Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Cari fratelli e sorelle,
nella Catechesi di oggi concentriamo la nostra attenzione sulla preghiera che Gesù rivolge al Padre nell'«Ora» del suo innalzamento e della sua glorificazione (cfr Gv 17,1-26). Come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica: «La tradizione cristiana a ragione la definisce la “preghiera sacerdotale” di Gesù. E' quella del nostro Sommo Sacerdote, è inseparabile dal suo Sacrificio, dal suo “passaggio” [pasqua] al Padre, dove egli è interamente “consacrato” al Padre» (n. 2747).
Questa preghiera di Gesù è comprensibile nella sua estrema ricchezza soprattutto se la collochiamo sullo sfondo della festa giudaica dell’espiazione, lo Yom kippùr. In quel giorno il Sommo Sacerdote compie l’espiazione prima per sé, poi per la classe sacerdotale e infine per l’intera comunità del popolo. Lo scopo è quello di ridare al popolo di Israele, dopo le trasgressioni di un anno, la consapevolezza della riconciliazione con Dio, la consapevolezza di essere popolo eletto, «popolo santo» in mezzo agli altri popoli. La preghiera di Gesù, presentata nel capitolo 17 del Vangelo secondo Giovanni, riprende la struttura di questa festa. Gesù in quella notte si rivolge al Padre nel momento in cui sta offrendo se stesso. Egli, sacerdote e vittima, prega per sé, per gli apostoli e per tutti coloro che crederanno in Lui, per la Chiesa di tutti i tempi (cfr Gv 17,20).
La preghiera che Gesù fa per se stesso è la richiesta della propria glorificazione, del proprio «innalzamento» nella sua «Ora». In realtà è più di una domanda e della dichiarazione di piena disponibilità ad entrare, liberamente e generosamente, nel disegno di Dio Padre che si compie nell’essere consegnato e nella morte e risurrezione. Questa “Ora” è iniziata con il tradimento di Giuda (cfr Gv 13,31) e culminerà nella salita di Gesù risorto al Padre (Gv 20,17). L’uscita di Giuda dal cenacolo è commentata da Gesù con queste parole: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui» (Gv 13,31). Non a caso, Egli inizia la preghiera sacerdotale dicendo: «Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te» (Gv 17,1). La glorificazione che Gesù chiede per se stesso, quale Sommo Sacerdote, è l'ingresso nella piena obbedienza al Padre, un'obbedienza che lo conduce alla sua più piena condizione filiale: «E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse» (Gv 17,5). Sono questa disponibilità e questa richiesta il primo atto del sacerdozio nuovo di Gesù che è un donarsi totalmente sulla croce, e proprio sulla croce - il supremo atto di amore – Egli è glorificato, perché l'amore è la gloria vera, la gloria divina.
Il secondo momento di questa preghiera è l’intercessione che Gesù fa per i discepoli che sono stati con Lui. Essi sono coloro dei quali Gesù può dire al Padre: «Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me, ed essi hanno osservato la tua parola» (Gv 17,6). «Manifestare il nome di Dio agli uomini» è la realizzazione di una presenza nuova del Padre in mezzo al popolo, all’umanità. Questo “manifestare” è non solo una parola, ma è realtà in Gesù; Dio è con noi, e così il nome - la sua presenza con noi, l’essere uno di noi - è “realizzato”. Quindi questa manifestazione si realizza nell’incarnazione del Verbo. In Gesù Dio entra nella carne umana, si fa vicino in modo unico e nuovo. E questa presenza ha il suo vertice nel sacrificio che Gesù realizza nella sua Pasqua di morte e risurrezione.
Al centro di questa preghiera di intercessione e di espiazione a favore dei discepoli sta la richiesta di consacrazione; Gesù dice al Padre: «Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità» (Gv 17,16-19). Domando: cosa significa «consacrare» in questo caso? Anzitutto bisogna dire che «Consacrato» o «Santo», è propriamente solo Dio. Consacrare quindi vuol dire trasferire una realtà – una persona o cosa – nella proprietà di Dio. E in questo sono presenti due aspetti complementari: da una parte togliere dalle cose comuni, segregare, “mettere a parte” dall’ambiente della vita personale dell’uomo per essere donati totalmente a Dio; e dall’altra questa segregazione, questo trasferimento alla sfera di Dio, ha il significato proprio di «invio», di missione: proprio perché donata a Dio, la realtà, la persona consacrata esiste «per» gli altri, è donata agli altri. Donare a Dio vuol dire non essere più per se stessi, ma per tutti. E’ consacrato chi, come Gesù, è segregato dal mondo e messo a parte per Dio in vista di un compito e proprio per questo è pienamente a disposizione di tutti. Per i discepoli, sarà continuare la missione di Gesù, essere donato a Dio per essere così in missione per tutti. La sera di Pasqua, il Risorto, apparendo ai suoi discepoli, dirà loro: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21).
Il terzo atto di questa preghiera sacerdotale distende lo sguardo fino alla fine del tempo. In essa Gesù si rivolge al Padre per intercedere a favore di tutti coloro che saranno portati alla fede mediante la missione inaugurata dagli apostoli e continuata nella storia: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola». Gesù prega per la Chiesa di tutti i tempi, prega anche per noi (Gv 17,20). Il Catechismo della Chiesa Cattolica commenta: «Gesù ha portato a pieno compimento l'opera del Padre, e la sua preghiera, come il suo Sacrificio, si estende fino alla consumazione dei tempi. La preghiera dell'Ora riempie gli ultimi tempi e li porta verso la loro consumazione» (n. 2749).
La richiesta centrale della preghiera sacerdotale di Gesù dedicata ai suoi discepoli di tutti i tempi è quella della futura unità di quanti crederanno in Lui. Tale unità non è un prodotto mondano. Essa proviene esclusivamente dall'unità divina e arriva a noi dal Padre mediante il Figlio e nello Spirito Santo. Gesù invoca un dono che proviene dal Cielo, e che ha il suo effetto – reale e percepibile – sulla terra. Egli prega «perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21). L'unità dei cristiani da una parte è una realtà segreta che sta nel cuore delle persone credenti. Ma, al tempo stesso, essa deve apparire con tutta la chiarezza nella storia, deve apparire perché il mondo creda, ha uno scopo molto pratico e concreto deve apparire perchè tutti siano realmente una sola cosa. L'unità dei futuri discepoli, essendo unità con Gesù - che il Padre ha mandato nel mondo -, è anche la fonte originaria dell'efficacia della missione cristiana nel mondo.
«Possiamo dire che nella preghiera sacerdotale di Gesù si compie l'istituzione della Chiesa ... Proprio qui, nell'atto dell'ultima cena, Gesù crea la Chiesa. Perché, che altro è la Chiesa se non la comunità dei discepoli che, mediante la fede in Gesù Cristo come inviato del Padre, riceve la sua unità ed è coinvolta nella missione di Gesù di salvare il mondo conducendolo alla conoscenza di Dio? Qui troviamo realmente una vera definizione della Chiesa. La Chiesa nasce dalla preghiera di Gesù. E questa preghiera non è soltanto parola: è l'atto in cui egli «consacra» se stesso e cioè «si sacrifica» per la vita del mondo (cfr Gesù di Nazaret, II, 117s).
Gesù prega perché i suoi discepoli siano una cosa sola. In forza di tale unità, ricevuta e custodita, la Chiesa può camminare «nel mondo» senza essere «del mondo» (cfr Gv 17,16) e vivere la missione affidatale perché il mondo creda nel Figlio e nel Padre che lo ha mandato. La Chiesa diventa allora il luogo in cui continua la missione stessa di Cristo: condurre il «mondo» fuori dall’alienazione dell’uomo da Dio e da se stesso, fuori dal peccato, affinché ritorni ad essere il mondo di Dio.
