don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Domenica, 15 Giugno 2025 04:07

Travi e pagliuzze: eliminare preconcetti

Per una convivenza trasparente

(Mt 7,1-5)

 

Il Discorso della Montagna (Mt 5-7) elenca catechesi su questioni salienti del vissuto nelle comunità di Galilea e Siria - composte di giudei convertiti a Cristo.

Non mancavano episodi di disprezzo anche reciproco, acceso in specie da veterani abituati a mettere sotto inchiesta i nuovi che si presentavano alla soglia delle chiese - per il loro modello di vita lontano dalla norma riconosciuta, o anche per inezie.

Ma non siamo giudici, bensì famigliari. E certo, in ultima analisi è proprio la malizia che aguzza l’occhio sui minimi difetti altrui: in genere, pagliuzze e mancanze esterne.

Ciò mentre la medesima scaltrezza sorvola enormità proprie - pesantissima trave che ci separa non solo da Dio e da tutti, ma perfino da noi stessi, accostandoci all’io egoista e arrogante.

«Teatrante» (v.5) è chi pensa in grande di sé e ha sempre la manìa di guardarsi attorno per convincersi di poter primeggiare - senza porsi in atteggiamento di riguardo nei confronti dell’enigma della vita, dove invece i fardelli possono tramutarsi in progresso.

Lo sguardo obbiettivo su noi stessi e la nostra crescita personale - spesso scaturita proprio da deviazioni a stereotipi o nomenclature - può renderci benevolenti. Può convincere di rispetto e perfino di ossequio dovuto, nei confronti del di più che ci circonda e chiama.

Il legalismo dei dettagli ingessati porta infatti la trascuratezza dell’essenziale, nell’amore vicendevole (cf. vv.3-5).

Ben sappiamo quant’è dura metterci in discussione, o educare proprio i religiosi perfezionisti a successivi distacchi da loro convincimenti accidentali [o mode], diventati per abitudine sclerotici come totem.

Insomma, negli anni 70 del primo secolo la consapevolezza della diversa relazione famigliare e serena con Dio - e il modo nuovo di vivere la sua Legge - stava interrogando i credenti e coinvolgeva i rapporti con i fratelli e sorelle di comunità.

 

Dopo aver introdotto sia gl’inediti criteri di ‘Giustizia maggiore’ che il recupero dei princìpi della Creazione, l’evangelista suggerisce alcuni  spunti essenziali per la qualità di vita interna delle fraternità.

L’estrazione culturale dei membri di chiesa anziani era di stampo accanitamente legalista. 

Tale bagaglio non favoriva la libertà delle valutazioni reciproche: la convivenza doveva essere più trasparente.

I preconcetti devoti parevano un macigno insuperabile per la vita personalizzante e di condivisione reciproca secondo la nuova logica delle Beatitudini [Mt 5,1-12: Autoritratto di Cristo come ‘libro aperto’ (a colpi di lancia)].

Il bagaglio culturale legato agli adempimenti, al senso di dovere e gerarchia, allo stile di vita assuefatto, e alle credenze che facevano fatica a essere deposte, moltiplicava giudizi severi reciproci fra generazioni e tra variegate impostazioni culturali.

 

Per incoraggiare la comunione, Mt vuole presentare un Gesù libero e tranquillo - non superuomo, né idolo o modello: viceversa, Persona genuina; Maestro non unilaterale.

Egli infatti sapeva recuperare; desiderava valorizzare tutte le poliedriche, singole sensibilità, per consentire l’espressione dell’amicizia e dell’arricchimento in ogni realtà umana.

Solo la sua forte ‘radice’ nella relazione col Padre doveva essere di esempio sacro per ciascuno, e paragone inviolabile per tutti, sempre.

Ciò per una trasparenza ricca e globale, da proporre anche ai discepoli.

In tal guisa, non si configurava l’adesione a credenze particolari, né la ripetizione delle solite discipline di perfezione.

Neppure dovevano prediligersi le pie osservanze di massa, talora primo impedimento al dialogo e all’Esodo - nelle sue differenti opulenze.

Poi la vita stessa avrebbe guidato ciascuno in modo provvidente, verso una specifica testimonianza, che potesse essa stessa creare un’altra apertura - attinente il proprio carattere e vocazione d’anima.

 

In Palestina il Signore non si era mostrato ossessivo e unilaterale, né ridotto a schemi normali e verosimili - sulla base di codici culturali, prudenze valutative, o paradigmi morali e religiosi.

La fiducia nel Padre e nella vita che viene donava al Maestro Gesù la certezza di potersi totalmente aprire alle situazioni e a ciascuno - in qualsivoglia realtà si trovasse a districarsi.

Un’apertura conviviale alle differenze più eccezionali, per non bloccare i varchi e l’esito della Novità, nello Spirito delle Beatitudini.

 

Il senza-condizioni dell’Amore vale sempre in primis per il discepolo, i membri della medesima comunità, e il prossimo.

Questo perché siamo stati chiamati a rendere esponenziale l’esistenza nostra e di tutti, non a smorzarla con versioni glamour, o di preconcetti-a-monte, e convincimenti relativi.

Creati per amare la verità eccezionale della donna e dell’uomo, non per spegnere le unicità - sentenziando sui nonnulla.

Accettiamo la Provvidenza, noi stessi e l’altro così com’è: consapevoli che c’è un segreto prezioso, un destino di novità, un Mistero che ci supera… dietro ogni evento, in ognuno dei nostri stessi volti intimi [sostenuti dal Padre], o nel fratello pur eccentrico.

 

I modi della sequela che risuonano in fondo al cuore sono tanto vari quante le persone, gli accadimenti, i ritmi commisurati all’anima, le età.

Essi abbracciano la medesima Proposta - senza che in tale poliedricità si perda il Mistero perdurante, né alcun legame.

Solo qui… Mondo reale, Persona, Natura ed Eternità si alleano.

 

«Quando il tessitore alza un piede, l’altro si abbassa. Quando il movimento cessa e uno dei piedi si ferma, il tessuto non si fa più. Le sue mani lanciano la spola che passa dall’una all’altra; ma nessuna mano può sperare di tenerla. Come i gesti del tessitore, è l’unione dei contrari a tessere la nostra vita» [Tradizione orale africana Peul].

«Siamo assolutamente perduti se ci viene a mancare questa particolare Individualità, l’unica cosa che possiamo dire veramente nostra e la cui perdita costituisce anche una perdita per il mondo intero. Essa è preziosissima, appunto perché non è universale» [Tagore].

«Dobbiamo imparare ad abbandonare le nostre difese e il nostro bisogno di controllare, e fidarci totalmente della guida dello spirito» [Sobonfu Somé].

«La vera moralità non consiste nel seguire la via battuta, ma nel trovare il sentiero vero per noi e nel seguirlo senza paura» [Gandhi].

 

 

Travi e pagliuzze: situazione paradossale, dove talora c’è un eccesso di “credo” - eppure manca la Fede.

Domenica, 15 Giugno 2025 03:58

Prestare attenzione

“Prestiamo attenzione”: la responsabilità verso il fratello.

