Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Domenica delle Palme (anno C) [13 aprile 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Entriamo nella Settimana Santa con Gesù accolto a Gerusalemme e prepariamoci nel Triduo Pasquale a seguirlo nel cammino della passione morte e risurrezione.
*Prima lettura dal libro de profeta Isaia (50,4-7)
Questo testo è tratto dalla parte del libro di Isaia che raccoglie i cosiddetti “Canti del Servo”, che sono particolarmente importanti per due ragioni: innanzitutto per il messaggio che Isaia voleva trasmettere ai suoi contemporanei e perché sono stati applicati dai primi cristiani a Cristo, anche se certamente Isaia non pensava a Gesù quando scrisse questo testo probabilmente nel VI secolo a.C. durante l’esilio a Babilonia. Al popolo esiliato in condizioni molto dure, che rischiava di cedere a un grande sconforto, ricorda che Israele è il servo di Dio sostenuto e nutrito ogni mattina dalla Parola, ma perseguitato a causa della sua fede e, nonostante tutto, capace di resistere a ogni prova. Descrive in modo chiaro la straordinaria relazione che unisce al suo Dio il Servo (Israele) la cui caratteristica principale è l’ascolto della Parola, “l’orecchio aperto”, come scrive Isaia. Ascoltare la Parola, lasciarsi istruire da essa, significa vivere nella fiducia. Ascoltare è una parola che nella Bibbia significa fidarsi poiché due sono gli atteggiamenti tra cui oscilla continuamente la nostra esistenza: la fiducia in Dio, l’abbandono sereno alla sua volontà perché si sa, per esperienza, che la sua volontà è solo bene; oppure la diffidenza, il sospetto sulle intenzioni divine e la ribellione davanti alle prove, una ribellione che può portarci a credere che Egli ci abbia abbandonati o, peggio, che possa trovare soddisfazione nelle nostre sofferenze. Tutti i profeti ripetono quest’invito: “Ascolta, Israele” o “ascoltate oggi la Parola di Dio”. Sulle loro labbra, l’esortazione “ascolta” è invito ad avere fiducia in Dio, qualunque cosa accada. A questo proposito san Paolo spiegherà che Dio fa concorrere tutto al bene di coloro che lo amano e si fidano di lui (cf Rm 8,28) perché da ogni male, difficoltà, prova sa trarre il bene; a ogni odio, oppone un amore ancora più forte; in ogni persecuzione, dona la forza del perdono; da ogni morte fa nascere la vita. Tutta la Bibbia è la narrazione della storia di una fiducia reciproca: Dio si fida del suo servo e gli affida una missione; in cambio Israele accetta la missione con fiducia. Ed è proprio questa fiducia che gli dà la forza necessaria per resistere a tutte le opposizioni che inevitabilmente incontrerà. In questo testo la missione consiste nel saper “indirizzare una parola allo sfiduciato” testimoniando la fedeltà del Signore che dona la forza necessaria e il linguaggio adeguato. Anzi è il Signore stesso a nutrire questa fiducia, sorgente di ogni audacia al servizio degli altri: ”Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro”. Tutto allora diventa dono: la missione, la forza e la fiducia che rende incrollabili. Questa è la caratteristica del credente: riconoscere che tutto è dono di Dio. Quando poi fa fruttificare il dono permanente della forza del Signore, il credente è in grado di affrontare tutto, anche la persecuzione che mai è assente, e in verità ogni autentico profeta che parla a nome di Dio, raramente viene riconosciuto e apprezzato in vita.Isaia invita i suoi contemporanei a resistere: il Signore non vi ha abbandonati, anzi, vi ha affidato la sua missione e non meravigliatevi se siete maltrattati perché il Servo che ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica, diventa certamente scomodo e con la sua conversione provoca gli altri: alcuni ne ascoltano l’appello, altri lo respingono e, in nome delle loro buone ragioni, lo perseguitano. Ecco perché il Servo attinge vigore solamente da Colui che gli permette di affrontare tutto: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba …il Signore Dio mi assiste per questo non resto svergognato”. Isaia usa poi un’espressione comune in ebraico: “per questo rendo la mia faccia dura come pietra” che esprime determinazione e coraggio; non orgoglio o presunzione, bensì pura fiducia perché sa bene da dove viene la sua forza. Gesù è ritratto perfetto del Servo di Dio nel cuore della persecuzione e anche nel momento in cui le acclamazioni della folla della Domenica delle Palme segnavano e acceleravano la sua condanna. San Luca riprende esattamente questa espressione quando scrive «Gesù indurì il suo volto per andare a Gerusalemme» (Lc 9,51), che nelle nostre traduzioni diventa: «Gesù prese risolutamente la strada per Gerusalemme».
*Salmo responsoriale dal Salmo 21(22) (2, 8-9,17-20,22b-24)
Il Salmo 21/22 riserva alcune sorprese, a partire dall’incipit: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, molto citato che, estrapolato dal contesto, viene interpretato in modo sbagliato. Per capirne il vero significato va letto per intero il salmo composto di trentadue versetti che si chiude con un rendimento di grazie: “Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea”. Chi nel primo versetto grida “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” ringrazia alla fine Dio per la salvezza ricevuta. Non solo non è morto, ma rende grazie proprio perché Dio non lo ha abbandonato. A prima vista, questo salmo sembra scritto per Gesù: “Hanno scavato le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa” allusione chiara alla crocifissione vissuta sotto gli occhi crudeli dei carnefici e della folla: “Un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori… si fanno beffe di me quelli che mi vedono … si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte”. In realtà, non è stato scritto per Gesù Cristo, ma composto per gli esuli tornati da Babilonia, e si paragona la loro liberazione alla risurrezione di un condannato a morte, dato che l’esilio fu vera e propria condanna a morte per Israele che corse il rischio di essere cancellato dalla storia. Ora viene qui paragonato a un condannato che ha rischiato di morire sulla croce, supplizio all’epoca assai comune: ha subito oltraggi, umiliazioni, i chiodi, l’abbandono nelle mani dei carnefici ma miracolosamente ne esce illeso. In altre parole: tornato dall’esilio Israele si abbandona alla gioia che proclama a tutti gridando più forte di quando pianse nella sua angoscia. Il riferimento alla crocifissione non è dunque il centro del salmo, ma serve a mettere in risalto il rendimento di grazie di Israele, che nel pieno della sua angoscia, mai ha smesso di invocare aiuto e mai ha dubitato nemmeno un istante. Il grande grido “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” è di sicuro un grido di angoscia davanti al silenzio di Dio, ma non è un grido di disperazione, né tantomeno esprime dubbi; è piuttosto la preghiera di chi soffre e osa gridare il suo dolore. Quanta luce questo salmo fa scendere sulla nostra preghiera nei momenti di sofferenza di qualunque genere: abbiamo il diritto di gridare e la Bibbia ci incoraggia a farlo. Tornato dall’esilio Israele ricorda il dolore passato, l’angoscia, il silenzio apparente di Dio quando si sentiva abbandonato nelle mani dei suoi nemici, eppure ha continuato a pregare. La preghiera è la prova evidente della sua costante fiducia; continuava a ricordare l’Alleanza e i benefici ricevuti da Dio. Questo salmo somiglia nel suo insieme a un “ex voto” come quando si corre un serio pericolo, si prega e si fa un voto e, a grazia ottenuta, si mantiene la promessa portando l’ex voto in una chiesa o in un santuario. Il salmo 21/22 descrive l’orrore dell’esilio, l’angoscia d’Israele e di Gerusalemme assediata da Nabucodonosor, il senso di impotenza di fronte all’odio degli uomini che suscita un’ardente supplica: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”? e infine la riconoscenza a Dio per la propria salvezza: “Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea. Lodate il Signore voi suoi fedeli”. Nella domenica delle Palme non ci sono gli ultimi versetti che però sentiamo spesso nella liturgia: “I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano; il vostro cuore viva per sempre! Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli…Annunceranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: Ecco l’opera del Signore”.
*Seconda Lettura dalla seconda lettera di san Paolo ai Filippesi (2,6-11)
Questo testo è spesso definito l’Inno della Lettera ai Filippesi, perché si ha l’impressione che Paolo non lo abbia scritto di suo pugno, ma abbia citato un inno in uso nella liturgia. Anzitutto da notare l’insistenza sul tema del Servo: “svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo”: i primi cristiani, di fronte allo scandalo della croce, hanno meditato spesso sui Canti del Servo contenuti nel libro di Isaia, perché offrivano spunti di riflessione per comprendere il mistero della persona di Cristo. “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio non ritenne un privilegio l’essere come Dio”. Si è tentati di leggere: benché fosse di condizione divina, anche se in realtà, è il contrario e bisogna dunque leggere: “proprio perché era nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio”. Uno dei pericoli di questo testo è la tentazione di leggerlo in termini di ricompensa, come se il ragionamento fosse: Gesù si è comportato in modo ammirevole e quindi ha ricevuto una ricompensa straordinaria. La grazia, come suggerisce il suo stesso nome, è gratuita, noi però siamo sempre tentati di parlare di meriti. La meraviglia dell’amore di Dio è che Egli non attende i nostri meriti per colmarci; è questa la scoperta che gli uomini della Bibbia hanno fatto grazie alla Rivelazione. Quindi, per essere fedeli al testo, dobbiamo leggerlo in termini di gratuità. Rischiamo di fraintenderlo se dimentichiamo che tutto è dono di Dio, tutto è grazia, come ripeteva Teresa del Bambino Gesù. Il dono gratuito di Dio è per san Paolo una verità evidente, una convinzione che permea tutte le sue lettere, talmente ovvia che non sente neppure il bisogno di ribadirla esplicitamente per cui possiamo riassumere il suo pensiero così: il progetto di Dio, il disegno della sua misericordia è farci entrare nella sua intimità, nella sua gioia e nel suo amore, un progetto assolutamente gratuito. Non c’è nulla di sorprendente in questo, poiché si tratta di un progetto d’amore, un dono da accogliere: è la partecipazione alla vita divina, anzi con Dio, tutto è dono. Ci si esclude da questo dono quando si assume un atteggiamento di pretesa, se ci si comporta come i progenitori nel giardino dell’Eden che si appropriano del frutto proibito. Gesù, al contrario, non ha fatto altro – “facendosi obbediente” - che accogliere il dono di Dio senza pretenderlo. “Pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio” ed è proprio perché è di condizione divina che non rivendica nulla. Lui sa cosa sia l’amore gratuito, sa che non è giusto pretendere, non considera un bene reclamare il diritto di essere come Dio. E’ la stessa situazione dell’episodio delle tentazioni (vedi il vangelo della prima domenica di Quaresima): satana propone a Gesù solo cose che fanno parte del piano di Dio, ma Gesù rifiuta di appropriarsene con le proprie forze. perché vuole affidarsi al Padre affinché sia Lui a donargliele. Il tentatore lo provoca: “Se sei Figlio di Dio, puoi permetterti tutto, tuo Padre non può rifiutarti nulla: trasforma le pietre in pane quando hai fame… gettati giù dal tempio, ti proteggerà… adorami, e ti darò il dominio su tutto il mondo”. Gesù però aspetta tutto solo da Dio: ha ricevuto il Nome che è al di sopra di ogni altro nome, il Nome di Dio. Dire infatti che Gesù è il Signore significa affermare che è Dio. Nell’Antico Testamento, il titolo di “Signore” era riservato a Dio e pure la genuflessione “ perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi». Ecco un’allusione a un passo del profeta Isaia: «Davanti a me si piegherà ogni ginocchio, si pieghi…ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore!” presterà giuramento» (Is 45,23). Gesù ha vissuto nell’umiltà e nella fiducia; fiducia che san Paolo chiama obbedienza. Obbedire, in latino «ob-audire», significa letteralmente porgere l’orecchio (audire) davanti (ob) alla parola: è l’atteggiamento di un dialogo perfetto, senza ombre, è fiducia totale. L’inno si conclude così: “Ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”. La gloria è la rivelazione dell’amore infinito fatto persona. In altre parole anche noi, come il centurione, vedendo Cristo amarci sommamente accettando di morire per rivelarci fino a che punto arriva l’amore di Dio, proclamiamo,: «Sì, davvero, costui era Figlio di Dio»… perché Dio è amore.
* Vangelo. Passione di Gesù Cristo secondo san Luca (22,14 – 23.56)
Ogni anno, per la Domenica delle Palme, torna il racconto della Passione in uno dei tre vangeli sinottici; quest’anno, è quello di Luca e mi limito a commentare gli episodi propri di questo vangelo. Se è vero che i quattro racconti della Passione sono simili, quando però si osservano da vicino, ci si rende conto che ogni evangelista ha accenti particolari, e questo perché sono tutti testimoni di uno stesso evento e raccontano i fatti ciascuno dal loro punto di vista e la Passione di Cristo risulta raccontata in quattro modi diversi: non scelgono tutti gli stessi episodi e le stesse frasi. Ecco dunque gli episodi e le parole che troviamo solo in san Luca. 1.Dopo l’ultima cena, prima di recarsi al Getsemani, Gesù aveva preannunciato a Pietro il suo triplice rinnegamento. In verità lo narrano tutti i vangeli, ma solamente Luca riporta questa frase di Gesù: “Simone, Simone, ecco: satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli” quando sarai tornato, conferma i tuoi fratelli» (22,32). Una delicatezza di Gesù, che aiuterà Pietro dopo il suo tradimento a rialzarsi invece di disperare. Sempre solo Luca nota lo sguardo che Gesù posa su Pietro dopo il suo rinnegamento: per tre volte consecutive, Pietro afferma di non conoscerlo nella casa del sommo sacerdote. Subito dopo Gesù, voltandosi, fissò lo sguardo su Pietro e qui sentiamo l’eco della prima lettura dove Isaia scrive: “Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato”. Questo vuole fare Gesù con Pietro, confortarlo in anticipo perché quando lo rinnegherà non cada nella disperazione. Altro episodio proprio di questo vangelo è Gesù davanti a Erode Antipa. Alla nascita di Gesù, su tutto il territorio regnava sotto l’autorità di Roma, Erode il Grande, ma alla sua morte (nel 4 a.C.), il territorio fu diviso in più province e, al momento della morte di Gesù (nell’anno 30 d.C.), la Giudea, ossia la provincia di Gerusalemme, era governata da un procuratore romano, mentre la Galilea era sotto l’autorità di un re riconosciuto da Roma, che era un figlio di Erode il Grande: il suo nome Erode Antipa, che da tempo desiderava incontrare Gesù e sperava di vederlo compiere un miracolo. Ora gli pone molte domande, ma Gesù tace. Erode lo insulta e lo schernisce facendolo rivestire con un manto splendente e lo rimanda a Pilato rinsaldando quel giorno l’amicizia tra Erode e Pilato.
