don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

XVIII Domenica del Tempo Ordinario (anno C)  [3 agosto 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Nel cuore delle vacanze la Parola di Dio ci provoca a dare senso vero alla vita.

 

*Prima Lettura dal libro di Qoèlet (1,2; 2,21-23)

 Quando si legge il libro del Qoelet (Qoelet indica colui che convoca o il maestro che parla davanti all’assemblea) detto anche l’Ecclesiaste, c’è il rischio di pensare che l’autore sia un filosofo; invece è un predicatore e si cela qui una delle personalità più affascinati e scomode della sapienza biblica. È vero che il suo libro è classificato tra i “libri sapienziali”, ma i libri biblici detti di sapienza non sono saggi filosofici alla maniera dei pagani o degli agnostici. Sono prima di tutto libri scritti da credenti per dei credenti, in un certo senso sono dei catechismi. “Vanità delle vanità, tutto è vanità”: ecco le prime parole del libro del Qoelet, e forse anche ciò che lo riassume meglio. “Vanità” tradotto letteralmente sarebbe: “soffio di soffi”, qualcosa di evanescente e chi può vantarsi di trattenere un soffio tra le dita? Un’altra espressione simile, molto cara all’autore, è “corsa dietro al vento”(1,14). In altri termini tutto ciò a cui dedichiamo pensieri, sogni, forze, attività, tempo, tutto è effimero, provvisorio, passeggero. Tutto, tranne una sola cosa. Quale? L’autore mantiene il mistero e solo alla fine del libro dirà che l’unica cosa importante al mondo è la ricerca di Dio. Si comprende alla fine che non si tratta di una meditazione filosofica disillusa, ma di una predicazione vigorosa in modo velato. Nel frattempo, descrive in mille modi le tante attività umane come sforzi inutili, un correre dietro al vento per afferrare un soffio tra le dita. Per meglio argomentare fa parlare il re Salomone in persona, come uomo di desideri, di potere, coronato di gloria, ma di una gloria che non ha avuto futuro. In effetti diverse fasi segnano la sua vita: prima di diventare re, non sappiamo nulla di lui se non la sua sete di potere e come re, all’inizio fu ammirevole per saggezza e umiltà, alla fine cadde nell’idolatria e fu schiavo dell’amore per la ricchezza. Qoelet fa parlare Salomone come se stesse facendo il bilancio del suo regno: regno di potere e ricchezza (Gesù dirà di lui: «Salomone in tutta la sua gloria»). Ebbe sapienza e ricercò le grandi opere che affascinano i potenti e i saggi del tempo; tutti i piaceri della vita, e alla fine il fallimento del suo regno. Con Roboamo, suo figlio, incapace di una politica saggia, il regno si divise, e, peggio ancora, l’idolatria riprese il sopravvento e in qualche anno la gloria di Salomone svanì. Quel che leggiamo oggi si riferisce a lui: “chi ha lavorato con sapienza, con scienza dovrà lasciare a un altro che per nulla vi ha faticato” (2,21). Roboamo, suo figlio e successore al trono di Gerusalemme, mancò gravemente di saggezza e da lì nacque lo scisma che divise per sempre il regno di Davide. Alla luce di questa esperienza Qoelet afferma: “Tutto è vanità”. Leggiamo la stessa cosa nel salmo 103: “L’uomo: i suoi giorni sono come l’erba, fiorisce come il fiore dei campi: basta un soffio di vento, e non esiste più (15-16).  In Qoelet c’è un vero linguaggio di fede: Dio solo conosce tutti i misteri e ogni ricerca della felicità fuori di Lui è vana perché solo Lui possiede le chiavi della vera sapienza, e in definitiva, anche se non comprendiamo tutti i misteri dell’esistenza, sappiamo che tutto è dono di Dio. Mai sarà deluso chi confida in Dio e la sapienza consiste nell’abbandono in Dio e l’osservanza dei suoi comandamenti è l’unica via verso la felicità: “Chi osserva il comandamento non conoscerà nulla di male.” (Qo 8,5).  Alla fine, la vera sapienza è l’umiltà della vita vissuta come dono di Dio: “Ogni uomo che mangia, beve e gode del benessere in tutto il suo lavoro: è un dono di Dio. (Qo 3,13). 

 

*Salmo responsoriale 89 /90 (3-4.5-6.12-13.14-17)

Il salmo ci conduce nel contesto di una cerimonia di richiesta di perdono al Tempio di Gerusalemme, dopo l’esilio babilonese: la preghiera “Ritorna, Signore, fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi” (v.13) è tipica di una liturgia penitenziale.  Questo salmo è dunque una preghiera per chiedere la conversione: «Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio” v.12). La conversione consiste nel vivere secondo la sapienza di Dio per conoscere  la vera misura dei nostri giorni. Non è un caso che questo salmo ci venga offerto in eco alla prima lettura, dal libro del Qoèlet, una meditazione sulla vera sapienza mentre il salmo propone una splendida definizione della sapienza che è la vera misura dei nostri giorni, una sana lucidità sulla nostra condizione di uomini. Nati senza sapere perché e destinati a morire senza poter nemmeno prevedere quando: ecco il nostro destino, e questo è il senso dei primi versetti che abbiamo letto: Tu fai ritornare l’uomo in polvere, quando dici: “Ritornate, figli dell’uomo!”(v.3), cioè ritornate alla terra da cui vi ho tratto. Ciò non crea tristezza ma serenità perché la nostra miseria poggia sulla grandezza e la stabilità di Dio: “mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte” (v.4). Dio ci da sicurezza perché Egli vuole solo il nostro bene. I guai però nascono quando perdiamo la lucidità sulla sulla nostra miseria, come ben illustrano i capitoli 2 e 3 della Genesi, che raccontano l’errore di Adamo, personaggio simbolico, il cui comportamento è considerato modello di ciò che non si deve fare. “Adamo ha fatto questo o quello” non descrive un ipotetico primo uomo, ma un tipo di comportamentoe ed in tale luce questo salmo è in sintonia con la prima lettura dove Qoèlet fa parlare Salomone re saggio all’inizio, ma sedotto poi dal lusso, dal potere, dalle donne che l’hanno reso idolatra. Nella seconda parte del regno, si è comportato come Adamo che si allontana dalla sapienza di Dio. Questo salmo invita a ritrovare la sapienza e l’umiltà del giovane Salomone perché vera sapienza è la coscienza della piccolezza dell’uomo mai umiliante: una piccolezza fiduciosa, filiale. Splendida la conclusione: “l’opera delle nostre mani rendi salda” (v.17) che mostra la cooperazione tra Dio e l’uomo: l’uomo lavora, Dio dà solidità e senso all’opera umana.