Cari fratelli e sorelle, abbiamo colto qualche elemento della grande ricchezza della preghiera sacerdotale di Gesù, che vi invito a leggere e a meditare, perché ci guidi nel dialogo con il Signore, ci insegni a pregare. Anche noi, allora, nella nostra preghiera, chiediamo a Dio che ci aiuti ad entrare, in modo più pieno, nel progetto che ha su ciascuno di noi; chiediamoGli di essere «consacrati» a Lui, di appartenerGli sempre di più, per poter amare sempre di più gli altri, i vicini e i lontani; chiediamoGli di essere sempre capaci di aprire la nostra preghiera alle dimensioni del mondo, non chiudendola nella richiesta di aiuto per i nostri problemi, ma ricordando davanti al Signore il nostro prossimo, apprendendo la bellezza di intercedere per gli altri; chiediamoGli il dono dell’unità visibile tra tutti i credenti in Cristo - lo abbiamo invocato con forza in questa Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani - preghiamo per essere sempre pronti a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi (cfr 1Pt 3,15). Grazie.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 25 gennaio 2012]
In realtà, è Gesù che cercate quando sognate la felicità; è Lui che vi aspetta quando niente vi soddisfa di quello che trovate; è Lui la bellezza che tanto vi attrae; è Lui che vi provoca con quella sete di radicalità che non vi permette di adattarvi al compromesso; è Lui che vi spinge a deporre le maschere che rendono falsa la vita; è Lui che vi legge nel cuore le decisioni più vere che altri vorrebbero soffocare. E' Gesù che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande, la volontà di seguire un ideale, il rifiuto di lasciarvi inghiottire dalla mediocrità, il coraggio di impegnarvi con umiltà e perseveranza per migliorare voi stessi e la società, rendendola più umana e fraterna.
Carissimi giovani, in questi nobili compiti non siete soli. Con voi ci sono le vostre famiglie, ci sono le vostre comunità, ci sono i vostri sacerdoti ed educatori, ci sono tanti di voi che nel nascondimento non si stancano di amare Cristo e di credere in Lui. Nella lotta contro il peccato non siete soli: tanti come voi lottano e con la grazia del Signore vincono!
Cari amici, vedo in voi le "sentinelle del mattino" (cfr Is 21,11-12) in quest'alba del terzo millennio. Nel corso del secolo che muore, giovani come voi venivano convocati in adunate oceaniche per imparare ad odiare, venivano mandati a combattere gli uni contro gli altri. I diversi messianismi secolarizzati, che hanno tentato di sostituire la speranza cristiana, si sono poi rivelati veri e propri inferni. Oggi siete qui convenuti per affermare che nel nuovo secolo voi non vi presterete ad essere strumenti di violenza e distruzione; difenderete la pace, pagando anche di persona se necessario. Voi non vi rassegnerete ad un mondo in cui altri esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete la vita in ogni momento del suo sviluppo terreno, vi sforzerete con ogni vostra energia di rendere questa terra sempre più abitabile per tutti.
Cari giovani del secolo che inizia, dicendo «sì» a Cristo, voi dite «sì» ad ogni vostro più nobile ideale. Io prego perché Egli regni nei vostri cuori e nell'umanità del nuovo secolo e millennio. Non abbiate paura di affidarvi a Lui. Egli vi guiderà, vi darà la forza di seguirlo ogni giorno e in ogni situazione.
[Papa Giovanni Paolo II, Veglia a Tor Vergata, 19 agosto 2000]
Dopo l’Ultima Cena, il Signore, «alzati gli occhi al cielo, disse: “Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo – e poi – glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse”» (Gv 17,1.5). Gesù domanda la gloria, una richiesta che sembra paradossale mentre la Passione è alle porte. Di quale gloria si tratta? La gloria nella Bibbia, indica il rivelarsi di Dio, è il segno distintivo della sua presenza salvatrice fra gli uomini. Ora, Gesù è Colui che manifesta in modo definitivo la presenza e la salvezza di Dio. E lo fa nella Pasqua: innalzato sulla croce, è glorificato (cfr Gv 12,23-33). Lì Dio finalmente rivela la sua gloria: toglie l’ultimo velo e ci stupisce come mai prima. Scopriamo infatti che la gloria di Dio è tutta amore: amore puro, folle e impensabile, al di là di ogni limite e misura.
Fratelli e sorelle, facciamo nostra la preghiera di Gesù: chiediamo al Padre di togliere i veli ai nostri occhi perché in questi giorni, guardando al Crocifisso, possiamo accogliere che Dio è amore. Quante volte lo immaginiamo padrone e non Padre, quante volte lo pensiamo giudice severo piuttosto che Salvatore misericordioso! Ma Dio a Pasqua azzera le distanze, mostrandosi nell’umiltà di un amore che domanda il nostro amore. Noi, dunque, gli diamo gloria quando viviamo tutto quel che facciamo con amore, quando facciamo ogni cosa di cuore, come per Lui (cfr Col 3,17). La vera gloria è la gloria dell’amore, perché è l’unica che dà la vita al mondo. Certo, questa gloria è il contrario della gloria mondana, che arriva quando si è ammirati, si è lodati, si è acclamati: quando io sto al centro dell’attenzione. La gloria di Dio, invece, è paradossale: niente applausi, niente audience. Al centro non c’è l’io, ma l’altro: a Pasqua vediamo infatti che il Padre glorifica il Figlio mentre il Figlio glorifica il Padre. Nessuno glorifica sé stesso. Possiamo chiederci oggi, noi: “Qual è la gloria per cui vivo? La mia o quella di Dio? Desidero solo ricevere dagli altri o anche donare agli altri?”.
[Papa Francesco, Udienza Generale 17 aprile 2019]
L’eco delle incomprensioni
(Gv 16,29-33)
In Gv le affermazioni del Signore hanno sempre una risonanza di malinteso fra gli uditori.
Dopo l’annuncio della ‘salita’ di Gesù al Padre, qui sembra invece che i discepoli - almeno un poco - lo comprendano.
A breve lo tradiranno; ma ciò non significa non aver intuito nulla.
La chiesa post-pasquale fa esperienza della dialettica di Fede: la chiarisce, l’approfondisce nel tempo, e passo passo l’accetta.
La Vita dell’Eterno si rende presente, si fa più consapevole. La Visione di Fede coglie e anticipa futuro.
Gli apostoli “capiscono” e “credono”, o almeno iniziano a farlo. Ma sono ancora tanto legati a evidenze esterne. Da ciò la fatica del cammino di comprensione, e la diffidenza del Cristo [che ci conosce].
Il nostro è sempre un convincersi parziale, ma gli abbandoni, le remore, i tradimenti, non hanno il potere di affievolire il rapporto del Figlio col Padre e i suoi.
Dio non può essere vinto. Egli è l’unico appoggio: assai più affidabile delle nostre conoscenze, certezze, fievoli sicurezze.
L’incomprensione non fa ostacolo alla relazione di Fede, anzi, se portata a coscienza ne lascia emergere l’Oro; suscita uno scatto, attiva l’intimo acume, un coinvolgimento convinto.
Sorge la «Pace in Lui» (v.33) - propria di colui che è tribolato. Shalôm che non è quietismo, né tregua.
La vittoria della vita sui germi di morte non si può comprendere che nelle prove, in cui emerge ciò che siamo [nell’essere e nell’agire].
La stabilità dell’esistere nello Spirito di Gesù non poggia sulla mancanza di fughe, bensì sul Fondamento autentico, solo divino - quindi poliedrico, tollerante l’onda vitale.
Il testo consente di prendere misura delle nostre incomprensioni, dei nostri stessi rifiuti nei confronti dei sonori appelli che la Provvidenza porge.