2.Ci sono poi tre frasi che troviamo solo nel racconto della Passione di Luca. Due parole di Gesù e, se Luca le annota, è perché rivelano ciò che per lui è importante: la prima è la sua preghiera mentre i soldati romani lo stanno crocifiggendo: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno». Ma cosa stanno facendo? Hanno espulso dalla Città Santa il Santo per eccellenza; hanno cacciato il loro Dio, mettendo a morte il Maestro della vita; il Sinedrio, il tribunale di Gerusalemme, in nome di Dio ha condannato Dio. E cosa fa invece Gesù? Perdona i nemici suoi fratelli mostrando fino a che punto si spinge l’amore di Dio. Chi ha visto me ha visto il Padre, aveva detto Gesù, il giorno prima. La seconda frase: “Oggi con me sarai nel Paradiso”. Tutti lo attaccano e per tre volte risuona una stessa provocazione: Se tu sei il Messia, lo scherniscono i capi… Se tu sei il re dei Giudei, si prendono gioco di lui i soldati romani… Se tu sei il Messia, lo insulta uno dei due malfattori crocifissi con lui. L’altro crocifisso con lui comincia a dire la verità: noi meritiamo questo castigo ma non Gesù e si rivolge a Gesù: “ricordati di me quando entrerai nel tuo Regno”. Riconosce Gesù come il Salvatore, lo invoca con una preghiera umile e di fiduciosa: sembra aver capito tutto. Infine solo Luca riporta quest’ultima frase: “Già brillavano le luci del sabato” (23,54) conclude così il racconto della Passione con un’insistente evocazione del sabato. Parla delle donne che avevano seguito Gesù fin dalla Galilea e ora vanno al sepolcro per osservare come era stato sepolto recando aromi e profumi per i riti della sepoltura. Già brillavano le luci del sabato: tutto si chiude con una nota di luce e di pace: il sabato è prefigurazione del mondo a venire, giorno in cui Dio si era riposato da tutta l’opera della creazione (cf Genesi); giorno in cui, per fedeltà all’Alleanza, si scrutavano le Scritture nell’attesa della nuova creazione. Luca ci fa capire che nel travaglio della Passione di Cristo è nata la nuova umanità che è l’inizio del regno della grazia. Il crocifisso risorto indica la via da seguire: la via dell’amore e del perdono a qualsiasi costo.
+Giovanni D’Ercole
(Gv 18,1-19,42)
I nuclei dei Vangeli non si soffermano sull’orrore e sadismo dei tormenti, perché non sono stati redatti con lo scopo d’impressionare, bensì per introdurci nella comprensione dell’intensità sconfinata dell’Amore divino.
In Gv è assente ogni appiglio alla mistica del patire e dell’abbandono divino: l’evangelista vuole accompagnarci nel medesimo cammino del Figlio verso la Gloria del Padre.
Gesù padrone di se stesso non si lascia travolgere dagli eventi.
Si fa innanzi, è ancora in grado di tutelare i suoi e protagonista del colloquio con Pilato, figura del potere di questo mondo - che sembra l’imputato.
Neppure è finito dai soldati.
Egli è Vivo, malgrado i gendarmi posti a tutela del mondo antico che rimane ostile al Signore, allo scopo di perpetuarsi.
Il breve passo di Gv 19,25-27 è forse il vertice artistico del racconto della Passione.
Nel quarto Vangelo la Madre appare due volte, alle nozze di Cana e ai piedi della Croce - entrambi episodi presenti solo in Gv.
Sia a Cana che sotto la Croce, la Madre è figura del «Resto d’Israele», ossia del popolo autenticamente sensibile e fedele.
La ‘nazione-sposa’ del Primo Testamento è come in attesa della Rivelazione genuina: percepisce tutto il limite dell’idea antica di Dio, che ha ridotto la gioia della festa nuziale fra il Padre e i suoi figli.
Vita che trascorre come linfa essenziale e vitale nella Chiesa autentica raffigurata in Maria, adorante in ogni vicenda; ‘ritta’ (19,25) e ben presente a se stessa.
L’Israele vibrante di verità ha originato il Passaggio dalla religiosità alla Fede sponsale, dalla legge antica al Nuovo Testamento.
A cospetto della Croce viene generato un Regno alternativo.
Si formano padri e madri di un’umanità diversa, non belluina: che proclamano la Lieta Notizia di Dio stavolta in favore esclusivo di ogni uomo - in qualsiasi condizione si trovi.
A coloro che già volevano prescindere dall’insegnamento dei padri, Gesù propone di far camminare insieme passato e novità.
Il discepolo amato è icona dell’autentico figlio di Dio, Parola-evento diffusa, e Nuova Alleanza.
Il figlio stesso deve ricevere la Madre [la presenza e la cultura del popolo del Patto] a casa sua: nella Comunità nascente.
Così fioriscono nuovi rapporti famigliari: allora nasce la Chiesa.
«Ho sete»: cita il salmo 69 - «Mi hanno messo veleno nel cibo e quando avevo sete mi hanno dato aceto».
È la delusione e il senso di vuoto vertiginoso per un’umanità che ha ancora tanto bisogno di essere strappata dalla condizione selvatica...
E l’intenso desiderio di fare, di quell’abisso pre-umano, persone che tendano a recuperare in sé l’Oro divino.
Quindi Gesù effonde il suo Spirito senza ritardo alcuno (v.30).
E come dal fianco dell’uomo Dio ha tratto la donna, così dal lato del Figlio trafitto esce la ‘comunità-sposa’, messa in relazione con i due segni dei primi Sacramenti.
È nostra Linfa essenziale e vitale: perché immersi e assimilati in tali gesti famigliari, superiamo il disagio di sentirci come oggetti, cose.
Diventiamo Figli.
[Venerdì Santo, 18 aprile 2025]
(Gv 18,1-19,42)
I nuclei dei Vangeli non si soffermano sull’orrore e sadismo dei tormenti, perché non sono stati redatti con lo scopo d’impressionare, bensì per introdurci nella comprensione dell’intensità sconfinata dell’Amore divino.
Il Padre non trascura e non retrocede, perché non c’è destinazione inclusiva nel farci soffrire; piuttosto, nell’accogliere e condividere. Né siamo al mondo per le cicatrici, bensì per realizzarci.
In Gv è assente ogni appiglio alla mistica del patire e dell’abbandono: l’evangelista vuole accompagnarci nel medesimo cammino del Figlio verso la Gloria del Padre.
E l’Eterno non tarda a incorporarlo a Sé: è il Crocifisso a consegnare lo Spirito (19,30).
Gesù padrone di se stesso non si lascia travolgere dagli eventi.
Si fa innanzi; è ancora in grado di tutelare i suoi e protagonista del colloquio con Pilato, figura del potere di questo mondo [che sembra l’imputato].
Neppure è finito dai soldati.
Egli è Vivo, malgrado i gendarmi posti a tutela del mondo antico che rimane ostile al Signore, allo scopo di perpetuarsi. Zone d’ombra - ancora e dove non t’aspetti.
Il discepolo amato [ciascuno di noi, genuino in Cristo] è presente alla sua medesima sorte di Dono completo: rispecchia un’unica vita indistruttibile, sebbene umiliata.
Essa trascorre come linfa essenziale e vitale nella Chiesa autentica raffigurata in Maria adorante in ogni vicenda; ritta (19,25) e ben presente a se stessa.
In grado di dispiegare il significato della proposta di Gesù attraverso nuovissimi raggi di luce - in spirito di accondiscendenza e tenerezza, ma sovversivi.
Arresto (vv.1-19). Nella Passione secondo Gv l’offerta volontaria della vita da parte del Signore Gesù sta a indicare la condizione divina e l’autentica prospettiva - di libertà e riuscita - per noi: la vocazione, chiamata del Padre.
Manca il bacio di Giuda, perché il Maestro si presenta direttamente, identificandosi nella rivelazione «Io Sono».
Facendosi avanti, chiede che i discepoli siano lasciati in libertà. Vuol dire: Egli non perde nessuno di noi; non ci lascia in ostaggio.
Ma al suo arresto partecipano i capi della religiosità ufficiale - e vien subito sequestrato a casa del dirigente occulto, Anano [Hannas], sebbene già deposto, ma ancora burattinaio politico della situazione.
Rinnegatore, insieme a Pietro.
Il ricordo della profezia del sommo sacerdote che gli fa da paravento (v.14) ci proietta nel dramma della Passione d’amore dell’Abbandonato.
Rigettato dal popolo religiosissimo. Tradito, sconfessato, ucciso da tutti.
Il triplice «io non sono» di Pietro contrasta con la dignità del Cristo, che chiama il ‘capo’ della chiesa a un altro genere di testimonianza rispetto a quella che aveva in mente, desiderava, sognava.
Mentre nei Sinottici Egli viene mostrato come Agnello condotto a macello senza aprire bocca, il quarto Vangelo ne sottolinea la Regalità.
Davanti a Pilato appare chiaro che la solennità di Gesù non ha caratteri politici, perciò i suoi discepoli non potevano essere considerati cittadini sleali.
Di fronte a Roma, Gv mette in evidenza l’innocenza dì Gesù e dei cristiani accusati presso i tribunali dell’Impero.
Interessante la figura del governatore romano, stretto fra istanze di coscienza e pressioni esterne - mentre cerca ripetutamente posizioni intermedie.
Il quarto Vangelo libera i “diplomatici” da responsabilità dirette, ma li ammonisce circa il rispetto della Verità.
Chi non l’accetta così com’è e non si dichiara in suo favore esponendosi in prima persona, rimane imbrigliato nella sua stessa trappola.
Il “Giudice” sembra Gesù.
E i suoi paradossi interrogano: chi è il re dei giudei? Cesare o Cristo?
I giudei rinnegano se stessi affermando di non avere altro re all’infuori dell’imperatore; i funzionari lo acclamano re.
Terza sezione (19,17-42). I giustiziati dovevano essere visti dal maggior numero di persone, quindi venivano esibiti in un luogo vicino alla città.
Ma qui e nell'episodio della scritta [nelle tre lingue ecumeniche di allora come quella sul primo muretto interno del Tempio, che proibiva sotto pena di morte l’ingresso ulteriore ai pagani] s’inserisce di nuovo il tema teologico della Regalità: il risultato era un richiamo per i giudei, che si ritrovavano un re sconfitto.
Gv distingue la spartizione dei vestiti e il sorteggio della tunica, perché intende quest’ultima come la veste sacra del vero sommo sacerdote, il cui manto non poteva essere stracciato (Lv 21,10).
Senza poi indugiare sui due condannati a fianco del Crocifisso, l’evangelista annota che a Gesù non sono state fratturate le gambe.
Ciò allude all’Agnello pasquale, cui non doveva essere spezzato alcun osso.
Il breve passo di Gv 19,25-27 è forse il vertice artistico del racconto della Passione.
Nel quarto Vangelo la Madre appare due volte, alle nozze di Cana e ai piedi della Croce - entrambi episodi presenti solo in Gv.
Sia a Cana che sotto la Croce, la Madre è figura del «Resto d’Israele», ossia del popolo autenticamente sensibile e fedele.
La ‘nazione-sposa’ del Primo Testamento è come in attesa della Rivelazione genuina: percepisce tutto il limite dell’idea antica di Dio, che ha ridotto la gioia della festa nuziale fra il Padre e i suoi figli.
L’Israele vibrante di verità ha originato il Passaggio dalla religiosità alla Fede sponsale, dalla legge antica al Nuovo Testamento.
A cospetto della Croce viene generato un Regno alternativo.
Si formano padri e madri di un’umanità diversa, non belluina; che proclamano la Lieta Notizia di Dio stavolta in favore esclusivo di ogni uomo - in qualsiasi condizione si trovi.
Nell'intento teologico di Gv, le Parole di Gesù «Donna, ecco tuo figlio» ed «Ecco, la tua madre» volevano aiutare a dirimere e armonizzare le forti tensioni che a fine primo secolo già contrapponevano le diverse correnti di pensiero sul Cristo [giudaizzanti; sostenitori del primato della fede sulle opere; lassisti che consideravano ormai Gesù anatema - intendendo soppiantarlo con una generica libertà di spirito senza storia].
Ad es all’inizio secondo secolo (ad es.) Marcione rifiutò tutto il Primo Testamento e sembra apprezzasse solo una parte del Nuovo.
A coloro che volevano prescindere dall’insegnamento dei “padri”, Gesù propone di far camminare insieme passato e novità.
Il discepolo amato è icona dell’autentico figlio di Dio, Parola-evento diffusa, e Nuova Alleanza.
Il figlio stesso deve ricevere la Madre - la presenza e la cultura del popolo del Patto - a casa sua, ossia nella Comunità nascente.
Anche se è nell’assemblea cristiana che si scopre il senso pieno di tutta la Scrittura, la Persona, la vicenda e il Verbo stesso non si colgono né porteranno frutto coi soli sogni in avanti, senza la radice antica che lo ha generato.
Così fioriscono nuovi rapporti famigliari: allora nasce la Chiesa.
«Ho sete»: cita il salmo 69 - «Mi hanno messo veleno nel cibo e quando avevo sete mi hanno dato aceto».
È la delusione e il senso di vuoto vertiginoso per un’umanità che ha ancora tanto bisogno di essere strappata dalla condizione selvatica...
E l’intenso desiderio di fare, di quell’abisso pre-umano, persone che tendano a recuperare in sé l’Oro divino.
Ma discepoli, folla, soldati, continuano a non comprendere.
