenti a non impoverire la vita di Fede, trasformandola in un distaccato impegno alla «colonizzazione culturale».

Se così fosse, anche l’orizzonte universale-cattolico d’una convivialità delle differenze si dissolverebbe in un invito troppo normalizzato, assolutamente prevedibile; infine desertico.

Il rifiuto ingessato o interessato al Banchetto recherebbe con sé - come sotto i nostri occhi - l’«ulteriore disgregazione» del «pensiero critico», dell’azione «per la giustizia», dei suoi «percorsi d’integrazione».

Anche la società ecclesiale può infatti correre il rischio di «alterare le grandi parole», «rischiare d’impoverirsi»; quindi «ridursi alla prepotenza del più forte» e alle «ricette solo effimere di marketing, che trovano nella distruzione dell’altro la risorsa più efficace».

Ma il popolo di Dio non può vivere in un mondo parallelo, scollegato e doppio - come se l’unico Eterno adorato fosse un coacervo di astuzie, marketing e convenienza.

 

 

[Martedì 31.a sett. T.O.  4 Novembre 2025]

(Lc 14,15-24)

 

Gesù non paragona il Regno del Padre a un’assemblea solenne, bensì a una grande Cena!

La proposta di novità festante viene però rifiutata. Gli autosufficienti ed esperti hanno altri impegni e interessi…

Dopo la distruzione del Tempio, il governo delle sinagoghe fu assunto dai farisei, salvatisi dal disastro perché il loro tradizionalismo non aveva esplicite venature politico-nazionaliste.

Ritenevano infatti che l’attesa del Messia non aveva nulla a che fare con la lotta contro Roma; in questo sembravano in sintonia coi cristiani.

Ma di continuo esigevano nei seguaci il rigido compimento delle norme che identificavano la religione giudaica tradizionale.

Dopo l’anno 70 tale pretesa li condusse a una sempre più ossessiva condanna dei giudei convertiti al Signore Gesù - e a fine secolo alla cacciata dalle sinagoghe.

I leaders religiosi fondamentalisti finirono quindi per emarginare anche socialmente i fedeli al più giovane Messia, rei di trascurare le distinzioni fra costumanze d’Israele e quelle di altri popoli.

Nelle comunità di Lc la situazione era meno lacerante, ma ugualmente viva.

I convertiti alla fede in Cristo provenivano in buona parte dal paganesimo, che nonostante diversità di bagaglio culturale e ceto, vivevano qua e là [senza quelle tare ideologiche puriste] l’ideale della condivisione e della comunione anche dei beni.

L’invito a prendere parte alla Festa è stato inizialmente rivolto ai figli d’Israele, che ancora paragonavano i tempi messianici a un grande Banchetto, caratterizzato da gratitudine e fraternità (interna).

Ma le difficoltà ad allargare i criteri di comunione venivano appunto dai convertiti dal giudaismo, che per lunga pratica conservavano l’usanza di non condividere il cibo coi lontani; così lo spezzare del Pane eucaristico.

Nell’ambito delle loro usanze e delle norme sacrali attestate nella Torah (Dt 20,5-7) il comportamento di coloro che rifiutano l’invito della parabola del Banchetto (vv.18-20) era legittimo dal punto di vista del diritto riconosciuto - non dell’amicizia.

È per accentuare il senso del gesto che il padrone della festa ordina ai servitori di raccogliere proprio coloro che erano socialmente esclusi dalla religione antica, perché considerati impuri: i pagani. Aperti all’attesa.

Cristo continua a tracciare una linea divisoria tra chi propugna un ordine e ideali intoccabili sopra la realtà umana, e coloro che essendo in periferia sono sempre ben disposti a partecipare alla Festa.

Non sono i “tutti preoccupati del rito”, delle maniere, dell’apparire; ma della vita che spargono.

Questi ultimi non si lasciano condizionare da privilegi, loro cose, e leggi: danno senza tenere conti a partita doppia, accettano con prontezza naturale; si rallegrano della realtà e non della distinzione fra sacro e profano. Non pensano di avere già la risposta, e non finiscono con l’esserne schiavi.

L’insegnamento di Gesù invita a non limitare gli affetti e non lasciarsi ingombrare il cuore dalle consuetudini, dalla mentalità particolare o corrente, da blocchi legalisti - o dalle ‘tante cose’.

Nell’assemblea dei figli non sono i ben provveduti [persone serie, piene d’impegni, che non hanno tempo da perdere, con troppi beni e inviti da gestire] ma la gente dappoco... che passa in primo piano... malgrado le scarse attitudini.