Il primo elemento è l'invito a «fare attenzione»: il verbo greco usato è katanoein,che significa osservare bene, essere attenti, guardare con consapevolezza, accorgersi di una realtà. Lo troviamo nel Vangelo, quando Gesù invita i discepoli a «osservare» gli uccelli del cielo, che pur senza affannarsi sono oggetto della sollecita e premurosa Provvidenza divina (cfr Lc 12,24), e a «rendersi conto» della trave che c’è nel proprio occhio prima di guardare alla pagliuzza nell'occhio del fratello (cfr Lc 6,41). Lo troviamo anche in un altro passo della stessa Lettera agli Ebrei, come invito a «prestare attenzione a Gesù» (3,1), l'apostolo e sommo sacerdote della nostra fede. Quindi, il verbo che apre la nostra esortazione invita a fissare lo sguardo sull’altro, prima di tutto su Gesù, e ad essere attenti gli uni verso gli altri, a non mostrarsi estranei, indifferenti alla sorte dei fratelli. Spesso, invece, prevale l’atteggiamento contrario: l’indifferenza, il disinteresse, che nascono dall’egoismo, mascherato da una parvenza di rispetto per la «sfera privata». Anche oggi risuona con forza la voce del Signore che chiama ognuno di noi a prendersi cura dell'altro. Anche oggi Dio ci chiede di essere «custodi» dei nostri fratelli (cfr Gen 4,9), di instaurare relazioni caratterizzate da premura reciproca, da attenzione al bene dell'altro e a tutto il suo bene. Il grande comandamento dell'amore del prossimo esige e sollecita la consapevolezza di avere una responsabilità verso chi, come me, è creatura e figlio di Dio: l’essere fratelli in umanità e, in molti casi, anche nella fede, deve portarci a vedere nell'altro un vero alter ego, amato in modo infinito dal Signore. Se coltiviamo questo sguardo di fraternità, la solidarietà, la giustizia, così come la misericordia e la compassione, scaturiranno naturalmente dal nostro cuore. Il Servo di Dio Paolo VI affermava che il mondo soffre oggi soprattutto di una mancanza di fraternità: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (Lett. enc. Populorum progressio [26 marzo 1967], n. 66).

[Papa  Benedetto, Messaggio per la Quaresima 2012]

Domenica, 15 Giugno 2025 03:49

Cecità, travi, pagliuzze

Nella liturgia della parola il Vangelo di Luca ci ha riproposto l’interrogativo di Gesù: “Può forse un cieco guidare un altro cieco?” (Lc 6, 39). Il Signore intende dire che una guida non può essere cieca, deve vedere bene, se non vuol rischiare di arrecare danno alle persone che le sono state affidate. Gesù richiama così l’attenzione di tutti coloro che hanno compiti educativi o di comando: i pastori d’anime, i reggitori dei popoli, i legislatori, i maestri, i genitori, esortandoli ad avere coscienza, a sentire la responsabilità, a interrogarsi sulla strada giusta e a percorrerla essi stessi per primi.

3. E il percorso giusto è quello tracciato dal divin Maestro. Lo ha detto Lui stesso con un’espressione semitica, che suona così: “Il discepolo non è da più del maestro, ma ognuno ben preparato sarà come il suo maestro” (Lc 6, 40). Con essa Gesù si presenta come Modello e ci invita a seguire la sua condotta e i suoi insegnamenti. Solo così si è guide sicure e sagge. Gli insegnamenti del Signore, per quanto attiene alla vita morale, sono contenuti principalmente nel discorso della montagna, che da tre domeniche leggiamo nella celebrazione della Santa Messa. Nel brano d’oggi troviamo un’altra frase molto significativa, quella che esorta a non essere presuntuosi e ipocriti. “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non t’accorgi della trave che è nel tuo?” (Lc 6, 41). Com’è facile scorgere i difetti e i peccati altrui e non vedere i propri! E come possiamo accorgerci se il nostro occhio è libero o se è impedito da una trave? La verifica ci viene dalle nostre azioni. È ancora Gesù che ce lo dice: “Ogni albero si riconosce dal suo frutto” (Lc 6, 44). Il frutto sono le azioni, ma anche le parole. Anche da queste si conosce la qualità dell’albero. Infatti, chi è buono trae fuori dal suo cuore e dalla sua bocca il bene e chi è cattivo trae fuori il male. Questo insegnamento di Gesù fa eco agli antichi detti sapienziali del Siracide, che abbiamo ascoltato nella prima lettura: “Il frutto dimostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela il sentimento dell’uomo” (Sir 27, 6).

[Papa Giovanni Paolo II, omelia a Corviale 1 marzo 1992]

Domenica, 15 Giugno 2025 03:17

Davanti allo specchio

Ci sono regole chiare suggerite da Gesù per non cadere nell’ipocrisia: non giudicare gli altri per non essere a nostra volta giudicati con la stessa misura; e quando ci viene la tentazione di farlo, è meglio guardarsi prima allo specchio, non per nasconderci con il trucco ma per vedere bene come siamo realmente. Ricordando che l’unico vero giudizio è quello di Dio con la sua misericordia, Papa Francesco — nella messa celebrata lunedì mattina 20 giugno nella cappella della Casa Santa Marta — ha raccomandato di non cedere alla tentazione di mettersi al posto del Signore, dubitando della sua parola.

«Gesù parla alla gente e insegna tante cose sulla preghiera, sulle ricchezze, sulle preoccupazioni vane, tante, su come deve comportarsi un suo discepolo» ha affermato Francesco. E così «arriva a questo passo del Vangelo sul giudizio», proposto dalla liturgia (Matteo, 7, 1-5). È un brano in cui «il Signore è molto concreto». Se infatti «alcune volte il Signore per farci capire ci racconta una parabola, qui è: “ta, ta, ta”: diretto, perché il giudizio è una cosa che può fare solo lui».

«Il fatto incomincia» con una parola chiara di Gesù: «Non giudicate, per non essere giudicati». Dunque, «se tu non vuoi essere giudicato non giudicare gli altri: “tac, tac”, chiaro». E il Signore «va un passo avanti», indicando appunto il criterio della misura: «Perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi».

«Tutti noi vogliamo, il giorno del giudizio, che il Signore ci guardi con benevolenza, che il Signore si dimentichi di tante cose brutte che abbiamo fatto nella vita» ha detto Francesco. E «questo è giusto, perché siamo figli, e un figlio dal padre si aspetta questo, sempre». Ma «se tu giudichi continuamente gli altri, con la stessa misura tu sarai giudicato: questo è chiaro».

«Primo, il comandamento, il fatto: “Non giudicate per non essere giudicati”» ha ribadito il Papa, aggiungendo: «Secondo, la misura sarà la stessa che voi usate per i fratelli». E poi «il terzo passo: guardati allo specchio ma non per truccarti perché non si vedano le rughe; no, no, no, quello non è il consiglio!». Piuttosto, ha suggerito Francesco, «guardati allo specchio per guardare te, come tu sei». Le parole di Gesù sono chiare: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? O come dirai a tuo fratello: “lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio” mentre nel tuo occhio c’è la trave?”».

«Come ci qualifica il Signore — si è chiesto il Pontefice — quando facciamo questo? Una sola parola: “Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”». In realtà, non dovrebbe sorprendere la reazione del Signore che «si arrabbia; è molto forte, e sembra anche che ci insulti: dice “ipocrita” a chi giudica gli altri».

La ragione è che «chi giudica — ha spiegato il Papa — si mette al posto di Dio, si fa Dio e dubita della parola di Dio». È proprio «quello che il serpente ha convinto a fare ai nostri padri: “No, no, Dio è un bugiardo, se voi mangiate di questo, sarete come lui”. E loro volevano mettersi al posto di Dio».

Per questo, ha insistito il Pontefice, «è tanto brutto giudicare: il giudizio solo a Dio, solo a lui!». A noi compete piuttosto «l’amore, la comprensione, il pregare per gli altri quando vediamo cose che non sono buone», se serve «anche parlare loro» per metterli in guardia se qualcosa non sembra andare per il verso giusto. In ogni caso «mai giudicare, mai», perché «se noi giudichiamo è ipocrisia».

Del resto, ha affermato Francesco, «quando giudichiamo ci mettiamo al posto di Dio, questo è vero, ma il nostro giudizio è un povero giudizio: mai, mai può essere un vero giudizio». Perché, appunto, «il vero giudizio è quello che dà Dio». E «perché il nostro non può essere come quello di Dio? Perché Dio è onnipotente e noi no? No, perché al nostro giudizio manca la misericordia». E «quando Dio giudica, giudica con misericordia».