 

*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi (3,1-5.9-11)

Paolo fa anzitutto una distinzione tra “le cose di lassù” e “quelle della terra”, due modi diversi di vivere: i comportamenti ispirati dallo Spirito Santo e quelli che non lo sono. “Le cose di lassù” sono la benevolenza, l’umiltà, la dolcezza, la pazienza, il perdono reciproco, vivendo secondo lo Spirito ed è il comportamento dei battezzati. “Quelle della terra” sono dissolutezza, impurità, passione sfrenata, avidità, cupidigia, comportamenti non ispirati dallo Spirito. Paolo tabilisce il legame tra il battesimo e il modo di vivere: “se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù” (v.1). Dice “siete risorti”, però poi afferma “voi infatti siete morti” (v.2) e le parole per lui non hanno lo stesso significato che per noi. Per Paolo, dalla risurrezione di Cristo in poi, niente è più come prima. Essere dei risorti significa precisamente essere morti al mondo e nati a una vita secondo lo Spirito, ciò che lui chiama le realtà di lassù. Il cristiano, è un “trasformato, che vive alla maniera di Cristo” e Paolo lo chiama “l’uomo nuovo”. Non disprezza “le cose della terra”; al contrario, dirà poco dopo: “Qualunque cosa facciate, in parole e in opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù rendendo per mezzo di lui grazie a Dio (3,17). Non si tratta quindi di vivere un’altra vita rispetto a quella ordinaria, ma di viverla diversamente: non rifiutare questo mondo, ma viverlo già come seme del Regno, dove tutti gli uomini sono fratelli come spiega nella lettera ai Galati (3,26-28) e ripete alla fine del brano della lettera ai Colossesi di questa domenica: “Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto in tutti.” La comunità di Colosse probabilmente aveva gli stessi problemi dei Galati e in particolare, la grande questione che agitava le prime comunità cristiane e cioè se i non-ebrei diventati cristiani dovevano assumere le pratiche giudaiche: norme alimentari, abluzioni rituali, e soprattutto la circoncisione. C’erano cristiani circoncisi e altri non circoncisi e taluni ebrei imponevano la circoncisione. Identica risposta ai Galati e ai Colossesi: il battesimo fa di tutti dei fratelli e ogni forma di esclusione è superata: conta solo essere discepoli di Cristo. 

NOTA. Alcuni esegeti pensano che questa lettera attribuita a Paolo non sia stata effettivamente scritta da lui; Paolo, infatti, non è mai stato a Colosse: è stato Epafra, un suo discepolo, a fondare quella comunità. Secondo una prassi molto comune nel I secolo (chiamata pseudepigrafia), si ipotizza (ma è solo un’ipotesi) che un discepolo molto vicino al pensiero di Paolo si sia rivolto ai Colossesi sotto l’autorità del nome dell’apostolo, perché il momento era grave. Se questa ipotesi è corretta, non ci si stupisce di trovare in questo scritto frasi letteralmente prese da Paolo e altre che mostrano come la riflessione teologica continuasse a svilupparsi nelle comunità cristiane. Gesù aveva detto: “Lo Spirito vi guiderà alla verità tutta intera.” E nelle domeniche precedenti abbiamo già avuto modo di vedere sviluppi teologici che non si trovano ancora negli scritti di Paolo stesso.

 

*Dal Vangelo secondo Luca (12, 13 – 21)

Sembra brusca la risposta di Gesù: “O uomo chi mi ha costituito vostro giudice o mediatore di sopra di voi?” Tuttavia, buon pedagogo, Gesù coglie l’occasione per trarre una lezione che spiega bene con questa parabola. Un uomo arricchitosi con gli affari studia come meglio godersi la sua ricchezza; pensa a demolire i magazzini, costruirne di più grandi per ammassarvi tutto il grano e i suoi beni per poi dire a sé stesso: “Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni: ripòsati, mangia, bevi e divertiti” (v.19). Purtroppo ha dimenticato che la sua vita non dipende da lui e infatti la notte stessa muore. Si crede ricco, ma la vera ricchezza non è quella che lui immagina. Per meglio capire l’insegnamento di Gesù occorre ricordare quel che ha detto prima: “Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che possiede” (v.13) e, anche se non c’è nella lettura liturgica di questa domenica, egli alla fine tira le conclusioni: “Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete, né per il vostro corpo, di cosa vi vestirete. La vita infatti vale più del cibo e il corpo più del vestito.” (Lc 12,22-23). Insegnamento di Gesù non nuovo che riprende temi già noti nell’Antico Testamento. Ben Sira diceva che chi diventa ricco  non sa quanto tempo gli resta da vivere, poi lascerà i suoi beni ad altri e morirà (cf. Sir 11,18-19); e nella prima lettura di questa domenica, il Qoelet ha proposto riflessioni simili: “Quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole?” (Qo 2,22) ritornando più volte sullo stesso tema (cf.Qo 5,9…15). Molto incisivo il profeta Isaia che accusa il popolo di Gerusalemme di stordirsi nei piaceri, invece di ascoltare l’appello di Dio alla conversione (cf Is 22,13) e il libro di Giobbe ripete: ”Nudo sono uscito dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò” (Gb 1,21), frase ancor oggi recitata in Israele durante ogni funerale. Tutte queste frasi suonano come richiami alla realtà della vita. Gesù denuncia la condotta insensata: Stolto! Questa notte stessa ti sarà richiesta la vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” (v.20) e la parabola si chiude: “Così è di chi accumula tesori per sé, e non si arricchisce presso Dio”. Il che implica due cose: Non dimenticare mai che le ricchezze vengono da Dio e al lui appartengono perché ce le affida per metterle a servizio del Regno di Dio. La vita è breve, ma proprio per questo, affrettiamoci a metterla a frutto! Gesù risponde bruscamente al richiedente l’eredità: quell’uomo sbaglia priorità perché l’eredità più preziosa è la fede ricevuta dai nostri padri. E ogni volta che Gesù risponde in modo brusco (a sua madre a Cana (Gv 2,4) a Pietro a Cesarea (Mt 16,23), è perché in gioco c’è la sua missione.

+ Giovanni D’Ercole

(Mt 14,13-21)

 

Gesù vuole che contributi, risorse e capacità facciano sinergia; porgersi in servizio e coalizzarsi per la vita delle moltitudini (vv.13-15.19).

Il gesto eucaristico - spezzare la vita - dice: cieli e terra nuovi non corrispondono al mondo in cui ciascuno si affretta a mietere per sé o la sua cerchia, onde accaparrarsi il massimo delle risorse.

Anche gli Apostoli - chiamati da Gesù e ancora rimasti a distanza di sicurezza da Lui - non sono i proprietari del Pane, bensì coloro che devono porgere nutrimento a tutti (v.16), per creare abbondanza dov’essa non c’è.

Devono condividere, non comandare. E, onde evitare impoverimenti e danni alla felicità, collocarsi in una logica di superamento.

Il Figlio riflette il disegno di Dio nella compassione per le folle bisognose di tutto. Tuttavia la sua soluzione non ci sorvola - semplicemente asciugando lacrime o cancellando le umiliazioni.

Invita a utilizzare ciò che abbiamo, sebbene possa apparire cosa ridicola. Ma insegna che spostando le energie si creano risultati prodigiosi.

Così rispondiamo in Cristo ai grandi problemi del mondo: recuperando la condizione dell’uomo ‘viator’ - essere di passaggio - e condividendo i beni.

La nostra reale nudità, le peripezie e l’esperienza dei molti fratelli, diversi, sono risorse da non valutare con diffidenza.

E il Signore non è d’accordo con l’idea che ciascuno s’arrangi (v.15).

Impone ai suoi che «le folle» (plurali) si sdraino in clima di abbondanza (v.19) come facevano i signori e le persone libere nei banchetti solenni.

Egli vuole e insiste che siano anzitutto i discepoli a servire (v.19), non altri schiavi.

E forse la cosa più sbalorditiva è che a nessuno dei presenti impone gesti preventivi di purificazione, com’era abitudine nella religiosità selettiva.

Prima del pasto essa postulava l’abluzione rituale: una cerimonia che sottolineasse un distacco sacrale fra puro e impuro.

Unico compito dei discepoli è quello di distribuire l’Alimento da sminuzzare, vagliare e assimilare personalmente, per edificare un nuovo mondo.

 

Per presentarci a cospetto di Dio, in religione abbiamo una lunga trafila di adempimenti da osservare, che talora ci normalizzano.