Tutto ciò, perché caratteristica dei Piccoli e pitocchi è la disponibilità a valicare steccati: ciò che rende atti a cogliere la convocazione di Dio.

I lontani - benché alle strette - riempiono la casa del Padre.

In società il povero è uno dei tanti, ma l’invito a Mensa gli trasmette il senso dei valori che non soffocano la vita di meschinità, e legami; anzi, l’indigente ha spesso una migliore comprensione delle cose divino-umane.

Questa sempre più cosciente rassomiglianza al Figlio di Dio si accentua nello stento dei mezzi “adeguati”: penuria che rende veri, che induce altri a riflettere - restando poco eclatanti, incapaci di fare fulmini.

Tale consapevolezza intima, luminosa, trasfigurante, impallidisce e si spegne nel vortice dei legalismi, delle convenzioni culturali.

Sembra attenuarsi nel moltiplicare vertiginoso delle attività - esse che non riformano: ci rendono esterni e condizionati dai vantaggi della sicurezza mondano-sacrale, purtroppo monopolista.

Un banchetto obbligatorio non sarebbe un Banchetto... certamente non è una Festa, un Dono da curare - confuso con vantaggi o perfezioni [pessima interpretazione dei circoli osservanti cocciuti].

Per questo motivo molti preferiscono il loro purgatorio particolare al Cielo sulla terra che il Padre offre.

La nostra solidarietà non è un fatto di simpatia, interessi comuni e spirito di corpo, bensì il risultato di una Chiamata estesa, di un’unica Vita potente che circola in tutti, rispettandone libertà e realtà - nonché le fasi di mutamento.

Parafrasando l'enciclica Fratelli Tutti (nn.13-15, passim) secondo il passo di Lc bisogna rimanere attenti a non impoverire la vita di Fede, trasformandola in un distaccato impegno alla «colonizzazione culturale».

Se così fosse, anche l’orizzonte universale-cattolico d’una convivialità delle differenze si dissolverebbe in un invito troppo normalizzato, assolutamente prevedibile, infine desertico.

Il rifiuto ingessato o interessato al Banchetto recherebbe con sé - come sotto i nostri occhi - l’«ulteriore disgregazione» del «pensiero critico», dell’azione «per la giustizia», dei suoi «percorsi d’integrazione».

Anche la società ecclesiale può infatti correre il rischio di «alterare le grandi parole», «rischiare d’impoverirsi»; quindi «ridursi alla prepotenza del più forte» e alle «ricette solo effimere di marketing, che trovano nella distruzione dell’altro la risorsa più efficace».

Ma il popolo di Dio non può vivere in un mondo parallelo, scollegato e doppio - come se l’unico Eterno adorato fosse un coacervo di astuzie, marketing e convenienza.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa trasmette l’Eucaristia nella tua realtà ecclesiale o di gruppo? Che invito particolare e speciale comunica?

 

 

La Festa, la Veste

 

Tutti chiamati, ma con quale corredo? Senza artifizi

Mt 22,1-14 (1-21)

 

La «veste di nozze» (vv.11-12) è figura dell’essenziale - l’imprescindibile anche precario, senz’ammennicoli di ricercatezza.

«“Ognuno di voi, dunque, che nella Chiesa ha fede in Dio ha già preso parte al banchetto di nozze, ma non può dire di avere la veste nuziale se non custodisce la grazia della Carità” (Homilia 38,9: PL 76,1287). E questa veste è intessuta simbolicamente di due legni, uno in alto e l’altro in basso: l’amore di Dio e l’amore del prossimo (cfr ibid.,10: PL 76,1288)» (Gregorio Magno; Papa Benedetto, 9 ottobre 2011).

 

Il Regno di Dio annunciato da Gesù è diverso da quello immaginato dai rabbini, la cui dottrina poteva ammettere noncuranze personali e civili [es: venditori nel tempio, fico sterile, obiezione sull’autorità, vignaioli omicidi, così via: Mt 21].

Il Banchetto predicato dal Maestro non è un Giardino di Eden allestito per un futuro nell’aldilà, che intanto - sebbene a sprazzi - possa sopportare l’inautenticità. Bensì un filo diretto.

La sua Mensa imbandita è la nuova condizione in cui viene introdotta la persona che si fida della sua proposta di condivisione.

C’è chi si sente sazio, perché ritiene di possedere già quanto basta per una vita senza troppi problemi - e allora si adatta a qualsiasi occasione, perfino meschina.