Si chiarisce col ricorso all’altro salmo [63: «O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia»] che in ebraico esordisce con l’invocazione «Elohim, Elì [...]».
Quindi Gesù effonde il suo Spirito senza ritardo alcuno (v.30).
E come dal fianco dell’uomo Dio ha tratto la donna, così dal lato del Figlio trafitto esce la ‘comunità-sposa’, messa in relazione con i due segni dei primi Sacramenti.
Appunto, nostra Linfa essenziale e vitale: perché immersi e assimilati in tali gesti famigliari, superiamo il disagio di sentirci come oggetti, cose.
Diventiamo Figli.
Figli, non cose
Dio ha messo sulla Croce di Gesù tutto il peso dei nostri peccati, tutte le ingiustizie perpetrate da ogni Caino contro suo fratello, tutta l’amarezza del tradimento di Giuda e di Pietro, tutta la vanità dei prepotenti, tutta l’arroganza dei falsi amici. Era una Croce pesante, come la notte delle persone abbandonate, pesante come la morte delle persone care, pesante perché riassume tutta la bruttura del male. Tuttavia, è anche una Croce gloriosa come l’alba di una notte lunga, perché raffigura in tutto l’amore di Dio che è più grande delle nostre iniquità e dei nostri tradimenti. Nella Croce vediamo la mostruosità dell’uomo, quando si lascia guidare dal male; ma vediamo anche l’immensità della misericordia di Dio che non ci tratta secondo i nostri peccati, ma secondo la sua misericordia.
Di fronte alla Croce di Gesù, vediamo quasi fino a toccare con le mani quanto siamo amati eternamente; di fronte alla Croce ci sentiamo “figli” e non “cose” o “oggetti”, come affermava San Gregorio Nazianzeno rivolgendosi a Cristo con questa preghiera: «Se non fossi Tu, o mio Cristo, mi sentirei creatura finita. Sono nato e mi sento dissolvere. Mangio, dormo, riposo e cammino, mi ammalo e guarisco. Mi assalgono senza numero brame e tormenti, godo del sole e di quanto la terra fruttifica. Poi, io muoio e la carne diventa polvere come quella degli animali, che non hanno peccati. Ma io, cosa ho di più di loro? Nulla, se non Dio. Se non fossi Tu, o Cristo mio, mi sentirei creatura finita. O nostro Gesù, guidaci dalla Croce alla resurrezione e insegnaci che il male non avrà l’ultima parola, ma l’amore, la misericordia e il perdono. O Cristo, aiutaci a esclamare nuovamente: “Ieri ero crocifisso con Cristo; oggi sono glorificato con Lui. Ieri ero morto con Lui, oggi sono vivo con Lui. Ieri ero sepolto con Lui, oggi sono risuscitato con Lui”».
Infine, tutti insieme, ricordiamo i malati, ricordiamo tutte le persone abbandonate sotto il peso della Croce, affinché trovino nella prova della Croce la forza della speranza, della speranza della resurrezione e dell’amore di Dio.
[Papa Francesco, via Crucis al Colosseo 18 aprile 2014]
Cari fratelli e sorelle,
questa notte abbiamo accompagnato nella fede Gesù che percorre l’ultimo tratto del suo cammino terreno, il tratto più doloroso, quello del Calvario. Abbiamo ascoltato il clamore della folla, le parole della condanna, la derisione dei soldati, il pianto della Vergine Maria e delle donne. Ora siamo immersi nel silenzio di questa notte, nel silenzio della croce, nel silenzio della morte. E’ un silenzio che porta in sé il peso del dolore dell’uomo rifiutato, oppresso, schiacciato, il peso del peccato che ne sfigura il volto, il peso del male. Questa notte abbiamo rivissuto, nel profondo del nostro cuore, il dramma di Gesù, carico del dolore, del male, del peccato dell’uomo.
Che cosa rimane ora davanti ai nostri occhi? Rimane un Crocifisso; una Croce innalzata sul Golgota, una Croce che sembra segnare la sconfitta definitiva di Colui che aveva portato la luce a chi era immerso nel buio, di Colui che aveva parlato della forza del perdono e della misericordia, che aveva invitato a credere nell’amore infinito di Dio per ogni persona umana. Disprezzato e reietto dagli uomini, davanti a noi sta l’«uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia» (Is 53,3).
Ma guardiamo bene quell’uomo crocifisso tra la terra e il Cielo, contempliamolo con uno sguardo più profondo, e scopriremo che la Croce non è il segno della vittoria della morte, del peccato, del male ma è il segno luminoso dell’amore, anzi della vastità dell’amore di Dio, di ciò che non avremmo mai potuto chiedere, immaginare o sperare: Dio si è piegato su di noi, si è abbassato fino a giungere nell’angolo più buio della nostra vita per tenderci la mano e tirarci a sé, portarci fino a Lui. La Croce ci parla dell’amore supremo di Dio e ci invita a rinnovare, oggi, la nostra fede nella potenza di questo amore, a credere che in ogni situazione della nostra vita, della storia, del mondo, Dio è capace di vincere la morte, il peccato, il male, e di donarci una vita nuova, risorta. Nella morte in croce del Figlio di Dio, c’è il germe di una nuova speranza di vita, come il chicco che muore dentro la terra.
In questa notte carica di silenzio, carica di speranza, risuona l’invito che Dio ci rivolge attraverso le parole di sant’Agostino: «Abbiate fede! Voi verrete da me e gusterete i beni della mia mensa, com'è vero che io non ho ricusato d'assaporare i mali della mensa vostra... Vi ho promesso la mia vita... Come anticipo vi ho elargito la mia morte, quasi a dirvi: Ecco, io vi invito a partecipare della mia vita... È una vita dove nessuno muore, una vita veramente beata, che offre un cibo incorruttibile, un cibo che ristora e mai vien meno. La meta a cui vi invito, ecco… è l'amicizia con il Padre e lo Spirito Santo, è la cena eterna, è la comunione con me… è partecipare della mia vita» (cfr Discorso 231, 5).
Fissiamo il nostro sguardo su Gesù Crocifisso e chiediamo nella preghiera: Illumina, Signore, il nostro cuore, perché possiamo seguirti sul cammino della Croce, fa’ morire in noi l’«uomo vecchio», legato all’egoismo, al male, al peccato, rendici «uomini nuovi», uomini e donne santi, trasformati e animati dal tuo amore.
[Papa Benedetto, via Crucis al Colosseo 22 aprile 2011]
"Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Mt 16, 24).
Sera del Venerdì Santo.
Da venti secoli
la Chiesa si riunisce in questa sera,
per ricordare e rivivere
gli eventi dell'ultima tappa
del cammino terreno del Figlio di Dio.
Oggi, come ogni anno,
la Chiesa che è in Roma
si raccoglie al Colosseo,
per seguire le orme di Gesù,
il quale "portando la croce,
si avviò verso il luogo del Cranio,
detto in ebraico Golgota" (Gv 19, 17).
Ci troviamo qui,
nella convinzione che la via crucis del Figlio di Dio
non fu un semplice avvicinarsi
al luogo del supplizio.
Crediamo che ogni passo del Condannato,
ogni suo gesto e ogni sua parola,
ed anche quanto hanno vissuto e compiuto
coloro che hanno preso parte a questo dramma,
ci parlano incessantemente.
Anche nel suo patire e morire
Cristo ci svela la verità su Dio e sull'uomo.
In quest'anno giubilare
vogliamo riflettere con particolare intensità
sul contenuto di quell'evento,
affinché esso parli con una forza nuova
alle nostre menti e ai nostri cuori,
e diventi fonte della grazia
di un'autentica partecipazione.
Partecipare significa avere una parte.
Che cosa vuol dire avere una parte
nella croce di Cristo?
Vuol dire sperimentare nello Spirito Santo
l'amore che la croce di Cristo nasconde in sé.
Vuol dire riconoscere, alla luce di questo amore,
la propria croce.
Vuol dire riprenderla sulle proprie spalle e,
sempre in virtù di questo amore, camminare...
Camminare attraverso la vita,
imitando colui che "si sottopose alla croce,
disprezzando l'ignominia,
e si è assiso alla destra del trono di Dio" (Eb 12, 2).
[Breve pausa di silenzio]
Preghiamo.
Signore Gesù Cristo,
colma i nostri cuori con la luce del tuo Spirito,
affinché, seguendo te nel tuo ultimo cammino,
conosciamo il prezzo della nostra redenzione
e diventiamo degni di partecipare
ai frutti della tua passione, morte e resurrezione.
Tu vivi e regni nei secoli dei secoli.
R. Amen.
[Papa Giovanni Paolo II, via Crucis al Colosseo 21 aprile 2000]
Non voglio aggiungere tante parole. In questa notte deve rimanere una sola parola, che è la Croce stessa. La Croce di Gesù è la Parola con cui Dio ha risposto al male del mondo. A volte ci sembra che Dio non risponda al male, che rimanga in silenzio. In realtà Dio ha parlato, ha risposto, e la sua risposta è la Croce di Cristo: una Parola che è amore, misericordia, perdono. E’ anche giudizio: Dio ci giudica amandoci. Ricordiamo questo: Dio ci giudica amandoci. Se accolgo il suo amore sono salvato, se lo rifiuto sono condannato, non da Lui, ma da me stesso, perché Dio non condanna, Lui solo ama e salva.
Cari fratelli, la parola della Croce è anche la risposta dei cristiani al male che continua ad agire in noi e intorno a noi. I cristiani devono rispondere al male con il bene, prendendo su di sé la Croce, come Gesù. Questa sera abbiamo sentito la testimonianza dei nostri fratelli del Libano: sono loro che hanno composto queste belle meditazioni e preghiere. Li ringraziamo di cuore per questo servizio e soprattutto per la testimonianza che ci danno. Lo abbiamo visto quando il Papa Benedetto è andato in Libano: abbiamo visto la bellezza e la forza della comunione dei cristiani di quella Terra e dell’amicizia di tanti fratelli musulmani e di molti altri. E’ stato un segno per il Medio Oriente e per il mondo intero: un segno di speranza.
Allora continuiamo questa Via Crucis nella vita di tutti i giorni. Camminiamo insieme sulla via della Croce, camminiamo portando nel cuore questa Parola di amore e di perdono. Camminiamo aspettando la Risurrezione di Gesù, che ci ama tanto. E’ tutto amore.
[Papa Francesco, via Crucis al Colosseo 29 marzo 2013]
Fiducia integrale: l’Azione emblematica, che genera incontaminati
(Gv 13,1-15)
Secondo una felice espressione di Origene, l’Eucaristia è la ferita del costato di Cristo sempre aperta; ma il Vaticano II non ha speso una sola parola riguardo le molteplici devozioni eucaristiche.
Per farci comprendere appieno la sua Persona, i padri conciliari avevano ben presente che Gesù non ha lasciato una statua o una reliquia. Ha preferito esprimersi in un ‘gesto’, che ci interpella.
Dio non identifica le persone in maniera standard, né sovrappone un suo pensiero alla storia e sensibilità della gente.
Chinandosi, Egli stesso valica i ruoli, lo spirito di club, le stesse idee, e i certificati. Azione - questa sì - “esemplare”.
Nella libertà suprema del servizio, «lavare» è figura battesimale: della Persona-Missione del Figlio in favore degli uomini, tutti ora ‘abilitati’.
Il Maestro unisce a sé un gruppo di discepoli anche poco convinti, ma ‘resi puri’ - non perché mira a formare una scuola distinta da altre, o persino unilaterale.
Chiama per Nome e crea Assemblea per introdurci nell’Amore, nel passaggio dalla schiavitù alla libertà del Gratis, che scende.
Pietro smania per comandare: non ci sta a introdursi in una logica che manifesti un Dio servitore degli uomini, indipendente dai loro trascorsi.
Abbassandosi al livello dello schiavo che depone le vesti, Gesù vuole umanizzarci recuperando invece gli opposti, radicati in ciascuno... ammettendo persino la contestazione.
E non si toglie il grembiule: è l’unica divisa che gli appartiene. Quel genere di vestiario gli rimane addosso - lo porta anche in Paradiso.
Non ha messo in scena la parte del servitore, per tornare in cielo a fare il padrone. Non condiziona nessuno.
La Vita del Padre c’insegue su ogni percorso, per farci sentire adeguati: Un-Corpo-Solo col Figlio.
Questo il “servizio” dei discepoli, da espletare con la vita e l’annuncio della «lieta notizia»: far conoscere che il Padre è amante incondizionato della donna e dell’uomo.
Solo la stima che riconosciamo ai suoi figli e le loro storie - senza pregiudizio - conduce verso atti di convivialità e recuperi inspiegabili.
Gesù che lava i ‘piedi’ raffigura il segreto della vita beata ch’espande la via dell’io in quella del Tu: nell’essere genuini e liberi anche di scendere, fino a curvarsi per servire.
Senza labirinti di norme o alte grida di principio; senza compromettere la spontaneità e snellezza più genuine - senza cedere alla diffidenza nei confronti dell’imperfezione altrui.
Nell’attitudine battesimale... celebrando l’esistenza in ogni sua forma, oltre i confini; avendo fiducia nella vita, nelle sue polarità naturali e opposte.
Consentendo altri sviluppi ed espansioni.
Aprendo gli occhi verso il mondo - caposaldo di nuove relazioni, che si sostituiscono alle consuetudini unilaterali, o alle mode esterne.
Abbracciando un destino più ricco.
Amando le contraddizioni.
Bando ai modelli e all’esasperazione delle “capacità”. Piuttosto, la ricerca di soluzioni che si affidano, senza interferire.
Ritrovando la propria natura umanizzante.
Riconoscendo le diversità.
Approvando, riscattando e valutando ‘puro’ ogni cammino particolare [i piedi ‘lavati’ di ciascuno].
[Giovedì Santo in Coena Domini, 17 aprile 2025]
Anno di Grazia e fraternità: il suggello alla storia della salvezza
Lc 4,16-21 (14-37)
Trasgressioni di Gesù e nostre (che rinsaldano la trama)
(Lc 4,14-21)
«Lo Spirito del Signore su di me, perciò mi ha unto per annunciare la Buona Notizia ai poveri» (Lc 4,18).
