don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Lug 22, 2025

Nessun peso anonimo

Pubblicato in Commento precedente

Tesoro e Perla - forme dell’interiorità

(Mt 13,44-46)

 

Gesù non vuole renderci poveri poveri, bensì Alleati. La sua Presenza ci completa e realizza per Nome; non in senso negativo, bensì a pieno titolo.

La scelta o “rinuncia” che chiede, non riguarda opzioni sommarie. Egli non fa sporgere ciò che non vale. Per questo non ci sminuisce.

Ed è la Parola totale il vero affare.

Un Tesoro nascosto che prima si deve di nuovo nascondere (v.44)!

Ci rendiamo conto che abbiamo visto solo in parte; c’è ancora molto più da scoprire.

Non è cosa verificabile immediatamente e completamente.

Attenzione: si deve di nuovo nascondere!

Qui è tutta la partita, perché tale Splendore non appartiene ai rituali del folklore, o ai doveri di contorno, che ci renderebbero prigionieri.

Appunto, la molla per uscire dal cliché, dal protocollo, dai modi di branco, diventa opportunità per scoprire qualcosa di nuovo.

Il Regno autentico non sarà invadente: non pretende l’adesione - pena esclusioni. Consegna altri messaggi, trasmutativi da dentro.

Lo si coglie nella nostra radice, perché corrisponde al progetto di vita completa che ci abita e misteriosamente intuiamo nostro.

Capiamo: fa trasferire lo sguardo, fa star bene. Fa scoprire altri mondi,  e il nostro stesso Nucleo; al di là dei problemi che attanagliano.

Qui si opera l’inspiegabile.

L’insicuro diventa deciso, il perdente si tramuta per grazia in sapiente.

Capiamo che accogliere il Logos sorgivo e corrispondere alla propria Vocazione personale non sarà terrificante, ma rigenerante.

 

Chi sposterà i suoi pensieri, punterà tutto, e farà venir fuori la propria essenza.

In antico le «Perle» erano le cose più pregiate e splendide: insomma, l’uomo è alla Ricerca del Bello come senso della vita e della propria personalità.

Ma Chi è l’uomo davvero affascinante e che vive in modo completo, non epidermico?

Matteo prima di lasciarsi fare apostolo supponeva che suo inestimabile Diamante fosse l’accaparrare. E deve ricredersi.

Saulo immaginava che la Gemma sconfinata - l’autenticità dell’uomo - fosse l’inappuntabilità delle sue pratiche e idee.

Il Dono gratuito di Dio ha sollecitato entrambi nella Ricerca della Perla preziosa: ciò che è delizioso, fraterno, donativo, amabile e da non perdere.

La preziosità del Vangelo, l’Unicità pregevole della Fede in Cristo, il suo Regno autentico, sono il vero Capitale che rende felici.

L’imprevisto più bello della Chiesa genuina: che nulla ha da spartire con la fiction delle identificazioni - disattenta all’umanizzazione - né con l’appariscenza inculcata delle molte cose esterne.

In tal guisa, il popolo dei figli generati a vita nuova troverà ricchezza già nell’essere delle cose, nei solchi della storia; dall’anima, e nelle prove.

 

Dal nascondimento, dal silenzio paziente, dalla realtà improvvisa, nascono intese, empatie, corrispondenze spontanee.

Voci che possono venire a trovarci, per cambiare la vita e renderla imprevedibile.

Gli Incontri eccezionali dicono all’anima: noi non siamo soltanto i disagi che ci affliggono.

Ma quegli eventi, bisogna saperli attendere.

 

 

[Mercoledì 17.a sett. T.O.  30 luglio 2025]

(o peso anonimo, fatica, e privazione, di rituali collettivi)

(Mt 13,44-46)

 

Gesù non vuole renderci poveri poveri, bensì Alleati - non perché intende arricchirci di “beni superiori” in modo generico.

L’Incontro e la sua Azione non solo liberano dall’attaccamento alle cose (come un tempo si diceva, quale caposaldo del discernimento negativo).

La sua Presenza ci completa e realizza per Nome, a pieno titolo.

Vuole ch’emancipiamo rapidamente e radicalmente: nella capacità di acquisto e pienezza, non di svuotamento e spersonalizzazione.

La scelta o “rinuncia” che chiede, non riguarda opzioni piccine.

Egli non fa sporgere ciò che non vale. Per questo non ci sminuisce.

La religione antica enfatizzava le maniere e i rituali collettivi, così paradossalmente accentuava l’attenzione proprio sul transitorio per tutti - quel che proprio non meritava di essere sopravvalutato.

Il Signore sa che esiste un “più e meglio” degli atti spiccioli di mortificazione, e delle scelte anonime comuni.

Infatti non parla di sacrifici per il Regno, ma di Gioia, di pienezza di essere.

Come recita il Messaggio per la XXVII Giornata Mondiale della Gioventù, tutta l’esperienza di Fede è per la Gioia - misura e Fonte del cuore: Felicità persino nella Conversione e nelle prove (nn.5-6).

Insomma, la condizione divina Viene, si offre gratis: non è un premio per meriti sommari precedenti.

Però mette in gioco tutto, affinché sfociamo in una ricerca completa - non dei pesi, di fatiche, e privazioni. Tantomeno d’approvazioni.

 

È la Parola totale il vero affare.

Un Tesoro nascosto che prima si deve di nuovo nascondere (v.44)!

Ci rendiamo conto che abbiamo visto solo in parte; c’è ancora molto più da scoprire.

Non è cosa verificabile immediatamente e completamente.

Attenzione: si deve di nuovo nascondere! I codici della guarigione non assumono posture da configurazioni esterne.

Qui è tutta la partita, perché tale Splendore non appartiene ai rituali del folklore, o ai doveri di contorno, che ci renderebbero prigionieri.

Appunto, la molla per uscire dal cliché, dal protocollo, dai modi di branco conforme, diventa opportunità per scoprire qualcosa di nuovo.

Il Regno autentico non sarà invadente: non pretende l’adesione - pena esclusioni. Consegna altri messaggi, trasmutativi da dentro.

Lo si coglie nella nostra radice, perché corrisponde al progetto di vita completa che ci abita e misteriosamente intuiamo nostro.

Capiamo: fa trasferire lo sguardo, fa star bene. Fa scoprire altri mondi,  e il nostro stesso nucleo; al di là dei problemi che attanagliano.

Fuori dall’ingranaggio dei pensieri e del “così fan tutti” - il territorio della  mente può produrre percezioni diverse, eccentriche; non tanto idee, piuttosto immagini, forse apparentemente assurde.

Ma attinge a esperienze importanti di altre energie, cosmiche e acutamente personali; quindi di sé, degli altri, delle opinioni fuori dal comune, e di Dio.

Profili poliedrici e convergenti, misteriosamente alleati: che non ci costringono a vivere da estranei a noi stessi, eppure tracciano un altro futuro.

Qui si opera l’inspiegabile.

L’insicuro diventa deciso, il perdente si tramuta per grazia in sapiente - persino cogliendo a fondo i disagi (non sono intoppi da eliminare).

Capiamo che accogliere il Logos sorgivo e corrispondere alla propria Vocazione personale non sarà terrificante, ma rigenerante.

 

Chi sposterà i suoi pensieri, punterà tutto, e farà venir fuori la propria essenza.

Sarà una Persona raggiungibile, non manipolabile.

L’Amicizia poliedrica col proprio Sé eminente e profondo, supererà ogni valore posticcio.

Nello Spirito e nella vita reale - anche prima valutata inferiore - ciascuno scoprirà il Magnifico che altri nemmeno lontanamente immaginano possa intimamente eccellere.

Anche la Comunione - convivialità delle differenze - impareremo dall’interno.

 

In antico le Perle erano le cose più pregiate e splendide: insomma, l’uomo è alla Ricerca del Bello come senso della vita e della propria personalità.

Ma Chi è l’uomo Bello, davvero affascinante e che vive in modo completo, non epidermico?

Matteo prima di lasciarsi fare apostolo supponeva che suo inestimabile Diamante fosse l’accaparrare. E deve ricredersi.

Saulo immaginava che la Gemma sconfinata - l’autenticità dell’uomo - fosse l’inappuntabilità del devoto e praticante. L’inflessibilità di colui che osservava tutte le tradizioni (anche orali) del popolo, e apparteneva al gruppo più coerente e severo del fariseismo.

D’improvviso entrambi percepiscono la differenza fra l’Amore di chi incontra Cristo sul serio e la spazzatura e il brutto delle puerili credenze - che li facevano sentire sempre sbagliati.