I tanti richiami danno immediatamente la feconda misura della condizione di precarietà, e lasciano intendere che neppure l’«Eccomi» eventuale si commisura in una progressione.
Le vistose smentite fanno capire che il «Sì» è costantemente in fase germinale.
Insomma, la fiducia spirituale salda non è presuntuosa, bensì incipiente. Né superficiale. Essa è potente nell’impotenza.
La verifica del credere non è solo l’accettazione della Croce - pur improbabile - ma la sua condizione silente e fruttuosa d’Inatteso. Penetrazione della realtà, che vince il mondo (v.33).
Gesù disillude il credere entusiastico dei suoi: sa che preannuncia fughe vergognose, o la stasi più degradante.
Ma nelle difficoltà nessuno è solo. Ogni prova è occasione di riflessione, piena di slancio e crescita misteriosa.
La Fede non è certezza baldanzosa: se autentica, è messa in discussione passo passo.
Non c’è attimo in cui i problemi sono superati.
E unicamente col Dono dello Spirito si può accettare che il Progetto del Padre e l’Opera del Figlio si compiano nella perdita.
I velluti sono illusori.
Si conosce il Padre della vita, il Cielo in noi, solo percorrendo la strada d’una incessante Liberazione: per la cruda e piena comprensione dell’Altissimo manca sempre molto.
[Lunedì 7.a sett. di Pasqua, 2 giugno 2025]
L’eco delle incomprensioni
(Gv 16,29-33)
In Gv le affermazioni del Signore hanno sempre una risonanza di malinteso fra gli uditori.
Dopo l’annuncio della ‘salita’ di Gesù al Padre, qui sembra invece che i discepoli - almeno un poco - lo comprendano.
A breve lo tradiranno; ma ciò non significa non aver intuito nulla.
La chiesa post-pasquale fa esperienza della dialettica di Fede: la chiarisce, l’approfondisce nel tempo, e passo passo l’accetta.
La Vita dell’Eterno si rende presente, si fa più consapevole. La Visione di Fede coglie e anticipa futuro.
Gli apostoli “capiscono” e “credono”, o almeno iniziano a farlo. Ma sono ancora tanto legati a evidenze esterne. Da ciò la fatica del cammino di comprensione, e la diffidenza del Cristo [che ci conosce].
Il nostro è sempre un convincersi parziale, ma gli abbandoni, le remore, i tradimenti, non hanno il potere di affievolire il rapporto del Figlio col Padre e i suoi.
Dio non può essere vinto. Egli è l’unico appoggio: assai più affidabile delle nostre conoscenze, certezze, fievoli sicurezze.
L’incomprensione non fa ostacolo alla relazione di Fede, anzi, se portata a coscienza ne lascia emergere l’Oro; suscita uno scatto, attiva l’intimo acume, un coinvolgimento convinto.
Sorge la «Pace in Lui» (v.33) - propria di colui che è tribolato.
Shalôm che non è quietismo, né tregua; tantomeno risultato del lasciarsi andare - perché ha riscontro [persino nelle rabbie che ci attivano].
La vittoria della vita sui germi di morte non si può comprendere che nelle prove, in cui emerge ciò che siamo [nell’essere e nell’agire].
La stabilità dell’esistere nello Spirito di Gesù non poggia sulla mancanza di fughe, bensì sul Fondamento autentico, solo divino - quindi poliedrico, tollerante l’onda vitale.
Il testo consente di prendere misura delle nostre incomprensioni, dei nostri stessi rifiuti nei confronti dei sonori appelli che la Provvidenza porge.
I tanti richiami danno immediatamente la feconda misura della condizione di precarietà, e lasciano intendere che neppure l’«Eccomi» eventuale si commisura in una progressione.
Le vistose smentite fanno capire che il «Sì» è costantemente in fase germinale.
Insomma, la fiducia spirituale salda non è presuntuosa, bensì incipiente. Né superficiale. Essa è potente nell’impotenza.
La verifica del credere non è solo l’accettazione della Croce - pur improbabile - ma la sua condizione silente e fruttuosa d’Inatteso. Penetrazione della realtà, che vince il mondo (v.33).
Gesù disillude il credere entusiastico dei suoi: sa che preannuncia fughe vergognose, o la stasi più degradante.
Ma nelle difficoltà nessuno è solo. Ogni prova è occasione di riflessione, piena di slancio e crescita misteriosa.
La Fede non è certezza baldanzosa: se autentica, è messa in discussione passo passo.
Non c’è attimo in cui i problemi sono superati.
E unicamente col Dono dello Spirito si può accettare che il Progetto del Padre e l’Opera del Figlio si compiano nella perdita.
A conclusione di una serie di catechesi a domanda e risposta, Gv incoraggia le sue comunità rattristate da attese snervanti a non temere l’apparente potenza del patto fra religione ufficiale e impero, che sembrava ridicolizzare la Fede dei piccoli e mettere fuori gioco l’impegno di tutti i fratelli in Cristo.
Anche oggi, alcuni “discepoli” pensano di aver capito tutto e si atteggiano a dottori e tuttologi. Ma quando in Gesù sentiamo corrispondenza e si manifesta una luce, è bene sapere: il meglio rimane ancora da svelare.
La Fede cresce nell’esperienza concreta della vita e nella sinergia con la Parola di Dio che ne illumina via via i tratti.
Talora la sua Voce o gli accadimenti possono essere una doccia fredda che spegne lusinghe [si riveleranno fatali, se portate avanti] e gli orgogliosi entusiasmi “infantili” - ingannevoli.
Inizialmente credere nel Crocifisso si lega forse a una corrispondenza spontanea. Ma nel tempo e nella sequela reale, la vita di Fede si delinea sempre meglio, e spegne i finti focolai dell’assenso acerbo: quando la presunzione di sé, delle proprie idee e forze, cade.
Infatti l’essere in Cristo è un motore che ci porta, e via via sbalordisce d’impensabili scoperte: Tesori nascosti dietro lati oscuri. Questo ri-crea l’anima.
Qualcuno tenta di normalizzare la nostra personalità e usarci per sé o il suo clan, ma l’Eterno non entra in alcuno schema culturale, anzi nel tempo li disarma tutti.
Vano è il tentativo comune alle religioni di trasmettere ai semplici ossessioni [datate o modaiole] condite di fantasie isteriche e finte sicurezze.
I devoti abitudinari - quelli da festicciole e parentesi - disorientano non appena s’accorgono che Dio non è un protettore di benedizioni materiali o d’idoli sacrali convenzionali.
Le strutture di peccato subdole, devianti, in Gv sono denominate «mondo» - a dire il connubio apparentemente felice col potere e il tornaconto: una trappola di quietismi, concordismi e velluti illusori.
Si conosce il Padre della vita, il Cielo in noi, solo percorrendo la strada d’una incessante Liberazione: per la cruda e piena comprensione dell’Altissimo manca sempre molto.
Stanchezze
«La mia mano è il suo sostegno, / il mio braccio è la sua forza» (Sal 88,22). Così pensa il Signore quando dice dentro di sé: «Ho trovato Davide, mio servo, / con il mio santo olio l’ho consacrato» (v. 21). Così pensa il nostro Padre ogni volta che “trova” un sacerdote. E aggiunge ancora: «La mia fedeltà e il mio amore saranno con lui / … Egli mi invocherà: “Tu sei mio padre, / mio Dio e roccia della mia salvezza”» (vv. 25.27).