In conclusione il Papa ha suggerito di pensare «oggi a questo che il Signore ci dice: non giudicare, per non essere giudicato; la misura con la quale giudichiamo sarà la stessa che useranno con noi; e, terzo, guardiamoci allo specchio prima di giudicare». E così quando ci viene da dire: «questa fa quello, questo fa quello», è meglio guardarsi allo specchio prima di parlare. Altrimenti «sarò un ipocrita — ha ripetuto Francesco — perché mi metto al posto di Dio». E comunque «il mio giudizio è un povero giudizio: manca qualcosa di tanto importante che ha il giudizio di Dio, manca la misericordia». Il Signore, ha auspicato il Papa, «ci faccia capire bene queste cose».

[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 20/06/2016]

Corpus Domini

(Lc 9,11b-17)

 

Il Vaticano II non ha speso una sola parola riguardo le molteplici devozioni eucaristiche.

Per farci comprendere appieno la Persona del Cristo, i padri conciliari avevano ben presente che Gesù non ha lasciato una statua o una reliquia.

Ha preferito esprimersi in un gesto, che ci interpella.

Nel mondo ebraico, di sera ogni famiglia si ritrovava attorno alla mensa, e quello dello spezzare il pane era il momento più significativo della loro esperienza di convivialità (e di memoria della consegna di sé agli altri).

L’unico pane veniva frazionato e condiviso fra tutti i famigliari - ma anche un povero affamato poteva affacciarsi all’uscio, che non doveva venire serrato.

Pane e vino, prodotti che avevano assimilato le energie del cielo e della terra, erano percepiti con sensibilità spirituale - doni del Creatore per la vita e la gioia dell’umanità.

In quella cultura, il pane è cibo base. Ma la nostra vita è completa solo se c’è anche l’elemento della festa: ecco il vino.

Il pane ancora oggi non viene tagliato con un coltello, per rispettarne la sacralità: solo spezzato. Esso contiene l’esistere concreto.

Per questo Gesù sceglie il Banchetto come segno della sua Persona, vita, parola, vicenda rischiosa, donate in alimento.

Durante la cena in famiglia, pane e vino non venivano percepiti al pari della manna, ossia come prodotti naturali e grezzi. Neppure era un nutrirsi per ricuperare le forze, e basta.

Nel frumento e nell’uva si erano dati appuntamento anche tutti i variegati contributi del focolare domestico.

Attorno alla mensa, ciascun uomo vedeva nel pane e nel vino il frutto del suo lavoro: pulitura del terreno, aratura, seminagione, mietitura, potature, vendemmia e opera di torchio.

La donna coglieva nel pane il suo lavoro di macinatura, impastatura, cottura. Anche i minori potevano ricordare qualcosa di proprio, perché i ragazzetti si prestavano ad attingere acqua.

La cena era una celebrazione dell’armonia. La mensa era appunto un luogo in cui i giovani venivano educati alla percezione dell’esistere nell’unità, invece che nel disinteresse.

Gratitudine verso i doni di Dio e percezione del proprio apporto, che giunge (realmente) all’obiettivo nello spirito di sinergia e comunione.

Contributi, risorse e capacità convenivano a porgersi in servizio, per la vita di tutti.

Nel gesto eucaristico Gesù dice: cieli e terra nuovi non corrispondono al mondo in cui ciascuno si affretta a mietere per sé o la sua cerchia, onde accaparrarsi il massimo delle risorse.

Il suo Regno? Tutti invitati e fratelli concordi, nessuno padrone o dominatore - destinato a stare davanti o sopra (anche se più svelto degli altri) persino in Cielo.

Anche gli Apostoli - chiamati da Gesù con sé ma ancora rimasti a distanza di sicurezza da Lui (cf. Lc 9,10.12) - non sono i proprietari del Pane, bensì coloro che lo devono porgere a tutti (vv.13.16), per creare abbondanza dov’essa non c’è.

 

Nel brano di Lc Gesù suscita sconcerto. Non è d’accordo con l’idea che ciascuno s’arrangi; neppure gli va a genio l’elemosina (vv.12-13).

Impone ai suoi che la folla si sdrai (v.14 testo greco) come facevano i signori e le persone libere nei momenti solenni.

Vuole e insiste che siano anzitutto gli apostoli a servire (vv.13.16), non altri schiavi.

E forse la cosa più sbalorditiva è che a nessuno dei presenti impone gesti preventivi di purificazione, com’era abitudine nella religiosità tradizionale.

Prima del pasto essa postulava l’abluzione: una sorta di cerimonia che sottolineasse un distacco sacrale fra puro e impuro.

Unico compito degli apostoli è quello di distribuire l’Alimento - poi da sminuzzare, vagliare e assimilare, per edificare un nuovo Regno - non fare radiografie preventive; tantomeno interessate.

In religione abbiamo una lunga trafila di adempimenti da osservare per presentarci a cospetto di Dio.

Nel cammino di Fede è l’incontro gratuito col Signore che fa crescere, rendendoci puri senza condizioni.

Appello alla Convivialità reale, e Richiamo sempreverde a non accontentarsi.

Sabato, 14 Giugno 2025 04:26

L’Eucaristia in Raffaello e Arcabas

(Lc 9,11b-17)

 

Alimento moltiplicato perché distribuito: Richiamo a non accontentarsi

 

Il Vaticano II non ha speso una sola parola riguardo le molteplici devozioni eucaristiche.

Per farci comprendere appieno la Persona del Cristo, i padri conciliari avevano ben presente che Gesù non ha lasciato una statua o una reliquia. Ha preferito esprimersi in un gesto, che ci interpella.

Nel mondo ebraico, di sera ogni famiglia si ritrovava attorno alla mensa, e quello dello spezzare il pane era il momento più significativo della loro esperienza di convivialità (e di memoria della consegna di sé agli altri).

L’unico pane veniva frazionato e condiviso fra tutti i famigliari - ma anche un povero affamato poteva affacciarsi all’uscio, che non doveva venire serrato.

Pane e vino, prodotti che avevano assimilato le energie del cielo e della terra, erano percepiti con sensibilità spirituale - doni del Creatore per la vita e la gioia dell’umanità.

In quella cultura, il pane è cibo base. Ma la nostra vita è completa solo se c’è anche l’elemento della festa: ecco il vino.

Il pane ancora oggi non viene tagliato con un coltello, per rispettarne la sacralità: solo spezzato. Esso contiene l’esistere concreto.

Per questo Gesù sceglie il Banchetto come segno della sua Persona, vita, parola, vicenda rischiosa, donate in alimento.

 

Durante la cena in famiglia, pane e vino non venivano percepiti al pari della manna, ossia come prodotti naturali e grezzi. Neppure era un nutrirsi per ricuperare le forze, e basta.

Nel frumento e nell’uva si erano dati appuntamento anche tutti i variegati contributi del focolare domestico.

Attorno alla mensa, ciascun uomo vedeva nel pane e nel vino il frutto del suo lavoro: pulitura del terreno, aratura, seminagione, mietitura, potature, vendemmia e opera di torchio.

La donna coglieva nel pane il suo lavoro di macinatura, impastatura, cottura. Anche i minori potevano ricordare qualcosa di proprio, perché i ragazzetti si prestavano ad attingere acqua (se non ai pozzi, a una sorgente).

La cena era una celebrazione dell’armonia. La mensa era appunto un luogo in cui i giovani venivano educati alla percezione dell’esistere nell’unità, invece che nel disinteresse.

Gratitudine verso i doni di Dio e percezione del proprio contributo, ch’era giunto (realmente) all’obiettivo nello spirito di sinergia e comunione.