Questi “credo” imparaticci esterni alla donna e all’uomo producevano infatti persone poi inavvicinabili, doppie, inaffidabili, sleali; scroccone, pericolose, astute, violente, sempre pronte all’imbroglio.

 

Il Dono gratuito di Dio sollecita la Ricerca della Perla preziosa: ciò che è delizioso, fraterno, donativo, amabile e da non perdere.

È la vita di credenti trasformati in uomini di Fede che imparano la necessità della trasformazione, per la vita.

Adulti dotati di spirito d’infanzia: che non sentono più incombere sentenze altrui su di sé, secondo aspettative assurde, e pure nella comune selezione tra “dentro” e “fuori”.

Ciò, magari solo per la discrepanza fra mitologia dei “modelli” devoti straordinari proposti in alcuni ambienti di élite, e il proprio vissuto (inculcato come insufficiente).

I testimoni critici scelgono allora di non lasciarsi più turbare da impegni provvisori e di circostanza normalmente propagandati - né da ogni forma di spiritualità vuota.

In tal guisa, non ci sgrideranno più gli obblighi del ruolo, le date, gli orari fissi o altrui… i quali non si accorgono delle speranze della Persona.

E l’anima non verrà più ridotta a un’asservita dipendente che deve continuamente fare comparazione, e imporsi rapporti fatui, forzati, insidiosi (per paura di restare isolata).

 

La preziosità del Vangelo, l’Unicità pregevole della Fede in Cristo, il suo Regno autentico, sono il vero Capitale che rende felici.

L’imprevisto più bello della Chiesa genuina: che nulla ha da spartire con la fiction delle identificazioni - disattenta all’umanizzazione - né con l’appariscenza inculcata delle molte cose esterne.

Il popolo dei figli generati a vita nuova troverà ricchezza già nell’essere delle cose, nei solchi della storia; dall’anima, e nelle prove.

 

Dal nascondimento, dal silenzio paziente, dalla realtà improvvisa, nascono intese, empatie, corrispondenze spontanee.

Voci che possono venire a trovarci, per cambiarci la vita e renderla imprevedibile.

Gli Incontri eccezionali dicono all’anima: non siamo soltanto i disagi che ci affliggono.

Ma quegli eventi, bisogna saperli attendere.

Lug 22, 2025

Per la Gioia

Cari giovani,

sono lieto di rivolgermi nuovamente a voi, in occasione della XXVII Giornata Mondiale della Gioventù. Il ricordo dell’incontro di Madrid, lo scorso agosto, resta ben presente nel mio cuore. E’ stato uno straordinario momento di grazia, nel corso del quale il Signore ha benedetto i giovani presenti, venuti dal mondo intero. Rendo grazie a Dio per i tanti frutti che ha fatto nascere in quelle giornate e che in futuro non mancheranno di moltiplicarsi per i giovani e per le comunità a cui appartengono. Adesso siamo già orientati verso il prossimo appuntamento a Rio de Janeiro nel 2013, che avrà come tema «Andate e fate discepoli tutti i popoli!» (cfr Mt 28,19).

Quest’anno, il tema della Giornata Mondiale della Gioventù ci è dato da un’esortazione della Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi: «Siate sempre lieti nel Signore!» (4,4). La gioia, in effetti, è un elemento centrale dell’esperienza cristiana. Anche durante ogni Giornata Mondiale della Gioventù facciamo esperienza di una gioia intensa, la gioia della comunione, la gioia di essere cristiani, la gioia della fede. È una delle caratteristiche di questi incontri. E vediamo la grande forza attrattiva che essa ha: in un mondo spesso segnato da tristezza e inquietudini, è una testimonianza importante della bellezza e dell’affidabilità della fede cristiana.

La Chiesa ha la vocazione di portare al mondo la gioia, una gioia autentica e duratura, quella che gli angeli hanno annunciato ai pastori di Betlemme nella notte della nascita di Gesù (cfr Lc 2,10): Dio non ha solo parlato, non ha solo compiuto segni prodigiosi nella storia dell’umanità, Dio si è fatto così vicino da farsi uno di noi e percorrere le tappe dell’intera vita dell’uomo. Nel difficile contesto attuale, tanti giovani intorno a voi hanno un immenso bisogno di sentire che il messaggio cristiano è un messaggio di gioia e di speranza! Vorrei riflettere con voi allora su questa gioia, sulle strade per trovarla, affinché possiate viverla sempre più in profondità ed esserne messaggeri tra coloro che vi circondano.

1. II nostro cuore è fatto per la gioia

L’aspirazione alla gioia è impressa nell’intimo dell’essere umano. Al di là delle soddisfazioni immediate e passeggere, il nostro cuore cerca la gioia profonda, piena e duratura, che possa dare «sapore» all’esistenza. E ciò vale soprattutto per voi, perché la giovinezza è un periodo di continua scoperta della vita, del mondo, degli altri e di se stessi. È un tempo di apertura verso il futuro, in cui si manifestano i grandi desideri di felicità, di amicizia, di condivisione e di verità, in cui si è mossi da ideali e si concepiscono progetti.

E ogni giorno sono tante le gioie semplici che il Signore ci offre: la gioia di vivere, la gioia di fronte alla bellezza della natura, la gioia di un lavoro ben fatto, la gioia del servizio, la gioia dell’amore sincero e puro. E se guardiamo con attenzione, esistono tanti altri motivi di gioia: i bei momenti della vita familiare, l’amicizia condivisa, la scoperta delle proprie capacità personali e il raggiungimento di buoni risultati, l’apprezzamento da parte degli altri, la possibilità di esprimersi e di sentirsi capiti, la sensazione di essere utili al prossimo. E poi l’acquisizione di nuove conoscenze mediante gli studi, la scoperta di nuove dimensioni attraverso viaggi e incontri, la possibilità di fare progetti per il futuro. Ma anche l’esperienza di leggere un’opera letteraria, di ammirare un capolavoro dell’arte, di ascoltare e suonare musica o di vedere un film possono produrre in noi delle vere e proprie gioie.

Ogni giorno, però, ci scontriamo anche con tante difficoltà e nel cuore vi sono preoccupazioni per il futuro, al punto che ci possiamo chiedere se la gioia piena e duratura alla quale aspiriamo non sia forse un’illusione e una fuga dalla realtà. Sono molti i giovani che si interrogano: è veramente possibile la gioia piena al giorno d’oggi? E questa ricerca percorre varie strade, alcune delle quali si rivelano sbagliate, o perlomeno pericolose. Ma come distinguere le gioie veramente durature dai piaceri immediati e ingannevoli? Come trovare la vera gioia nella vita, quella che dura e non ci abbandona anche nei momenti difficili?

2. Dio è la fonte della vera gioia

In realtà le gioie autentiche, quelle piccole del quotidiano o quelle grandi della vita, trovano tutte origine in Dio, anche se non appare a prima vista, perché Dio è comunione di amore eterno, è gioia infinita che non rimane chiusa in se stessa, ma si espande in quelli che Egli ama e che lo amano. Dio ci ha creati a sua immagine per amore e per riversare su noi questo suo amore, per colmarci della sua presenza e della sua grazia. Dio vuole renderci partecipi della sua gioia, divina ed eterna, facendoci scoprire che il valore e il senso profondo della nostra vita sta nell’essere accettato, accolto e amato da Lui, e non con un’accoglienza fragile come può essere quella umana, ma con un’accoglienza incondizionata come è quella divina: io sono voluto, ho un posto nel mondo e nella storia, sono amato personalmente da Dio. E se Dio mi accetta, mi ama e io ne divento sicuro, so in modo chiaro e certo che è bene che io ci sia, che esista.

Questo amore infinito di Dio per ciascuno di noi si manifesta in modo pieno in Gesù Cristo. In Lui si trova la gioia che cerchiamo. Nel Vangelo vediamo come gli eventi che segnano gli inizi della vita di Gesù siano caratterizzati dalla gioia. Quando l’arcangelo Gabriele annuncia alla Vergine Maria che sarà madre del Salvatore, inizia con questa parola: «Rallegrati!» (Lc 1,28). Alla nascita di Gesù, l’Angelo del Signore dice ai pastori: «Ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,11). E i Magi che cercavano il bambino, «al vedere la stella, provarono una gioia grandissima» (Mt 2,10). Il motivo di questa gioia è dunque la vicinanza di Dio, che si è fatto uno di noi. Ed è questo che intendeva san Paolo quando scriveva ai cristiani di Filippi: «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5). La prima causa della nostra gioia è la vicinanza del Signore, che mi accoglie e mi ama.