Nel cammino di Fede è l’Incontro gratuito col Signore che fa crescere e completa, rendendoci perfetti e puri senza condizioni.

In ciò, estraendo autentiche Perle; proprio dalle nostre eccentricità caratteriali - quelle che si distaccano dagli accordi millimetrici.

Il suo Regno? Tutti invitati e fratelli anche non concordi. Nessuno padrone o dominatore - anche se più svelto e capace a gestirsi.

L’Eucaristia resta così un Appello alla Convivialità reale [delle differenze così come sono] e Richiamo sempreverde a non accontentarsi di devozioni individuali o d’una spiritualità gemellabile ma vuota.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

In che modo il gesto eucaristico ti parla della Rivoluzione della Tenerezza, e della tua Chiamata per Nome attraverso la Chiesa?

 

 

[Lunedì 18.a sett. T.O.  4 agosto 2025]

Moltiplicare dividendo

(Mt 14,13-21)

 

«L’uomo è l’essere-limite che non ha limite» (Fratelli Tutti n.150).

Nel cuore abbiamo un gran desiderio di appagamento e Felicità. Il Padre lo ha introdotto, Lui stesso lo soddisfa - ma ci vuole associati alla sua opera - dentro e fuori di noi.

Il Figlio riflette il disegno di Dio nella compassione per le folle bisognose di tutto e - malgrado la pletora di maestri ed esperti - prive di qualsiasi insegnamento autentico (cf. Mt 9,36).

La sua soluzione è diversissima da quella di tutte le guide “spirituali”, perché non ci sorvola con un paternalismo indiretto (cf. Mt 14,16) che asciughi le lacrime, rimargini le ferite, cancelli le umiliazioni.

Invita a utilizzare in prima persona ciò che siamo e abbiamo, sebbene possa apparire cosa ridicola. Ma insegna in modo assolutamente netto che spostando le energie si realizzano risultati prodigiosi.

Così rispondiamo in Cristo ai grandi problemi del mondo: recuperando la condizione dell’uomo viator - essere di passaggio, sua impronta essenziale - e condividendo i beni; non lasciando che ciascuno si arrangi (v.15).

La nostra reale nudità, le peripezie e l’esperienza dei molti fratelli, diversi, sono risorse da non valutare con diffidenza, «come concorrenti o nemici pericolosi» della nostra realizzazione (FT n.151).

Non solo quel poco che rechiamo basterà a saziarci: avanzerà per altri e con identica pienezza di verità, umana, epocale [v.17: il passo particolare insiste sulla nota simbologia semitica del numero “sette”].

 

In Cristo, ciascuno può inaugurare un Tempo nuovo, e la Salvezza è già a portata di mano, perché la gente si riunisce spontaneamente intorno a Lui, giungendo così com’è, col carico dei tanti bisogni differenti.

Il nuovo popolo di Dio non è una folla di gente scelta e pura. Ognuno reca con sé problemi, che il Signore guarisce - ma curando non con provvedimenti per procura (v.16), come dal di sopra o dal di fuori.

Insomma: un altro mondo è possibile, però attraverso lo spezzare il proprio (anche misero) pane e companatico (vv.17-19).

Soluzione autentica, se la si fa emergere da dentro, e stando in mezzo - non davanti, non a capo, non in alto (v.15c).

Il luogo della Rivelazione di Dio doveva essere quello dei fulmini, su un “monte” fumante come di fornace (Es 19,18)... ma infine persino lo zelo violento di Elia aveva dovuto ricredersi (1Re 19,12).

Anche ai pagani, il Figlio rivela un Padre il quale non semplicemente cancella le infermità (v.14): le fa capire come luogo che sta preparando uno sviluppo personale, e quello della Comunità.

S’immaginava che nei tempi del Messia, zoppi, sordi e ciechi sarebbero scomparsi (Is 35,5ss.). Età dell’oro: tutto al vertice, nessun abisso.

In Gesù - Pane distribuito - si manifesta una pienezza dei tempi inconsueta, apparentemente nebulosa e fragile, ma reale e in grado di riavviare tutti, e le relazioni.

Lo Spirito di Dio agisce non calandosi come un fulmine dall’alto, bensì attivando in noi capacità che appaiono impalpabili, eppure in grado di raggranellare il nostro essere disperso, classificato inconsistente - che coinvolge il sommario di tutti i giorni - e lo rivaluta.

 

L’Incarnazione ci ritessere il cuore, in dignità e promozione; si dispiega realmente, perché non solo trascina via gli ostacoli: poggia su di essi e non li cancella affatto: così li surclassa ma trasmutando - ponendo nuova vita.

Linfa che trae succo e germoglia Fiori dall’unico terreno melmoso e fecondo, e li comunica. Solidarietà cui sono invitati tutti, non solo quelli ritenuti in condizione di “perfezione” e compattezza.

Le nostre carenze ci rendono attenti, e unici. Non vanno disprezzate, bensì assunte, poste nelle mani del Figlio e dinamizzate (v.18).

Le stesse cadute possono essere un segnale prezioso: in Cristo, non sono più umiliazioni riduttive, bensì indicatori di percorso. Forse non stiamo utilizzando e investendo al meglio le nostre risorse.

Così i crolli possono trasformarsi rapidamente in risalite - differenti, non confezionate - e ricerca di completamento totale nella Comunione.

Quindi, nell’ideale di realizzare la Vocazione e intuire il tipo di contributo da porgere, nulla di meglio d’un ambiente vivo, che non tarpi le ali: una fraternità vivace nello scambio di risorse, e convivenza.

Non tanto per attutirci gli scossoni, ma perché siamo messi in grado di edificare magazzini sapienziali non tarati da nomenclature - cui tutti possono attingere, persino i diversi e lontani da noi.

Se poi anche qui verrà a trovarci una manchevolezza, sarà per insegnare a essere presenti al mondo secondo (magari) altre e ulteriori direzioni, o per far emergere la missione e una maturazione creativa - non per rimanere fissati su parzialità e minuzie.

 

L’allusione ai sette alimenti (moltiplicati perché divisi) conforta le citazioni relative al magma plasmabile delle icone bibliche, come quelle di Mosè ed Elia: figure dei cinque Libri del Pentateuco [i Pani base], più le due sezioni di Profeti e Scritti [che fanno come da “companatico”].

I primi “cinque”, Pienezza essenziale di cibo e saggezza per l’anima, chiamata a procedere oltre le siepi circonvicine, rompendo gli argini della mentalità asservita al contorno.

È il nutrimento-base dello spirito umano-divino, cui però si aggiunge un giovane e fresco alimento companatico, che appunto ci coinvolge (v.17.19).

[Come diceva s. Agostino: «La Parola di Dio che ogni giorno viene a voi spiegata e in un certo senso “spezzata” è anch’essa Pane quotidiano» (Sermo 58, IV: PL 38,395). Alimento completo: cibo base e “companatico” - storico e ideale, in codice e in atto].

Diventiamo nel Cristo come un corpus attualizzato e propulsivo di testimoni (e Scritture!) sensibile; certo ridotto, non ancora affermato e privo di eroici fenomeni, ma accentuatamente sapienziale e pratico.

Annunciatori e condivisori senza clamorosi proclami di autosufficienza, mai rinchiusi entro steccati arcaici - sempre in fieri - perciò in grado di percepire binari sconosciuti.

E spezzare il Pane... ossia attivarsi, procedere oltre, dividere il poco - per alimentare, straripare (moltiplicando l’ascolto e l’azione di Dio) e far riconquistare stima anche ai disperati.