E’ molto bello entrare, con il Salmista, in questo soliloquio del nostro Dio. Egli parla di noi, suoi sacerdoti, suoi preti; ma in realtà non è un soliloquio, non parla da solo: è il Padre che dice a Gesù: “I tuoi amici, quelli che ti amano, mi potranno dire in modo speciale: Tu sei mio Padre” (cfr Gv 14,21). E se il Signore pensa e si preoccupa tanto di come potrà aiutarci, è perché sa che il compito di ungere il popolo fedele non è facile, è duro; ci porta alla stanchezza e alla fatica. Lo sperimentiamo in tutte le forme: dalla stanchezza abituale del lavoro apostolico quotidiano fino a quella della malattia e della morte, compreso il consumarsi nel martirio.
La stanchezza dei sacerdoti! Sapete quante volte penso a questo: alla stanchezza di tutti voi? Ci penso molto e prego di frequente, specialmente quando ad essere stanco sono io. Prego per voi che lavorate in mezzo al popolo fedele di Dio che vi è stato affidato, e molti in luoghi assai abbandonati e pericolosi. E la nostra stanchezza, cari sacerdoti, è come l’incenso che sale silenziosamente al Cielo (cfr Sal 140,2; Ap 8,3-4). La nostra stanchezza va dritta al cuore del Padre.
Siate sicuri che la Madonna si accorge di questa stanchezza e la fa notare subito al Signore. Lei, come Madre, sa capire quando i suoi figli sono stanchi e non pensa a nient’altro. “Benvenuto! Riposati, figlio. Dopo parleremo… Non ci sono qui io, che sono tua Madre?” – ci dirà sempre quando ci avviciniamo a Lei (cfr Evangelii gaudium, 286). E a suo Figlio dirà, come a Cana: «Non hanno vino» (Gv 2,3).
Succede anche che, quando sentiamo il peso del lavoro pastorale, ci può venire la tentazione di riposare in un modo qualunque, come se il riposo non fosse una cosa di Dio. Non cadiamo in questa tentazione. La nostra fatica è preziosa agli occhi di Gesù, che ci accoglie e ci fa alzare: “Venite a me quando siete stanchi e oppressi, io vi darò ristoro” (cfr Mt 11,28). Quando uno sa che, morto di stanchezza, può prostrarsi in adorazione, dire: “Basta per oggi, Signore”, e arrendersi davanti al Padre, uno sa anche che non crolla ma si rinnova, perché chi ha unto con olio di letizia il popolo fedele di Dio, il Signore pure lo unge: “cambia la sua cenere in diadema, le sue lacrime in olio profumato di letizia, il suo abbattimento in canti” (cfr Is 61,3).
Teniamo ben presente che una chiave della fecondità sacerdotale sta nel come riposiamo e nel come sentiamo che il Signore tratta la nostra stanchezza. Com’è difficile imparare a riposare! In questo si gioca la nostra fiducia e il nostro ricordare che anche noi siamo pecore e abbiamo bisogno del pastore, che ci aiuti. Possono aiutarci alcune domande a questo proposito.
So riposare ricevendo l’amore, la gratuità e tutto l’affetto che mi dà il popolo fedele di Dio? O dopo il lavoro pastorale cerco riposi più raffinati, non quelli dei poveri ma quelli che offre la società dei consumi? Lo Spirito Santo è veramente per me “riposo nella fatica”, o solo Colui che mi fa lavorare? So chiedere aiuto a qualche sacerdote saggio? So riposare da me stesso, dalla mia auto-esigenza, dal mio auto-compiacimento, dalla mia auto-referenzialità? So conversare con Gesù, con il Padre, con la Vergine e san Giuseppe, con i miei Santi protettori amici per riposarmi nelle loro esigenze – che sono soavi e leggere –, nel loro compiacimento – ad essi piace stare in mia compagnia –, e nei loro interessi e riferimenti – ad essi interessa solo la maggior gloria di Dio – …? So riposare dai miei nemici sotto la protezione del Signore? Vado argomentando e tramando fra me, rimuginando più volte la mia difesa, o mi affido allo Spirito Santo che mi insegna quello che devo dire in ogni occasione? Mi preoccupo e mi affanno eccessivamente o, come Paolo, trovo riposo dicendo: «So in chi ho posto la mia fede» (2 Tm 1,12)?
Ripassiamo un momento, brevemente, gli impegni dei sacerdoti, che oggi la liturgia ci proclama: portare ai poveri la Buona Notizia, annunciare la liberazione ai prigionieri e la guarigione ai ciechi, dare la libertà agli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore. Isaia dice anche curare quelli che hanno il cuore spezzato e consolare gli afflitti.
Non sono compiti facili, non sono compiti esteriori, come ad esempio le attività manuali – costruire un nuovo salone parrocchiale, o tracciare le linee di un campo di calcio per i giovani dell’oratorio…; gli impegni menzionati da Gesù implicano la nostra capacità di compassione, sono impegni in cui il nostro cuore è “mosso” e commosso. Ci rallegriamo con i fidanzati che si sposano, ridiamo con il bimbo che portano a battezzare; accompagniamo i giovani che si preparano al matrimonio e alla famiglia; ci addoloriamo con chi riceve l’unzione nel letto di ospedale; piangiamo con quelli che seppelliscono una persona cara… Tante emozioni… Se noi abbiamo il cuore aperto, questa emozione e tanto affetto affaticano il cuore del Pastore. Per noi sacerdoti le storie della nostra gente non sono un notiziario: noi conosciamo la nostra gente, possiamo indovinare ciò che sta passando nel loro cuore; e il nostro, nel patire con loro, ci si va sfilacciando, ci si divide in mille pezzetti, ed è commosso e sembra perfino mangiato dalla gente: prendete, mangiate. Questa è la parola che sussurra costantemente il sacerdote di Gesù quando si sta prendendo cura del suo popolo fedele: prendete e mangiate, prendete e bevete… E così la nostra vita sacerdotale si va donando nel servizio, nella vicinanza al Popolo fedele di Dio… che sempre, sempre stanca.
Vorrei ora condividere con voi alcune stanchezze sulle quali ho meditato.
C’è quella che possiamo chiamare “la stanchezza della gente, la stanchezza delle folle”: per il Signore, come per noi, era spossante – lo dice il Vangelo –, ma è una stanchezza buona, una stanchezza piena di frutti e di gioia. La gente che lo seguiva, le famiglie che gli portavano i loro bambini perché li benedicesse, quelli che erano stati guariti, che venivano con i loro amici, i giovani che si entusiasmavano del Rabbì…, non gli lasciavano neanche il tempo per mangiare. Ma il Signore non si seccava di stare con la gente. Al contrario: sembrava che si ricaricasse (cfr. Evangelii gaudium, 11). Questa stanchezza in mezzo alla nostra attività è solitamente una grazia che è a portata di mano di tutti noi sacerdoti (cfr ibid., 279). Che bella cosa è questa: la gente ama, desidera e ha bisogno dei suoi pastori! Il popolo fedele non ci lascia senza impegno diretto, salvo che uno si nasconda in un ufficio o vada per la città con i vetri oscurati. E questa stanchezza è buona, è una stanchezza sana. E’ la stanchezza del sacerdote con l’odore delle pecore…, ma con il sorriso di papà che contempla i suoi figli o i suoi nipotini. Niente a che vedere con quelli che sanno di profumi cari e ti guardano da lontano e dall’alto (cfr ibid., 97). Siamo gli amici dello Sposo, questa è la nostra gioia. Se Gesù sta pascendo il gregge in mezzo a noi non possiamo essere pastori con la faccia acida, lamentosi, né, ciò che è peggio, pastori annoiati. Odore di pecore e sorriso di padri… Sì, molto stanchi, ma con la gioia di chi ascolta il suo Signore che dice: «Venite, benedetti del Padre mio» (Mt 25,34).