E infatti dall’incontro con Gesù nasce sempre una grande gioia interiore. Nei Vangeli lo possiamo vedere in molti episodi. Ricordiamo la visita di Gesù a Zaccheo, un esattore delle tasse disonesto, un peccatore pubblico, al quale Gesù dice: «Oggi devo fermarmi a casa tua». E Zaccheo, riferisce san Luca, «lo accolse pieno di gioia» (Lc 19,5-6). E’ la gioia dell’incontro con il Signore; è il sentire l’amore di Dio che può trasformare l’intera esistenza e portare salvezza. E Zaccheo decide di cambiare vita e di dare la metà dei suoi beni ai poveri.

Nell’ora della passione di Gesù, questo amore si manifesta in tutta la sua forza. Negli ultimi momenti della sua vita terrena, a cena con i suoi amici, Egli dice: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore... Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,9.11). Gesù vuole introdurre i suoi discepoli e ciascuno di noi nella gioia piena, quella che Egli condivide con il Padre, perché l’amore con cui il Padre lo ama sia in noi (cfr. Gv 17,26). La gioia cristiana è aprirsi a questo amore di Dio e appartenere a Lui.

Narrano i Vangeli che Maria di Magdala e altre donne andarono a visitare la tomba dove Gesù era stato posto dopo la sua morte e ricevettero da un Angelo un annuncio sconvolgente, quello della sua risurrezione. Allora abbandonarono in fretta il sepolcro, annota l’Evangelista, «con timore e gioia grande» e corsero a dare la lieta notizia ai discepoli. E Gesù venne loro incontro e disse: «Salute a voi!» (Mt 28,8-9). E’ la gioia della salvezza che viene loro offerta: Cristo è il vivente, è Colui che ha vinto il male, il peccato e la morte. Egli è presente in mezzo a noi come il Risorto, fino alla fine del mondo (cfr Mt 28,20). Il male non ha l’ultima parola sulla nostra vita, ma la fede in Cristo Salvatore ci dice che l’amore di Dio vince.

Questa gioia profonda è frutto dello Spirito Santo che ci rende figli di Dio, capaci di vivere e di gustare la sua bontà, di rivolgerci a Lui con il termine «Abbà», Padre (cfr Rm 8,15). La gioia è segno della sua presenza e della sua azione in noi.

3. Conservare nel cuore la gioia cristiana

A questo punto ci domandiamo: come ricevere e conservare questo dono della gioia profonda, della gioia spirituale?

Un Salmo ci dice: «Cerca la gioia nel Signore: esaudirà i desideri del tuo cuore» (Sal 37,4). E Gesù spiega che «il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt 13,44). Trovare e conservare la gioia spirituale nasce dall’incontro con il Signore, che chiede di seguirlo, di fare la scelta decisa di puntare tutto su di Lui. Cari giovani, non abbiate paura di mettere in gioco la vostra vita facendo spazio a Gesù Cristo e al suo Vangelo; è la strada per avere la pace e la vera felicità nell’intimo di noi stessi, è la strada per la vera realizzazione della nostra esistenza di figli di Dio, creati a sua immagine e somiglianza.

Cercare la gioia nel Signore: la gioia è frutto della fede, è riconoscere ogni giorno la sua presenza, la sua amicizia: «Il Signore è vicino!» (Fil 4,5); è riporre la nostra fiducia in Lui, è crescere nella conoscenza e nell’amore di Lui. L’«Anno della fede», che tra pochi mesi inizieremo, ci sarà di aiuto e di stimolo. Cari amici, imparate a vedere come Dio agisce nelle vostre vite, scopritelo nascosto nel cuore degli avvenimenti del vostro quotidiano. Credete che Egli è sempre fedele all’alleanza che ha stretto con voi nel giorno del vostro Battesimo. Sappiate che non vi abbandonerà mai. Rivolgete spesso il vostro sguardo verso di Lui. Sulla croce, ha donato la sua vita perché vi ama. La contemplazione di un amore così grande porta nei nostri cuori una speranza e una gioia che nulla può abbattere. Un cristiano non può essere mai triste perché ha incontrato Cristo, che ha dato la vita per lui.

Cercare il Signore, incontrarlo nella vita significa anche accogliere la sua Parola, che è gioia per il cuore. Il profeta Geremia scrive: «Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore» (Ger 15,16). Imparate a leggere e meditare la Sacra Scrittura, vi troverete una risposta alle domande più profonde di verità che albergano nel vostro cuore e nella vostra mente. La Parola di Dio fa scoprire le meraviglie che Dio ha operato nella storia dell’uomo e, pieni di gioia, apre alla lode e all’adorazione: «Venite, cantiamo al Signore... adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti» (Sal 95,1.6).

In modo particolare, poi, la Liturgia è il luogo per eccellenza in cui si esprime la gioia che la Chiesa attinge dal Signore e trasmette al mondo. Ogni domenica, nell’Eucaristia, le comunità cristiane celebrano il Mistero centrale della salvezza: la morte e risurrezione di Cristo. E’ questo un momento fondamentale per il cammino di ogni discepolo del Signore, in cui si rende presente il suo Sacrificio di amore; è il giorno in cui incontriamo il Cristo Risorto, ascoltiamo la sua Parola, ci nutriamo del suo Corpo e del suo Sangue. Un Salmo afferma: «Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci in esso ed esultiamo!» (Sal 118,24). E nella notte di Pasqua, la Chiesa canta l’Exultet, espressione di gioia per la vittoria di Gesù Cristo sul peccato e sulla morte: «Esulti il coro degli angeli... Gioisca la terra inondata da così grande splendore... e questo tempio tutto risuoni per le acclamazioni del popolo in festa!». La gioia cristiana nasce dal sapere di essere amati da un Dio che si è fatto uomo, ha dato la sua vita per noi e ha sconfitto il male e la morte; ed è vivere di amore per lui. Santa Teresa di Gesù Bambino, giovane carmelitana, scriveva: «Gesù, è amarti la mia gioia!» (P 45, 21 gennaio 1897, Op. Compl., pag. 708).

4. La gioia dell’amore

Cari amici, la gioia è intimamente legata all’amore: sono due frutti inseparabili dello Spirito Santo (cfr Gal 5,23). L’amore produce gioia, e la gioia è una forma d’amore. La beata Madre Teresa di Calcutta, facendo eco alle parole di Gesù: «si è più beati nel dare che nel ricevere!» (At 20,35), diceva: «La gioia è una rete d’amore per catturare le anime. Dio ama chi dona con gioia. E chi dona con gioia dona di più». E il Servo di Dio Paolo VI scriveva: «In Dio stesso tutto è gioia poiché tutto è dono» (Esort. ap. Gaudete in Domino, 9 maggio 1975)

Pensando ai vari ambiti della vostra vita, vorrei dirvi che amare significa costanza, fedeltà, tener fede agli impegni. E questo, in primo luogo, nelle amicizie: i nostri amici si aspettano che siamo sinceri, leali, fedeli, perché il vero amore è perseverante anche e soprattutto nelle difficoltà. E lo stesso vale per il lavoro, gli studi e i servizi che svolgete. La fedeltà e la perseveranza nel bene conducono alla gioia, anche se non sempre questa è immediata.

Per entrare nella gioia dell’amore, siamo chiamati anche ad essere generosi, a non accontentarci di dare il minimo, ma ad impegnarci a fondo nella vita, con un’attenzione particolare per i più bisognosi. Il mondo ha necessità di uomini e donne competenti e generosi, che si mettano al servizio del bene comune. Impegnatevi a studiare con serietà; coltivate i vostri talenti e metteteli fin d’ora al servizio del prossimo. Cercate il modo di contribuire a rendere la società più giusta e umana, là dove vi trovate. Che tutta la vostra vita sia guidata dallo spirito di servizio, e non dalla ricerca del potere, del successo materiale e del denaro.

A proposito di generosità, non posso non menzionare una gioia speciale: quella che si prova rispondendo alla vocazione di donare tutta la propria vita al Signore. Cari giovani, non abbiate paura della chiamata di Cristo alla vita religiosa, monastica, missionaria o al sacerdozio. Siate certi che Egli colma di gioia coloro che, dedicandogli la vita in questa prospettiva, rispondono al suo invito a lasciare tutto per rimanere con Lui e dedicarsi con cuore indiviso al servizio degli altri. Allo stesso modo, grande è la gioia che Egli riserva all’uomo e alla donna che si donano totalmente l’uno all’altro nel matrimonio per costituire una famiglia e diventare segno dell’amore di Cristo per la sua Chiesa.