Siamo figli: come pochi e piccoli pesci (vv.17.19), i quali non sguazzano in competizioni che rendono tossica la vita - anzi: chiamati in prima persona a scrivere una singolare, empatica e sacra, Parola-evento.

Infanti nel Signore, nuotiamo in questa differente Acqua - a volte forse esteriormente velata o melmosa e torbida; infine fatta trasparente anche solo perché arrendevole, compassionevole e benevola.

La vecchia pozzanghera esclusiva della religione che non osa il rischio della Fede (v.13) non ci avrebbe aiutato ad assimilare la proposta del Gesù Messia, Figlio di Dio, Salvatore - acrostico del termine greco «Ichtys» (pesce: vv.17.19 diminutivo).

Egli è l’Iniziativa-Risposta del Padre, sostegno nel (poco etereo) viaggio alla ricerca della Speranza dei poveri - di tutti noi indigenti in attesa.

 

Sembra strano, per noi che ci abbiamo fatto il callo: la Fede operante ha per emblema l’Eucaristia frazionata, rivoluzione della sacralità.

Infatti scopo dell’evangelizzazione è partecipare ed emancipare l’essere completo da tutto ciò che lo minaccia, non solo nel limite estremo: anche nella sua azione di ogni giorno - fino a cercare la comunione dei beni.

Il prodigio è collocato dopo il rifiuto a Nazaret (Mt 13,53-57), il quesito ambiguo e superstizioso di Erode (vv.1-2), e l’esecuzione del Battista (vv.3-12).

Insomma, il Segno Fonte e Culmine della comunità dei figli è un gesto creativo che impone uno spostamento di visione e azione, un occhio e un gesto assolutamente nuovi.

[in tal guisa, di fronte all’indigenza di molti - causata dall’avidità di pochi - l’atteggiamento della Chiesa autentica non si compiace di emblemi e fervorini, né di parziali chiamate a distinguersi].

Lo spezzare del Pane subentra alla Manna calata dall’alto nel deserto (Mt 14,15; 15,33; Mc 8,4) e comporta la sua distribuzione - non solo in situazioni particolari.

Non c’è da accontentarsi, nel moltiplicare vita per tutti.

Questa l’attitudine del Corpo vivente del Cristo taumaturgico [non il facitore di miracoli] che si sente chiamato ad attivarsi in ogni circostanza.

L’adesione grata deve condurci al dono e alla condivisione del «pane».

Se non è elemosina puntuale, pietismo esterno, assistenzialismo di maniera, ecco il Risultato:

Donne e uomini mangeranno, rimarranno sazi, e avanzerà alimento per altri ancora. Infatti, non tutti i convitati da Dio previsti sono ancora presenti...

Notiamo che ai discepoli non era neanche passato per la testa che la soluzione potesse venire dalla gente stessa e dal loro spirito - non dal patentato dei leaders o da qualche singolo benefattore.

Soluzione inattesa: la questione dell’alimento si risolve non dall’alto, ma a partire dall’interno delle persone e con i pochi pani portati con sé.

Non c’è soluzione col verbo “moltiplicare” - ossia “incrementare”… cosa? relazioni che contano, accrescere proprietà, ammucchiare astuzie.

Unica terapia è la convivenza dello «spezzare», «dare», «porgere» (v.19). E tutti sono coinvolti, nessuno privilegiato.

 

A quel tempo la competitività e la mentalità di classe caratterizzava la società piramidale dell’impero - e iniziava a infiltrarsi già nella piccola comunità, appena agli inizi.

Come se il Signore e il Dio del tornaconto potessero convivere uno a fianco all’altro, ancora.

È la comunione dei bisognosi che viceversa sale in cattedra nella Chiesa non artefatta.

La condivisione reale fa da professore degli onnipresenti veterani, smaliziati e pretenziosi, unici a doversi ancora convertire.

Il germe della loro “durata” dovrebbe essere non la posizione in quota e il ruolo, ma l’amore.

Tale l’unico senso dei gesti sacri; non altri progetti venati da prevaricazioni, o dall’apparire.

 

Gli “appartenenti” sbalordiscono.

Per il Signore i lontani (sebbene ancora in bilico nelle scelte) sono pienamente partecipi del banchetto messianico - senza preclusioni, né discipline dell’arcano con attese snervanti.

Viceversa, quella Mensa urge in favore di altri che ancora devono essere chiamati. Per una sorta di ristabilimento dell’Unità originale.

 

Insomma, la Redenzione non appartiene alle élites preoccupate della stabilità del loro dominio - che sono addirittura i deboli a dover sostenere.

 

La vita da salvati viene a noi per incorporazione.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Hai mai spezzato il tuo pane, trasmesso felicità e compiuto recuperi che rinnovano i rapporti, rimettendo in piedi le persone che neppure hanno stima di sé? O hai privilegiato atteggiamenti di élite monarchica?

 

 

Appendice

 

Gesù vuole che contributi, risorse e capacità facciano sinergia; porgersi in servizio e coalizzarsi per la vita delle moltitudini (vv.13-15.19).

Il gesto eucaristico - spezzare la vita - dice: cieli e terra nuovi non corrispondono al mondo in cui ciascuno si affretta a mietere per sé o la sua cerchia, onde accaparrarsi il massimo delle risorse.

Anche gli Apostoli - chiamati da Gesù ma ancora rimasti a distanza di sicurezza da Lui - non sono i proprietari del Pane, bensì coloro che devono porgere nutrimento a tutti (v.16), per creare abbondanza dov’essa non c’è.

Devono condividere, non comandare - tantomeno sulle opinioni o situazioni altrui. E, onde evitare impoverimenti e danni alla felicità, collocarsi in una logica di superamento.

 

Il Figlio riflette il disegno di Dio nella compassione per le folle bisognose di tutto. Tuttavia la sua soluzione non ci sorvola - semplicemente asciugando lacrime o cancellando le umiliazioni.

Invita a utilizzare ciò che abbiamo, sebbene possa apparire cosa ridicola. Ma insegna che spostando le energie si creano risultati prodigiosi.

Così rispondiamo in Cristo ai grandi problemi del mondo: recuperando la condizione dell’uomo viator - essere di passaggio, sua impronta essenziale - e condividendo i beni.

La nostra reale nudità, le peripezie e l’esperienza dei molti fratelli, diversi, sono risorse da non valutare con diffidenza, «come concorrenti o nemici pericolosi» della nostra realizzazione (FT n.151).

 

Il Signore non è d’accordo con l’idea che ciascuno s’arrangi (v.15); neppure gli va a genio l’elemosina, o il vecchio idolo del «comprare» (v.15).

Impone ai suoi che «le folle» (plurali) si sdraino in clima di abbondanza (v.19 testo greco) come facevano i signori e le persone libere nei banchetti solenni.

Egli vuole e insiste che siano anzitutto i discepoli a servire (v.19), non altri schiavi.

E forse la cosa più sbalorditiva è che a nessuno dei presenti impone gesti preventivi di purificazione, com’era abitudine nella religiosità tradizionale, ipocritamente sterilizzata e selettiva.

Prima del pasto essa richiedeva l’abluzione: una cerimonia che sottolineasse un distacco sacrale fra puro e impuro.

Unico compito dei discepoli è quello di distribuire l’Alimento - poi da sminuzzare, vagliare e assimilare personalmente, per edificare un nuovo mondo - non fare radiografie preventive; tantomeno interessate.

 

In religione abbiamo una lunga trafila di adempimenti da osservare per presentarci a cospetto di Dio, che purtroppo ci normalizzano.