Anticamente in Israele la famiglia patriarcale, il clan e la comunità erano la base della convivenza sociale.
Garantivano la trasmissione dell’identità di popolo e assicuravano protezione agli afflitti.
Difendere il clan era anche un modo concreto di confermare la Prima Alleanza.
Ma al tempo di Gesù la Galilea soffriva sia la segregazione dettata dalla politica di Erode Antipas che l'oppressione della religiosità ufficiale.
Il collaborazionismo smidollato del sovrano aveva accentuato il numero dei senza tetto e privi d’impiego.
La congiuntura politica ed economica obbligava le persone a ripiegarsi su problemi materiali e individuali o di famiglia ristretta.
Un tempo, il collante identitario del clan e della comunità garantivano un carattere (interno) di nazione solidale, espresso nella difesa e soccorso prestati ai meno abbienti del popolo.
Ora tale legame fraterno risultava indebolito, un po’ ingessato, quasi contraddetto - anche a motivo dell’atteggiamento severo delle autorità religiose, fondamentaliste e amanti d’un purismo saccente, contrario al mischiarsi coi ceti meno agiati.
La Legge [scritta e orale] finiva per essere usata non per favorire l’accoglienza degli emarginati e bisognosi, ma per accentuare i distacchi e la ghettizzazione.
Situazioni che stavano portando al collasso le fasce di popolazione meno tutelate.
Insomma la devozione tradizionale - amante dell’alleanza fra trono e altare - invece di rafforzare il senso comunitario veniva usata per accentuare le gerarchie; come arma che legittimasse tutta una mentalità di esclusioni (e confermasse la logica imperiale del dividi et impera).
Gesù vuole invece tornare al Sogno del Padre: quello ineliminabile della fraternità, unico suggello alla storia della salvezza.
Per questo il suo criterio non fugace era quello di allacciare la Parola di Dio alla vita della gente, e in tal modo superare le divisioni.
Così, secondo Lc la prima volta che Gesù entra in una Sinagoga combina un bel pasticcio.
Non va a pregare, ma a insegnare cosa sia la Grazia di Dio (non svigorita da chiose e falsi insegnamenti) nell’esistenza reale delle persone.
Sceglie un passo che riflette appunto la situazione della gente di Galilea, oppressa dal potere dei dominatori, che ai deboli stava facendo patire confusione e povertà.
Ma la sua prima Lettura non tiene conto del calendario liturgico.
Poi osa predicare a modo suo e personalizzando il brano d’Isaia, da cui si permette di censurare il versetto che annuncia la Vendetta di Dio.
Quindi neanche proclama il passo previsto della Legge.
E si atteggia come fosse Lui il padrone del luogo di culto - in realtà lo è: il Risorto che «siede» sta dando un insegnamento ai suoi [ancora giudaizzanti].
Inoltre - si comprende dal tono del passo di Vangelo - per il Figlio di Dio lo Spirito non si rivela nei fenomeni straordinari del cosmo, ma nell’Anno di Grazia («un anno accetto al Signore»: v.19).
È divina perché personale e sociale l’energia nuova, che crea l’uomo autentico.
Questa la piattaforma che opera la svolta.
Essa si fa motore, motivo e contesto, per una trasformazione dell’anima e dei rapporti - a quel tempo appesantiti dal servilismo anche teologico [dei meriti].
In un ordito di relazioni vitali, la migliore capacità di comprensione del Dono si fa molla per un futuro armonico, di liberazione e giustizia.
Cristo ritiene che il Regno del Padre sorga facendo crescere dal di dentro il presente, allora impastato di oppressione, angoscia e schiavitù.
Dice il Tao Tê Ching (XLVI): «Quando nel mondo vige la Via, i cavalli veloci sono mandati a concimare i campi».
L’emancipazione offerta dallo Spirito è indirizzata non ai grandi, ma proprio a chi subisce forme di necessità, difetto e penuria: in Gesù... ora tutti aperti alla cifra giubilare della nuova Creazione.
Insomma, sembra ci sia totale antagonismo e inadattabilità fra il Signore e i praticanti della religione tradizionale - pesante, selettiva, votata a legalismi e rappresaglie; piramidale, senza possibilità d’uscita.
Ovvio che sia i capi che gli abitudinari si chiedano - su base rituale e veneranda: possibile che la somiglianza divina possa manifestarsi in un uomo premuroso verso i meno facoltosi, che disattende le consuetudini ufficiali, non crede alle ritorsioni, e palesa forme di spontaneità incontrollata?
È un richiamo per noi. La persona di Fede autentica non si lascia condizionare dalle conformità all’abitudine, inutile e quieta.
Il pensiero comune - assuefatto e concordato ma sottilmente competitivo - diventa un’energia al contrario, troppo normale e paludosa; non propulsiva per l’anima personale e sociale.
Se invece ci lasciamo accompagnare dal Sogno d’una sovreminente gestazione dal Padre, saremo animati attraverso la Presenza regale e Sacra che orienta a sorvolare ripetizioni, o selezioni, emarginazioni e recriminazioni fallaci.
Come se spostassimo il nostro essere in un orizzonte e in un mondo di relazioni amicali che poi fa da calamita alla realtà e anticipa futuro.
Al pari del Maestro e Signore, invece di ragionare con pensieri indotti e farci sequestrare dalla pesantezza di rifiuti e timori, iniziamo a pensare con le immagini della Vocazione personale, con i codici empatici della nostra Chiamata che irrompe.
Le risorse evolutive sconosciute che scattano, immediatamente dipanano una rete di percorsi che ai “locali” forse non piacciono, ma evitano il conflitto perenne con l’identità missionaria e il proprio carattere.
La Visione-Relazione (v.18a) irripetibile e a maglie larghe - senza riduzioni - diventa allora strategica, perché possiede in se stessa il richiamo della Quintessenza, e tutte le risorse per risolvere i veri problemi.
Ascoltare la proclamazione dei Vangeli (v.18b) è ascoltare l’eco di se stessi e del popolo minuto: scelta intima e sociale.
E starci dentro senza le foglie morte dell’unilateralità - per vagare liberamente in quel medesimo Appello; non trascurando parti preziose di sé, né amputando le eccentricità, o l’intuito proprio dei ceti subalterni.
Ciò per poter manifestare la Radice quieta (ma nel suo stato energico), il nostro Personaggio (nell’Amico amabile e non separatista) - per evitare di stordirlo con un’altra schiavitù.
Tutto nell’istinto di essere e fare felici, senza mai lasciarsi imprigionare dalla brama di sicurezze a contorno; ricerca stagnante.
Il Regno nello Spirito (cf. vv.14.18) - che sa cosa ci serve - ha cessato di essere una mèta di semplice avvenire.
È la sorpresa che Cristo in noi suscita intorno alla sua proposta dalla marcia in più.
Egli non ci trascura: spegne il rimuginare accusatorio e ridisegna in modo creativo.
Fa nascere ancora e motiva, recupera le dispersioni, e rinsalda la trama.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come allaccio la Fede con la situazione culturale e sociale?
Qual è l’Oggi di Cristo con il tuo oggi, nello Spirito?
Qual è la tua forma di apostolato che libera i fratelli dall’avvilimento della dignità e li promuove?
Lo Spirito del Signore è sopra di me (et vult Cubam)
3. «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato per annunziare un lieto messaggio» (Lc 4, 18). Ogni ministro di Dio deve far sue nella propria vita queste parole pronunciate da Gesù di Nazareth. Per questo, trovandomi qui tra voi, voglio recarvi la buona notizia della speranza in Dio. Come servitore del Vangelo, vi porto questo messaggio d'amore e di solidarietà che Gesù Cristo, con la sua venuta, offre agli uomini di ogni tempo. Non si tratta né di un'ideologia né di un sistema economico o politico nuovo, bensì di un cammino di pace, giustizia e libertà autentiche.
4. I sistemi ideologici ed economici succedutisi negli ultimi secoli hanno spesso enfatizzato lo scontro come metodo, poiché contenevano nei propri programmi i germi dell'opposizione e della disunione. Questo ha condizionato profondamente la concezione dell'uomo e i rapporti con gli altri. Alcuni di questi sistemi hanno preteso anche di ridurre la religione alla sfera meramente individuale, spogliandola di ogni influsso o rilevanza sociale. In tal senso, è bene ricordare che uno Stato moderno non può fare dell'ateismo o della religione uno dei propri ordinamenti politici. Lo Stato, lontano da ogni fanatismo o secolarismo estremo, deve promuovere un clima sociale sereno e una legislazione adeguata, che permetta ad ogni persona e ad ogni confessione religiosa di vivere liberamente la propria fede, esprimerla negli ambiti della vita pubblica e poter contare su mezzi e spazi sufficienti per offrire alla vita della Nazione le proprie ricchezze spirituali, morali e civiche.
D'altro canto, in vari luoghi si sviluppa una forma di neoliberalismo capitalista che subordina la persona umana e condiziona lo sviluppo dei popoli alle forze cieche del mercato, gravando dai propri centri di potere sui popoli meno favoriti con pesi insopportabili. Avviene così che, spesso, vengono imposti alle Nazioni, come condizione per ricevere nuovi aiuti, programmi economici insostenibili. In tal modo si assiste, nel concerto delle Nazioni, all'arricchimento esagerato di pochi al prezzo dell'impoverimento crescente di molti, cosicché i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
5. Carissimi fratelli: la Chiesa è maestra in umanità. Perciò, di fronte a questi sistemi, essa propone la cultura dell'amore e della vita, restituendo all'umanità la speranza e il potere trasformante dell'amore, vissuto nell'unità voluta da Cristo. Per questo è necessario percorrere un cammino di riconciliazione, di dialogo e di accoglienza fraterna del prossimo, chiunque esso sia. Questo si può dire il Vangelo sociale della Chiesa.
La Chiesa, nel portare a termine la propria missione, propone al mondo una giustizia nuova, la giustizia del Regno di Dio (cfr Mt 6, 33). In diverse occasioni ho fatto riferimento ai temi sociali. È necessario continuarne a parlare fino a quando nel mondo ci sarà un'ingiustizia, per piccola che sia, dato che in caso contrario la Chiesa non si dimostrerebbe fedele alla missione affidatale da Gesù Cristo. La posta in gioco è l'uomo, la persona in carne ed ossa. Anche se i tempi e le circostanze cambiano, ci sono sempre persone che hanno bisogno della voce della Chiesa perché vengano riconosciute le loro angosce, i loro dolori e le loro miserie. Coloro che si trovano in simili situazioni possono essere sicuri che non verranno defraudati, poiché la Chiesa è con loro e il Papa abbraccia, con il cuore e con la sua parola di incoraggiamento, tutti coloro che subiscono l'ingiustizia.
(Giovanni Paolo II, dopo essere stato a lungo applaudito, ha aggiunto)
Io non sono contrario agli applausi, perché quando applaudite il Papa può riposarsi un po'.
Gli insegnamenti di Gesù conservano integro il loro vigore alle soglie dell'anno 2000. Sono validi per tutti voi, miei cari fratelli. Nella ricerca della giustizia del Regno, non possiamo fermarci di fronte a difficoltà e incomprensioni. Se l'invito del Maestro alla giustizia, al servizio e all'amore viene accolto come Buona Novella, allora il cuore si allarga, si trasformano i criteri e nasce la cultura dell'amore e della vita. Questo è il grande cambiamento che la società attende e di cui ha bisogno; lo si potrà raggiungere solo se prima avrà luogo la conversione del cuore di ognuno come condizione per i necessari mutamenti nelle strutture della società.
6. «Lo Spirito del Signore mi ha mandato per proclamare ai prigionieri la liberazione (...) per rimettere in libertà gli oppressi» (Lc 4, 18). La buona novella di Gesù deve essere accompagnata da un annuncio di libertà, basato sul solido fondamento della verità: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 31-32). La verità a cui si riferisce Gesù non è solo la comprensione intellettuale della realtà, bensì la verità sull'uomo e la sua condizione trascendente, sui suoi diritti e doveri, sulla sua grandezza e i suoi limiti. È la stessa verità che Gesù proclamò con la sua vita, riaffermò di fronte a Pilato e, con il suo silenzio, di fronte ad Erode; è la stessa che lo portò alla croce salvifica e alla risurrezione gloriosa.
La libertà che non è fondata sulla verità condiziona l'uomo a tal punto che a volte lo rende oggetto anziché soggetto del contesto sociale, culturale, economico e politico, lasciandolo quasi totalmente privo d'iniziativa riguardo allo sviluppo personale. Altre volte, questa libertà è di tipo individualistico e, non tenendo conto della libertà degli altri, chiude l'uomo nel proprio egoismo. La conquista della libertà nella responsabilità rappresenta un compito imprescindibile per ogni persona. Per i cristiani, la libertà dei figli di Dio non è soltanto un dono e un compito; il suo conseguimento implica pure un'inestimabile testimonianza e un genuino contributo nel cammino di liberazione di tutto il genere umano. Questa liberazione non si riduce agli aspetti sociali e politici, ma raggiunge la sua pienezza nell'esercizio della libertà di coscienza, base e fondamento degli altri diritti umani.
(Rispondendo all'invocazione elevata dalla folla: «Il Papa vive e ci vuole tutti liberi!», Giovanni Paolo II ha aggiunto:)
Sì, vive con quella libertà alla quale Cristo vi ha liberato.
Per molti dei sistemi politici ed economici vigenti oggi, la sfida più grande continua ad essere rappresentata dal coniugare libertà e giustizia sociale, libertà e solidarietà, senza che nessuna di esse venga relegata ad un livello inferiore. In tal senso, la Dottrina sociale della Chiesa costituisce uno sforzo di riflessione e una proposta che cerca di illuminare e di conciliare i rapporti tra i diritti inalienabili di ogni uomo e le esigenze sociali, in modo che la persona porti a compimento le sue aspirazioni più profonde e la propria realizzazione integrale secondo la sua condizione di figlio di Dio e di cittadino. Di conseguenza, il laicato cattolico deve contribuire a questa realizzazione mediante l'applicazione degli insegnamenti sociali della Chiesa nei diversi ambienti, aperti a tutti gli uomini di buona volontà.