Contributi, risorse e capacità convenivano a porgersi in servizio, per la vita di tutti.

 

Nel gesto eucaristico Gesù dice: cieli e terra nuovi non corrispondono al mondo in cui ciascuno si affretta a mietere per sé o la sua cerchia, onde accaparrarsi il massimo delle risorse.

Il suo Regno? Tutti invitati e fratelli concordi, nessuno padrone o dominatore - destinato a stare davanti o sopra (anche se più svelto degli altri) persino in Cielo.

Anche gli Apostoli - chiamati da Gesù con sé ma ancora rimasti a distanza di sicurezza da Lui (cf. Lc 9,10.12) - non sono i proprietari del Pane, bensì coloro che lo devono porgere a tutti (vv.13.16), per creare abbondanza dov’essa non c’è.

 

 

Per animare gli incontri sul tema dell’Eucaristia e interiorizzare come nella stessa Chiesa Cattolica ci sia stata un’evoluzione nella comprensione dell’efficacia del Segno, uso comparare due grandi opere d’arte.

Raffaello nella cosiddetta Disputa del Sacramento raffigura un mondo sacrale e statico. Oggi diremmo (a colpo d’occhio) quasi plastificato.

Ambiente che sembra tutto prevedibile e comunque caratterizzato da un modello sociale, culturale e spirituale situato; dove ciascuno è collocato in base a origini, posizione, status, rango spirituale.

Arcabas - artista francese recentemente scomparso - dipinge un quadro che sembra privo di Protagonista: come tagliato, o (meglio) focalizzato sul semplice gesto. A dire: il contorno di addobbi non riguarda questa proposta di vita.

Nell’opera del pittore contemporaneo cogliamo la sobrietà di una Persona e d’una missionarietà ben centrata (che graffia, ma ci fa perdere la testa assai più delle belle sceneggiature); perché nel mondo dell’Amore il meglio deve ancora Venire.

Siamo interrogati.

Arcabas illustra una tavola semplicemente imbandita: un piatto non certo della migliore collezione, un bicchiere di vino senza fronzoli, una tovaglia semplicemente appoggiata alla mensa e connotata dalle sue piegature (neanche stirate) che ricordano il quotidiano reale.

E soprattutto il gesto normale dello spezzare il pane, quello del passo dopo passo, con le sue briciole non vaporose né candide. Il Banchetto eucaristico non è per l’aldilà - chissà quando.

(Per quasi mille anni la Chiesa cattolica ha celebrato con il pane quotidiano come ancora fa ad es. la Chiesa ortodossa. A testimonianza, ci sono rimasti vassoi-patena molto ampi, oggi ridotti a un piattello).

 

 

Nel brano di Lc Gesù suscita sconcerto. Non è d’accordo con l’idea che ciascuno s’arrangi; neppure gli va a genio l’elemosina (vv.12-13).

Impone ai suoi che la folla si sdrai (v.14 testo greco) come facevano i signori e le persone libere nei momenti solenni.

Vuole e insiste che siano anzitutto gli apostoli a servire (vv.13.16), non altri schiavi.

E forse la cosa più sbalorditiva è che a nessuno dei presenti impone gesti preventivi di purificazione, com’era abitudine nella religiosità tradizionale.

Prima del pasto essa postulava l’abluzione: una sorta di cerimonia che sottolineasse un distacco sacrale fra puro e impuro.

(Il Cristo neppure gradisce che i percorsi di ciascuno siano assoggettati a osservatori esterni, esperti che impongano astratti princìpi e un ritmo disumanizzante, non commisurato alla persona).

Unico compito degli apostoli è quello di distribuire l’Alimento - poi da sminuzzare, vagliare e assimilare, per edificare un nuovo Regno - non fare radiografie preventive; tantomeno interessate.

Criterio assoluto e non negoziabile è la pienezza di vita dell’ultimo arrivato; il viceversa sarebbe (davvero) una valle di lacrime, venata d’insoddisfazione e scontento.

 

In religione abbiamo una lunga trafila di adempimenti da osservare per presentarci a cospetto di Dio.

Nel cammino di Fede è l’incontro gratuito col Signore che fa crescere, rendendoci puri senza condizioni.

Anche nella Disputa del Sacramento il più prossimo all’Altare (quasi a identificarsi) è s. Francesco, accovacciato al di sotto del piano della Mensa. Anche lui un reduce.

Lo sguardo verso l’esterno dell’alter-Christus incrocia e richiama l’attenzione di due giovani collocati sulla nostra sinistra a metà prospettiva, altrettanto accovacciati - e soverchiati da personaggi di alto rango spirituale.

Morale: l’Eucaristia non è un premio per i giusti, bensì (lì dove e come siamo) un Appello alla Convivialità reale. Richiamo sempreverde a non accontentarsi.

Sabato, 14 Giugno 2025 04:21

Corpus in Coena Domini

(Gv 13,1-15)

 

Fiducia integrale: l’Azione emblematica, che genera incontaminati

 

Introduciamo il senso della Lavanda dei piedi da parte del Signore, gesto emblematico che i Sinottici evocano nella Frazione del Pane.

Anticamente in Israele la famiglia patriarcale, il clan e la comunità erano la base della convivenza sociale.

Garantivano la trasmissione dell’identità di popolo e assicuravano protezione agli afflitti.

Difendere il clan era anche un modo concreto di confermare la Prima Alleanza.

Ma al tempo di Gesù la Galilea soffriva sia la segregazione dettata dalla politica di Erode Antipas che l'oppressione della religiosità ufficiale.

Il collaborazionismo smidollato del sovrano aveva accentuato il numero dei senza tetto e privi d’impiego.

La congiuntura politica ed economica obbligava le persone a ripiegarsi sui problemi materiali e individuali o di famiglia ristretta.

Un tempo, il collante identitario del clan e della comunità garantivano un carattere (interno) di nazione solidale, espresso nella difesa e soccorso prestati ai meno abbienti del popolo.

Ora tale legame fraterno risultava indebolito, ingessato, quasi contraddetto - anche a motivo dell’atteggiamento severo delle autorità religiose, fondamentaliste e amanti d’un purismo saccente, contrario al mischiarsi coi ceti meno abbienti.

La Legge (scritta e orale) finiva per essere usata non per favorire l’accoglienza degli emarginati e bisognosi, ma per accentuare i distacchi e la ghettizzazione.

Situazione che stava portando al collasso delle fasce di popolazione meno tutelate.

Insomma la devozione tradizionale - amante dell’alleanza fra trono e altare - invece di rafforzare il senso comunitario veniva usata per accentuare le gerarchie; come arma che legittimasse tutta una mentalità di esclusioni (e confermasse la logica imperiale del dividi et impera).

Gesù vuole invece tornare al Sogno del Padre: quello ineliminabile della fraternità, unico suggello alla storia della salvezza.

 

Secondo una felice espressione di Origene, l’Eucaristia è la ferita del costato di Cristo sempre aperta; ma il Vaticano II non ha speso una sola parola riguardo le molteplici devozioni eucaristiche.

Per farci comprendere appieno la sua Persona, i padri conciliari avevano ben presente che Gesù non ha lasciato una statua o una reliquia. Ha preferito esprimersi in un gesto, che ci interpella.

Nel mondo ebraico, di sera ogni famiglia si ritrovava attorno alla mensa, e spezzare il pane era il momento più significativo della loro esperienza di convivialità (e memoria della consegna di sé agli altri).

L’unico pane veniva frazionato e condiviso fra tutti i famigliari - ma anche un povero affamato poteva affacciarsi all’uscio, che non doveva venire serrato.

Pane e vino, prodotti che avevano assimilato le energie del cielo e della terra, erano riconosciuti con sensibilità spirituale - doni del Creatore per la vita e la gioia dell’umanità.