Nel cammino di Fede è l’incontro gratuito col Signore che fa crescere e completa, rendendoci perfetti e incontaminati, senza condizioni... estraendo autentiche Perle, proprio dalle nostre eccentricità caratteriali (quelle che si distaccano dagli accordi millimetrici).

Il suo Regno? Tutti invitati e fratelli (anche non concordi), nessuno padrone o dominatore - destinato a guidare gli umili a vita e di testa sua, stando sempre davanti o sopra - perché più svelto e capace a gestirsi.

L’Eucaristia resta un Appello alla Convivialità reale (delle differenze così come sono) e Richiamo sempreverde a non accontentarsi di devozioni individuali o d’una spiritualità gemellabile ma vuota.

 

La Fede operante ha dunque per emblema l’Eucaristia, rivoluzione della sacralità. Sembra strano, per noi che ci abbiamo fatto il callo.

Scopo dell’evangelizzazione è emancipare da tutto ciò che minaccia la vita, non solo nel limite estremo, ma anche nella sua azione di ogni giorno - fino a cercare la comunione dei beni.

In Mt 14 il prodigio è collocato dopo che Gesù è stato respinto da Nazaret, la preoccupazione di Erode, l’omicidio del Battista.

Il Segno Fonte e Culmine della comunità dei figli è un gesto creativo che impone lo spostamento di visione, un occhio assolutamente nuovo.

Di fronte all’indigenza di molti - causata dall’avidità di pochi - l’atteggiamento della Chiesa autentica non si compiace di emblemi e fervorini, né di parziali chiamate a distinguersi nell’elemosina.

Lo spezzare del Pane subentra alla Manna calata dall’alto nel deserto e comporta la sua distribuzione - non solo in situazioni particolari (v.15).

Non c’è da accontentarsi, nel moltiplicare la vita per tutti.

Questa l’attitudine del Corpo vivente del Cristo taumaturgico [non il facitore di miracoli] che si sente chiamato ad attivarsi in ogni circostanza.

La partecipazione eucaristica deve condurci al dono e alla condivisione del pane.

Risultato: donne e uomini mangeranno, rimarranno sazi, e avanzerà Alimento per altri ancora [non tutti i convitati da Dio previsti sono ancora presenti...].

Notiamo che ai discepoli non era neanche passato per la testa che la soluzione potesse venire dalla gente stessa e dal loro spirito - non solo dal paternalismo dei capi o da qualche singolo benefattore.

Soluzione inattesa: la questione dell’alimento si risolve non dall’alto, ma solo a partire dall’interno delle persone e con i pochi pani portati con sé (vv.15-17).

Non c’è soluzione col verbo “moltiplicare” - ossia “incrementare”…relazioni che contano, accrescere proprietà, ammucchiare astuzie.

Unica terapia è «spezzare», «dare», «porgere», «distribuire» (vv.16-19 testo greco).

E tutti sono coinvolti, nessun privilegiato.

A quel tempo la competitività e la mentalità di classe caratterizzava la società dell’impero - e iniziava a infiltrarsi già nella piccola comunità, appena agli inizi.

Come se il Signore e il Dio del tornaconto potessero convivere uno a fianco all’altro, ancora.

È la comunione dei bisognosi che viceversa sale in cattedra nella Chiesa autentica.

La condivisione reale fa da professore degli onnipresenti veterani, smaliziati e pretenziosi, unici a doversi ancora convertire.

Il germe della loro “durata” dovrebbe essere non la posizione in quota e il ruolo, ma l’amore.

Tale l’unico senso dei gesti sacri, non altri progetti venati da prepotenze, o dall’apparire.

Gli “appartenenti” e reduci sbalordiscono.

Per il Signore i lontani (sebbene ancora in bilico nelle scelte) sono pienamente partecipi del banchetto messianico - senza preclusioni, né discipline dell’arcano o attese snervanti.

Viceversa, quella Mensa urge in favore degli altri che ancora devono essere chiamati, per una sorta di ristabilimento dell’Unità originale.

Insomma, la Redenzione non appartiene alle élites (monarchiche piramidali) preoccupate della stabilità del loro predominio - che sono addirittura i deboli a dover sostenere.

 

[Come diceva s. Agostino: «La Parola di Dio che ogni giorno viene a voi spiegata e in un certo senso “spezzata” è anch’essa Pane quotidiano» (Sermo 58, IV: PL 38,395). Alimento completo: cibo base e “companatico” - storico e ideale, in codice e in atto].

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

In che modo il gesto eucaristico ti parla della Rivoluzione della Tenerezza, e della tua Chiamata per Nome attraverso la Chiesa?

Il Vangelo di questa domenica descrive il miracolo della moltiplicazione dei pani, che Gesù compie per una moltitudine di persone che lo hanno seguito per ascoltarlo ed essere guariti da varie malattie (cfr Mt 14,14). Sul far della sera, i discepoli suggeriscono a Gesù di congedare la folla, perché possa andare a rifocillarsi. Ma il Signore ha in mente qualcos’altro: “Voi stessi date loro da mangiare” (Mt 14,16). Essi, però, non hanno “altro che cinque pani e due pesci”. Gesù allora compie un gesto che fa pensare al sacramento dell’Eucaristia: “Alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla (Mt 14,19). Il miracolo consiste nella condivisione fraterna di pochi pani che, affidati alla potenza di Dio, non solo bastano per tutti, ma addirittura avanzano, fino a riempire dodici ceste. Il Signore sollecita i discepoli affinché siano loro a distribuire il pane per la moltitudine; in questo modo li istruisce e li prepara alla futura missione apostolica: dovranno infatti portare a tutti il nutrimento della Parola di vita e del Sacramento.

In questo segno prodigioso si intrecciano l’incarnazione di Dio e l’opera della redenzione. Gesù, infatti, “scende” dalla barca per incontrare gli uomini (cfr Mt 14,14). San Massimo il Confessore afferma che il Verbo di Dio “si degnò, per amore nostro, di farsi presente nella carne, derivata da noi e conforme a noi tranne che nel peccato, e di esporci l’insegnamento con parole ed esempi a noi convenienti” (Ambiguum 33: PG 91, 1285 C). Il Signore ci offre qui un esempio eloquente della sua compassione verso la gente. Viene da pensare ai tanti fratelli e sorelle che in questi giorni, nel Corno d’Africa, patiscono le drammatiche conseguenze della carestia, aggravate dalla guerra e dalla mancanza di solide istituzioni. Cristo è attento al bisogno materiale, ma vuole dare di più, perché l’uomo è sempre “affamato di qualcosa di più, ha bisogno di qualcosa di più” (Gesù di Nazaret, Milano 2007, 311). Nel pane di Cristo è presente l’amore di Dio; nell’incontro con Lui “ci nutriamo, per così dire, dello stesso Dio vivente, mangiamo davvero il «pane dal cielo»” (ibid.).

Cari amici, “nell’Eucaristia Gesù fa di noi testimoni della compassione di Dio per ogni fratello e sorella. Nasce così intorno al Mistero eucaristico il servizio della carità nei confronti del prossimo” (Esort. ap. postsin. Sacramentum caritatis, 88).

[Papa Benedetto, Angelus 31 luglio 2011]

“Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”.

Dinanzi alla folla, che lo ha seguito dalle rive del mare di Galilea fin verso la montagna per ascoltare la sua parola, Gesù dà inizio, con questa domanda, al miracolo della moltiplicazione dei pani, che costituisce il significativo preludio al lungo discorso, nel quale si rivela al mondo come il vero pane della vita disceso dal cielo (cf. Gv 6,41).