7. Nel Vangelo proclamato oggi la giustizia appare intimamente legata alla verità. È quello che si osserva anche nel pensiero lucido dei padri della Patria. Il Servo di Dio Padre Félix Varela, animato dalla fede cristiana e dalla fedeltà al ministero sacerdotale, pose nel cuore del popolo cubano i semi della giustizia e della libertà che egli sognava di veder germogliare in una Cuba libera e indipendente.
La dottrina di José Martí sull'amore tra tutti gli uomini ha radici profondamente evangeliche, superando così il falso conflitto tra la fede in Dio e l'amore e il servizio alla Patria. Scrive Martí: «Pura, disinteressata, perseguitata, martirizzata, poetica e semplice, la religione del Nazareno ha sedotto tutti gli uomini onesti... Ogni popolo ha bisogno di essere religioso. Lo deve essere non solo nella sua essenza, ma anche per sua utilità... Un popolo non religioso è destinato a morire, poiché in esso nulla alimenta la virtù. Le ingiustizie umane la disprezzano; è necessario che la giustizia celeste la garantisca».
Come sapete, Cuba possiede un'anima cristiana, e questo l'ha portata ad avere una vocazione universale. Chiamata a vincere l'isolamento, deve aprirsi al mondo e il mondo deve avvicinarsi a Cuba, al suo popolo, ai suoi figli, che ne rappresentano senza dubbio la maggiore ricchezza. È giunta l'ora di intraprendere i nuovi cammini che i tempi di rinnovamento in cui viviamo esigono, all'approssimarsi del Terzo millennio dell'era cristiana!
8. Carissimi fratelli: Dio ha benedetto questo popolo con autentici formatori della coscienza nazionale, chiari e fermi esponenti della fede cristiana, che è il più valido sostegno della virtù e dell'amore. Oggi i Vescovi, insieme ai sacerdoti, ai consacrati, alle consacrate e ai fedeli laici, si sforzano di costruire ponti per avvicinare le menti e i cuori, propiziando e consolidando la pace, preparando la civiltà dell'amore e della giustizia. Sono qui fra voi come messaggero della verità e della speranza. Per questo desidero ripetere il mio appello a lasciarvi illuminare da Gesù Cristo, ad accettare senza riserve lo splendore della sua verità, affinché tutti possano seguire il cammino dell'unità attraverso l'amore e la solidarietà, evitando l'esclusione, l'isolamento e lo scontro, che sono contrari alla volontà del Dio-Amore.
Che lo Spirito Santo illumini con i suoi doni quanti hanno responsabilità diverse nei confronti di questo popolo, che ho nel cuore. Che la «Virgen de la Caridad de El Cobre», Regina di Cuba, ottenga per i suoi figli i doni della pace, del progresso e della felicità.
Questo vento di oggi è molto significativo, perché il vento simboleggia lo Spirito Santo. «Spiritus spirat ubi vult, Spiritus vult spirare in Cuba». Le ultime parole sono in lingua latina perché Cuba appartiene anche alla tradizione latina. America latina, Cuba latina, lingua latina! «Spiritus spirat ubi vult et vult Cubam». Arrivederci.
(Giovanni Paolo II, omelia Piazza «José Martí» L’Avana 25 gennaio 1998)
Persona, estemporaneità, sinagoghe
Due Nomi di Dio
(Lc 4,21-30)
Il Vangelo di oggi – tratto dal capitolo quarto di san Luca – è la prosecuzione di quello di domenica scorsa. Ci troviamo ancora nella sinagoga di Nazaret, il paese dove Gesù è cresciuto e dove tutti conoscono lui e la sua famiglia. Ora, dopo un periodo di assenza, Egli è ritornato in un modo nuovo: durante la liturgia del sabato legge una profezia di Isaia sul Messia e ne annuncia il compimento, lasciando intendere che quella parola si riferisce a Lui, che Isaia ha parlato di Lui. Questo fatto suscita lo sconcerto dei nazaretani: da una parte, «tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca» (Lc 4,22); san Marco riferisce che molti dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data?» (6,2). D’altra parte, però, i suoi compaesani lo conoscono troppo bene: E’ uno come noi – dicono –. La sua pretesa non può essere che una presunzione » (cfr L’infanzia di Gesù, 11). «Non è costui il figlio di Giuseppe?» (Lc 4,22), come dire: un carpentiere di Nazaret, quali aspirazioni può avere?
Proprio conoscendo questa chiusura, che conferma il proverbio «nessun profeta è bene accetto nella sua patria», Gesù rivolge alla gente, nella sinagoga, parole che suonano come una provocazione. Cita due miracoli compiuti dai grandi profeti Elia ed Eliseo in favore di persone non israelite, per dimostrare che a volte c’è più fede al di fuori d’Israele. A quel punto la reazione è unanime: tutti si alzano e lo cacciano fuori, e cercano persino di buttarlo giù da un precipizio, ma Egli, con calma sovrana, passa in mezzo alla gente inferocita e se ne va. A questo punto viene spontaneo chiedersi: come mai Gesù ha voluto provocare questa rottura? All’inizio la gente era ammirata di lui, e forse avrebbe potuto ottenere un certo consenso… Ma proprio questo è il punto: Gesù non è venuto per cercare il consenso degli uomini, ma – come dirà alla fine a Pilato – per «dare testimonianza alla verità» (Gv 18,37). Il vero profeta non obbedisce ad altri che a Dio e si mette al servizio della verità, pronto a pagare di persona. E’ vero che Gesù è il profeta dell’amore, ma l’amore ha la sua verità. Anzi, amore e verità sono due nomi della stessa realtà, due nomi di Dio. Nella liturgia odierna risuonano anche queste parole di san Paolo: «La carità …non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità» (1 Cor 13,4-6). Credere in Dio significa rinunciare ai propri pregiudizi e accogliere il volto concreto in cui Lui si è rivelato: l’uomo Gesù di Nazaret. E questa via conduce anche a riconoscerlo e a servirlo negli altri.
In questo è illuminante l’atteggiamento di Maria. Chi più di lei ebbe familiarità con l’umanità di Gesù? Ma non ne fu mai scandalizzata come i compaesani di Nazaret. Ella custodiva nel suo cuore il mistero e seppe accoglierlo sempre di più e sempre di nuovo, nel cammino della fede, fino alla notte della Croce e alla piena luce della Risurrezione. Maria aiuti anche noi a percorrere con fedeltà e con gioia questo cammino.
[Papa Benedetto, Angelus 3 febbraio 2013]
Gesù è fastidioso e genera sospetto in coloro che amano schemi esteriori, perché proclama solo Giubileo, invece che confronto duro e vendetta.
In sinagoga il suo villaggio resta perplesso su questo amore troppo comprensivo - proprio ciò di cui abbiamo bisogno.
Il luogo di culto è quello in cui i credenti sono stati educati al contrario!
Il loro carattere scontroso è frutto acerbo d’una religiosità martellante, che nega il diritto di esprimere idee e sentimenti.
Il codice “sinagogale” ha prodotto fedeli finti, condizionati da una personalità disarmonica e scissa.
Ancora oggi e sin da piccoli, quest’intima lacerazione si manifesta nell’eccesso di controllo sull’apertura verso gli altri.
Conseguenza: un’accentuazione dell’incertezza giovanile - sotto la quale cova chissà cosa - e un carattere rigido da adulti.
Insomma, il martellamento religioso che non fa il balzo della Fede ci blocca, impedisce di capire, e inquina tutta la vita.
Anche ai tempi di Gesù l’insegnamento arcaico acuiva nazionalismi, la percezione stessa di traumi o violazioni, e paradossalmente proprio le situazioni ingabbiate da cui si voleva uscire.
Spiritualità esclusiva: è vuota - rozza o sofisticata che sia.
Il pensiero selettivo è la peggiore malattia delle visioni del mondo - che poi stanno sempre a dirci come dobbiamo essere.
Così nella vita concreta non pochi fedeli preferiscono avere amici senza cecità conformiste o gli stessi vincoli di appartenenza.
A ben guardare, persino le realtà laicali più devote manifestano un’accentuata e strana dicotomia di relazioni - tribali e altro.
Papa Francesco si è espresso in modo nitido:
«È uno scandalo quello di persone che vanno in chiesa, che stanno lì tutti i giorni e poi vivono odiando gli altri e parlando male della gente: meglio vivere come ateo anziché dare una contro-testimonianza dell'essere cristiani».
Il mondo reale sveglia e stimola alla flessibilità degli standard, non inculca qualche vetero-esattezza, in clima d’ipnosi.
Oggi la realtà globale aiuta a smussare gli spigoli di conventicola [i quali hanno i loro rigurgiti, in termini di seduzione e risucchio].
Di fronte a tali convinzioni e illusioni il Profeta marca distanza; opera per diffondere consapevolezze, non immagini rassicuranti - né idee disincarnate.
Ma gli araldi critici irritano violentemente la folla degli abituali, i quali d’improvviso passano da una sorta di curiosità allo sdegno vendicativo.
Come nel paesino, così - si legge in filigrana - nella Città Santa [Monte Sion] da cui subito ti vogliono buttare giù (Lc 4,29).
Dovunque si parli di persona reale e sogni eterni: i suoi, non altrui.
Nell’ostilità che li attornia, gl’intimi del Signore sfidano a viso aperto le convinzioni normalizzate, acquisite dall’ambiente e non rielaborate.
Per loro non conta solo l’analogia calcolata a un contorno meschino. Vedono altri obbiettivi e non vogliono solo “arrivare”.
Se vengono sopraffatti, lasciano dietro sé quella scia d’intuizioni che prima o poi farà riflettere sia clan dannosissimi che opportunisti inutili.
In tal guisa, negli Amici e Fratelli è il Risorto stesso che scampa. E riprende il cammino, attraversando chi vuol farlo fuori (v. 30) per motivi d’interesse personale o tornaconto di quartiere.
In ogni tempo, i testimoni fanno pensare: non cercano complimenti e risultati piacevoli, ma recuperano i lati opposti e accettano la felicità altrui.
Sanno che l’Unicità deve fare la sua corsa: sarà ricchezza per tutti, e su questo punto non si lasciano inibire dalla nomenclatura.
Pur circondati dall’odio invidioso e mortale d’idioti astuti e sinagoghe consolidate, annunciano l’Amore in Verità - né bufale burine (approvate quanto vuote) né secondi fini (utilità in solido).
Infatti, senza mungere e tosare gli sprovveduti, tali missionari danno impulso al coraggio e alla crescita altrui, all’autonomia delle scelte.
Tutto ciò, favorendo la coesistenza degli invisibili e disprezzati; in un clima di comprensione e spontaneità.
Essi amano il rigoglio della vita, perciò discriminano tra religione e Fede: non si ergono a ripetitori di dottrine, prescrizioni, consuetudini.
Sulla base della personale esperienza del Padre, i fedeli ispirati valorizzano i diversi approcci, creando una stima sconosciuta.
Affrontano giovani mostri settari [direbbe il Pontefice], vecchi marpioni e i loro steccati, a viso aperto, caldeggiando nuovi atteggiamenti - differenti modi di rapportarsi con Dio.
Non per aggiungere proseliti e considerarsi indispensabili.
Anche se «in patria» (v. 24) sono personaggi scomodi per la mentalità ratificata, i nessuno-Profeti fanno sopravvivere il personalismo di Gesù, strappandolo da chi lo vuole sopito e sequestrato.
Come Lui, a rischio d’impopolarità e senza mendicare approvazioni.
Con le cicatrici di quel che è andato via, per un nuovo Viaggio.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
In “patria” sei considerato un bambinone del luogo, o un profeta? Un personaggio ratificato, o scomodo? A modo, o impopolare?
La tua testimonianza è trasgressiva o conformista? Fa sopravvivere il personalismo di Gesù, strappandolo da chi lo vuole sopito e sequestrato?
Dio vuole la fede, loro i miracoli: Dio a proprio vantaggio
Domenica scorsa la liturgia ci aveva proposto l’episodio della sinagoga di Nazaret, dove Gesù legge un passo del profeta Isaia e alla fine rivela che quelle parole si compiono “oggi”, in Lui. Gesù si presenta come colui sul quale si è posato lo Spirito del Signore, lo Spirito Santo che lo ha consacrato e lo ha mandato a compiere la missione di salvezza in favore dell’umanità. Il Vangelo di oggi (cfr Lc 4,21-30) è la prosecuzione di quel racconto e ci mostra lo stupore dei suoi concittadini nel vedere che uno del loro paese, «il figlio di Giuseppe» (v. 22), pretende di essere il Cristo, l’inviato del Padre.
Gesù, con la sua capacità di penetrare le menti e i cuori, capisce subito che cosa pensano i suoi compaesani. Essi ritengono che, essendo Lui uno di loro, debba dimostrare questa sua strana “pretesa” facendo dei miracoli lì, a Nazaret, come ha fatto nei paesi vicini (cfr v. 23). Ma Gesù non vuole e non può accettare questa logica, perché non corrisponde al piano di Dio: Dio vuole la fede, loro vogliono i miracoli, i segni; Dio vuole salvare tutti, e loro vogliono un Messia a proprio vantaggio. E per spiegare la logica di Dio, Gesù porta l’esempio di due grandi profeti antichi: Elia ed Eliseo, che Dio aveva mandato a guarire e salvare persone non ebree, di altri popoli, ma che si erano fidate della sua parola.
Di fronte a questo invito ad aprire i loro cuori alla gratuità e alla universalità della salvezza, i cittadini di Nazaret si ribellano, e addirittura assumono un atteggiamento aggressivo, che degenera al punto che «si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero sul ciglio del monte […], per gettarlo giù» (v. 29). L’ammirazione del primo istante si è mutata in un’aggressione, una ribellione contro di Lui.
E questo Vangelo ci mostra che il ministero pubblico di Gesù comincia con un rifiuto e con una minaccia di morte, paradossalmente proprio da parte dei suoi concittadini. Gesù, nel vivere la missione affidatagli dal Padre, sa bene che deve affrontare la fatica, il rifiuto, la persecuzione e la sconfitta. Un prezzo che, ieri come oggi, la profezia autentica è chiamata a pagare. Il duro rifiuto, però, non scoraggia Gesù, né arresta il cammino e la fecondità della sua azione profetica. Egli va avanti per la sua strada (cfr v. 30), confidando nell’amore del Padre.