In quella cultura, il pane è cibo base. Ma la nostra vita è completa solo se c’è anche l’elemento della festa: ecco il vino.

Il pane ancora oggi non viene tagliato con un coltello, per rispettarne la sacralità: solo frazionato. Esso contiene l’esistere concreto.

Per questo Gesù sceglie il Banchetto come segno della sua Persona, vita, parola, vicenda rischiosa e nuova felicità, donate in alimento.

Durante la cena in famiglia, pane e vino non venivano percepiti al pari della manna, ossia come prodotti naturali e grezzi. Neppure era un nutrirsi per ricuperare le forze, e basta.

Nel frumento e nell’uva si erano dati appuntamento anche tutti i variegati contributi del focolare domestico.

Attorno alla mensa, ciascun uomo vedeva nel pane e nel vino il frutto del suo lavoro: pulitura del terreno, aratura, seminagione, mietitura, potature, vendemmia e opera di torchio.

La donna coglieva nel pane la sua fatica: macinatura, impastatura, cottura. Anche i minori potevano ricordare qualcosa di proprio, perché i ragazzetti si prestavano (ad es. attingere acqua).

La cena era una celebrazione dell’armonia. La mensa era appunto un luogo in cui i giovani venivano educati alla percezione dell’esistere nell’unità, invece che nel disinteresse.

Ciò con gratitudine verso i doni di Dio e percezione del proprio apporto, che era giunto (realmente) all’obiettivo, nello spirito di sinergia e comunione.

Contributi, risorse e capacità convenivano a porgersi in servizio, per la vita di tutti.

Nel gesto eucaristico Gesù dice: cieli e terra nuovi non corrispondono al mondo in cui ciascuno si affretta a mietere per sé o la sua cerchia, onde accaparrarsi il massimo delle risorse.

Il suo Regno? Tutti invitati e fratelli concordi, nessuno padrone o dominatore - destinato a stare davanti o sopra (sebbene più svelto degli altri) persino in Cielo.

Anche gli Apostoli - chiamati da Gesù con sé ma ancora rimasti a distanza di sicurezza da Lui (cf. es. Lc 9,10.12) - non sono i proprietari del Pane, bensì coloro che lo devono porgere a tutti (vv.13.16), per creare abbondanza dov’essa non c’è.

 

Per animare gli incontri sul tema dell’Eucaristia e interiorizzare come nella stessa Chiesa Cattolica ci sia stata un’evoluzione decisiva per la comprensione dell’efficacia del Segno, uso comparare due grandi opere d’arte.

Raffaello nella cosiddetta Disputa del Sacramento raffigura un mondo sacrale e statico. Oggi diremmo (a colpo d’occhio) quasi plastificato.

Ambiente che sembra tutto prevedibile e comunque caratterizzato da un modello sociale, culturale e spirituale situato; dove ciascuno è collocato in base a origini, posizione, status e rango.

 

Arcabas - artista francese recentemente scomparso - dipinge un quadro che sembra privo di esclusivi, distinti e titolati protagonisti: come tagliato sopra, o (meglio) focalizzato sul semplice gesto.

A dire in modo eloquente: il contorno di addobbi sfarzosi o ruoli di rilievo non riguarda questa proposta di vita!

Nell’opera del pittore contemporaneo cogliamo la sobrietà di una Persona e d’una missionarietà ben centrata (che graffia, ma ci fa perdere la testa assai più delle belle sceneggiature); perché nel mondo dell’Amore il meglio deve ancora arrivare.

Siamo interrogati senza posa...

Arcabas illustra una tavola semplicemente imbandita: un piatto non certo della migliore collezione, un bicchiere di vino senza fronzoli, una tovaglia semplicemente appoggiata alla mensa e connotata dalle sue piegature (neanche stirate) che ricordano il quotidiano reale.

E soprattutto il gesto normale dello spezzare il pane, quello del passo dopo passo, con le sue briciole non vaporose né candide. A dire: il Banchetto eucaristico che non è per l’aldilà - chissà quando.

(Per quasi mille anni la Chiesa cattolica ha celebrato con il pane quotidiano come ancora fa ad es. la Chiesa ortodossa. A testimonianza, ci sono rimasti vassoi-patena molto ampi, oggi ridotti a un piattello).

 

Giunge l’«Ora»... Azione emblematica, in Gv - che non racconta formalmente l’istituzione dell’Eucaristia.

Ecco il senso dello spezzare il pane: cosa comporta entrare in comunione, per l’apostolo che rovescia le gerarchie e sovverte i criteri di purità, uniformità, compattezza e gloria.

 

Nel quarto Vangelo vengono proclamate solo due Beatitudini:

«In verità, in verità vi dico, non c’è servo più grande del suo signore, né inviato più grande di chi lo ha mandato. Se sapete queste cose, siete beati se le fate» (Gv 13,16-17).

E a Tommaso: «Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29b) - non perché lo sforzo sia un mezzo per accumulare dolori e meriti, e così piacere a Dio.

Le due Beatitudini di Gv garantiscono i binari sui quali il credente trova la sua realizzazione piena e lo stupore della felicità: la pratica della carità che recupera tutto l’essere disperso (anche altrui), nell’avventura della Fede.

Prima e durante i pasti rituali, i pii d’Israele compivano abluzioni con acqua, per celebrare il distacco fra sacro e profano, puro e impuro.

Al capotavola le mani venivano lavate da un servo o dal più giovane dei convitati.

Con Gesù la tradizione viene scardinata dall’interno - da lasciare attoniti. 

Per un giudeo il lavaggio altrui era un gesto che si doveva rifiutare di eseguire, anche se ridotto in schiavitù, per non disonorare il popolo. Invece il Messia si prostra e ha la libertà di prestarsi a lavare (neppure le mani, ma) i piedi.

Rivelazione assurda del Volto di Dio, che sgretola innumerevoli manierismi, speranze di prestigio artefatto, atti di sottomissione, grotteschi riconoscimenti - avanzati da prìncipi della chiesa.

Non solo un invito a servire il prossimo... gesto da imitare che proclama il carattere di umile servizio del ministero: è anche segno di purificazione dei suoi - come un nuovo Battesimo, che fa immediatamente partecipi del mondo di Dio.

Questo «lavare» è figura della Persona e della Missione del Figlio in favore degli uomini - tutti ora abilitati a passare (e far passare il prossimo) da questo assetto al Regno del Padre.

Il Maestro unisce a sé un gruppo di discepoli - anche poco convinti, ma resi puri - non perché mira a formare una scuola, distinta da altre o persino unilaterale, ma per introdurli nell’Amore, nel passaggio dalla schiavitù alla libertà del Gratis (che scende).

Dio non identifica le persone, né sovrappone un suo pensiero alla storia e sensibilità della gente. Chinandosi valica i ruoli, lo spirito di club, le stesse idee, e i certificati. Iniziativa - questa sì - esemplare.

Egli infatti nel suo Esodo traccia il nuovo cammino del popolo, anche di quello che si schiera contro - e ciò sconcerta, sembra inaccettabile. Pietro smania per comandare: non ci sta a introdursi in una logica che manifesti (nei dirigenti di comunità!) un Dio servitore degli uomini, indipendente dai loro trascorsi.

Abbassandosi al livello dello schiavo che depone le vesti, il Signore vuole umanizzarci recuperando invece gli opposti, radicati in ciascuno...

Egli ammette persino la contestazione - evidenziandola e sanandola (a meno che non si resti come Giuda pervicacemente legati a seduzioni esterne e false guide spirituali - ai cliché dell’appartenenza-tornaconto).

 

Infine Gesù non si toglie il grembiule, prima di rimettersi le vesti: è l’unica divisa che gli appartiene. Quel genere di vestiario gli rimane addosso: lo porta anche in Paradiso.