1. Abbiamo ascoltato il racconto evangelico: con cinque pani d’orzo e con due pesci, messi a disposizione da un ragazzo, Gesù sfama circa cinquemila uomini. Ma questi, non comprendendo la profondità del “segno” in cui sono stati coinvolti, sono convinti di aver trovato finalmente il Re-Messia, che risolverà i problemi politici ed economici della loro Nazione. Di fronte a tale ottuso fraintendimento della sua missione, Gesù si ritira, tutto solo, sulla montagna.

Anche noi, Sorelle e Fratelli carissimi, abbiamo seguito Gesù e continuiamo a seguirlo. Ma possiamo e dobbiamo chiederci: con quale atteggiamento interiore?Con quello autentico della fede, che Gesù attendeva dagli Apostoli e dalla folla sfamata, oppure con un atteggiamento di incomprensione? Gesù si presentava in quella occasione come, anzi più di Mosè, che nel deserto aveva sfamato il popolo israelita durante l’esodo; si presentava come, anzi più di Eliseo, che con venti pani d’orzo e di farro aveva dato da mangiare a cento persone. Gesù si manifestava, e si manifesta oggi a noi, come Colui che è capace di saziare per sempre la fame del nostro cuore: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete” (Gv 6,33).

E l’uomo, specialmente quello contemporaneo, ha tanta fame: fame di verità, di giustizia, di amore, di pace, di bellezza; ma, soprattutto, fame di Dio. “Noi dobbiamo essere affamati di Dio!” esclama Sant’Agostino (“famelici Dei esse debemus” (S. Agostino, Enarrat. in Ps. 146, 17: PL 37,1895ss.). È lui, il Padre celeste, che ci dona il vero pane!

2. Questo pane, di cui abbiamo bisogno, è anzitutto il Cristo, il quale si dona a noi nei segni sacramentali dell’Eucaristia, e ci fa sentire, in ogni Messa, le parole dell’ultima Cena: “Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”. Col sacramento del pane eucaristico – afferma il Concilio Vaticano II – “viene rappresentata e prodotta l’unità dei fedeli, che costituiscono un solo Corpo in Cristo (cf. 1Cor 10,17). Tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo che è luce del mondo; da lui veniamo, per lui viviamo, a lui siamo diretti” (Lumen Gentium, 3).

Il pane di cui abbiamo bisogno è, inoltre, la parola di Dio, perché “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio” (Mt 4,4; cf. Dt 8,3). Indubbiamente, anche gli uomini possono esprimere e pronunciare parole di alto valore. Ma la storia ci mostra come le parole degli uomini siano talvolta insufficienti, ambigue, deludenti, tendenziose; mentre la Parola di Dio è piena di verità (cf. 2Sam 7,28;1Cor 15,26); è retta (Sal 33,4); è stabile e rimane in eterno (cf. Sal 119,89;1Pt 1,25). 

Dobbiamo metterci continuamente in religioso ascolto di tale Parola; assumerla come criterio del nostro modo di pensare e di agire; conoscerla, mediante l’assidua lettura e la personale meditazione; ma, specialmente, dobbiamo farla nostra, realizzarla, giorno dopo giorno, in ogni nostro comportamento.

Il pane, infine, di cui abbiamo bisogno, è la grazia; e dobbiamo invocarla, chiederla con sincera umiltà e con instancabile costanza, ben sapendo che essa è quanto di più prezioso possiamo possedere.

3. Il cammino della nostra vita, tracciatoci dall’amore provvidenziale di Dio, è misterioso, talvolta umanamente incomprensibile, e quasi sempre duro e difficile. Ma il Padre ci dona il “pane del cielo” (cf. Gv 6,32), per essere rinfrancati nel nostro pellegrinaggio sulla terra.

Mi piace concludere con un passo di Sant’Agostino, che sintetizza mirabilmente quanto abbiamo meditato: “Si comprende molto bene... come la tua Eucaristia sia il cibo quotidiano. Sanno infatti i fedeli che cosa essi ricevono ed è bene che essi ricevano il pane quotidiano necessario per questo tempo. Pregano per loro stessi, per diventare buoni, per essere perseveranti nella bontà, nella fede, e nella vita buona... la parola di Dio, che ogni giorno viene a voi spiegata e, in un certo senso, spezzata, è anch’essa pane quotidiano” (S. Agostino, Sermo 58, IV: PL 38,395).

Che Cristo Gesù moltiplichi sempre, anche per noi, il suo pane!

Così sia!

[Papa Giovanni Paolo II, omelia 29 luglio 1979]

Il Vangelo […] ci presenta il prodigio della moltiplicazione dei pani (cfr Mt 14,13-21). La scena si svolge in un luogo deserto, dove Gesù si era ritirato con i suoi discepoli. Ma la gente lo raggiunge per ascoltarlo e farsi guarire: infatti le sue parole e i suoi gesti risanano e danno speranza. Al calar del sole, le folle sono ancora lì, e i discepoli, uomini pratici, invitano Gesù a congedarle perché possano andare a procurarsi da mangiare. Ma Lui risponde: «Voi stessi date loro da mangiare» (v. 16). Immaginiamo le facce dei discepoli! Gesù sa bene quello che sta per fare, ma vuole cambiare il loro atteggiamento: non dire “congedali, che si arrangino, che trovino loro da mangiare”, no, ma “che cosa ci offre la Provvidenza da condividere?”. Due atteggiamenti contrari. E Gesù vuole portarli al secondo atteggiamento, perché la prima proposta è la proposta di un uomo pratico, ma non generosa: “congedali, che vadano a trovare, che si arrangino”. Gesù pensa in un altro modo. Gesù, attraverso questa situazione, vuole educare i suoi amici di ieri e di oggi alla logica di Dio. E qual è la logica di Dio che vediamo qui? La logica del farsi carico dell’altro. La logica di non lavarsene le mani, la logica di non guardare da un’altra parte. La logica di farsi carico dell’altro. Il “che si arrangino” non entra nel vocabolario cristiano.

Non appena uno dei Dodici dice, con realismo: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!», Gesù risponde: «Portatemeli qui» (vv. 17-18). Prende quel cibo tra le sue mani, alza gli occhi al cielo, recita la benedizione e comincia a spezzare e a dare le porzioni ai discepoli da distribuire. E quei pani e quei pesci non finiscono, bastano e avanzano per migliaia di persone.

Con questo gesto Gesù manifesta la sua potenza, non però in modo spettacolare, ma come segno della carità, della generosità di Dio Padre verso i suoi figli stanchi e bisognosi. Egli è immerso nella vita del suo popolo, ne comprende le stanchezze, ne comprende i limiti, ma non lascia che nessuno si perda o venga meno: nutre con la sua Parola e dona cibo abbondante per il sostentamento.

In questo racconto evangelico si percepisce anche il riferimento all’Eucaristia, soprattutto là dove descrive la benedizione, la frazione del pane, la consegna ai discepoli, la distribuzione alla gente (v. 19). E va notato come sia stretto il legame tra il pane eucaristico, nutrimento per la vita eterna, e il pane quotidiano, necessario per la vita terrena. Prima di offrire sé stesso al Padre come Pane di salvezza, Gesù si cura del cibo per coloro che lo seguono e che, pur di stare con Lui, hanno dimenticato di fare provviste.A volte si contrappone spirito e materia, ma in realtà lo spiritualismo, come il materialismo, è estraneo alla Bibbia. Non è un linguaggio della Bibbia.