Anche oggi, il mondo ha bisogno di vedere nei discepoli del Signore dei profeti, cioè delle persone coraggiose e perseveranti nel rispondere alla vocazione cristiana. Persone che seguono la “spinta” dello Spirito Santo, che le manda ad annunciare speranza e salvezza ai poveri e agli esclusi; persone che seguono la logica della fede e non del miracolismo; persone dedicate al servizio di tutti, senza privilegi ed esclusioni. In poche parole: persone che si aprono ad accogliere in sé stesse la volontà del Padre e si impegnano a testimoniarla fedelmente agli altri.
Preghiamo Maria Santissima, perché possiamo crescere e camminare nello stesso ardore apostolico per il Regno di Dio che animò la missione di Gesù.
[Papa Francesco, Angelus 3 febbraio 2019]
La Liberazione dal quietismo e dalla mentalità automatica
(Lc 4,31-37)
Nel terzo Vangelo i primi segni del Signore sono il tranquillo scampare alle minacce di morte (agitate dalla sua gente!) e la guarigione del posseduto.
In tale modo di narrare la vicenda di Gesù, Lc indica le priorità che le sue comunità vivevano: anzitutto, bisognava sospendere le lotte intime, inculcate dalla tradizione giudaizzante e dal suo “saper stare al mondo”.
Nel paesino cocciuto e conformista di Nazaret il Maestro non riesce a comunicare la sua novità, e si vede costretto a cambiare residenza.
Non si rassegna, anzi: Cafarnao era all’incrocio di strade importanti, il che facilitava contatti e divulgazione.
Fra persone di tutti i ceti, il Figlio di Dio desiderava creare una coscienza fortemente critica verso le dottrine omologate dei capi religiosi.
Egli non citava meccanicamente gl’insegnamenti - modesti - delle autorità, ma partiva dalla sua esperienza di vita e dal rapporto vivo col Padre.
Non cercava appoggi, né per vivere sicuro e neppure per l’Annuncio - così creava menti sgombre e un fremito inconsueto.
In tal modo, nelle anime sospendeva i consueti dubbi di coscienza, le solite battaglie inoculate dalla cappa costume-dottrina-morale, e le sue lacerazioni interiori.
In modo trasparente e totalmente non artificioso, ancora oggi Cristo [nei suoi] scampa il male e lotta contro le forze plagianti, riduttive della nostra personalità.
Nella mentalità degli automatismi privi di Fede personale, a quel tempo sembrava che ci si trovasse quasi a dover subire le potenze del convincimento esterno.
Tutto ciò per evitare di esser emarginati dalla “nazione” [e da “gruppi” regolati sul conformismo].
Vale anche per noi.
Il dovere di partecipare a rituali collettivi - qui il sabato in sinagoga - rischia di attenuare la nostalgia intima del “noi stessi” che fornisce nutrimento all’eccezionalità vocazionale.
Originalità della storia della salvezza che viceversa potremmo diventare, senza la palla al piede di alcune regole del quieto vivere, al minimo - ritmato di momenti sociali consuetudinari e giorni simbolici [talora svuotati di senso].
(Tutto nei modi trasandati e meccanici che sappiamo a memoria, e non vogliamo più, perché sentiamo che non ci fanno raggiungere un livello superiore).
Il Maestro in noi ancora oggi fronteggia il potere che riduce le persone nella condizione di faciloneria senza originalità: un grigio e perpetuo tran-tran allergico alle differenze.
Apatia che produce paludi e camposanti anticipati, dove nessuno protesta ma neppure stupisce.
Nel Vangelo, la persona che d’improvviso fa scintille era da sempre un tranquillo frequentatore di assemblea, che stancamente trascinava la sua vita spirituale in piccoli ambiti senza colore, privi di largo respiro e ritmo.
Ma la Parola del Signore ha in sé una carica reale: la forza della beatitudine del vivere, del creare, dell’amare in verità - che non odia le caratteristiche eccentriche.
Dove giunge tale Appello vengono smascherati e saltano fuori dalle tane [prima simulate, concordiste, assuefatte, artificiosamente omologate] tutti i demoni che non t’aspetti.
Chi incontra Cristo è rovesciato dallo strapuntino abulico, seduta stante; vede le sue certezze buttate all’aria
Rivolgimento che consente alle sfaccettature celate o represse di fare la loro parte - anche se non sono “come dovrebbero essere”.
Insomma, il Vangelo invita ad accogliere tutto ciò che c’è in noi, così com’è, non attenuato; moltiplicando le energie - perché dentro si annida il meglio della nostra Chiamata alla personale Missione.
In Cristo, i nostri poliedrici volti (pur contraddittori) possono scendere in campo insieme, senza più reprimere i territori preziosi dell’anima, dell’essenza, del carattere, di un’altra persuasione - anche lontana o irripetibilmente singolare.
L’habitué delle assemblee viene sì scomodato e interpellato, ma almeno non rimane imbambolato come prima: fa un progresso vistoso dall’esistenza assopita e rituale - piegata, ripetitiva, spenta e finta.
È liberato faccia a faccia da tutte le propagande e luoghi comuni che prima lo tenevano buono, soggiogato, a guinzaglio delle “autorità” e dell’ambiente conservativo che respingeva ogni entusiasmo.
La nenia del luogo e tempo sacri era una litania che tutto sommato ci poteva stare, ma la proposta critica di Gesù restituisce coscienza e libertà da territori inculcati, infondendo stima, capacità di pensiero e voglia di fare.
Ora non più in disparte, ma in mezzo alla gente (v.35).
Dalla stanchezza dell’assuefazione prettamente cultuale, e persino attraverso una protesta che rompe l’apatia, la Persona divina e il suo Richiamo ci destano. Costringono a una vita da salvati, di nuova testimonianza che sembrava impossibile.
Senza tanti complimenti e per farci correre privi d’ipocrisie celate dentro, anche a noi il Signore tira fuori tutte le rabbie, i disaccordi e le alienazioni.
Non basta più fare numero (allineati e coperti), ormai bisogna scegliere.
La differenza tra religiosità comune e Fede? Lo stupore d’una Felicità profonda, personale, inattesa.
Infatti, via da pesi abitudinari e mentali, spegneremo le guerre con noi stessi e andremo a braccetto perfino coi nostri difetti - scoprendone la nascosta fecondità.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
L’incontro con Gesù vivo nella Chiesa ti ha liberato da forme di alienazione e restituito a te stesso o ti ha fatto tornare a chiedere appoggi, conferme sacrali e quiete - come frequentassi una zona-relax?
Fiducia integrale: l’Azione emblematica, che genera incontaminati
Gv 13,1-15 (.16-20)
Introduciamo il senso della Lavanda dei piedi da parte del Signore, gesto emblematico che i Sinottici evocano nella Frazione del Pane.
Anticamente in Israele la famiglia patriarcale, il clan e la comunità erano la base della convivenza sociale.
Garantivano la trasmissione dell’identità di popolo, e assicuravano protezione agli afflitti.
Difendere il clan era anche un modo concreto di confermare la Prima Alleanza.
Ma al tempo di Gesù la Galilea soffriva sia la segregazione dettata dalla politica di Erode Antipas che l'oppressione della religiosità ufficiale.
Il collaborazionismo smidollato del sovrano aveva accentuato il numero dei senza tetto e privi d’impiego.
La congiuntura politica ed economica obbligava le persone a ripiegarsi sui problemi materiali e individuali, o di famiglia ristretta.
Un tempo, il collante identitario del clan e della comunità garantivano un carattere interno di nazione solidale, espresso nella difesa e soccorso prestati ai meno abbienti del popolo.
Ora tale legame fraterno risultava indebolito, ingessato, quasi contraddetto - anche a motivo dell’atteggiamento severo delle autorità religiose, fondamentaliste e amanti d’un purismo saccente, contrario al mischiarsi coi ceti meno abbienti.
La Legge scritta e orale finiva per essere usata non per favorire l’accoglienza degli emarginati e bisognosi, ma per accentuare distacchi e ghettizzazione.
Situazione che stava portando al collasso le fasce di popolazione meno tutelate.
Insomma la devozione amante dell’alleanza fra trono e altare - invece di rafforzare il senso comunitario, veniva usata per accentuare le gerarchie; come arma che legittimasse tutta una mentalità di esclusioni (e confermasse la logica imperiale del dividi et impera).
Gesù vuole invece tornare al Sogno del Padre: quello ineliminabile della fraternità, unico suggello alla storia della salvezza.
Secondo una felice espressione di Origene, l’Eucaristia è la ferita del costato di Cristo sempre aperta; ma il Vaticano II non ha speso una sola parola riguardo le molteplici devozioni eucaristiche.
Per farci comprendere appieno la sua Persona, i padri conciliari avevano ben presente che Gesù non ha lasciato una statua o una reliquia. Ha preferito esprimersi in un gesto, che ci interpella.
Nel mondo ebraico, di sera ogni famiglia si ritrovava attorno alla mensa, e spezzare il pane era il momento più significativo della loro esperienza di convivialità - e memoria della consegna di sé agli altri.
L’unico pane veniva frazionato e condiviso fra tutti i famigliari - ma anche un povero affamato poteva affacciarsi all’uscio, che non doveva venire serrato.
Pane e vino, prodotti che avevano assimilato le energie del cielo e della terra, erano riconosciuti con sensibilità spirituale - doni del Creatore per la vita e la gioia dell’umanità.
In quella cultura, il pane è cibo base. Ma la nostra vita è completa solo se c’è anche l’elemento della festa: ecco il vino.
Il pane ancora oggi non viene tagliato con un coltello, per rispettarne la sacralità: solo frazionato. Esso contiene l’esistere concreto.
Per questo Gesù sceglie il Banchetto come segno della sua Persona - vita, parola, vicenda rischiosa e nuova felicità, donate in alimento.
Durante la cena in famiglia, pane e vino non venivano percepiti al pari della manna, ossia come prodotti naturali e grezzi. Neppure era un nutrirsi per ricuperare le forze, e basta.
Nel frumento e nell’uva si erano dati appuntamento anche tutti i variegati contributi del focolare domestico.
Attorno alla mensa, ciascun uomo vedeva nel pane e nel vino il frutto del suo lavoro: pulitura del terreno, aratura, seminagione, mietitura, potature, vendemmia e opera di torchio.
La donna coglieva nel pane la sua fatica: macinatura, impastatura, cottura. Anche i minori potevano ricordare qualcosa di proprio, perché i ragazzetti si prestavano (ad es. attingere acqua).
La cena era una celebrazione dell’armonia. La mensa era appunto un luogo in cui i giovani venivano educati alla percezione dell’esistere nell’unità, invece che nel disinteresse.
Ciò con gratitudine verso i doni di Dio e percezione del proprio apporto, che era giunto (realmente) all’obiettivo, nello spirito di sinergia e nell’impegno singolare alla comunione.
Contributi, risorse e capacità convenivano a porgersi in servizio, per la vita di tutti.
Nel gesto eucaristico Gesù dice: cieli e terra nuovi non corrispondono al mondo in cui ciascuno si affretta a mietere per sé o la sua cerchia, onde accaparrarsi il massimo delle risorse.
Il suo Regno? Tutti invitati e fratelli concordi, nessuno padrone o dominatore - destinato a stare davanti o sopra [sebbene più svelto degli altri] persino in Cielo.
Anche gli Apostoli - chiamati da Gesù con sé ma ancora rimasti a distanza di sicurezza da Lui (cf. es. Lc 9,10.12) - non sono i proprietari del Pane, bensì coloro che lo devono porgere a tutti (vv.13.16), per creare abbondanza dov’essa non c’è.
Per animare gli incontri sul tema dell’Eucaristia quale icona non fuorviante, e interiorizzare come nella stessa Chiesa Cattolica ci sia stata un’evoluzione decisiva verso la comprensione dell’efficacia del Segno, uso comparare due grandi opere d’arte.
Raffaello nella cosiddetta Disputa del Sacramento raffigura un mondo sacrale e statico. Oggi diremmo a colpo d’occhio, quasi plastificato.
Ambiente che sembra tutto prevedibile e comunque caratterizzato da un modello sociale, culturale e spirituale situato; dove ciascuno è collocato in base a origini, posizione, status, e rango.
Arcabas - artista francese recentemente scomparso - dipinge un quadro che sembra privo di esclusivi, distinti e titolati protagonisti: come tagliato sopra, o (meglio) focalizzato sul semplice gesto.
A dire in modo eloquente: il contorno di addobbi sfarzosi o ruoli di rilievo non riguarda questa proposta di vita!
Nell’opera del pittore contemporaneo cogliamo la sobrietà di una Persona e d’una missionarietà ben centrata [che graffia, ma fa perdere la testa assai più delle belle sceneggiature].
Perché nel mondo dell’Amore il meglio deve ancora arrivare. In tal guisa, siamo interrogati senza posa.
Arcabas illustra una tavola semplicemente imbandita: un piatto non certo della migliore collezione, un bicchiere di vino senza fronzoli; una tovaglia semplicemente appoggiata alla mensa e connotata dalle sue piegature sommarie, neanche stirate, che ricordano il quotidiano reale.
E soprattutto il gesto normale dello spezzare il pane, quello del passo dopo passo, con le sue briciole non vaporose né candide. A dire: il Banchetto eucaristico non è per l’aldilà - chissà quando.
[Per quasi mille anni la Chiesa cattolica ha celebrato con il pane quotidiano come ancora fa ad es. la Chiesa ortodossa. A testimonianza, sono rimasti vassoi-patena molto ampi, oggi ridotti a un piattello].
Insomma, giunge l’«Ora»... e l’Azione emblematica - in Gv, che non racconta formalmente l’istituzione dell’Eucaristia.
Ecco il senso dello spezzare il pane: cosa comporta entrare in co-esistenza, per l’apostolo che rovescia le gerarchie e sovverte i criteri di purità, uniformità, compattezza, e gloria.