Vorrei richiamare un terzo elemento per entrare nella gioia dell’amore: far crescere nella vostra vita e nella vita delle vostre comunità la comunione fraterna. C’è uno stretto legame tra la comunione e la gioia. Non è un caso che san Paolo scriva la sua esortazione al plurale: non si rivolge a ciascuno singolarmente, ma afferma: «Siate sempre lieti nel Signore» (Fil 4,4). Soltanto insieme, vivendo la comunione fraterna, possiamo sperimentare questa gioia. Il libro degli Atti degli Apostoli descrive così la prima comunità cristiana: «spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46). Impegnatevi anche voi affinché le comunità cristiane possano essere luoghi privilegiati di condivisione, di attenzione e di cura l’uno dell’altro.

5. La gioia della conversione

Cari amici, per vivere la vera gioia occorre anche identificare le tentazioni che la allontanano. La cultura attuale induce spesso a cercare traguardi, realizzazioni e piaceri immediati, favorendo più l’incostanza che la perseveranza nella fatica e la fedeltà agli impegni. I messaggi che ricevete spingono ad entrare nella logica del consumo, prospettando felicità artificiali. L’esperienza insegna che l’avere non coincide con la gioia: vi sono tante persone che, pur avendo beni materiali in abbondanza, sono spesso afflitte dalla disperazione, dalla tristezza e sentono un vuoto nella vita. Per rimanere nella gioia, siamo chiamati a vivere nell’amore e nella verità, a vivere in Dio.

E la volontà di Dio è che noi siamo felici. Per questo ci ha dato delle indicazioni concrete per il nostro cammino: i Comandamenti. Osservandoli, noi troviamo la strada della vita e della felicità. Anche se a prima vista possono sembrare un insieme di divieti, quasi un ostacolo alla libertà, se li meditiamo più attentamente, alla luce del Messaggio di Cristo, essi sono un insieme di essenziali e preziose regole di vita che conducono a un’esistenza felice, realizzata secondo il progetto di Dio. Quante volte, invece, costatiamo che costruire ignorando Dio e la sua volontà porta delusione, tristezza, senso di sconfitta. L’esperienza del peccato come rifiuto di seguirlo, come offesa alla sua amicizia, porta ombra nel nostro cuore.

Ma se a volte il cammino cristiano non è facile e l’impegno di fedeltà all’amore del Signore incontra ostacoli o registra cadute, Dio, nella sua misericordia, non ci abbandona, ma ci offre sempre la possibilità di ritornare a Lui, di riconciliarci con Lui, di sperimentare la gioia del suo amore che perdona e riaccoglie.

Cari giovani, ricorrete spesso al Sacramento della Penitenza e della Riconciliazione! Esso è il Sacramento della gioia ritrovata. Domandate allo Spirito Santo la luce per saper riconoscere il vostro peccato e la capacità di chiedere perdono a Dio accostandovi a questo Sacramento con costanza, serenità e fiducia. Il Signore vi aprirà sempre le sue braccia, vi purificherà e vi farà entrare nella sua gioia: vi sarà gioia nel cielo anche per un solo peccatore che si converte (cfr Lc 15,7).

6. La gioia nelle prove

Alla fine, però, potrebbe rimanere nel nostro cuore la domanda se veramente è possibile vivere nella gioia anche in mezzo alle tante prove della vita, specialmente le più dolorose e misteriose, se veramente seguire il Signore, fidarci di Lui dona sempre felicità.

La risposta ci può venire da alcune esperienze di giovani come voi che hanno trovato proprio in Cristo la luce capace di dare forza e speranza, anche in mezzo alle situazioni più difficili. Il beato Pier Giorgio Frassati (1901-1925) ha sperimentato tante prove nella sua pur breve esistenza, tra cui una, riguardante la sua vita sentimentale, che lo aveva ferito in modo profondo. Proprio in questa situazione, scriveva alla sorella: «Tu mi domandi se sono allegro; e come non potrei esserlo? Finché la Fede mi darà forza sempre allegro! Ogni cattolico non può non essere allegro... Lo scopo per cui noi siamo stati creati ci addita la via seminata sia pure di molte spine, ma non una triste via: essa è allegria anche attraverso i dolori» (Lettera alla sorella Luciana, Torino, 14 febbraio 1925). E il beato Giovanni Paolo II, presentandolo come modello, diceva di lui: «era un giovane di una gioia trascinante, una gioia che superava tante difficoltà della sua vita» (Discorso ai giovani, Torino, 13 aprile 1980).

Più vicina a noi, la giovane Chiara Badano (1971-1990), recentemente beatificata, ha sperimentato come il dolore possa essere trasfigurato dall’amore ed essere misteriosamente abitato dalla gioia. All’età di 18 anni, in un momento in cui il cancro la faceva particolarmente soffrire, Chiara aveva pregato lo Spirito Santo, intercedendo per i giovani del suo Movimento. Oltre alla propria guarigione, aveva chiesto a Dio di illuminare con il suo Spirito tutti quei giovani, di dar loro la sapienza e la luce: «È stato proprio un momento di Dio: soffrivo molto fisicamente, ma l’anima cantava» (Lettera a Chiara Lubich, Sassello, 20 dicembre 1989). La chiave della sua pace e della sua gioia era la completa fiducia nel Signore e l’accettazione anche della malattia come misteriosa espressione della sua volontà per il bene suo e di tutti. Ripeteva spesso: «Se lo vuoi tu, Gesù, lo voglio anch’io».

Sono due semplici testimonianze tra molte altre che mostrano come il cristiano autentico non è mai disperato e triste, anche davanti alle prove più dure, e mostrano che la gioia cristiana non è una fuga dalla realtà, ma una forza soprannaturale per affrontare e vivere le difficoltà quotidiane. Sappiamo che Cristo crocifisso e risorto è con noi, è l’amico sempre fedele. Quando partecipiamo alle sue sofferenze, partecipiamo anche alla sua gloria. Con Lui e in Lui, la sofferenza è trasformata in amore. E là si trova la gioia (cfr Col 1,24).

7. Testimoni della gioia

Cari amici, per concludere vorrei esortarvi ad essere missionari della gioia. Non si può essere felici se gli altri non lo sono: la gioia quindi deve essere condivisa. Andate a raccontare agli altri giovani la vostra gioia di aver trovato quel tesoro prezioso che è Gesù stesso. Non possiamo tenere per noi la gioia della fede: perché essa possa restare in noi, dobbiamo trasmetterla. San Giovanni afferma: «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi... Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena» (1Gv 1,3-4).

A volte viene dipinta un’immagine del Cristianesimo come di una proposta di vita che opprime la nostra libertà, che va contro il nostro desiderio di felicità e di gioia. Ma questo non risponde a verità! I cristiani sono uomini e donne veramente felici perché sanno di non essere mai soli, ma di essere sorretti sempre dalle mani di Dio! Spetta soprattutto a voi, giovani discepoli di Cristo, mostrare al mondo che la fede porta una felicità e una gioia vera, piena e duratura. E se il modo di vivere dei cristiani sembra a volte stanco ed annoiato, testimoniate voi per primi il volto gioioso e felice della fede. Il Vangelo è la «buona novella» che Dio ci ama e che ognuno di noi è importante per Lui. Mostrate al mondo che è proprio così!

Siate dunque missionari entusiasti della nuova evangelizzazione! Portate a coloro che soffrono, a coloro che sono in ricerca, la gioia che Gesù vuole donare. Portatela nelle vostre famiglie, nelle vostre scuole e università, nei vostri luoghi di lavoro e nei vostri gruppi di amici, là dove vivete. Vedrete che essa è contagiosa. E riceverete il centuplo: la gioia della salvezza per voi stessi, la gioia di vedere la Misericordia di Dio all’opera nei cuori. Il giorno del vostro incontro definitivo con il Signore, Egli potrà dirvi: «Servo buono e fedele, prendi parte alla gioia del tuo padrone!» (Mt 25,21).

La Vergine Maria vi accompagni in questo cammino. Ella ha accolto il Signore dentro di sé e l’ha annunciato con un canto di lode e di gioia, il Magnificat: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore» (Lc 1,46-47). Maria ha risposto pienamente all’amore di Dio dedicando la sua vita a Lui in un servizio umile e totale. E’ chiamata «causa della nostra letizia» perché ci ha dato Gesù. Che Ella vi introduca in quella gioia che nessuno potrà togliervi!

Dal Vaticano, 15 marzo 2012

[Papa Benedetto, Messaggio per la XXVII Giornata Mondiale della Gioventù, 2012]

1. “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1, 15). Con queste parole Gesù di Nazaret dà inizio alla sua predicazione messianica. Il regno di Dio, che in Gesù irrompe nella vita e nella storia dell’uomo, costituisce il compimento delle promesse di salvezza, che Israele aveva ricevuto dal Signore.