Non ha messo in scena la parte dell’inserviente, per tornare in cielo a spadroneggiare. Non condiziona nessuno.

La Vita del Padre c’insegue su ogni percorso, per farci sentire adeguati: Un-Corpo-Solo col Figlio, cui ha consegnato tutto nelle mani (v.3).

Fioritura totale anche per noi; indistruttibile, eminente, in se stessa priva di germi mortiferi occulti.

La sua Fiducia si trasmette nella storia della salvezza e si dispiega agli indecisi e imperfetti, ma suoi consanguinei nel Figlio. Pronto a innalzarci verso un’esistenza che non spegne più l’essere - e noi desiderosi di farlo fiorire, invece di boicottarlo o prenderlo in prestito.

Figli adottivi: non è una diminuzione, ma il riconoscimento insigne di una uguaglianza che non stride.

Anticamente, quando un sovrano designava il successore al trono, non di rado nominava dignitario un valoroso più affidabile del congiunto in linea naturale (spesso intrigante, viziato, stufo di esistere, parassita e stanco della sua stessa prosperità).

 

Dio non ci fa coincidere a forza. Piegandosi scavalca lo spirito di club, le parti, i personaggi e tutti i salvacondotti.

Questo il “servizio” dei discepoli, da espletare con la vita e l’annuncio della lieta notizia: far conoscere che il Padre non è il Dio selettivo della religione, bensì amante incondizionato dell’uomo.

L’amore si comunica da pari a pari ed ha il medesimo passo della vita: essa non può essere imbrigliata da opinioni ereditate o convenzioni fisse, né assoggettata a narrazioni casistiche.

Solo la consapevolezza di una libertà che permane ci porterà a gesti di completezza nitida, non per un vantaggio opportunista e individuale, bensì a favore della Gioia (pienezza di essere e intensità di relazione).

Solo la stima che il Padre riconosce a ciascuno conduce i figli e le loro storie verso atti di convivialità e recuperi inspiegabili.

 

Gesù che lava i piedi raffigura il segreto della vita beata ch’espande la via dell’io in quella del Tu: essere genuini e liberi fino a chinarsi per servire, approvando ogni cammino particolare (i piedi di ciascuno).

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come vivi in Cristo la tua responsabilità e la tua personalità secondo i vv.3-4? Dopo l’Eucaristia fai come Gesù o deponi subito il grembiule?

Sabato, 14 Giugno 2025 04:12

Dogma datur christianis 

Poco fa abbiamo cantato nella Sequenza: “Dogma datur christianis, / quod in carnem transit panis, / et vinum in sanguinem – È certezza a noi cristiani: / si trasforma il pane in carne, / si fa sangue il vino”. Quest’oggi riaffermiamo con trasporto la nostra fede nell’Eucaristia, il Mistero che costituisce il cuore della Chiesa. Nella recente Esortazione post-sinodale Sacramentum caritatis ho ricordato che il Mistero eucaristico “è il dono che Gesù Cristo fa di se stesso, rivelandoci l’amore infinito di Dio per ogni uomo” (n. 1). Pertanto quella del Corpus Domini è una festa singolare e costituisce un importante appuntamento di fede e di lode per ogni comunità cristiana. È festa che ha avuto origine in un determinato contesto storico e culturale: è nata con lo scopo ben preciso di riaffermare apertamente la fede del Popolo di Dio in Gesù Cristo vivo e realmente presente nel santissimo Sacramento dell’Eucaristia. È festa istituita per adorare, lodare e ringraziare pubblicamente il Signore, che “nel Sacramento eucaristico continua ad amarci ‘fino alla fine’, fino al dono del suo corpo e del suo sangue” (Sacramentum caritatis, 1).

La Celebrazione eucaristica di questa sera ci riconduce al clima spirituale del Giovedì Santo, il giorno in cui Cristo, alla vigilia della sua Passione, istituì nel Cenacolo la santissima Eucaristia. Il Corpus Domini costituisce così una ripresa del mistero del Giovedì Santo, quasi in obbedienza all’invito di Gesù di “proclamare sui tetti” ciò che Egli ci ha trasmesso nel segreto (cfr Mt 10,27). Il dono dell’Eucaristia, gli Apostoli lo ricevettero dal Signore nell’intimità dell’Ultima Cena, ma era destinato a tutti, al mondo intero. Ecco perché va proclamato ed esposto apertamente, perché ognuno possa incontrare “Gesù che passa” come avveniva per le strade della Galilea, della Samaria e della Giudea; perché ognuno, ricevendolo, possa essere sanato e rinnovato dalla forza del suo amore. Questa, cari amici, è la perpetua e vivente eredità che Gesù ci ha lasciato nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Eredità che domanda di essere costantemente ripensata, rivissuta, affinché, come ebbe a dire il venerato Papa Paolo VI, possa “imprimere la sua inesauribile efficacia su tutti i giorni della nostra vita mortale” (Insegnamenti, V [1967], p. 779).

Sempre nell’Esortazione post-sinodale, commentando l’esclamazione del sacerdote dopo la consacrazione: “Mistero della fede!”, osservavo: con queste parole egli “proclama il mistero celebrato e manifesta il suo stupore di fronte alla conversione sostanziale del pane e del vino nel corpo e sangue del Signore Gesù, una realtà che supera ogni comprensione umana” (n. 6). Proprio perché si tratta di una realtà misteriosa che oltrepassa la nostra comprensione, non dobbiamo meravigliarci se anche oggi molti fanno fatica ad accettare la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia. Non può essere altrimenti. Fu così fin dal giorno in cui, nella sinagoga di Cafarnao, Gesù dichiarò apertamente di essere venuto per darci in cibo la sua carne e il suo sangue (cfr Gv 6,26-58). Il linguaggio apparve “duro” e molti si tirarono indietro. Allora come adesso, l’Eucaristia resta “segno di contraddizione” e non può non esserlo, perché un Dio che si fa carne e sacrifica se stesso per la vita del mondo pone in crisi la sapienza degli uomini. Ma con umile fiducia, la Chiesa fa propria la fede di Pietro e degli altri Apostoli, e con loro proclama: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,68). Rinnoviamo pure noi questa sera la professione di fede nel Cristo vivo e presente nell’Eucaristia. Sì, “è certezza a noi cristiani: / si trasforma il pane in carne, / si fa sangue il vino”.

La Sequenza, nel suo punto culminante, ci ha fatto cantare: “Ecce panis angelorum, / factus cibus viatorum: / vere panis filiorum - Ecco il pane degli angeli, / pane dei pellegrini, / vero pane dei figli”. L’Eucaristia è il cibo riservato a coloro che nel Battesimo sono stati liberati dalla schiavitù e sono diventati figli; è il cibo che li sostiene nel lungo cammino dell’esodo attraverso il deserto dell’umana esistenza. Come la manna per il popolo d’Israele, così per ogni generazione cristiana l’Eucaristia è l’indispensabile nutrimento che la sostiene mentre attraversa il deserto di questo mondo, inaridito da sistemi ideologici ed economici che non promuovono la vita, ma piuttosto la mortificano; un mondo dove domina la logica del potere e dell’avere piuttosto che quella del servizio e dell’amore; un mondo dove non di rado trionfa la cultura della violenza e della morte. Ma Gesù ci viene incontro e ci infonde sicurezza: Egli stesso è “il pane della vita” (Gv 6,35.48). Ce lo ha ripetuto nelle parole del Canto al Vangelo: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo; chi mangia di questo pane vivrà in eterno” (cfr Gv 6,51).