Nel quarto Vangelo il Cristo proclama solo due Beatitudini:
«In verità, in verità vi dico, non c’è servo più grande del suo signore, né inviato più grande di chi lo ha mandato. Se sapete queste cose, siete beati se le fate» (Gv 13,16-17).
E a Tommaso: «Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29b) - ciò, non perché lo sforzo sia un mezzo per accumulare dolori e meriti, e così piacere a Dio.
Le due Beatitudini di Gv garantiscono i binari sui quali il credente trova la sua realizzazione piena e lo stupore della felicità: la pratica della carità che recupera tutto l’essere disperso anche altrui, nell’avventura della Fede.
Prima e durante i pasti rituali, i pii d’Israele compivano abluzioni con acqua, per celebrare il distacco fra sacro e profano, tra puro e impuro.
Al capotavola le mani venivano lavate da un servo o dal più giovane dei convitati.
Con Gesù la tradizione viene scardinata dall’interno - da lasciare attoniti.
Per un giudeo il lavaggio altrui era un gesto che doveva rifiutare di eseguire, anche se ridotto in schiavitù, per non disonorare il popolo.
Invece il Messia si prostra e ha la libertà di prestarsi a lavare [neppure le mani, ma] i piedi.
Rivelazione assurda del Volto di Dio, che sgretola innumerevoli manierismi, speranze di prestigio artefatto;e atti di sottomissione, grotteschi riconoscimenti - avanzati da prìncipi della chiesa.
Ecco non solo un invito a servire il prossimo... gesto da imitare che proclama il carattere di umile servizio del ministero.
È anche segno di purificazione dei suoi - come un nuovo Battesimo che fa immediatamente partecipi del mondo di Dio.
Questo «lavare» è figura della Persona e della Missione del Figlio in favore degli uomini, tutti ora abilitati a passare da questo assetto al Regno del Padre.
E allo stesso modo far passare il prossimo, le moltitudini.
Il Maestro unisce a sé un gruppo di discepoli anche poco convinti, ma resi puri - non perché mira a formare una scuola distinta da altre, o persino unilaterale.
Chiama per Nome e crea Assemblea per introdurci nell’Amore, nel passaggio dalla schiavitù alla libertà del Gratis, che scende.
Dio non identifica le persone, né sovrappone un suo pensiero alla storia e sensibilità della gente.
Chinandosi, valica i ruoli, lo spirito di club, le stesse idee, e i certificati. Iniziativa - questa sì - esemplare.
Egli infatti nel suo Esodo traccia il nuovo cammino del popolo, anche di quello che si schiera contro - e ciò sconcerta, sembra inaccettabile.
Pietro smania per comandare: non ci sta a introdursi in una logica che manifesti anche nei dirigenti di comunità un Dio servitore degli uomini, indipendente dalle origini, o dai loro trascorsi.
Abbassandosi al livello dello schiavo che depone le vesti, il Signore vuole umanizzarci, recuperando invece gli opposti, radicati in maniera particolare e in ciascuno.
Egli ammette persino la contestazione - evidenziandola e sanandola.
Ciò a meno che non si resti come Giuda pervicacemente legati a seduzioni esterne e false guide spirituali: ai cliché dell’appartenenza-approvazione sociale, e tornaconto.
Infine Gesù non si toglie il grembiule, prima di rimettersi le vesti: è l’unica divisa che gli appartiene.
Quel genere di vestiario gli rimane addosso: lo porta anche in Paradiso.
Non ha messo in scena la parte dell’inserviente, per tornare in cielo a spadroneggiare. Non condiziona nessuno.
La Vita del Padre c’insegue su ogni percorso, per farci sentire adeguati: Un-Corpo-Solo col Figlio, cui ha consegnato tutto nelle mani (v.3).
Fioritura totale anche per noi; indistruttibile, eminente, in se stessa priva di germi mortiferi occulti.
La sua Fiducia si trasmette nella storia della salvezza; si dispiega agli indecisi e imperfetti, suoi consanguinei nel Figlio.
Pronto a innalzarci verso un’esistenza che non spegne più l’essere - e noi desiderosi di farlo fiorire, invece di boicottarlo o prenderlo in prestito.
Figli adottivi: non è una diminuzione, ma il riconoscimento insigne di una uguaglianza che non stride.
Anticamente, quando un sovrano designava il successore al trono, non di rado nominava dignitario un valoroso più affidabile del congiunto in linea naturale (spesso intrigante, viziato, stufo di esistere, parassita, stanco della sua stessa prosperità).
Dio non ci fa coincidere a forza. Piegandosi scavalca lo spirito d’emarginazione, le parti, i personaggi; tutti i salvacondotti.
Questo il “servizio” dei discepoli, da espletare con la vita e l’annuncio della lieta notizia: far conoscere che il Padre non è il Dio selettivo della religione, bensì amante incondizionato della donna e dell’uomo.
L’amore si comunica da pari a pari ed ha il medesimo passo della vita: essa non può essere imbrigliata da opinioni ereditate o convenzioni fisse, né assoggettata a narrazioni casistiche.
Solo la consapevolezza di una libertà che permane porterà a gesti di completezza nitida.
Non per un vantaggio opportunista e individuale: a favore della Gioia in pienezza di essere e intensità di relazione.
In qualsiasi fattispecie esterna, solo la stima che il Padre riconosce a ciascuno conduce i figli e le loro storie verso atti di convivialità e recuperi inspiegabili.
Gesù che lava i piedi raffigura il segreto della vita beata ch’espande la via dell’io in quella del Tu: nell’essere genuini e liberi anche di scendere, fino a curvarsi per servire.
Senza labirinti di norme o alte grida di principio; senza compromettere la spontaneità e snellezza più genuine - senza cedere alla diffidenza nei confronti dell’imperfezione altrui.
Sorvolando il perbenismo d’interdizione tipico delle maniere, quindi senza le solite trafile - tanto amate dai titolari, sempre distanziati e nell’apprensione, su qualsiasi fronte.
Ecco qui sorgere la franchezza nell’attitudine battesimale... celebrando l’esistenza in ogni sua forma, oltre i confini; avendo fiducia nella vita, nelle sue polarità naturali e opposte.
Consentendo altri sviluppi ed espansioni. Aprendo gli occhi verso il mondo - caposaldo di nuove relazioni, che si sostituiscono alle consuetudini unilaterali, o alle mode esterne.
Abbracciando un destino più ricco; amando le contraddizioni.
Bando ai modelli e all’esasperazione delle “capacità”.
Piuttosto, la ricerca di soluzioni che si affidano, senza interferire. Ritrovando la propria natura umanizzante.
Riconoscendo le diversità.
Approvando, riscattando e valutando ‘puro’ ogni cammino particolare [i piedi ‘lavati’ di ciascuno].
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come vivi in Cristo la tua responsabilità e la tua personalità secondo i vv.3-4?
Dopo l’Eucaristia fai come Gesù, o deponi subito il grembiule?
Comunione:
Radice dell’essere, Energia sognante che rilegge la storia
Gv 13,16-20 (.21-38)
Un «inviato» non è più di colui che lo manda (v.16). La nuova traduzione CEI precisa che Gesù non elegge Dodici Apostoli come si trattasse di capi e fenomeni destinati ad avere posizioni favolose.
I suoi sono persone del tutto comuni, mandate ad annunciare; non direttori forniti di carica, bensì di un umile incarico: essere se stessi e lavare i piedi agli altri. Questa la loro stoffa.
La Chiesa ministeriale non è quella dei personaggi con titolo e ruoli, ma del servizio autentico, non di maniera: dimesso e anticonformista.
Possiamo diventare continuazione del Mistero che avvolge la Persona di Cristo solo se consapevoli che non siamo fotocopie duali, né “più” di altri - figuriamoci del Maestro.
Ne I Promessi Sposi Manzoni narra che il marchese successore di don Rodrigo («brav’uomo, non un originale») serve a tavola gli invitati alle nozze di Renzo e Lucia.
Poi però si ritira a pranzare in disparte con don Abbondio: «d’umiltà n’aveva quanta bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar in loro pari».
Un tempo si faceva così: lo imponeva l’etichetta sociale.
Stile a modo, grazie al quale per voler piacere si accettava di adattarsi a gesti (estemporanei) di elemosina e benevolenza, fra ottime persone assai educate - ovviamente tutelando il protagonismo delle posizioni.
Ma allinearsi ai modelli non fa uscire dalle solite gabbie; anzi, ci nasconde nell’illusione d’un cambiamento che in realtà non è in atto, perché l’ordine fasullo resta, malgrado l’altruismo delle apparenze - indossate per buonismi di circostanza.
Il portento cui siamo chiamati e mandati non è quello di fare spazio a sentimenti convenienti, ma passare dalla nostra vetta esterna all’altrui livello e starci gomito a gomito, per donare a tutti l’emozione di sentirsi adeguati.
Dal servizio alla Comunione: unico clima di energia [non sempre “secondo etichetta” ma autenticamente nostro e sognante] che sviluppa fioriture, innescando recuperi impossibili.
Da qui si rilegge la storia.
Eppure ci chiediamo con quali energie attuarla, se talora noi stessi ci sentiamo incompleti, incerti nell’operare; non all’altezza.
Nel contesto della lavanda dei piedi, Gesù ricorda che il discepolo non deve farsi illusioni: non avrà in dote una splendida carriera, riconoscimenti mondani, o meno persecuzioni del Maestro.
Secondo mentalità antica, maltrattare un ambasciatore o un messaggero significava offendere chi rappresentava; accettarlo significava riconoscergli onore.
Si giunge qui alla radice della Missione di svelamento: accogliendo l’inviato si onora Cristo, e in lui Dio stesso (v.20).
Gli apostoli sono “mandati” in tal senso, come il Figlio dal Padre. Dentro tale flusso divengono luce rivelatrice, pienamente, senza chiusure.
Insomma, uno dei modi di lavarsi i piedi gli uni gli altri (v.14) è proprio quello di venire e sentirsi propriamente «inviati» - raffigurando Gesù, e Dio stesso, che ci attraversano.
È la via della Beatitudine (v.17) - quella del Signore vivo - il nucleo della “Chiesa in uscita”: aggiungere a insegnamenti belli e pratici la dimensione essenziale.
Tale il cammino plausibile e amabile, evangelizzatore delle nostre Radici. Che non chiede “resilienza” nei rapporti, solo agli “inferiori” del mondo.
Salvezza in dimensione divina, che assume valore; operata dal di dentro della coscienza la quale trova stima e volto, e libero fermento che apre la speranza, orientando.
Nell’azione si esprimerà l’essere profondo dell’Amico che ha la libertà di scendere. Egli si rivela promotore dei malfermi, non sottile prevaricatore.
Facendo ogni esodo, il nostro tratto vocazionale porta in sé uno scrigno prezioso, la consapevolezza della Sorgente intima dell’apostolato, e la sua preziosa concatenazione che tramuta il passato in futuro.
Il senso di completezza e significato radicale che ne deriva è efficace.
Lo è per chi scova, incontra, sente viva, la propria Fonte missionaria - e ne è il testimone.
Esprimendo semplicemente e con naturalezza se stesso - senza forzature o artificiosità - lo è al contempo per i fratelli da riconoscere.
Insomma, il servizio della comunità ministeriale non è nella dimensione del servaggio, bensì d’un flusso di energie primigenie, di stoffa; onda su onda genuine.
In tutto ciò, sviluppo dopo sviluppo, riattualizziamo l’epifania del Logos in Cristo, nell’oggi dell’essere persone (malferme eppure convinte, tenaci) legate da una cifra fraterna di peso.
«Io Sono» di Es 3,14 diviene - senza sforzo - il Popolo comunionale e accogliente dei servitori ricolmi di dignità donata.
L’elemento eterno del Verbo è conservato e sviluppato dai suoi inviati e dalla chiesa ministeriale, “apostolica”: sia nel suo carattere originario e fondante, che di legame alla storia di ciascuno.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Cosa significa per te passare dal servire a fare comunione? Lo ritieni un eccesso fastidioso?
Ti basta far stare bene gli altri a tratti, da protagonista e in modo compiaciuto, o t’impegni a farli sentire adeguati?
Cari fratelli e sorelle,
san Giovanni inizia il suo racconto sul come Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli con un linguaggio particolarmente solenne, quasi liturgico. “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (13, 1). È arrivata l’“ora” di Gesù, verso la quale il suo operare era diretto fin dall’inizio. Ciò che costituisce il contenuto di questa ora, Giovanni lo descrive con due parole: passaggio (metabainein, metabasis) ed agape – amore. Le due parole si spiegano a vicenda; ambedue descrivono insieme la Pasqua di Gesù: croce e risurrezione, crocifissione come elevazione, come “passaggio” alla gloria di Dio, come un “passare” dal mondo al Padre. Non è come se Gesù, dopo una breve visita nel mondo, ora semplicemente ripartisse e tornasse al Padre. Il passaggio è una trasformazione. Egli porta con sé la sua carne, il suo essere uomo. Sulla Croce, nel donare se stesso, Egli viene come fuso e trasformato in un nuovo modo d’essere, nel quale ora è sempre col Padre e contemporaneamente con gli uomini. Trasforma la Croce, l’atto dell’uccisione, in un atto di donazione, di amore sino alla fine. Con questa espressione “sino alla fine” Giovanni rimanda in anticipo all’ultima parola di Gesù sulla Croce: tutto è portato a termine, “è compiuto” (19, 30). Mediante il suo amore la Croce diventa metabasis, trasformazione dell’essere uomo nell’essere partecipe della gloria di Dio. In questa trasformazione Egli coinvolge tutti noi, trascinandoci dentro la forza trasformatrice del suo amore al punto che, nel nostro essere con Lui, la nostra vita diventa “passaggio”, trasformazione. Così riceviamo la redenzione – l’essere partecipi dell’amore eterno, una condizione a cui tendiamo con l’intera nostra esistenza.