Gesù si rivela Messia non perché mira a un dominio temporale e politico secondo la concezione dei suoi contemporanei, ma perché con la sua missione, che culmina nella passione - morte - risurrezione, “tutte le promesse di Dio sono divenute “sì”” (2 Cor 1, 20).

2. Per comprendere pienamente la missione di Gesù è necessario richiamare il messaggio dell’Antico Testamento che proclama la regalità salvifica del Signore. Nel cantico di Mosè (Es 15, 1-18), il Signore è acclamato “re” perché ha mirabilmente liberato il suo popolo e lo ha guidato, con potenza e amore, alla comunione con lui e con i fratelli nella gioia della libertà. Anche l’antichissimo salmo 28/29 testimonia la stessa fede: il Signore è contemplato nella potenza della sua regalità, che domina tutto il creato e comunica al suo popolo forza, benedizione e pace (Sal 29, 10). È soprattutto nella vocazione di Isaia che la fede nel Signore “re” appare totalmente permeata dal tema della salvezza. Il “Re”, che il profeta contempla con gli occhi della fede “su un trono alto ed elevato” (Is 6,1), è Dio nel mistero della sua santità trascendente e della sua bontà misericordiosa con cui si rende presente al suo popolo, come fonte di amore che purifica, perdona e salva: “Santo, Santo, Santo è il Signore, Dio degli eserciti, tutta la terra sarà piena della sua gloria” (Is 6, 3).

Questa fede nella regalità salvifica del Signore impedì che, nel popolo dell’alleanza, la monarchia si sviluppasse in modo autonomo come presso le altre nazioni: il re è l’eletto, l’unto del Signore e, come tale, è lo strumento mediante il quale Dio stesso esercita la sua sovranità su Israele (cf. 1 Sam 12, 12-15). “Il Signore regna”, proclamano continuamente i salmi (cf. Sal 5, 3; 9, 6; 29, 10; 93, 1; 97, 1-4; 146, 10).

3. Di fronte all’esperienza dolorosa dei limiti umani e del peccato i profeti annunciano una nuova alleanza, nella quale il Signore stesso sarà la guida salvifica e regale del suo popolo rinnovato (cf. Ger 31 ,31-34; Ez 34, 7-16; 36, 24-28).

In questo contesto sorge l’attesa di un nuovo Davide, che il Signore susciterà perché sia lo strumento dell’esodo, della liberazione, della salvezza (Ez 34, 23-25; cf. Ger 23, 5-6). A partire da questo momento la figura del Messia apparirà in intimo rapporto con l’inaugurazione della piena regalità di Dio.

Dopo l’esilio, anche se in Israele viene meno l’istituto della monarchia, si continua ad approfondire la fede nella regalità che Dio esercita nel suo popolo e che si estenderà fino agli “estremi confini della terra”. I salmi che cantano il Signore re costituiscono la testimonianza più significativa di questa speranza (cf. Sal 96 e Sal 99).

 Questa speranza tocca la sua massima intensità quando lo sguardo della fede, dirigendosi oltre il tempo della storia umana, comprenderà che solo nell’eternità futura il regno di Dio si stabilirà in tutta la sua potenza: allora, mediante la risurrezione, i redenti saranno nella piena comunione di vita e di amore con il Signore (cf. Dn 7, 9-10; 12, 2-3).

4. Gesù fa riferimento a questa speranza dell’Antico Testamento e la proclama adempiuta. Il regno di Dio costituisce il tema centrale della sua predicazione come dimostrano in modo particolare le parabole.

La parabola del seminatore (Mt 13, 3-8) proclama che il regno di Dio è già operante nella predicazione di Gesù, e al tempo stesso orienta a guardare all’abbondanza dei frutti che costituiranno la ricchezza sovrabbondante del Regno alla fine del tempo. La parabola del seme che cresce da solo (Mc 4, 26-29) sottolinea che il Regno non è opera umana, ma unicamente dono dell’amore di Dio che agisce nel cuore dei credenti e guida la storia umana al suo definitivo compimento nella comunione eterna con il Signore. La parabola della zizzania in mezzo al grano (Mt 13, 24-30) e quella della rete da pesca (Mt 13, 47-52) prospettano anzitutto la presenza, già operante, della salvezza di Dio. Insieme ai “figli del Regno”, però, sono anche presenti i “figli del Maligno”, gli operatori di iniquità: solo al termine della storia le potenze del male saranno distrutte e chi ha accolto il Regno sarà sempre con il Signore. Le parabole del tesoro nascosto e della perla preziosa (Mt 13, 44-46), infine, esprimono il valore supremo e assoluto del regno di Dio: chi lo comprende è disposto ad affrontare ogni sacrificio e rinuncia per entrarvi.

5. Dall’insegnamento di Gesù appare una ricchezza molto illuminante.

Il regno di Dio, nella sua piena e totale realizzazione, è certamente futuro, “deve venire” (cf. Mc 9, 1; Lc 22, 18); la preghiera del Padre Nostro insegna a invocarne la venuta: “venga il tuo Regno” (Mt 6, 10).

Al tempo stesso però, Gesù afferma che il regno di Dio “è già venuto” (Mt 12, 28), “è in mezzo a voi” (Lc 17, 21) attraverso la predicazione e le opere di Gesù. Inoltre da tutto il Nuovo Testamento risulta che la Chiesa, fondata da Gesù, è il luogo dove la regalità di Dio si rende presente, in Cristo, come dono di salvezza nella fede, di vita nuova nello Spirito, di comunione nella carità.

Appare così l’intimo rapporto tra il Regno e Gesù, un rapporto così forte che il regno di Dio può essere anche chiamato “regno di Gesù” (Ef 5, 5; 2 Pt 1, 11), come del resto Gesù stesso afferma davanti a Pilato, asserendo che il “suo” regno non è di questo mondo (Gv 18, 36).

6. In questa luce possiamo comprendere le condizioni che Gesù indica per entrare nel Regno. Esse si possono riassumere nella parola “conversione”. Mediante la conversione l’uomo si apre al dono di Dio (cf. Lc 12, 32), che “chiama al suo regno e alla sua gloria” (1 Ts 2, 12); accoglie il Regno come un fanciullo (Mc 10, 15) ed è disposto a qualunque rinuncia per potervi entrare (cf. Lc 18, 29; Mt 19, 29; Mc 10, 29).

Il regno di Dio esige una “giustizia” profonda o nuova (Mt 5, 20); richiede impegno nel fare la “volontà di Dio” (Mt 7, 21); domanda semplicità interiore “come i bambini” (Mt 18, 3; Mc 10, 15); comporta il superamento dell’ostacolo costituito dalle ricchezze (cf. Mc 10, 23-24).

7. Le beatitudini proclamate da Gesù (cf. Mt 5, 3-12) appaiono come la “magna charta” del regno dei cieli che è data ai poveri di spirito, agli afflitti, ai miti, a chi ha fame e sete di giustizia, ai misericordiosi, ai puri di cuore, agli operatori di pace, ai perseguitati per causa della giustizia. Le beatitudini non indicano soltanto le esigenze del Regno; manifestano prima di tutto l’opera che Dio compie in noi rendendoci simili al figlio suo (Rm 8, 29) e capaci di avere i suoi sentimenti (Fil 2, 5ss.) di amore e perdono (cf. Gv 13, 34-35; Col 3, 13).

8. L’insegnamento di Gesù sul regno di Dio è testimoniato dalla Chiesa del Nuovo Testamento, che lo ha vissuto nella gioia della sua fede pasquale. Essa è la comunità dei “piccoli” che il Padre “ha liberati dal potere delle tenebre e trasferiti nel regno del suo figlio diletto” (Col 1, 13); è la comunità di coloro che vivono “in Cristo”, lasciandosi guidare dallo Spirito nella via della pace (Lc 1, 79), e che lottano per non “cadere nella tentazione” e per evitare le opere della “carne”, ben sapendo che “chi le compie non erediterà il regno di Dio” (Gal 5, 21). La Chiesa è la comunità di coloro che annunciano, con la vita e la parola, lo stesso messaggio di Gesù: “È vicino a voi il regno di Dio” (Lc 10, 9).

9. La Chiesa, che “nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa si compiano le parole di Dio” (Dei Verbum, 8), in ogni celebrazione dell’eucaristia prega il Padre perché “venga il suo regno”. Essa vive in ardente attesa della venuta gloriosa del Signore e Salvatore Gesù, che offrirà alla maestà divina “il regno eterno e universale: regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace” (Prefazio nella solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo).