Era la situazione delle autorità, soddisfatte della sovrabbondante struttura religiosa, la quale sembrava offrisse una giusta sicurezza sociale, e certezza anche davanti a Dio.

Invece (come dire): non basta avere il proprio nome trascritto nei registri parrocchiali, e poi presentarsi con gli stracci della vita antica.

 

Oggi la rinascita dalla crisi globale chiama a opzioni fondamentali, a cambiare radicalmente mentalità e realtà.

Bisogna davvero rinnovare il “vestiario”, ossia impostare le scelte su nuovi valori. 

È opportuno ridiventare plastici, rimodellarci sulla Persona del Cristo,  non rifiutare i mutamenti che stimolano - sino a costruire un comune progetto di vita, e riedificare il mondo attorno.

Tutti sono chiamati (v.14), però qualcuno non ha mantenuto il vestitino bianco del Battesimo. Ha totalmente cambiato corredo, purtroppo - malgrado in alcuni casi presieda e difenda l’istituzione.

Gesù riprende a parlare con i leaders e li offende senza mezze misure, perché non paragona il Regno del Padre a un’assemblea liturgica delle loro, quelle ben allestite, di grandi autorità, piena di artifici… bensì a una festa nuziale, senza sacri stendardi!

In quella semplicità festosa, nella franchezza immediata e gioconda di uno sposalizio c’è una realtà umana caratterizzante la condizione divina: la Gioia spontanea delle relazioni franche, a tu per tu - ormai smarrita nei formalismi della religione assuefatta.

La proposta di novità festante viene però rifiutata. Gli autosufficienti ed esperti (che la sanno lunga) venerano un altro padrone: l’interesse.

L’opportunismo non può essere ingrediente del Sacro: il tornaconto ripiega le persone su di sé, chiude lo sguardo, rende unilaterali e cupi.

Consegna la Chiesa alle cordate.

Gesù si accorge: tutto quello che gli astuti e affezionati di messinscene facevano era funzione del loro utile. Infatti pensavano il Regno in modo elettivo, già selezionato (e commerciale, solito).

Come per gli operai dell’ultima ora [Mt 20,1-16] unica moneta per tutti è Cristo stesso. Ma ai veterani che si considerano primi della classe per diritto, la felicità delle persone non interessa.

Quindi il destino dei Profeti non era altro che l’esito disattento di calcoli spregevoli [in Luca 14,18-20 “normalissimi” doveri quotidiani] i quali però stavano portando il popolo a distruzione (v.7).

 

Lo sfondo della parabola è l’attrito fra giudei convertiti e pagani convertiti.

Considerandosi prescelti - “eletti” (v.14) - i primi si rifiutavano di spezzare il Pane, condividere e mettersi alla pari coi secondi.

Interessante invece che proprio i servitori fedeli, spingi spingi, si distinguessero a rovescio: già li si riconosceva perché in qualsiasi circostanza restavano disposti a entrare “ultimi” al Banchetto.

Insomma, lo spazio aperto dall’auto-esclusione del popolo chiamato per primo non sarebbe riuscita a mettere la parola “fine” agli sforzi di coloro che da sempre lottano per la vita e l'autenticità.

Gli alberi fruttiferi - sostiene Gesù, e lo vediamo anche oggi ovunque - non amano prevaricare: preferiscono produrre, senza rivendicazioni opportuniste, né invidie.

Rischiano, e occupano solo l’ultimo posto; per stare vicini agli incerti, e incoraggiarli. 

Quindi al v.9 Mt non parla di andare nei crocicchi [traduzione CEI] bensì agli sbocchi delle vie [testo greco].

Papa Francesco direbbe: nelle periferie esistenziali, dove la vita non è scontata, ma pulsa sempre nuova. Lì dove non si può essere indifferenti.

Il termine greco indica la fine delle strade urbane (rassicuranti) e l’inizio dei sentieri poco curati e rischiosi.

Nella mentalità semitica, erano il confine del territorio puro e la soglia dei luoghi precari, contaminati.

Non solo: l’offerta d’amore di Dio raduna per primi i “cattivi” [«malvagi»: v.10 testo greco] per sottolineare che il Cielo non è a punti.

Esso è a disposizione dei bisognosi, di chi si riconosce tale.

 

Però tutti possono essere malvestiti fuori, non dentro: ossia vigili al fratello e diligenti.

Siamo chiamati ad abbandonare trascuratezze e noncuranze.