Nel brano evangelico poc’anzi proclamato san Luca, narrandoci il miracolo della moltiplicazione dei cinque pani e due pesci con cui Gesù sfamò la folla “in una zona deserta”, conclude dicendo: “Tutti ne mangiarono e si saziarono” (cfr Lc 9,11b–17). Vorrei in primo luogo sottolineare questo “tutti”. E’ infatti desiderio del Signore che ogni essere umano si nutra dell’Eucaristia, perché l’Eucaristia è per tutti. Se nel Giovedì Santo viene posto in evidenza lo stretto rapporto che esiste tra l’Ultima Cena e il mistero della morte di Gesù in croce, quest’oggi, festa del Corpus Domini, con la processione e l’adorazione corale dell’Eucaristia si richiama l’attenzione sul fatto che Cristo si è immolato per l’intera umanità. Il suo passaggio fra le case e per le strade della nostra Città sarà per coloro che vi abitano un’offerta di gioia, di vita immortale, di pace e di amore.

Nel brano evangelico, un secondo elemento salta all’occhio: il miracolo compiuto dal Signore contiene un esplicito invito ad offrire ciascuno il proprio contributo. I cinque pani e i due pesci stanno ad indicare il nostro apporto, povero ma necessario, che Egli trasforma in dono di amore per tutti. “Cristo ancora oggi - ho scritto nella citata Esortazione post-sinodale - continua ad esortare i suoi discepoli ad impegnarsi in prima persona” (n. 88). L’Eucaristia è dunque una chiamata alla santità e al dono di sé ai fratelli, perchè “la vocazione di ciascuno di noi è quella di essere, insieme a Gesù, pane spezzato per la vita del mondo” (ibid.).

Questo invito, il nostro Redentore lo rivolge in particolare a noi, cari fratelli e sorelle di Roma, raccolti in questa storica Piazza intorno all’Eucaristia: vi saluto tutti con affetto. Il mio saluto è innanzitutto per il Cardinale Vicario e i Vescovi Ausiliari, per gli altri venerati Fratelli Cardinali e Vescovi, come pure per i numerosi presbiteri e diaconi, i religiosi e le religiose, e i tanti fedeli laici. Al termine della Celebrazione eucaristica ci uniremo in processione, quasi a portare idealmente il Signore Gesù per tutte le vie e i quartieri di Roma. Lo immergeremo, per così dire, nella quotidianità della nostra vita, perché Egli cammini dove noi camminiamo, perché Egli viva dove noi viviamo. Sappiamo infatti, come ci ha ricordato l’apostolo Paolo nella Lettera ai Corinzi, che in ogni Eucaristia, anche in quella di stasera, noi “annunziamo la morte del Signore finché egli venga” (cfr 1 Cor 11,26). Noi camminiamo sulle strade del mondo sapendo di aver Lui al fianco, sorretti dalla speranza di poterlo un giorno vedere a viso svelato nell’incontro definitivo.

Intanto già ora noi ascoltiamo la sua voce che ripete, come leggiamo nel Libro dell’Apocalisse: “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). La festa del Corpus Domini vuole rendere percepibile, nonostante la durezza del nostro udito interiore, questo bussare del Signore. Gesù bussa alla porta del nostro cuore e ci chiede di entrare non soltanto per lo spazio di un giorno, ma per sempre. Lo accogliamo con gioia elevando a Lui la corale invocazione della Liturgia: “Buon Pastore, vero pane, / o Gesù, pietà di noi (…) Tu che tutto sai e puoi, / che ci nutri sulla terra, / conduci i tuoi fratelli / alla tavola del cielo / nella gioia dei tuoi santi”. Amen!

[Papa Benedetto, omelia 7 giugno 2007]

Sabato, 14 Giugno 2025 04:05

Ecclesia de Eucharistia vivit

1. “Ecclesia de Eucharistia vivit - La Chiesa vive dell'Eucaristia”. Con queste parole inizia la Lettera enciclica sull'Eucaristia, che ho firmato lo scorso Giovedì Santo, durante la Messa in Cena Domini.  L'odierna solennità del “Corpus Domini richiama quella suggestiva celebrazione, facendoci rivivere, al tempo stesso, l'intensa atmosfera dell'Ultima Cena.

Prendete, questo è il mio corpo... Questo è il mio sangue” (Mc 14,22-24). Riascoltiamo le parole di Gesù, mentre offre ai discepoli il pane divenuto suo Corpo, e il vino divenuto suo Sangue. Egli inaugura così il nuovo rito pasquale: l'Eucaristia è il sacramento della nuova ed eterna Alleanza.

Con quei gesti e quelle parole, Cristo porta a compimento la lunga pedagogia dei riti antichi, rievocata poc'anzi dalla prima Lettura (cfr Es 24,3-8).

2. La Chiesa ritorna costantemente al Cenacolo come al luogo della sua nascita. Vi torna perché il dono eucaristico stabilisce una misteriosa “contemporaneità” tra la Pasqua del Signore e il divenire del mondo e delle generazioni (cfr Ecclesia de Eucharistia, 5).

Anche questa sera, con profonda gratitudine a Dio, sostiamo in silenzio dinanzi al mistero della fede - mysterium fidei. Lo contempliamo con quell'intimo sentimento che nell'Enciclica ho chiamato lo “stupore eucaristico” (ibid., 6). Stupore grande e grato di fronte al Sacramento in cui Cristo ha voluto “concentrare” per sempre tutto il suo mistero d’amore (cfr ibid., 5).

Contempliamo il volto eucaristico di Cristo, come hanno fatto gli Apostoli e, in seguito, i santi di tutti i secoli. Lo contempliamo soprattutto ponendoci alla scuola di Maria, “donna ‘eucaristica’ con l'intera sua vita” (ibid., 53), Ella che fu “il primo ‘tabernacolo’ della storia” (ibid., 55).

3. E' questo il significato della bella tradizione del Corpus Domini che si rinnova questa sera. Con essa anche la Chiesa che è in Roma manifesta il suo legame costitutivo con l'Eucaristia, professa con gioia di “vivere dell'Eucaristia”.

Dell'Eucaristia vivono il suo Vescovo, Successore di Pietro, e i Confratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio; dell'Eucaristia vivono i Religiosi e le Religiose, i laici consacrati e tutti i battezzati.

Dell'Eucaristia vivono, in particolare, le famiglie cristiane, alle quali è stato dedicato pochi giorni fa il Convegno ecclesiale diocesano. Carissime famiglie di Roma! La viva presenza eucaristica di Cristo alimenti in voi la grazia del matrimonio e vi permetta di progredire sulla via della santità coniugale e familiare. Attingete da questa sorgente il segreto della vostra unità e del vostro amore, imitando l'esempio dei beati sposi Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi, che iniziavano le loro giornate accostandosi al banchetto eucaristico.

4. Dopo la santa Messa ci dirigeremo pregando e cantando verso la Basilica di Santa Maria Maggiore. Con questa processione intendiamo esprimere simbolicamente il nostro essere pellegrini, “viatores”, verso la patria celeste.

Non siamo soli nel nostro pellegrinaggio: con noi cammina Cristo, pane della vita, “panis angelorum, / factus cibus viatorum - pane degli angeli, / pane dei pellegrini” (Sequenza).

Gesù, cibo spirituale che alimenta la speranza dei credenti, ci sostiene in questo itinerario verso il Cielo e rinsalda la nostra comunione con la Chiesa celeste.

La Santissima Eucaristia, squarcio di Paradiso che si apre sulla terra, penetra le nubi della nostra storia. Quale raggio di gloria della Gerusalemme celeste, essa getta luce sul nostro cammino (cfr Ecclesia de Eucharistia, 19).

5. “Ave, verum corpus natum de Maria Virgine”: Ave, vero corpo di Cristo, nato da Maria Vergine!

L'anima si effonde in stupita adorazione dinanzi a così sublime Mistero.

Vere passum, immolatum in cruce pro homine”. Dalla tua morte in Croce, o Signore, scaturisce per noi la vita che non muore.