La compassione, la tenerezza che Gesù ha mostrato nei confronti delle folle non è sentimentalismo, ma la manifestazione concreta dell’amore che si fa carico delle necessità delle persone. E noi siamo chiamati ad accostarci alla mensa eucaristica con questi stessi atteggiamenti di Gesù: [anzitutto] compassione dei bisogni altrui. Questa parola che si ripete nel Vangelo quando Gesù vede un problema, una malattia o questa gente senza cibo. “Ne ebbe compassione”. Compassione non è un sentimento puramente materiale; la vera compassione è patire con, prendere su di noi i dolori altrui. Forse ci farà bene oggi domandarci: io ho compassione? Quando leggo le notizie delle guerre, della fame, delle pandemie, tante cose, ho compassione di quella gente? Io ho compassione della gente che è vicina a me? Sono capace di patire con loro, o guardo da un’altra parte o dico “che si arrangino”? Non dimenticare questa parola “compassione”, che è fiducia nell’amore provvidente del Padre e significa coraggiosa condivisione.

Maria Santissima ci aiuti a percorrere il cammino che il Signore ci indica nel Vangelo di oggi. È il percorso della fraternità, che è essenziale per affrontare le povertà e le sofferenze di questo mondo, specialmente in questo momento grave, e che ci proietta oltre il mondo stesso, perché è un cammino che inizia da Dio e a Dio ritorna.

[Papa Francesco, Angelus 2 agosto 2020]

Aprire i portoni blindati

(Lc 12,13-21)

 

«Certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili a vantaggio di una selezione che favorisce un settore umano degno di vivere senza limiti» [Fratelli Tutti n.18].

 

Basilio il Grande commentava: «Qui non si condanna chi rapina, ma chi non condivide il suo».

Insensatezza dell’accumulare.

 

Il Dono di Dio è completo, ma ciascuno è bisognoso. Perché? Per accentuare il «fecondo interscambio».

E lo stiamo sperimentando: solo la voglia di ‘nascere nella reciprocità’ può combattere l’«impoverimento di tutti» e la stessa «sclerosi culturale» [cf. FT 133-138].

Ogni gesto di generosità cela la fioritura d’una energia vivificante innata, che fa scorrere l’anima e i capitali fuori delle mura compaginate e oltre i bordi di magazzino.

Pungolo che non ripiega le persone sulla convenienza. Impulso che viceversa sposterà la nostra immaginazione verso ben altri orizzonti, credenze e desideri.

Insomma, fare comunione è questione di vita o morte, perché ricco e povero vivono o declinano insieme.

La crescita è dunque nel porgersi e accogliere.

 

Nell’insuperabile Omelia 6, il primo dei Padri cappadoci sottolineava che anche chi sovrabbonda di beni si tormenta sul da farsi, chiedendosi: «Che farò?».

«Si lamenta come i poveri. Non sono forse queste le parole di chi è oppresso dalla miseria? Che farò? [...] Che farò? La risposta era semplice: ‘Sazierò gli affamati, aprirò i granai e chiamerò tutti i poveri’ [...] Non alzare i prezzi. Non aspettare la carestia per aprire i granai [...] Non attendere che il popolo sia ridotto alla fame per accrescere il tuo oro, né la miseria generale per il tuo arricchimento. Non fare commercio sulle umane disgrazie [...] Non esacerbare le ferite inflitte dal flagello dell’avversità. Tu volgi lo sguardo al tuo oro e lo distogli dal tuo fratello, riconosci ogni moneta e sai distinguere quella falsa da quella vera, ma ignori completamente il fratello che si trova nel bisogno».

 

Il ricco della parabola sembra non avere braccianti o parenti, né una moglie, o figli e amici: li aveva, ma nella sua realtà ci sono - davvero - solamente lui e i beni.

«Imbecille!» - gli dice Dio (v.20).

La soluzione era semplicissima: aprire i cancelli, affinché l’alimento ammucchiato potesse traboccare per le necessità dei meno fortunati - invece di perdere tempo a sfasciare e ricostruire immobili.

Forse è morto d’infarto, ma era già defunto nell’anima.

L’imprenditore che scruta i bisogni altrui per tornaconto, perisce immediatamente dentro e fuori; subisce agitazione, insonnia, tormento, per lo stress del gestire quei miraggi esteriori.

Sono questi sogni strampalati che poi tolgono respiro e diventano incubi senza svolta, dissipando le migliori energie.

 

È viceversa in un clima di coesistenza e convivialità delle differenze che si annidano i migliori stimoli e consigli, anche per la scoperta di quanto ci corrisponde.

Basterebbe vincere l’avidità, la vanità e la mentalità comune, per stare meglio.

Abbandonando lo spirito di accaparramento, ci allontaneremo dalle manie del computo e dell’interesse immediato [volatile].

In tale dinamica, ecco l’esperienza aprirsi ai tanti volti della realtà e delle persone, vivendo di Amicizia.

Qui l’intensità dei legami cova lo sprone personale, le sfide, e la fioritura d’amore che spostano la nostra Visione.

 

Ecco la soglia dei nuovi Tesori che viceversa possono emergere: fidarsi della vita, delle nuove strade, delle azioni che non bloccano lo sviluppo di tutti, né minacciano il senso di Fraternità.

Tralasciando l’accaparramento, potremo cedere all’Esodo liberante.

Primo passo lungo la Via della nostra piena Felicità: investire i tanti beni che ancora abbiamo per creare Incontro e Relazione.

Questione di vita o morte (v.20).

 

 

[18.a Domenica T.O. (anno C), 3 agosto 2025]

Nel Vangelo dell’odierna domenica, l’insegnamento di Gesù riguarda proprio la vera saggezza ed è introdotto dalla domanda di uno della folla: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità» (Lc 12,13). Gesù, rispondendo, mette in guardia gli ascoltatori dalla brama dei beni terreni con la parabola del ricco stolto, il quale, avendo accumulato per sé un abbondante raccolto, smette di lavorare, consuma i suoi beni divertendosi e s’illude persino di poter allontanare la morte. «Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”» (Lc 13,20). L’uomo stolto nella Bibbia è colui che non vuole rendersi conto, dall’esperienza delle cose visibili, che nulla dura per sempre, ma tutto passa: la giovinezza come la forza fisica, le comodità come i ruoli di potere. Far dipendere la propria vita da realtà così passeggere è, dunque, stoltezza. L’uomo che confida nel Signore, invece, non teme le avversità della vita, neppure la realtà ineludibile della morte: è l’uomo che ha acquistato “un cuore saggio”, come i Santi.

[Papa Benedetto, Angelus 1 agosto 2010]

1. La nostra meditazione sul Salmo 48 sarà scandita in due tappe, proprio come fa la Liturgia dei Vespri, che ce lo propone in due tempi. Ne commenteremo ora in modo essenziale la prima parte, nella quale la riflessione prende lo spunto da una situazione di disagio, come nel Salmo 72. Il giusto deve affrontare «giorni tristi», perché lo «circonda la malizia dei perversi», i quali «si vantano della loro grande ricchezza» (cfr Sal 48,6-7).

La conclusione a cui il giusto arriva è formulata come una sorta di proverbio, che si ritroverà anche nella finale dell’intero Salmo. Essa sintetizza in modo limpido il messaggio dominante della composizione poetica: «L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono» (v. 13). In altri termini, la «grande ricchezza» non è un vantaggio, anzi! Meglio è essere povero e unito a Dio.

2. Nel proverbio sembra echeggiare la voce austera di un antico sapiente biblico, l’Ecclesiaste o Qoelet, quando descrive il destino apparentemente uguale di ogni creatura vivente, quello della morte, che rende del tutto vano l’aggrapparsi frenetico alle cose terrene: «Come è uscito nudo dal grembo di sua madre, così se ne andrà di nuovo come era venuto, e dalle sue fatiche non ricaverà nulla da portar con sé… Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli... Tutti sono diretti verso la medesima dimora» (Qo 5,14; 3,19.20).