C’è anche quella che possiamo chiamare “la stanchezza dei nemici”. Il demonio e i suoi seguaci non dormono e, dato che le loro orecchie non sopportano la Parola di Dio, lavorano instancabilmente per zittirla o confonderla. Qui la stanchezza di affrontarli è più ardua. Non solo si tratta di fare il bene, con tutta la fatica che comporta, bensì bisogna difendere il gregge e difendere sé stessi dal male (cfr Evangelii gaudium, 83). Il maligno è più astuto di noi ed è capace di demolire in un momento quello che abbiamo costruito con pazienza durante lungo tempo. Qui occorre chiedere la grazia di imparare a neutralizzare - è un’abitudine importante: imparare a neutralizzare -: neutralizzare il male, non strappare la zizzania, non pretendere di difendere come superuomini ciò che solo il Signore deve difendere. Tutto questo aiuta a non farsi cadere le braccia davanti allo spessore dell’iniquità, davanti allo scherno dei malvagi. La parola del Signore per queste situazioni di stanchezza è: «Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). E questa parola ci darà forza.
E per ultima – ultima perché questa omelia non vi stanchi troppo – c’è anche “la stanchezza di sé stessi” (cfr Evangelii gaudium, 277). E’ forse la più pericolosa. Perché le altre due provengono dal fatto di essere esposti, di uscire da noi stessi per ungere e darsi da fare (siamo quelli che si prendono cura). Invece questa stanchezza, è più auto-referenziale: è la delusione di sé stessi ma non guardata in faccia, con la serena letizia di chi si scopre peccatore e bisognoso di perdono, di aiuto: questi chiede aiuto e va avanti. Si tratta della stanchezza che dà il “volere e non volere”, l’essersi giocato tutto e poi rimpiangere l’aglio e le cipolle d’Egitto, il giocare con l’illusione di essere qualcos’altro. Questa stanchezza mi piace chiamarla “civettare con la mondanità spirituale”. E quando uno rimane solo, si accorge di quanti settori della vita sono stati impregnati da questa mondanità, e abbiamo persino l’impressione che nessun bagno la possa pulire. Qui può esserci una stanchezza cattiva. La parola dell’Apocalisse ci indica la causa di questa stanchezza: «Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore» (2,3-4). Solo l’amore dà riposo. Ciò che non si ama, stanca male, e alla lunga stanca peggio.
L’immagine più profonda e misteriosa di come il Signore tratta la nostra stanchezza pastorale è quella che «avendo amato i suoi…, li amò sino alla fine» (Gv 13,1): la scena della lavanda dei piedi. Mi piace contemplarla come la lavanda della sequela. Il Signore purifica la stessa sequela, Egli si «coinvolge» con noi (Evangelii gaudium, 24), si fa carico in prima persona di pulire ogni macchia, quello smog mondano e untuoso che ci si è attaccato nel cammino che abbiamo fatto nel suo Nome.
Sappiamo che nei piedi si può vedere come va tutto il nostro corpo. Nel modo di seguire il Signore si manifesta come va il nostro cuore. Le piaghe dei piedi, le slogature e la stanchezza, sono segno di come lo abbiamo seguito, di quali strade abbiamo fatto per cercare le sue pecore perdute, tentando di condurre il gregge ai verdi pascoli e alle acque tranquille (cfr ibid., 270). Il Signore ci lava e ci purifica da tutto quello che si è accumulato sui nostri piedi per seguirlo. E questo è sacro. Non permette che rimanga macchiato. Come le ferite di guerra Lui le bacia, così la sporcizia del lavoro Lui la lava.
La sequela di Gesù è lavata dallo stesso Signore affinché ci sentiamo in diritto di essere “gioiosi”, “pieni”, “senza paura né colpa” e così abbiamo il coraggio di uscire e andare “sino ai confini del mondo, a tutte le periferie”, a portare questa buona notizia ai più abbandonati, sapendo che “Lui è con noi, tutti i giorni fino alla fine del mondo”. E per favore, chiediamo la grazia di imparare ad essere stanchi, ma ben stanchi!
[Papa Francesco, omelia del Crisma 2 aprile 2015]
Cari fratelli e sorelle,
abbiamo rievocato, nella meditazione, nella preghiera e nel canto, il cammino di Gesù sulla via della Croce: una via che sembrava senza uscita e che invece ha cambiato la vita e la storia dell’uomo, ha aperto il passaggio verso i «cieli nuovi e la nuova terra» (cfr Ap 21,1). Specialmente in questo giorno del Venerdì Santo, la Chiesa celebra, con intima adesione spirituale, la memoria della morte in croce del Figlio di Dio, e nella sua Croce vede l’albero della vita, fecondo di una nuova speranza.
L’esperienza della sofferenza segna l’umanità, segna anche la famiglia; quante volte il cammino si fa faticoso e difficile! Incomprensioni, divisioni, preoccupazione per il futuro dei figli, malattie, disagi di vario genere. In questo nostro tempo, poi, la situazione di molte famiglie è aggravata dalla precarietà del lavoro e dalle altre conseguenze negative provocate dalla crisi economica. Il cammino della Via Crucis, che abbiamo spiritualmente ripercorso questa sera, è un invito per tutti noi, e specialmente per le famiglie, a contemplare Cristo crocifisso per avere la forza di andare oltre le difficoltà. La Croce di Gesù è il segno supremo dell’amore di Dio per ogni uomo, è la risposta sovrabbondante al bisogno che ha ogni persona di essere amata. Quando siamo nella prova, quando le nostre famiglie si trovano ad affrontare il dolore, la tribolazione, guardiamo alla Croce di Cristo: lì troviamo il coraggio per continuare a camminare; lì possiamo ripetere, con ferma speranza, le parole di san Paolo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? … Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati» (Rm 8,35.37).
Nelle afflizioni e nelle difficoltà non siamo soli; la famiglia non è sola: Gesù è presente con il suo amore, la sostiene con la sua grazia e le dona l’energia per andare avanti. Ed è a questo amore di Cristo che dobbiamo rivolgerci quando gli sbandamenti umani e le difficoltà rischiano di ferire l’unità della nostra vita e della famiglia. Il mistero della passione, morte e risurrezione di Cristo incoraggia a camminare con speranza: la stagione del dolore e della prova, se vissuta con Cristo, con fede in Lui, racchiude già la luce della risurrezione, la vita nuova del mondo risorto, la pasqua di ogni uomo che crede alla sua Parola.
In quell’Uomo crocifisso, che è il Figlio di Dio, anche la stessa morte acquista nuovo significato e orientamento, è riscattata e vinta, è il passaggio verso la nuova vita: «se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). Affidiamoci alla Madre di Cristo. Lei che ha accompagnato il suo Figlio sulla via dolorosa, Lei che stava sotto la Croce nell’ora della sua morte, Lei che ha incoraggiato la Chiesa al suo nascere perché viva alla presenza del Signore, conduca i nostri cuori, i cuori di tutte le famiglie attraverso il vasto mysterium passionis verso il mysterium paschale, verso quella luce che prorompe dalla Risurrezione di Cristo e mostra la definitiva vittoria dell’amore, della gioia, della vita, sul male, sulla sofferenza, sulla morte. Amen.
[Papa Benedetto, Via Crucis al Colosseo 6 aprile 2012]
13. Per i credenti e per le persone di buona volontà la grande sfida in questo nostro tempo è sostenere una comunicazione veritiera e libera, che contribuisca a consolidare il progresso integrale del mondo. A tutti è chiesto di saper coltivare un attento discernimento e una costante vigilanza, maturando una sana capacità critica di fronte alla forza persuasiva dei mezzi di comunicazione.