Per non creare confusione sul Volto di Dio e non rovinare la vita dei più motivati, all’interno della Chiesa è necessario un cambiamento di mentalità.

Una decisa sostituzione di princìpi e convenienze, rovesciando ogni ideologia piramidale, di tornaconto e di potere.

Per Fede che ci incorpora senza condizioni allo Sposo, l’abito pulito e fastoso è sempre messo a disposizione dal Padrone di Casa.

Ma indossarlo è frutto di una scelta consapevole, fatta propria: voler «partorire un mondo nuovo, dove tutti siamo fratelli, dove ci sia posto per ogni scartato» [Fratelli Tutti, n. 278].

Ovvero continueremo a subire il viaggio nel mondo parallelo - talora anche comunitario - dove tutto è scollegato e doppio: esito di pessimi indottrinamenti, corrotte opzioni e diaboliche ragioni.

Come se l’unico Dio adorato fosse marketing e convenienza.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa ritieni diabolico e immagini possa allontanarti dalla via spirituale?Pensi a Dio in modo serioso o lo associ alla gioia di una festa di nozze?

 

 

Restituire a Dio l’immagine dell’umanità vera. Quale Sigla?

 

(Mt 22,15-21)

 

Dopo la cacciata dei venditori dal Tempio, l’obiezione sull’autorità  e le parabole dei due figli, dei vignaioli omicidi, del banchetto rifiutato (riferite tutte all’élite), ecco un altro scontro fra Gesù e i leaders politici e religiosi - questi ultimi piazzati dietro le quinte.

Gesù (nei suoi) smantella sistematicamente le trappole allestite da direttori e soliti esperti.

Con sperimentata doppiezza, essi si accostano a Lui cercando di accarezzarne l’amor proprio (v.16: situazioni che capitano spesso anche ai testimoni critici).

L’interesse dei furbi si scontra però con l'attenzione del Cristo, tutto proteso al bene reale delle persone e al rispetto dell’intelligenza delle cose - non alla smania di approvazioni o all’opportunismo.

Proprio nel Tempio (Mt 21,23) - l’eminente Dimora del Dio unico Signore - questi gendarmi provocano il nuovo Rabbi sul pagamento delle tasse ai romani (22,17).

Sappiamo cosa c’era in ballo: l’accusa di non essere un profeta secondo il Diritto divino, o (viceversa) quella di collaborazionismo con gli occupanti.

Il Maestro non si lascia ingannare dall’ostentazione di vicinanza al Dio d’Israele - falsa perché cercata all’esterno - e li gioca facilmente.

Nel Tempio di Gerusalemme era vietato portare monete romane, che raffiguravano profili e insegne imperiali (contrarie al Comandamento “Non ti farai immagine alcuna”).

Egli però le chiede, perché effettivamente non ne aveva. Ma proprio i paludati gliene porgono una... La scena rasenta il ridicolo.

Traendo la moneta vietata dal sacchetto celato sotto il mantello, proprio i dirigenti palesano il loro vero Dio: l’interesse (ben nascosto sotto maniere devotissime e ostentate, che fanno solo da paravento).

Cristo invita a non lasciarci lusingare dalla doppiezza ostentata delle insegne: quel che conta è non ingannare la gente usando forme pie come maschera da teatranti (v.18 testo greco).

I fanatici della purezza vivono solo l’angolo epidermico; e ad esso si affidano: non di rado nascondono bene le medesime passioni materiali che disdegnano. Con Cristo non funziona.

Ciascuno è chiamato a restituire al suo vero signore l’immagine e somiglianza indelebile che vi è stata incisa. Dunque la moneta venga data indietro al suo padrone.

La donna e l’uomo - creature in cui è impressa l’immagine e somiglianza di Dio - restituiscano se stessi in autenticità, al Creatore (v.21) che dimora nella loro essenza di persone.

L'umanità è siglata da ben altra appartenenza intima e naturale, che quelle di comodo.

Lunedì, 27 Ottobre 2025 02:30

Orizzonte dell’Amicizia

L’orizzonte dell’amicizia in cui Gesù ci introduce è poi l’umanità intera: Egli infatti vuol essere per tutti il buon Pastore che dona la propria vita (cfr Gv 10,11), e lo sottolinea fortemente nel discorso del Buon Pastore che è venuto per riunire tutti, non solo il popolo eletto me tutti i figli di Dio dispersi. Perciò anche la nostra sollecitudine pastorale non può che essere universale. Certamente dobbiamo preoccuparci anzitutto di coloro che, come noi, credono e vivono con la Chiesa - è molto importante, pur in questa dimensione di universalità, che vediamo anzitutto quei fedeli che vivono ogni giorno il loro essere Chiesa con umiltà e amore - e tuttavia non dobbiamo stancarci di uscire, come ci chiede il Signore, “per le strade e lungo le siepi” (Lc 14,13), per invitare al banchetto che Dio ha preparato anche coloro che finora non lo hanno conosciuto, o forse hanno preferito ignorarlo.