Esto nobis praegustatum mortis in examine”. Fa’, o Signore, che ciascuno di noi, nutrito di Te, possa affrontare con fiduciosa speranza ogni prova della vita, fino al giorno in cui ci sarai viatico per l’ultimo viaggio, verso la casa del Padre.

O Iesu dulcis! O Iesu pie! O Iesu, fili Mariae! – O Gesù dolce! O Gesù pio! O Gesù, Figlio di Maria!”.

Amen.

[Papa Giovanni Paolo II, 19 giugno 2003]

Sabato, 14 Giugno 2025 03:50

Conversione dal “ciascuno per sé”

Il Vangelo ci presenta l’episodio del miracolo dei pani (cfr Lc 9,11-17) che si svolge sulla riva del lago di Galilea. Gesù è intento a parlare a migliaia di persone, operando guarigioni. Sul far della sera, i discepoli si avvicinano al Signore e Gli dicono: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo» (v. 12). Anche i discepoli erano stanchi. Infatti erano in un luogo isolato, e la gente per comprare il cibo doveva camminare e andare nei villaggi. E Gesù vede questo e risponde: «Voi stessi date loro da mangiare» (v. 13). Queste parole provocano lo stupore dei discepoli. Non capivano,  forse si sono anche arrabbiati, e rispondono: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente» (ibid.).

Invece, Gesù invita i suoi discepoli a compiere una vera conversione dalla logica del “ciascuno per sé” a quella della condivisione, incominciando da quel poco che la Provvidenza ci mette a disposizione. E subito mostra di aver bene chiaro quello che vuole fare. Dice loro: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa» (v. 14). Poi prende nelle sue mani i cinque pani e i due pesci, si rivolge al Padre celeste e pronuncia la preghiera di benedizione. Quindi, comincia a spezzare i pani, a dividere i pesci, e a darli ai discepoli, i quali li distribuiscono alla folla. E quel cibo non finisce, finché tutti ne hanno ricevuto a sazietà.

Questo miracolo – molto importante, tant’è vero che viene raccontato da tutti gli Evangelisti – manifesta la potenza del Messia e, nello stesso tempo, la sua compassione: Gesù ha compassione della gente. Quel gesto prodigioso non solo rimane come uno dei grandi segni della vita pubblica di Gesù, ma anticipa quello che sarà poi, alla fine, il memoriale del suo sacrificio, cioè l’Eucaristia, sacramento del suo Corpo e del suo Sangue donati per salvezza del mondo.

L’Eucaristia è la sintesi di tutta l’esistenza di Gesù, che è stata un unico atto di amore al Padre e ai fratelli. Anche lì, come nel miracolo della moltiplicazione dei pani, Gesù prese il pane nelle sue mani, elevò al Padre la preghiera benedizione, spezzò il pane e lo diede ai discepoli; e lo stesso fece con il calice del vino. Ma in quel momento, alla vigilia della sua Passione, Egli volle lasciare in quel gesto il Testamento della nuova ed eterna Alleanza, memoriale perpetuo della sua Pasqua di morte e risurrezione. La festa del Corpus Domini ci invita ogni anno a rinnovare lo stupore e la gioia per questo dono stupendo del Signore, che è l’Eucaristia. Accogliamolo con gratitudine, non in modo passivo, abitudinario. Non dobbiamo abituarci all’Eucaristia e andare a comunicarci come per abitudine: no! Ogni volta che noi ci accostiamo all’altare per ricevere l’Eucaristia, dobbiamo rinnovare davvero il nostro “amen” al Corpo di Cristo. Quando il sacerdote ci dice “il Corpo di Cristo”, noi diciamo “amen”: ma che sia un “amen” che viene dal cuore, convinto. È Gesù, è Gesù che mi ha salvato, è Gesù che viene a darmi la forza per vivere. È Gesù, Gesù vivo. Ma non dobbiamo abituarci: ogni volta come se fosse la prima comunione.

Espressione della fede eucaristica del popolo santo di Dio, sono le processioni con il Santissimo Sacramento, che in questa Solennità si svolgono dappertutto nella Chiesa Cattolica.

[Papa Francesco, Angelus 23 giugno 2019]

Pagina 2 di 40
Paolo VI stated that the world today is suffering above all from a lack of brotherhood: “Human society is sorely ill. The cause is not so much the depletion of natural resources, nor their monopolistic control by a privileged few; it is rather the weakening of brotherly ties between individuals and nations” (Pope Benedict)
Paolo VI affermava che il mondo soffre oggi soprattutto di una mancanza di fraternità: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (Papa Benedetto)
Dear friends, this is the perpetual and living heritage that Jesus has bequeathed to us in the Sacrament of his Body and his Blood. It is an inheritance that demands to be constantly rethought and relived so that, as venerable Pope Paul VI said, its "inexhaustible effectiveness may be impressed upon all the days of our mortal life" (Pope Benedict)
Questa, cari amici, è la perpetua e vivente eredità che Gesù ci ha lasciato nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Eredità che domanda di essere costantemente ripensata, rivissuta, affinché, come ebbe a dire il venerato Papa Paolo VI, possa “imprimere la sua inesauribile efficacia su tutti i giorni della nostra vita mortale” (Papa Benedetto)
The road that Jesus points out can seem a little unrealistic with respect to the common mindset and to problems due to the economic crisis; but, if we think about it, this road leads us back to the right scale of values (Pope Francis)
La strada che Gesù indica può sembrare poco realistica rispetto alla mentalità comune e ai problemi della crisi economica; ma, se ci si pensa bene, ci riporta alla giusta scala di valori (Papa Francesco)
Our commitment does not consist exclusively of activities or programmes of promotion and assistance; what the Holy Spirit mobilizes is not an unruly activism, but above all an attentiveness that considers the other in a certain sense as one with ourselves (Pope Francis)
Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro considerandolo come un’unica cosa con se stesso (Papa Francesco)
The drama of prayer is fully revealed to us in the Word who became flesh and dwells among us. To seek to understand his prayer through what his witnesses proclaim to us in the Gospel is to approach the holy Lord Jesus as Moses approached the burning bush: first to contemplate him in prayer, then to hear how he teaches us to pray, in order to know how he hears our prayer (Catechism of the Catholic Church n.2598)
L’evento della preghiera ci viene pienamente rivelato nel Verbo che si è fatto carne e dimora in mezzo a noi. Cercare di comprendere la sua preghiera, attraverso ciò che i suoi testimoni ci dicono di essa nel Vangelo, è avvicinarci al santo Signore Gesù come al roveto ardente: dapprima contemplarlo mentre prega, poi ascoltare come ci insegna a pregare, infine conoscere come egli esaudisce la nostra preghiera (Catechismo della Chiesa Cattolica n.2598)
If penance today moves from the material to the spiritual side, let's say, from the body to the soul, from the outside to the inside, it is no less necessary and less feasible (Pope Paul VI)
Every time we open ourselves to God's call, we prepare, like John, the way of the Lord among men (John Paul II)
Tutte le volte che ci apriamo alla chiamata di Dio, prepariamo, come Giovanni, la via del Signore tra gli uomini (Giovanni Paolo II)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

duevie.art

don Giuseppe Nespeca

Tel. 333-1329741


Disclaimer

Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge N°62 del 07/03/2001.
Le immagini sono tratte da internet, ma se il loro uso violasse diritti d'autore, lo si comunichi all'autore del blog che provvederà alla loro pronta rimozione.
L'autore dichiara di non essere responsabile dei commenti lasciati nei post. Eventuali commenti dei lettori, lesivi dell'immagine o dell'onorabilità di persone terze, il cui contenuto fosse ritenuto non idoneo alla pubblicazione verranno insindacabilmente rimossi.