Anche in questo campo i credenti in Cristo sanno di poter contare sull'aiuto dello Spirito Santo. Aiuto ancor più necessario se si considera quanto amplificate possano risultare le difficoltà intrinseche della comunicazione a causa delle ideologie, del desiderio di guadagno e di potere, delle rivalità e dei conflitti tra individui e gruppi, come pure a motivo delle umane fragilità e dei mali sociali. Le moderne tecnologie aumentano in maniera impressionante la velocità, la quantità e la portata della comunicazione, ma non favoriscono altrettanto quel fragile scambio tra mente e mente, tra cuore e cuore, che deve caratterizzare ogni comunicazione al servizio della solidarietà e dell'amore.
Nella storia della salvezza Cristo si è presentato a noi come «comunicatore» del Padre: «Dio, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,2). Parola eterna fatta carne, Egli, nel comunicarsi, manifesta sempre rispetto per coloro che ascoltano, insegna la comprensione della loro situazione e dei loro bisogni, spinge alla compassione per la loro sofferenza e alla risoluta determinazione nel dire loro quello che hanno bisogno di sentire, senza imposizioni o compromessi, inganno o manipolazione. Gesù insegna che la comunicazione è un atto morale: «L'uomo buono dal suo buon tesoro trae cose buone, mentre l'uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae cose cattive. Ma io vi dico che di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio, poiché in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato» (Mt 12,35-37).
14. L'apostolo Paolo ha un chiaro messaggio per quanti sono impegnati nella comunicazione sociale — politici, comunicatori professionisti, spettatori: «Bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membra gli uni degli altri [...] Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano» (Ef 4,25.29).
Agli operatori della comunicazione, e specialmente ai credenti che operano in questo importante ambito della società, applico l'invito che fin dall'inizio del mio ministero di Pastore della Chiesa universale ho voluto lanciare al mondo intero: «Non abbiate paura!».
Non abbiate paura delle nuove tecnologie! Esse sono «tra le cose meravigliose» — «inter mirifica» — che Dio ci ha messo a disposizione per scoprire, usare, far conoscere la verità, anche la verità sulla nostra dignità e sul nostro destino di figli suoi, eredi del suo Regno eterno.
Non abbiate paura dell'opposizione del mondo! Gesù ci ha assicurato «Io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33).
Non abbiate paura nemmeno della vostra debolezza e della vostra inadeguatezza! Il divino Maestro ha detto: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Comunicate il messaggio di speranza, di grazia e di amore di Cristo, mantenendo sempre viva, in questo mondo che passa, l'eterna prospettiva del Cielo, prospettiva che nessun mezzo di comunicazione potrà mai direttamente raggiungere: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo: queste ha preparato Dio per coloro che lo amano» (1Cor 2,9).
A Maria, che ci ha donato il Verbo della vita e di Lui ha serbato nel cuore le imperiture parole, affido il cammino della Chiesa nel mondo d'oggi. Ci aiuti la Vergine Santa a comunicare con ogni mezzo la bellezza e la gioia della vita in Cristo nostro Salvatore.
[Papa Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica ai responsabili delle comunicazioni sociali, 24 gennaio 2005]
«La mia mano è il suo sostegno, / il mio braccio è la sua forza» (Sal 88,22). Così pensa il Signore quando dice dentro di sé: «Ho trovato Davide, mio servo, / con il mio santo olio l’ho consacrato» (v. 21). Così pensa il nostro Padre ogni volta che “trova” un sacerdote. E aggiunge ancora: «La mia fedeltà e il mio amore saranno con lui / … Egli mi invocherà: “Tu sei mio padre, / mio Dio e roccia della mia salvezza”» (vv. 25.27).
E’ molto bello entrare, con il Salmista, in questo soliloquio del nostro Dio. Egli parla di noi, suoi sacerdoti, suoi preti; ma in realtà non è un soliloquio, non parla da solo: è il Padre che dice a Gesù: “I tuoi amici, quelli che ti amano, mi potranno dire in modo speciale: Tu sei mio Padre” (cfr Gv 14,21). E se il Signore pensa e si preoccupa tanto di come potrà aiutarci, è perché sa che il compito di ungere il popolo fedele non è facile, è duro; ci porta alla stanchezza e alla fatica. Lo sperimentiamo in tutte le forme: dalla stanchezza abituale del lavoro apostolico quotidiano fino a quella della malattia e della morte, compreso il consumarsi nel martirio.
La stanchezza dei sacerdoti! Sapete quante volte penso a questo: alla stanchezza di tutti voi? Ci penso molto e prego di frequente, specialmente quando ad essere stanco sono io. Prego per voi che lavorate in mezzo al popolo fedele di Dio che vi è stato affidato, e molti in luoghi assai abbandonati e pericolosi. E la nostra stanchezza, cari sacerdoti, è come l’incenso che sale silenziosamente al Cielo (cfr Sal 140,2; Ap 8,3-4). La nostra stanchezza va dritta al cuore del Padre.
Siate sicuri che la Madonna si accorge di questa stanchezza e la fa notare subito al Signore. Lei, come Madre, sa capire quando i suoi figli sono stanchi e non pensa a nient’altro. “Benvenuto! Riposati, figlio. Dopo parleremo… Non ci sono qui io, che sono tua Madre?” – ci dirà sempre quando ci avviciniamo a Lei (cfr Evangelii gaudium, 286). E a suo Figlio dirà, come a Cana: «Non hanno vino» (Gv 2,3).
Succede anche che, quando sentiamo il peso del lavoro pastorale, ci può venire la tentazione di riposare in un modo qualunque, come se il riposo non fosse una cosa di Dio. Non cadiamo in questa tentazione. La nostra fatica è preziosa agli occhi di Gesù, che ci accoglie e ci fa alzare: “Venite a me quando siete stanchi e oppressi, io vi darò ristoro” (cfr Mt 11,28). Quando uno sa che, morto di stanchezza, può prostrarsi in adorazione, dire: “Basta per oggi, Signore”, e arrendersi davanti al Padre, uno sa anche che non crolla ma si rinnova, perché chi ha unto con olio di letizia il popolo fedele di Dio, il Signore pure lo unge: “cambia la sua cenere in diadema, le sue lacrime in olio profumato di letizia, il suo abbattimento in canti” (cfr Is 61,3).
Teniamo ben presente che una chiave della fecondità sacerdotale sta nel come riposiamo e nel come sentiamo che il Signore tratta la nostra stanchezza. Com’è difficile imparare a riposare! In questo si gioca la nostra fiducia e il nostro ricordare che anche noi siamo pecore e abbiamo bisogno del pastore, che ci aiuti. Possono aiutarci alcune domande a questo proposito.
So riposare ricevendo l’amore, la gratuità e tutto l’affetto che mi dà il popolo fedele di Dio? O dopo il lavoro pastorale cerco riposi più raffinati, non quelli dei poveri ma quelli che offre la società dei consumi? Lo Spirito Santo è veramente per me “riposo nella fatica”, o solo Colui che mi fa lavorare? So chiedere aiuto a qualche sacerdote saggio? So riposare da me stesso, dalla mia auto-esigenza, dal mio auto-compiacimento, dalla mia auto-referenzialità? So conversare con Gesù, con il Padre, con la Vergine e san Giuseppe, con i miei Santi protettori amici per riposarmi nelle loro esigenze – che sono soavi e leggere –, nel loro compiacimento – ad essi piace stare in mia compagnia –, e nei loro interessi e riferimenti – ad essi interessa solo la maggior gloria di Dio – …? So riposare dai miei nemici sotto la protezione del Signore? Vado argomentando e tramando fra me, rimuginando più volte la mia difesa, o mi affido allo Spirito Santo che mi insegna quello che devo dire in ogni occasione? Mi preoccupo e mi affanno eccessivamente o, come Paolo, trovo riposo dicendo: «So in chi ho posto la mia fede» (2 Tm 1,12)?