Questa attesa del Signore è incessante fonte di fiducia e di energia. Essa stimola i battezzati, divenuti partecipi della dignità regale di Cristo, a vivere ogni giorno “nel regno del figlio diletto”, a testimoniare e annunciare la presenza del Regno con le stesse opere di Gesù (cf. Gv 14, 12). In virtù di questa testimonianza di fede e di amore, insegna il Concilio, il mondo sarà imbevuto dello spirito di Cristo e raggiungerà più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace (cf. Lumen Gentium, 36).

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 18 marzo 1987]

Il discorso parabolico di Gesù, che raggruppa sette parabole nel capitolo tredicesimo del Vangelo di Matteo, si conclude con le tre similitudini odierne: il tesoro nascosto (v. 44), la perla preziosa (v. 45-46) e la rete da pesca (v. 47-48). Mi soffermo sulle prime due che sottolineano la decisione dei protagonisti di vendere ogni cosa per ottenere quello che hanno scoperto. Nel primo caso si tratta di un contadino che casualmente si imbatte in un tesoro nascosto nel campo dove sta lavorando. Non essendo il campo di sua proprietà deve acquistarlo se vuole entrare in possesso del tesoro: quindi decide di mettere a rischio tutti i suoi averi per non perdere quella occasione davvero eccezionale. Nel secondo caso troviamo un mercante di perle preziose; egli, da esperto conoscitore, ha individuato una perla di grande valore. Anche lui decide di puntare tutto su quella perla, al punto da vendere tutte le altre.

Queste similitudini mettono in evidenza due caratteristiche riguardanti il possesso del Regno di Dio: la ricerca e il sacrificio. È vero che il Regno di Dio è offerto a tutti - è un dono, è un regalo, è grazia - ma non è messo a disposizione su un piatto d’argento, richiede un dinamismo: si tratta di cercare, camminare, darsi da fare. L’atteggiamento della ricerca è la condizione essenziale per trovare; bisogna che il cuore bruci dal desiderio di raggiungere il bene prezioso, cioè il Regno di Dio che si fa presente nella persona di Gesù. È Lui il tesoro nascosto, è Lui la perla di grande valore. Egli è la scoperta fondamentale, che può dare una svolta decisiva alla nostra vita, riempiendola di significato. 

Di fronte alla scoperta inaspettata, tanto il contadino quanto il mercante si rendono conto di avere davanti un’occasione unica da non lasciarsi sfuggire, pertanto vendono tutto quello che possiedono. La valutazione del valore inestimabile del tesoro, porta a una decisione che implica anche sacrificio, distacchi e rinunce. Quando il tesoro e la perla sono stati scoperti, quando cioè abbiamo trovato il Signore, occorre non lasciare sterile questa scoperta, ma sacrificare ad essa ogni altra cosa. Non si tratta di disprezzare il resto, ma di subordinarlo a Gesù, ponendo Lui al primo posto. La grazia al primo posto. Il discepolo di Cristo non è uno che si è privato di qualcosa di essenziale; è uno che ha trovato molto di più: ha trovato la gioia piena che solo il Signore può donare. È la gioia evangelica dei malati guariti; dei peccatori perdonati; del ladrone a cui si apre la porta del paradiso.

La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia (cfr Evangelii Gaudium, n. 1). Oggi siamo esortati a contemplare la gioia del contadino e del mercante delle parabole. È la gioia di ognuno di noi quando scopriamo la vicinanza e la presenza consolante di Gesù nella nostra vita. Una presenza che trasforma il cuore e ci apre alle necessità e all’accoglienza dei fratelli, specialmente quelli più deboli.

Preghiamo, per intercessione della Vergine Maria, perché ciascuno di noi sappia testimoniare, con le parole e i gesti quotidiani, la gioia di avere trovato il tesoro del Regno di Dio, cioè l’amore che il Padre ci ha donato mediante Gesù.

[Papa Francesco, Angelus 30 luglio 2017]

Il Signore della Vita (o il segno pallido)

Gv 11,19-27 (1-45)

 

L’evento della morte sconcerta, e quella di un amico di Dio in comunità [Betania] forse accentua gli interrogativi sul senso del nostro credere e impegnarci a fondo.

Per quale motivo nel momento del massimo bisogno, il Signore lascia che cadiamo? Perché sembra non esserci (v.21)?

Lasciando morire anche i suoi più cari amici, Gesù ci educa: non è sua intenzione procrastinare l’esistenza biologica (vv.14-15), né semplicemente migliorarla un pochino.

Eterna [nei Vangeli, la stessa Vita dell’Eterno: Zoè aiònios] non è questa forma di vita [nei Vangeli: Bìos - magari potenziata] bensì solo i suoi tempi dell’amore forte.

Il Mondo Definitivo non interferisce con il decorso naturale.

Per questo motivo il Signore non entra nel “villaggio” dove altri sono andati a consolare e fare le condoglianze.

Vuole che Maria esca dalla casa dove tutti piangono disperati e porgono cordoglio funebre - come se tutto fosse finito.

Intende tirarci fuori dal “piccolo borgo” dove si crede che la fine terrena possa essere insensatamente solo dilazionata, fino al sepolcro senza futuro.

La naturale commozione per il distacco non trattiene le lacrime, che spontaneamente «scorrono dagli occhi, scivolano giù» [dakryein-edakrysen].

L’emozione non produce un pianto scomposto e urlato [klaiein] come quello inconsolabile dei giudei [vv.33.35 testo greco; la traduzione italiana fa confusione].

Nessun commiato. Per questo motivo, segue l’ordine di togliere la pietra che a quel tempo chiudeva le tombe (v.39).

Il forte richiamo è assolutamente imperativo: i ‘defunti’ non sono ‘morti’, come credono le religioni antiche; la loro vita prosegue.

 

«Lazzaro, qui fuori!» [v.43 testo greco]: è il grido della vittoria della vita

Nell’avventura di Fede in Cristo scopriamo che la vita non ha pietre sopra. Basta, piangere le situazioni mortifere, e i “morti”!

L’appello che il Signore fa è che non esiste un mondo di scomparsi, ben separati da noi; a se stante, privo di comunicazione con l’attuale.

Le credenze arcaiche immaginavano infatti che l’Ade o lo Sheôl fosse una grotta buia, intrisa di nebbia, qua e là popolata di larve inconsistenti e vaganti.

Il mondo dei vivi non è separato da quello dei defunti.

«Lazzaro si è addormentato» (v.11), ossia: non è un decaduto, perché gli uomini non muoiono. Essi passano dalla vita creaturale [bìos] alla Vita piena [Zoè].

Il defunto ha lasciato questo mondo ed è entrato nel mondo di Dio, ri-Nato e generato al suo essere autentico, completo, definitivo.

Quindi: «Scioglietelo e lasciatelo andare!».

Insomma, Lazzaro non è semplicemente finito nella fossa, né ben rianimato da Cristo egli si ripresenta in questa forma di vita per un altro tratto… inesorabilmente segnato dal limite.

Nel racconto, infatti, mentre tutti vanno verso Gesù, Lazzaro no.

Non è questo ciò che Gesù può fare di fronte alla morte. Egli non immortala questa condizione, altrimenti l’esistenza continuerebbe ad essere un’inutile fuga dall’appuntamento decisivo.

Ed è ora di finirla di piangere la persona cara: «defunta», non ‘morta’.

Non dobbiamo trattenerla con visite ossessive, memorie tormentate, talismani, condoglianze: lasciamo che esista felice nella sua nuova condizione!

Vita per noi e Vita per coloro che sono già fioriti nel mondo della Pace di Dio - dove  si vive appieno: gli uni con gli altri e gli uni per gli altri.

 

 

[Ss. Marta, Maria e Lazzaro, 29 luglio]

Il Signore della Vita (o il segno pallido)

(Gv 11,1-45)

 

Gv 9,1-41 [il celebre passo del Nato Cieco] ci fa riflettere sul segno dell’apertura degli occhi.

Persino nei perdenti, può esserci crescita nella consapevolezza della dignità e vocazione personale per Fede.

Rimane un interrogativo: una Luce, se donata a tempo... forse non serve granché.

Cristo ci trasmette una coscienza colma di percezioni e capace d’intrapresa sapienziale, spirituale, missionaria - ma esiste una Meta finale o tutto si conclude qui?

Se dobbiamo cavarcela da soli, che senso hanno le Promesse bibliche? 

Come mai sentiamo desideri di Pienezza, poi il tuffo nel nulla?

Dov’è l’Amore e l’onnipotenza di Dio? E il Risorto, vita dell’Eterno presente fra noi? La sua stessa vita non ci è stata già donata?