[Papa Benedetto, discorso alla CEI, 18 maggio 2006]

Pagina 1 di 37
Christianity cannot be, cannot be exempt from the cross; the Christian life cannot even suppose itself without the strong and great weight of duty [Pope Paul VI]
Il Cristianesimo non può essere, non può essere esonerato dalla croce; la vita cristiana non può nemmeno supporsi senza il peso forte e grande del dovere [Papa Paolo VI]
The horizon of friendship to which Jesus introduces us is the whole of humanity [Pope Benedict]
L’orizzonte dell’amicizia in cui Gesù ci introduce è l’umanità intera [Papa Benedetto]
However, the equality brought by justice is limited to the realm of objective and extrinsic goods, while love and mercy bring it about that people meet one another in that value which is man himself, with the dignity that is proper to him (Dives in Misericordia n.14)
L'eguaglianza introdotta mediante la giustizia si limita però all’ambito dei beni oggettivi ed estrinseci, mentre l'amore e la misericordia fanno si che gli uomini s'incontrino tra loro in quel valore che è l'uomo stesso, con la dignità che gli è propria (Dives in Misericordia n.14)
The Church invites believers to regard the mystery of death not as the "last word" of human destiny but rather as a passage to eternal life (Pope John Paul II)
La Chiesa invita i credenti a guardare al mistero della morte non come all'ultima parola sulla sorte umana, ma come al passaggio verso la vita eterna (Papa Giovanni Paolo II)
The saints: they are our precursors, they are our brothers, they are our friends, they are our examples, they are our lawyers. Let us honour them, let us invoke them and try to imitate them a little (Pope Paul VI)
I santi: sono i precursori nostri, sono i fratelli, sono gli amici, sono gli esempi, sono gli avvocati nostri. Onoriamoli, invochiamoli e cerchiamo di imitarli un po’ (Papa Paolo VI)
Man rightly fears falling victim to an oppression that will deprive him of his interior freedom, of the possibility of expressing the truth of which he is convinced, of the faith that he professes, of the ability to obey the voice of conscience that tells him the right path to follow [Dives in Misericordia, n.11]
L'uomo ha giustamente paura di restar vittima di una oppressione che lo privi della libertà interiore, della possibilità di esternare la verità di cui è convinto, della fede che professa, della facoltà di obbedire alla voce della coscienza che gli indica la retta via da seguire [Dives in Misericordia, n.11]
We find ourselves, so to speak, roped to Jesus Christ together with him on the ascent towards God's heights (Pope Benedict)
Ci troviamo, per così dire, in una cordata con Gesù Cristo – insieme con Lui nella salita verso le altezze di Dio (Papa Benedetto)
Church is a «sign». That is, those who looks at it with a clear eye, those who observes it, those who studies it realise that it represents a fact, a singular phenomenon; they see that it has a «meaning» (Pope Paul VI)
La Chiesa è un «segno». Cioè chi la guarda con occhio limpido, chi la osserva, chi la studia si accorge ch’essa rappresenta un fatto, un fenomeno singolare; vede ch’essa ha un «significato» (Papa Paolo VI)
Let us look at them together, not only because they are always placed next to each other in the lists of the Twelve (cf. Mt 10: 3, 4; Mk 3: 18; Lk 6: 15; Acts 1: 13), but also because there is very little information about them, apart from the fact that the New Testament Canon preserves one Letter attributed to Jude Thaddaeus [Pope Benedict]

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

duevie.art

don Giuseppe Nespeca

Tel. 333-1329741


Disclaimer

Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge N°62 del 07/03/2001.
Le immagini sono tratte da internet, ma se il loro uso violasse diritti d'autore, lo si comunichi all'autore del blog che provvederà alla loro pronta rimozione.
L'autore dichiara di non essere responsabile dei commenti lasciati nei post. Eventuali commenti dei lettori, lesivi dell'immagine o dell'onorabilità di persone terze, il cui contenuto fosse ritenuto non idoneo alla pubblicazione verranno insindacabilmente rimossi.