Ripassiamo un momento, brevemente, gli impegni dei sacerdoti, che oggi la liturgia ci proclama: portare ai poveri la Buona Notizia, annunciare la liberazione ai prigionieri e la guarigione ai ciechi, dare la libertà agli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore. Isaia dice anche curare quelli che hanno il cuore spezzato e consolare gli afflitti.
Non sono compiti facili, non sono compiti esteriori, come ad esempio le attività manuali – costruire un nuovo salone parrocchiale, o tracciare le linee di un campo di calcio per i giovani dell’oratorio…; gli impegni menzionati da Gesù implicano la nostra capacità di compassione, sono impegni in cui il nostro cuore è “mosso” e commosso. Ci rallegriamo con i fidanzati che si sposano, ridiamo con il bimbo che portano a battezzare; accompagniamo i giovani che si preparano al matrimonio e alla famiglia; ci addoloriamo con chi riceve l’unzione nel letto di ospedale; piangiamo con quelli che seppelliscono una persona cara… Tante emozioni… Se noi abbiamo il cuore aperto, questa emozione e tanto affetto affaticano il cuore del Pastore. Per noi sacerdoti le storie della nostra gente non sono un notiziario: noi conosciamo la nostra gente, possiamo indovinare ciò che sta passando nel loro cuore; e il nostro, nel patire con loro, ci si va sfilacciando, ci si divide in mille pezzetti, ed è commosso e sembra perfino mangiato dalla gente: prendete, mangiate. Questa è la parola che sussurra costantemente il sacerdote di Gesù quando si sta prendendo cura del suo popolo fedele: prendete e mangiate, prendete e bevete… E così la nostra vita sacerdotale si va donando nel servizio, nella vicinanza al Popolo fedele di Dio… che sempre, sempre stanca.
Vorrei ora condividere con voi alcune stanchezze sulle quali ho meditato.
C’è quella che possiamo chiamare “la stanchezza della gente, la stanchezza delle folle”: per il Signore, come per noi, era spossante – lo dice il Vangelo –, ma è una stanchezza buona, una stanchezza piena di frutti e di gioia. La gente che lo seguiva, le famiglie che gli portavano i loro bambini perché li benedicesse, quelli che erano stati guariti, che venivano con i loro amici, i giovani che si entusiasmavano del Rabbì…, non gli lasciavano neanche il tempo per mangiare. Ma il Signore non si seccava di stare con la gente. Al contrario: sembrava che si ricaricasse (cfr. Evangelii gaudium, 11). Questa stanchezza in mezzo alla nostra attività è solitamente una grazia che è a portata di mano di tutti noi sacerdoti (cfr ibid., 279). Che bella cosa è questa: la gente ama, desidera e ha bisogno dei suoi pastori! Il popolo fedele non ci lascia senza impegno diretto, salvo che uno si nasconda in un ufficio o vada per la città con i vetri oscurati. E questa stanchezza è buona, è una stanchezza sana. E’ la stanchezza del sacerdote con l’odore delle pecore…, ma con il sorriso di papà che contempla i suoi figli o i suoi nipotini. Niente a che vedere con quelli che sanno di profumi cari e ti guardano da lontano e dall’alto (cfr ibid., 97). Siamo gli amici dello Sposo, questa è la nostra gioia. Se Gesù sta pascendo il gregge in mezzo a noi non possiamo essere pastori con la faccia acida, lamentosi, né, ciò che è peggio, pastori annoiati. Odore di pecore e sorriso di padri… Sì, molto stanchi, ma con la gioia di chi ascolta il suo Signore che dice: «Venite, benedetti del Padre mio» (Mt 25,34).
C’è anche quella che possiamo chiamare “la stanchezza dei nemici”. Il demonio e i suoi seguaci non dormono e, dato che le loro orecchie non sopportano la Parola di Dio, lavorano instancabilmente per zittirla o confonderla. Qui la stanchezza di affrontarli è più ardua. Non solo si tratta di fare il bene, con tutta la fatica che comporta, bensì bisogna difendere il gregge e difendere sé stessi dal male (cfr Evangelii gaudium, 83). Il maligno è più astuto di noi ed è capace di demolire in un momento quello che abbiamo costruito con pazienza durante lungo tempo. Qui occorre chiedere la grazia di imparare a neutralizzare - è un’abitudine importante: imparare a neutralizzare -: neutralizzare il male, non strappare la zizzania, non pretendere di difendere come superuomini ciò che solo il Signore deve difendere. Tutto questo aiuta a non farsi cadere le braccia davanti allo spessore dell’iniquità, davanti allo scherno dei malvagi. La parola del Signore per queste situazioni di stanchezza è: «Abbiate coraggio, io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). E questa parola ci darà forza.
E per ultima – ultima perché questa omelia non vi stanchi troppo – c’è anche “la stanchezza di sé stessi” (cfr Evangelii gaudium, 277). E’ forse la più pericolosa. Perché le altre due provengono dal fatto di essere esposti, di uscire da noi stessi per ungere e darsi da fare (siamo quelli che si prendono cura). Invece questa stanchezza, è più auto-referenziale: è la delusione di sé stessi ma non guardata in faccia, con la serena letizia di chi si scopre peccatore e bisognoso di perdono, di aiuto: questi chiede aiuto e va avanti. Si tratta della stanchezza che dà il “volere e non volere”, l’essersi giocato tutto e poi rimpiangere l’aglio e le cipolle d’Egitto, il giocare con l’illusione di essere qualcos’altro. Questa stanchezza mi piace chiamarla “civettare con la mondanità spirituale”. E quando uno rimane solo, si accorge di quanti settori della vita sono stati impregnati da questa mondanità, e abbiamo persino l’impressione che nessun bagno la possa pulire. Qui può esserci una stanchezza cattiva. La parola dell’Apocalisse ci indica la causa di questa stanchezza: «Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore» (2,3-4). Solo l’amore dà riposo. Ciò che non si ama, stanca male, e alla lunga stanca peggio.
L’immagine più profonda e misteriosa di come il Signore tratta la nostra stanchezza pastorale è quella che «avendo amato i suoi…, li amò sino alla fine» (Gv 13,1): la scena della lavanda dei piedi. Mi piace contemplarla come la lavanda della sequela. Il Signore purifica la stessa sequela, Egli si «coinvolge» con noi (Evangelii gaudium, 24), si fa carico in prima persona di pulire ogni macchia, quello smog mondano e untuoso che ci si è attaccato nel cammino che abbiamo fatto nel suo Nome.
Sappiamo che nei piedi si può vedere come va tutto il nostro corpo. Nel modo di seguire il Signore si manifesta come va il nostro cuore. Le piaghe dei piedi, le slogature e la stanchezza, sono segno di come lo abbiamo seguito, di quali strade abbiamo fatto per cercare le sue pecore perdute, tentando di condurre il gregge ai verdi pascoli e alle acque tranquille (cfr ibid., 270). Il Signore ci lava e ci purifica da tutto quello che si è accumulato sui nostri piedi per seguirlo. E questo è sacro. Non permette che rimanga macchiato. Come le ferite di guerra Lui le bacia, così la sporcizia del lavoro Lui la lava.
La sequela di Gesù è lavata dallo stesso Signore affinché ci sentiamo in diritto di essere “gioiosi”, “pieni”, “senza paura né colpa” e così abbiamo il coraggio di uscire e andare “sino ai confini del mondo, a tutte le periferie”, a portare questa buona notizia ai più abbandonati, sapendo che “Lui è con noi, tutti i giorni fino alla fine del mondo”. E per favore, chiediamo la grazia di imparare ad essere stanchi, ma ben stanchi!