L’evento della morte sconcerta, e quella di un amico di Dio in comunità [Betania] forse accentua gli interrogativi sul senso del nostro credere e impegnarci a fondo.

Per quale motivo nel momento del massimo bisogno, il Signore lascia che cadiamo? Perché sembra non esserci (v.21)?

Tuttavia comprendiamo che riuscire a portare avanti un’interminabile vecchiaia non sarebbe una vittoria sulla morte.

La credenza delle antiche culture è che quando gli dèi formarono l'umanità le attribuirono morte, e trattennero per sé la vita.

Chiunque fosse andato alla disperata ricerca della mitica erba che rende giovane il vecchio doveva rassegnarsi: morire significava partire per un paese senza ritorno.

Lasciando perire anche i suoi più cari amici, Gesù ci educa: non è sua intenzione procrastinare l’esistenza biologica (vv.14-15), né semplicemente migliorarla un pochino.

Cristo non è un ‘medico’ che viene a dilazionare l’appuntamento con la morte, bensì Colui che vince la morte - perché la trasforma in una Nascita.

Del resto, una vita davvero autentica, umana e umanizzante, ha necessità di guardare in faccia la nostra condizione.

Salute e vita fisica sono doni che ognuno vuol prolungare, ma che al termine devono essere consegnati, nell’Approdo che non scalfisce più.

Eterna [nei Vangeli, la stessa Vita dell’Eterno: Zoè aiònios] non è questa forma di vita [nei Vangeli: Bìos - magari potenziata] bensì solo i suoi tempi dell’amore forte.

Questa l’autenticità della grazia da chiedere e sviluppare. Perennità cui porgere risposta, condizione unica che non ci dà scacco.

 

Il Mondo Definitivo non interferisce con il decorso naturale, sebbene esso possa già manifestarsi - nella realtà intima e di coesistenza poliedrica.

Ma tale esperienza superiore [di Alleanza anche coi disagi] si annida unicamente in ciò che è qualità indistruttibile; personale, e nelle micro e macro relazioni.

In particolare, la Comunione: unico segno della forma di Vita che si prende carico ma non vacilla, non ha limiti, e non avrà fine.

Per questo motivo il Signore non entra nel “villaggio” dove altri sono andati a consolare e fare le condoglianze.

Vuole che Maria esca dalla casa dove tutti piangono disperati e porgono cordoglio funebre - come se tutto fosse finito.

Intende tirarci fuori dal “piccolo borgo” dove si crede che la fine terrena possa essere insensatamente solo dilazionata, fino al sepolcro senza futuro.

Ci vuole decisamente fuori dal paesotto dove tutti sono in lutto e restano con la finta consolazione delle pratiche esequiali, ‘sollievo’ condito solo di belle frasette.

La naturale commozione per il distacco non trattiene le lacrime, che spontaneamente «scorrono dagli occhi, scivolano giù» [dakryein-edakrysen].

L’emozione non produce un pianto scomposto e urlato [klaiein] come quello inconsolabile dei giudei [vv.33.35 testo greco; la traduzione italiana fa confusione].

Nessun commiato. Per questo motivo, segue l’ordine di togliere la pietra che a quel tempo chiudeva le tombe (v.39).

Il forte richiamo è assolutamente imperativo: i ‘defunti’ non sono ‘morti’, come credono le religioni antiche; la loro vita prosegue.

 

«Lazzaro, qui fuori!» [v.43 testo greco]: è il grido della vittoria della vita

Nell’avventura di Fede in Cristo scopriamo che la vita non ha pietre sopra.

Basta, gemere per situazioni mortifere. Esse ci accostano alle nostre radici, e alla fioritura piena.

E smettiamo di piangere i “morti”!

L’appello che il Signore fa oggi - ancora dopo due millenni! - è che non esiste un mondo inabissato di scomparsi.

Rispetto all’andare sulla terra, i passati a miglior vita non sono ben separati da noi; in luogo a se stante, privo di comunicazione con l’attuale.

Le credenze arcaiche immaginavano infatti che l’Ade o lo Sheôl fosse una grotta buia, intrisa di nebbia, qua e là popolata di larve inconsistenti e vaganti.

Il mondo dei vivi non è separato da quello dei defunti.

«Lazzaro si è addormentato» (v.11), ossia: non è un decaduto, perché gli uomini non muoiono. Essi passano dalla vita creaturale [bìos] alla Vita piena [Zoè].

Il defunto ha lasciato questo mondo ed è entrato nel mondo di Dio, ri-Nato e generato al suo essere autentico, completo, definitivo.

Quindi: «Scioglietelo e lasciatelo andare!».

Insomma, Lazzaro non è semplicemente finito nella fossa, né ben rianimato da Cristo egli si ripresenta in questa forma di vita per un altro tratto… inesorabilmente segnato dal limite.

Nel racconto, infatti, mentre tutti vanno verso Gesù, Lazzaro no.

Non è questo ciò che Gesù può fare di fronte alla morte. Egli non immortala questa condizione, altrimenti l’esistenza continuerebbe ad essere un’inutile fuga dall’appuntamento decisivo.

Ed è ora di finirla di singhiozzare la persona cara: «defunta», non ‘morta’.

Non dobbiamo trattenerla con visite ossessive, memorie tormentate, talismani, condoglianze: lasciamo che esista felice nella sua nuova condizione!

Vita per noi e Vita per coloro che sono già fioriti nel mondo della Pace di Dio - dove  si vive appieno: gli uni con gli altri e gli uni per gli altri.

 

Condizione che in tal guisa possiamo prefigurare, sciogliendo non pochi blocchi intimi, impedimenti esterni, e lacci relazionali; annegati negli umori dell’amarezza, della costernazione, dell’abbattimento:

 

«Anche oggi Gesù ci ripete: “Togliete la pietra”. Dio non ci ha creati per la tomba, ci ha creati per la vita, bella, buona, gioiosa.

Dunque, siamo chiamati a togliere le pietre di tutto ciò che sa di morte: ad esempio, l’ipocrisia con cui si vive la fede, è morte; la critica distruttiva verso gli altri, è morte; l’offesa, la calunnia, è morte; l’emarginazione del povero, è morte.

Il Signore ci chiede di togliere queste pietre dal cuore, e la vita allora fiorirà ancora intorno a noi.

Cristo vive, e chi lo accoglie e aderisce a Lui entra in contatto con la vita. Senza Cristo, o al di fuori di Cristo, non solo non è presente la vita, ma si ricade nella morte.

Ognuno di noi sia vicino a quanti sono nella prova, diventando per essi un riflesso dell’amore e della tenerezza di Dio, che libera dalla morte e fa vincere la vita».

[Papa Francesco, Angelus 29 marzo 2020]

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Di fronte a un lutto, che atmosfera percepisci in casa, in chiesa, al cimitero, durante le esequie? E le condoglianze, che effetto ti fanno?

 

 

Su Betania [prosieguo del passo di Lazzaro]:

 

Gesù Viene alla Festa, ma da clandestino

(Gv 11,45-56)

 

Cristo è tutto quello che le feste ebraiche avevano promesso e proclamato.

Esse decifravano autorevolmente, ma in modo incosciente (i vv.47-52 si compiacciono di parole a doppio senso).

Il sommo sacerdote parlava infatti in nome di Dio: interpretava la situazione in modo divinamente ispirato.

In Cristo ci si avviava alla realizzazione della promessa fatta ad Abramo: si chiudeva l’epoca della dispersione degli uomini.

La Croce avrebbe realizzato la vocazione del Tempio: la ricomposizione del popolo e l’unità dell’essere umano dalla terra arida e lontana, nella condivisione e gratuità.

Ma quale poteva essere anche per Gesù il punto di partenza (energetico) per non ritirarsi dentro i limiti del proprio ambiente fin nei dettagli, e attivare un cammino di rinascita?

La comunità di Betania [«casa dei poveri»] è immagine delle prime realtà di fede, indigenti e composte di soli fratelli e sorelle, senza autorità cooptate e preposte. A misura di persona.

Dove si potevano sciogliere quei legami che impedivano di andare oltre il già conosciuto. Senza patriarchi dal controllo tarato, ossessivo e vendicativo - dove non ci si guarda.

Nido di relazioni sane, che riusciva a dare un senso anche alle ferite.

 

È il solo luogo in cui Gesù si trovava a suo agio, ossia l’unica realtà in cui lo possiamo ancora riconoscere vivo e presente in mezzo - anzi, Sorgente di vita per modesti e bisognosi.