3. Un’ottusità profonda s’impadronisce dell’uomo quando s’illude di evitare la morte affannandosi ad accumulare beni materiali: non per nulla il Salmista parla di un «non comprendere» di impronta quasi bestiale.

Il tema sarà, comunque, esplorato da tutte le culture e da tutte le spiritualità e sarà espresso nella sua sostanza in modo definitivo da Gesù che dichiara: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni» (Lc 12,15). Egli narra poi la famosa parabola del ricco insipiente, che accumula beni a dismisura senza immaginare l’agguato che la morte gli sta tendendo (cfr Lc 12,16-21).

4. La prima parte del Salmo è tutta centrata proprio su questa illusione che conquista il cuore del ricco. Costui è convinto di riuscire a «comprarsi» anche la morte, tentando quasi di corromperla, un po’ come ha fatto per avere tutte le altre cose, ossia il successo, il trionfo sugli altri in ambito sociale e politico, la prevaricazione impunita, la sazietà, le comodità, i piaceri.

Ma il Salmista non esita a bollare come stolta questa pretesa. Egli fa ricorso a un vocabolo che ha un valore anche finanziario, «riscatto»: «Nessuno può riscattare se stesso, o dare a Dio il suo prezzo. Per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine, e non vedere la tomba» (Sal 48,8-10).

5. Il ricco, aggrappato alle sue immense fortune, è convinto di riuscire a dominare anche la morte, così come ha spadroneggiato su tutto e su tutti col denaro. Ma per quanto ingente sia la somma che è pronto ad offrire, il suo destino ultimo sarà inesorabile. Egli, infatti, come tutti gli uomini e le donne, ricchi o poveri, sapienti o stolti, dovrà avviarsi alla tomba, così come è accaduto anche ai potenti e dovrà lasciare sulla terra quell’oro tanto amato, quei beni materiali tanto idolatrati (cfr vv. 11-12).

Gesù insinuerà ai suoi ascoltatori questa domanda inquietante: «Che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima?» (Mt 16,26). Nessun cambio è possibile perché la vita è dono di Dio, che «ha in mano l’anima di ogni vivente e il soffio d’ogni carne umana» (Gb 12,10).

6. Tra i Padri che hanno commentato il Salmo 48 merita un’attenzione particolare sant’Ambrogio, che ne allarga il senso secondo una visione più ampia, proprio a partire dall’invito iniziale del Salmista: «Ascoltate, popoli tutti, porgete l’orecchio, abitanti del mondo».

L’antico Vescovo di Milano commenta: «Riconosciamo qui, proprio all’inizio, la voce del Signore salvatore che chiama i popoli alla Chiesa, perché rinuncino al peccato, diventino seguaci della verità e riconoscano il vantaggio della fede». Del resto, «tutti i cuori delle varie generazioni umane erano inquinati dal veleno del serpente e la coscienza umana, schiava del peccato, non era in grado di staccarsene». Per questo il Signore «di sua iniziativa promette il perdono nella generosità della sua misericordia, perché il colpevole non abbia più paura, ma, in piena consapevolezza, si rallegri di dover offrire ora i suoi uffici di servo al Signore buono, che ha saputo perdonare i peccati, premiare le virtù» (Commento a dodici Salmi, n. 1: SAEMO, VIII, Milano-Roma 1980, p. 253).

7. In queste parole del Salmo si sente riecheggiare l’invito evangelico: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi» (Mt 11,28). Ambrogio continua: «Come uno che verrà a visitare gli ammalati, come un medico che verrà a curare le nostre piaghe dolorose, così egli ci prospetta la cura, perché gli uomini lo sentano bene e tutti corrano con fiduciosa sollecitudine a ricevere il rimedio della guarigione… Chiama tutti i popoli alla sorgente della sapienza e della conoscenza, promette a tutti la redenzione, perché nessuno viva nell’angoscia, nessuno viva nella disperazione» (n. 2: ibid., pp. 253.255).

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 20 ottobre 2004]

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Dear friends, “in the Eucharist Jesus also makes us witnesses of God’s compassion towards all our brothers and sisters. The Eucharistic mystery thus gives rise to a service of charity towards neighbour” (Post-Synodal Apostolic Exhortation Sacramentum Caritatis, 88) [Pope Benedict]
Cari amici, “nell’Eucaristia Gesù fa di noi testimoni della compassione di Dio per ogni fratello e sorella. Nasce così intorno al Mistero eucaristico il servizio della carità nei confronti del prossimo” (Esort. ap. postsin. Sacramentum caritatis, 88) [Papa Benedetto]
The fool in the Bible, the one who does not want to learn from the experience of visible things, that nothing lasts for ever but that all things pass away, youth and physical strength, amenities and important roles. Making one's life depend on such an ephemeral reality is therefore foolishness (Pope Benedict)
L’uomo stolto nella Bibbia è colui che non vuole rendersi conto, dall’esperienza delle cose visibili, che nulla dura per sempre, ma tutto passa: la giovinezza come la forza fisica, le comodità come i ruoli di potere. Far dipendere la propria vita da realtà così passeggere è, dunque, stoltezza (Papa Benedetto)
We see this great figure, this force in the Passion, in resistance to the powerful. We wonder: what gave birth to this life, to this interiority so strong, so upright, so consistent, spent so totally for God in preparing the way for Jesus? The answer is simple: it was born from the relationship with God (Pope Benedict)
Noi vediamo questa grande figura, questa forza nella passione, nella resistenza contro i potenti. Domandiamo: da dove nasce questa vita, questa interiorità così forte, così retta, così coerente, spesa in modo così totale per Dio e preparare la strada a Gesù? La risposta è semplice: dal rapporto con Dio (Papa Benedetto)
Christians are a priestly people for the world. Christians should make the living God visible to the world, they should bear witness to him and lead people towards him (Pope Benedict)
I cristiani sono popolo sacerdotale per il mondo. I cristiani dovrebbero rendere visibile al mondo il Dio vivente, testimoniarLo e condurre a Lui (Papa Benedetto)
The discovery of the Kingdom of God can happen suddenly like the farmer who, ploughing, finds an unexpected treasure; or after a long search, like the pearl merchant who eventually finds the most precious pearl, so long dreamt of (Pope Francis)
La scoperta del Regno di Dio può avvenire improvvisamente come per il contadino che arando, trova il tesoro insperato; oppure dopo lunga ricerca, come per il mercante di perle, che finalmente trova la perla preziosissima da tempo sognata (Papa Francesco)
Christ is not resigned to the tombs that we have built for ourselves (Pope Francis)
Cristo non si rassegna ai sepolcri che ci siamo costruiti (Papa Francesco)
We must not fear the humility of taking little steps, but trust in the leaven that penetrates the dough and slowly causes it to rise (cf. Mt 13:33) [Pope Benedict]
Occorre non temere l’umiltà dei piccoli passi e confidare nel lievito che penetra nella pasta e lentamente la fa crescere (cfr Mt 13,33) [Papa Benedetto]
The disciples, already know how to pray by reciting the formulas of the Jewish tradition, but they too wish to experience the same “quality” of Jesus’ prayer (Pope Francis)
I discepoli, sanno già pregare, recitando le formule della tradizione ebraica, ma desiderano poter vivere anche loro la stessa “qualità” della preghiera di Gesù (Papa Francesco)

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