[Papa Francesco, omelia del Crisma 2 aprile 2015]
Pasqua, Ascensione. (Ci sono prove che Vive)
Qual è il destino, la traiettoria di una vita spesa nella fedeltà a una vocazione profetica? L’esito terreno di Gesù - il Figlio fedele - sembrerebbe quello dei falliti d’ogni tempo.
Allora vale la pena essere se stessi? Non sarebbe più costruttivo regolarsi sulla base di convenienze personali e opportunismi di gruppo?
Insomma, con la Pasqua e Ascensione di Gesù, cosa è cambiato?
La gente continua come prima a viaggiare o stare ferma, a comprare e vendere, a lavorare o fare festa, a gioire o piangere...
Ma come in un paesaggio caratterizzato da nebbie, all’improvviso sorge il sole e vediamo profili netti, godiamo della brillantezza di colori, persino delle sfumature.
Una Visione più nitida, nell’esperienza di Fede.
La Pasqua celebra una gioia: è la festa di coloro che si rendono conto che le sconfitte non restano lati oscuri. Nascondono Gemme sproporzionate.
Del nostro passaggio rimane una fioritura piena. E non è vero che una vita distrutta o vessata sia sciupata o finisca male, lasciandoci orfani.
Piuttosto, essa acuisce l’ascolto e tutta la percezione. Così impariamo ad accogliere l’oggettivo degli altri e la loro-nostra irripetibilità.
Apprendiamo a dialogare con la cruda realtà e anzitutto con noi stessi; così finalmente onorare Dio rispettandoci in modo integrale.
Nelle icone orientali la Pasqua è raffigurata come Discesa agli Inferi: vittoria della donna e dell’uomo comuni [riportati alla vita].
Ancora nelle icone, il Mistero dell’Ascensione è raffigurato con due angeli in bianche vesti che indicano agli apostoli il nimbo glorioso del Signore, seduto in trono.
Come dire: contemplate dove è giunta una vita sprecata secondo gli uomini, ma realizzata secondo il Padre.
Obbedire alla nostra vocazione senza compromessi e in modo integrale può sembrare imprudente, temerario. Invece è pieno rispetto di sé, e ci conduce alla nostra Patria.
La natura delle nostre fibre animate dall’Amico interiore fa appello non a traguardi sociali da raggiungere, ma a ciò che siamo davvero - e il nostro Nome profondo dispiegato nel cammino di Fede accompagna infallibilmente alla Culla.
Lasciarsi influenzare e diventare esterni è perdere se stessi e smarrire la Guida, rovinando la completezza dell’essere.
Malgrado l’apparente fallimento e i rimproveri che l’inedito personale e sociale suscita, ascoltando quel Fuoco inestinguibile che ci abita, realizziamo la vita in modo integrale.
Se l'attenzione non è sullo scenario di ciò che attorno accade, trasaliamo per la nuova consapevolezza d’una genesi in atto della nostra personalità e missione: un prototipo e modalità di noi stessi che stanno misteriosamente fiorendo, e hanno valore.
A meno che non ci lasciamo condizionare e soverchiare da interferenze o calcoli esterni e circostanze dattorno, avvertiamo che c’è già un binario caratterizzante il quale chiama da dentro.
Ci si accorge che possiamo stare con noi stessi e crescere senza preclusioni d’inatteso, né codici già comunemente paradigmatici, perché Dio si esprime creando rinnovati cieli dentro di noi e sulla terra.
Il Cielo: decollare senz’allontanarsi. Non siamo soli. E il meglio deve ancora Venire.
P.S. Oggi più che mai siamo nell’era delle vetrine sociali, che palesano ogni aspetto della storia e della cronaca anche private.
Quando valorizziamo l’aspetto dell’anima che comunica con le scorze dei target, la tagliamo o squilibriamo con pensieri dominanti lasciando che venga plagiata da manipolatori - anche spirituali.
Ma il cuore che smarrisce l’Intero non traccia più il sentiero che canta il nostro Seme. Esso pretende di esprimersi. Altrimenti procederemmo a vanvera o a cliché.
Insomma, non siamo un giudizio, un’opinione, una crisi, un ricordo, bensì inventori di strade che attingono a un’acqua sempre sorgiva.
Non a un pozzo, né ad una palude, dove tutto è già accaduto, ma a una Sorgente.
[Ascensione del Signore, 1 giugno 2025]
Paolo VI stated that the world today is suffering above all from a lack of brotherhood: “Human society is sorely ill. The cause is not so much the depletion of natural resources, nor their monopolistic control by a privileged few; it is rather the weakening of brotherly ties between individuals and nations” (Pope Benedict)
Paolo VI affermava che il mondo soffre oggi soprattutto di una mancanza di fraternità: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (Papa Benedetto)
Dear friends, this is the perpetual and living heritage that Jesus has bequeathed to us in the Sacrament of his Body and his Blood. It is an inheritance that demands to be constantly rethought and relived so that, as venerable Pope Paul VI said, its "inexhaustible effectiveness may be impressed upon all the days of our mortal life" (Pope Benedict)
Questa, cari amici, è la perpetua e vivente eredità che Gesù ci ha lasciato nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Eredità che domanda di essere costantemente ripensata, rivissuta, affinché, come ebbe a dire il venerato Papa Paolo VI, possa “imprimere la sua inesauribile efficacia su tutti i giorni della nostra vita mortale” (Papa Benedetto)
The road that Jesus points out can seem a little unrealistic with respect to the common mindset and to problems due to the economic crisis; but, if we think about it, this road leads us back to the right scale of values (Pope Francis)
La strada che Gesù indica può sembrare poco realistica rispetto alla mentalità comune e ai problemi della crisi economica; ma, se ci si pensa bene, ci riporta alla giusta scala di valori (Papa Francesco)
Our commitment does not consist exclusively of activities or programmes of promotion and assistance; what the Holy Spirit mobilizes is not an unruly activism, but above all an attentiveness that considers the other in a certain sense as one with ourselves (Pope Francis)
Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro considerandolo come un’unica cosa con se stesso (Papa Francesco)
The drama of prayer is fully revealed to us in the Word who became flesh and dwells among us. To seek to understand his prayer through what his witnesses proclaim to us in the Gospel is to approach the holy Lord Jesus as Moses approached the burning bush: first to contemplate him in prayer, then to hear how he teaches us to pray, in order to know how he hears our prayer (Catechism of the Catholic Church n.2598)
L’evento della preghiera ci viene pienamente rivelato nel Verbo che si è fatto carne e dimora in mezzo a noi. Cercare di comprendere la sua preghiera, attraverso ciò che i suoi testimoni ci dicono di essa nel Vangelo, è avvicinarci al santo Signore Gesù come al roveto ardente: dapprima contemplarlo mentre prega, poi ascoltare come ci insegna a pregare, infine conoscere come egli esaudisce la nostra preghiera (Catechismo della Chiesa Cattolica n.2598)
If penance today moves from the material to the spiritual side, let's say, from the body to the soul, from the outside to the inside, it is no less necessary and less feasible (Pope Paul VI)
Every time we open ourselves to God's call, we prepare, like John, the way of the Lord among men (John Paul II)
Tutte le volte che ci apriamo alla chiamata di Dio, prepariamo, come Giovanni, la via del Signore tra gli uomini (Giovanni Paolo II)
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
Disclaimer
Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge N°62 del 07/03/2001.
Le immagini sono tratte da internet, ma se il loro uso violasse diritti d'autore, lo si comunichi all'autore del blog che provvederà alla loro pronta rimozione.
L'autore dichiara di non essere responsabile dei commenti lasciati nei post. Eventuali commenti dei lettori, lesivi dell'immagine o dell'onorabilità di persone terze, il cui contenuto fosse ritenuto non idoneo alla pubblicazione verranno insindacabilmente rimossi.