Questo processo essenziale dell’ora di Gesù viene rappresentato nella lavanda dei piedi in una specie di profetico atto simbolico. In essa Gesù evidenzia con un gesto concreto proprio ciò che il grande inno cristologico della Lettera ai Filippesi descrive come il contenuto del mistero di Cristo. Gesù depone le vesti della sua gloria, si cinge col “panno” dell’umanità e si fa schiavo. Lava i piedi sporchi dei discepoli e li rende così capaci di accedere al convito divino al quale Egli li invita. Al posto delle purificazioni cultuali ed esterne, che purificano l’uomo ritualmente, lasciandolo tuttavia così com’è, subentra il bagno nuovo: Egli ci rende puri mediante la sua parola e il suo amore, mediante il dono di se stesso. “Voi siete già mondi per la parola che vi ho annunziato”, dirà ai discepoli nel discorso sulla vite (Gv 15, 3). Sempre di nuovo ci lava con la sua parola. Sì, se accogliamo le parole di Gesù in atteggiamento di meditazione, di preghiera e di fede, esse sviluppano in noi la loro forza purificatrice. Giorno dopo giorno siamo come ricoperti di sporcizia multiforme, di parole vuote, di pregiudizi, di sapienza ridotta ed alterata; una molteplice semifalsità o falsità aperta s’infiltra continuamente nel nostro intimo. Tutto ciò offusca e contamina la nostra anima, ci minaccia con l’incapacità per la verità e per il bene. Se accogliamo le parole di Gesù col cuore attento, esse si rivelano veri lavaggi, purificazioni dell’anima, dell’uomo interiore. È, questo, ciò a cui ci invita il Vangelo della lavanda dei piedi: lasciarci sempre di nuovo lavare da quest’acqua pura, lasciarci rendere capaci della comunione conviviale con Dio e con i fratelli. Ma dal fianco di Gesù, dopo il colpo di lancia del soldato, uscì non solo acqua, bensì anche sangue (Gv 19, 34; cfr1 Gv 5, 6. 8). Gesù non ha solo parlato, non ci ha lasciato solo parole. Egli dona se stesso. Ci lava con la potenza sacra del suo sangue, cioè con il suo donarsi “sino alla fine”, sino alla Croce. La sua parola è più di un semplice parlare; è carne e sangue “per la vita del mondo” (Gv 6, 51). Nei santi Sacramenti, il Signore sempre di nuovo s’inginocchia davanti ai nostri piedi e ci purifica. PreghiamoLo, affinché dal bagno sacro del suo amore veniamo sempre più profondamente penetrati e così veramente purificati!
Se ascoltiamo il Vangelo con attenzione, possiamo scorgere nell’avvenimento della lavanda dei piedi due aspetti diversi. La lavanda che Gesù dona ai suoi discepoli è anzitutto semplicemente azione sua – il dono della purezza, della “capacità per Dio” offerto a loro. Ma il dono diventa poi un modello, il compito di fare la stessa cosa gli uni per gli altri. I Padri hanno qualificato questa duplicità di aspetti della lavanda dei piedi con le parole sacramentum ed exemplum. Sacramentum significa in questo contesto non uno dei sette sacramenti, ma il mistero di Cristo nel suo insieme, dall’incarnazione fino alla croce e alla risurrezione: questo insieme diventa la forza risanatrice e santificatrice, la forza trasformatrice per gli uomini, diventa la nostra metabasis, la nostra trasformazione in una nuova forma di essere, nell’apertura per Dio e nella comunione con Lui. Ma questo nuovo essere che Egli, senza nostro merito, semplicemente ci dà deve poi trasformarsi in noi nella dinamica di una nuova vita. L’insieme di dono ed esempio, che troviamo nella pericope della lavanda dei piedi, è caratteristico per la natura del cristianesimo in genere. Il cristianesimo, in rapporto col moralismo, è di più e una cosa diversa. All’inizio non sta il nostro fare, la nostra capacità morale. Cristianesimo è anzitutto dono: Dio si dona a noi – non dà qualcosa, ma se stesso. E questo avviene non solo all’inizio, nel momento della nostra conversione. Egli resta continuamente Colui che dona. Sempre di nuovo ci offre i suoi doni. Sempre ci precede. Per questo l’atto centrale dell’essere cristiani è l’Eucaristia: la gratitudine per essere stati gratificati, la gioia per la vita nuova che Egli ci dà.
Con ciò, tuttavia, non restiamo destinatari passivi della bontà divina. Dio ci gratifica come partner personali e vivi. L’amore donato è la dinamica dell’“amare insieme”, vuol essere in noi vita nuova a partire da Dio. Così comprendiamo la parola che, al termine del racconto della lavanda dei piedi, Gesù dice ai suoi discepoli e a tutti noi: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13, 34). Il “comandamento nuovo” non consiste in una norma nuova e difficile, che fino ad allora non esisteva. Il comandamento nuovo consiste nell’amare insieme con Colui che ci ha amati per primo. Così dobbiamo comprendere anche il Discorso della montagna. Esso non significa che Gesù abbia allora dato precetti nuovi, che rappresentavano esigenze di un umanesimo più sublime di quello precedente. Il Discorso della montagna è un cammino di allenamento nell’immedesimarsi con i sentimenti di Cristo (cfr Fil 2, 5), un cammino di purificazione interiore che ci conduce a un vivere insieme con Lui. La cosa nuova è il dono che ci introduce nella mentalità di Cristo. Se consideriamo ciò, percepiamo quanto lontani siamo spesso con la nostra vita da questa novità del Nuovo Testamento; quanto poco diamo all’umanità l’esempio dell’amare in comunione col suo amore. Così le restiamo debitori della prova di credibilità della verità cristiana, che si dimostra nell’amore. Proprio per questo vogliamo tanto maggiormente pregare il Signore di renderci, mediante la sua purificazione, maturi per il nuovo comandamento.
Nel Vangelo della lavanda dei piedi il colloquio di Gesù con Pietro presenta ancora un altro particolare della prassi di vita cristiana, a cui vogliamo alla fine rivolgere la nostra attenzione. In un primo momento, Pietro non aveva voluto lasciarsi lavare i piedi dal Signore: questo capovolgimento dell’ordine, che cioè il maestro – Gesù – lavasse i piedi, che il padrone assumesse il servizio dello schiavo, contrastava totalmente con il suo timor riverenziale verso Gesù, con il suo concetto del rapporto tra maestro e discepolo. “Non mi laverai mai i piedi”, dice a Gesù con la sua consueta passionalità (Gv 13, 8). È la stessa mentalità che, dopo la professione di fede in Gesù, Figlio di Dio, a Cesarea di Filippo, lo aveva spinto ad opporsi a Lui, quando aveva predetto la riprovazione e la croce: “Questo non ti accadrà mai!”, aveva dichiarato Pietro categoricamente (Mt 16, 22). Il suo concetto di Messia comportava un’immagine di maestà, di grandezza divina. Doveva apprendere sempre di nuovo che la grandezza di Dio è diversa dalla nostra idea di grandezza; che essa consiste proprio nel discendere, nell’umiltà del servizio, nella radicalità dell’amore fino alla totale auto-spoliazione. E anche noi dobbiamo apprenderlo sempre di nuovo, perché sistematicamente desideriamo un Dio del successo e non della Passione; perché non siamo in grado di accorgerci che il Pastore viene come Agnello che si dona e così ci conduce al pascolo giusto.
Quando il Signore dice a Pietro che senza la lavanda dei piedi egli non avrebbe potuto aver alcuna parte con Lui, Pietro subito chiede con impeto che gli siano lavati anche il capo e le mani. A ciò segue la parola misteriosa di Gesù: “Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi” (Gv 13, 10). Gesù allude a un bagno che i discepoli, secondo le prescrizioni rituali, avevano già fatto; per la partecipazione al convito occorreva ora soltanto la lavanda dei piedi. Ma naturalmente si nasconde in ciò un significato più profondo. A che cosa si allude? Non lo sappiamo con certezza. In ogni caso teniamo presente che la lavanda dei piedi, secondo il senso dell’intero capitolo, non indica un singolo specifico Sacramento, ma il sacramentum Christi nel suo insieme – il suo servizio di salvezza, la sua discesa fino alla croce, il suo amore sino alla fine, che ci purifica e ci rende capaci di Dio. Qui, con la distinzione tra bagno e lavanda dei piedi, tuttavia, si rende inoltre percepibile un’allusione alla vita nella comunità dei discepoli, alla vita nella comunità della Chiesa – un’allusione che Giovanni forse vuole consapevolmente trasmettere alle comunità del suo tempo. Allora sembra chiaro che il bagno che ci purifica definitivamente e non deve essere ripetuto è il Battesimo – l’essere immersi nella morte e risurrezione di Cristo, un fatto che cambia la nostra vita profondamente, dandoci come una nuova identità che rimane, se non la gettiamo via come fece Giuda. Ma anche nella permanenza di questa nuova identità, per la comunione conviviale con Gesù abbiamo bisogno della “lavanda dei piedi”. Di che cosa si tratta? Mi sembra che la Prima Lettera di san Giovanni ci dia la chiave per comprenderlo. Lì si legge: “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa” (1, 8s). Abbiamo bisogno della “lavanda dei piedi”, della lavanda dei peccati di ogni giorno, e per questo abbiamo bisogno della confessione dei peccati. Come ciò si sia svolto precisamente nelle comunità giovannee, non lo sappiamo. Ma la direzione indicata dalla parola di Gesù a Pietro è ovvia: per essere capaci a partecipare alla comunità conviviale con Gesù Cristo dobbiamo essere sinceri. Dobbiamo riconoscere che anche nella nostra nuova identità di battezzati pecchiamo. Abbiamo bisogno della confessione come essa ha preso forma nel Sacramento della riconciliazione. In esso il Signore lava a noi sempre di nuovo i piedi sporchi e noi possiamo sederci a tavola con Lui.
Ma così assume un nuovo significato anche la parola, con cui il Signore allarga il sacramentum facendone l’exemplum, un dono, un servizio per il fratello: “Se dunque io, il Signore e Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri” (Gv 13, 14). Dobbiamo lavarci i piedi gli uni gli altri nel quotidiano servizio vicendevole dell’amore. Ma dobbiamo lavarci i piedi anche nel senso che sempre di nuovo perdoniamo gli uni agli altri. Il debito che il Signore ci ha condonato è sempre infinitamente più grande di tutti i debiti che altri possono avere nei nostri confronti (cfr Mt 18, 21-35). A questo ci esorta il Giovedì Santo: non lasciare che il rancore verso l’altro diventi nel profondo un avvelenamento dell’anima. Ci esorta a purificare continuamente la nostra memoria, perdonandoci a vicenda di cuore, lavando i piedi gli uni degli altri, per poterci così recare insieme al convito di Dio.
Il Giovedì Santo è un giorno di gratitudine e di gioia per il grande dono dell’amore sino alla fine, che il Signore ci ha fatto. Vogliamo pregare il Signore in questa ora, affinché gratitudine e gioia diventino in noi la forza di amare insieme con il suo amore. Amen.
[Papa Benedetto, omelia in Coena Domini 20 marzo 2008]
In addition to physical hunger man carries within him another hunger — all of us have this hunger — a more important hunger, which cannot be satisfied with ordinary food. It is a hunger for life, a hunger for eternity which He alone can satisfy, as he is «the bread of life» (Pope Francis)
Oltre alla fame fisica l’uomo porta in sé un’altra fame – tutti noi abbiamo questa fame – una fame più importante, che non può essere saziata con un cibo ordinario. Si tratta di fame di vita, di fame di eternità che Lui solo può appagare, in quanto è «il pane della vita» (Papa Francesco)
The Eucharist draws us into Jesus' act of self-oblation. More than just statically receiving the incarnate Logos, we enter into the very dynamic of his self-giving [Pope Benedict]
L'Eucaristia ci attira nell'atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione [Papa Benedetto]
Jesus, the true bread of life that satisfies our hunger for meaning and for truth, cannot be “earned” with human work; he comes to us only as a gift of God’s love, as a work of God (Pope Benedict)
Gesù, vero pane di vita che sazia la nostra fame di senso, di verità, non si può «guadagnare» con il lavoro umano; viene a noi soltanto come dono dell’amore di Dio, come opera di Dio (Papa Benedetto)
Jesus, who shared his quality as a "stone" in Simon, also communicates to him his mission as a "shepherd". It is a communication that implies an intimate communion, which also transpires from the formulation of Jesus: "Feed my lambs... my sheep"; as he had already said: "On this rock I will build my Church" (Mt 16:18). The Church is property of Christ, not of Peter. Lambs and sheep belong to Christ, and to no one else (Pope John Paul II)
Gesù, che ha partecipato a Simone la sua qualità di “pietra”, gli comunica anche la sua missione di “pastore”. È una comunicazione che implica una comunione intima, che traspare anche dalla formulazione di Gesù: “Pasci i miei agnelli… le mie pecorelle”; come aveva già detto: “Su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18). La Chiesa è proprietà di Cristo, non di Pietro. Agnelli e pecorelle appartengono a Cristo, e a nessun altro (Papa Giovanni Paolo II)
Praying, celebrating, imitating Jesus: these are the three "doors" - to be opened to find «the way, to go to truth and to life» (Pope Francis)
Pregare, celebrare, imitare Gesù: sono le tre “porte” — da aprire per trovare «la via, per andare alla verità e alla vita» (Papa Francesco)
In recounting the "sign" of bread, the Evangelist emphasizes that Christ, before distributing the food, blessed it with a prayer of thanksgiving (cf. v. 11). The Greek term used is eucharistein and it refers directly to the Last Supper, though, in fact, John refers here not to the institution of the Eucharist but to the washing of the feet. The Eucharist is mentioned here in anticipation of the great symbol of the Bread of Life [Pope Benedict]
Narrando il “segno” dei pani, l’Evangelista sottolinea che Cristo, prima di distribuirli, li benedisse con una preghiera di ringraziamento (cfr v. 11). Il verbo è eucharistein, e rimanda direttamente al racconto dell’Ultima Cena, nel quale, in effetti, Giovanni non riferisce l’istituzione dell’Eucaristia, bensì la lavanda dei piedi. L’Eucaristia è qui come anticipata nel grande segno del pane della vita [Papa Benedetto]
Work is part of God’s loving plan, we are called to cultivate and care for all the goods of creation and in this way share in the work of creation! Work is fundamental to the dignity of a person [Pope Francis]
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
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