Stride nel passo di Vangelo il confronto con la volgare astuzia dei direttori e la dimensione fuori-scala dei luoghi e feste comandate.

Come se lì nessuna linfa scorresse tra Santità di Dio e vita reale delle persone dimesse.

Malgrado il Maestro compisse il bene - come in tutti i regimi, non mancavano i delatori (v.46).

D’altro canto, buona parte degli abitanti di Gerusalemme trovavano nell’indotto delle attività del Tempio il loro sostentamento materiale.

Figuriamoci se i primi della classe si sarebbero lasciati strappare l’osso di bocca, per andare dietro a uno sconosciuto che intendeva soppiantare l’istituzione ufficiale e le posizioni di privilegio con una utopia disadorna.

Il trono dei prìncipi della Casa fraterna era viceversa privo di cuscini, e la coordinatrice della comunità una donna: Marta [«signora»]. Leader a rovescio, servizievole.

Tutt’Altro che difesa reazionaria di posizioni privilegiate e dell’ordine antico... ancora tutte tensioni al ribasso e a “sistemare” secondo catena di comando, che mai ci danno spunti di vita nuova. Situazione vischiosa che l’iniziativa del cammino sinodale tenta finalmente di scardinare.

Sotto Domiziano queste piccole realtà alternative - sebbene premurose verso i piccoli e lontani - dovettero vivere come Gesù: clandestine.

Pagavano l’unità con la croce. Ma rinnovavano la vita dell’impero.

[Quello di Lazzaro è] l’ultimo grande "segno" compiuto da Gesù, dopo il quale i sommi sacerdoti riunirono il Sinedrio e deliberarono di ucciderlo; e decisero di uccidere anche lo stesso Lazzaro, che era la prova vivente della divinità di Cristo, Signore della vita e della morte. In realtà, questa pagina evangelica mostra Gesù quale vero Uomo e vero Dio. Anzitutto l’evangelista insiste sulla sua amicizia con Lazzaro e le sorelle Marta e Maria. Egli sottolinea che a loro "Gesù voleva molto bene" (Gv 11,5), e per questo volle compiere il grande prodigio. "Il nostro amico Lazzaro s’è addormentato, ma io vado a svegliarlo" (Gv 11,11) – così parlò ai discepoli, esprimendo con la metafora del sonno il punto di vista di Dio sulla morte fisica: Dio la vede appunto come un sonno, da cui ci può risvegliare. Gesù ha dimostrato un potere assoluto nei confronti di questa morte: lo si vede quando ridona la vita al giovane figlio della vedova di Nain (cfr Lc 7,11-17) e alla fanciulla di dodici anni (cfr Mc 5,35-43). Proprio di lei disse: "Non è morta, ma dorme" (Mc 5,39), attirandosi la derisione dei presenti. Ma in verità è proprio così: la morte del corpo è un sonno da cui Dio ci può ridestare in qualsiasi momento.

Questa signoria sulla morte non impedì a Gesù di provare sincera com-passione per il dolore del distacco. Vedendo piangere Marta e Maria e quanti erano venuti a consolarle, anche Gesù "si commosse profondamente, si turbò" e infine "scoppiò in pianto" (Gv 11,33.35). Il cuore di Cristo è divino-umano: in Lui Dio e Uomo si sono perfettamente incontrati, senza separazione e senza confusione. Egli è l’immagine, anzi, l’incarnazione del Dio che è amore, misericordia, tenerezza paterna e materna, del Dio che è Vita. Perciò dichiarò solennemente a Marta: "Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno". E aggiunse: "Credi tu questo?" (Gv 11,25-26). Una domanda che Gesù rivolge ad ognuno di noi; una domanda che certamente ci supera, supera la nostra capacità di comprendere, e ci chiede di affidarci a Lui, come Lui si è affidato al Padre. Esemplare è la risposta di Marta: "Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo" (Gv 11,27). Sì, o Signore! Anche noi crediamo, malgrado i nostri dubbi e le nostre oscurità; crediamo in Te, perché Tu hai parole di vita eterna; vogliamo credere in Te, che ci doni una speranza affidabile di vita oltre la vita, di vita autentica e piena nel tuo Regno di luce e di pace.

Affidiamo questa preghiera a Maria Santissima. Possa la sua intercessione rafforzare la nostra fede e la nostra speranza in Gesù, specialmente nei momenti di maggiore prova e difficoltà.

[Papa Benedetto, Angelus 9 marzo 2008]

1. “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto” (Gv 11, 21.32).

Queste parole, che avete sentito leggere nel Vangelo della messa odierna, sono pronunciate prima da Marta, poi da Maria, le due sorelle di Lazzaro, e sono rivolte a Gesù di Nazaret, che era amico loro e del fratello.

L’odierna liturgia presenta alla nostra attenzione il tema della morte. Questa è ormai la quinta domenica di Quaresima e si avvicina il tempo della passione di Cristo. Il tempo della morte e della risurrezione. Oggi guardiamo a questo fatto attraverso la morte e la risurrezione di Lazzaro. Nella missione messianica di Cristo questo evento sconvolgente serve di preparazione alla Settimana santa e alla Pasqua.

2. “. . . mio fratello non sarebbe morto”.

Risuona in queste parole la voce del cuore umano, la voce di un cuore che ama e che dà testimonianza di ciò che è la morte. Continuamente sentiamo parlare di morte e leggiamo notizie circa la morte di diverse persone. Esiste una sistematica informazione su questo tema. Esiste anche la statistica della morte. Sappiamo che la morte è un fenomeno comune e incessante. Se ogni giorno muoiono sul globo terrestre circa 145.000 persone, si può dire che ad ogni istante muoiono delle persone. La morte è un fenomeno universale e un fatto ordinario. L’universalità e la normalità del fatto confermano la realtà della morte, l’inevitabilità della morte, ma, al tempo stesso, cancellano in un certo senso la verità sulla morte, la sua penetrante eloquenza.

Non basta qui il linguaggio delle statistiche. È necessaria la voce del cuore umano: la voce di una sorella, come nell’odierno Vangelo, la voce di una persona che ama. La realtà della morte può essere espressa in tutta la sua verità solo col linguaggio dell’amore.

L’amore infatti resiste alla morte, e desidera la vita . . .

Ognuna delle due sorelle di Lazzaro non dice “mio fratello è morto”, ma dice: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto”.

La verità sulla morte può essere espressa solamente a partire da una prospettiva di vita, da un desiderio di vita: cioè dalla permanenza nella comunione amorosa di una persona.

La verità sulla morte viene espressa nell’odierna liturgia in rapporto con la voce del cuore umano.

3. Contemporaneamente essa viene espressa in rapporto con la missione di Cristo, il redentore del mondo.

Gesù di Nazaret era amico di Lazzaro e delle sue sorelle. La morte dell’amico si è fatta sentire anche nel suo cuore con un’eco particolare. Quando giunse a Betania, quando udì il pianto delle sorelle e di altre persone affezionate al defunto, Gesù “si commosse profondamente, si turbò”, e in questa disposizione interiore chiese: “Dove l’avete posto?” (Gv 11, 33).

Gesù di Nazaret è al tempo stesso il Cristo, colui che il Padre ha mandato al mondo: è l’eterno testimone dell’amore del Padre. È il definitivo Portavoce di questo amore di fronte agli uomini. È in un certo senso l’Ostaggio di esso riguardo a ciascuno e a tutti. In lui e per lui l’eterno amore del Padre si conferma e compie nella storia dell’uomo, si conferma e compie in modo sovrabbondante.

E l’amore si oppone alla morte e vuole la vita.

La morte dell’uomo, fin da Adamo, si oppone all’amore: si oppone all’amore del Padre, il Dio della vita.

La radice della morte è il peccato, il quale pure si oppone all’amore del Padre. Nella storia dell’uomo la morte è unita al peccato e come il peccato si oppone all’amore.

4. Gesù Cristo è venuto nel mondo per redimere il peccato dell’uomo; ogni peccato che è radicato nell’uomo. Per questo egli si è posto di fronte alla realtà della morte; la morte infatti è unita al peccato nella storia dell’uomo: è frutto del peccato. Gesù Cristo divenne il redentore dell’uomo mediante la sua morte in croce, la quale è stata il sacrificio che ha riparato ogni peccato.

In questa sua morte Gesù Cristo ha confermato la testimonianza dell’amore del Padre. L’amore che resiste alla morte, e desidera la vita, si è espresso nella risurrezione di Cristo, di colui che, per redimere i peccati del mondo, liberamente accettò la morte sulla croce.

Questo evento si chiama Pasqua: il mistero pasquale. Ogni anno ci prepariamo ad essa mediante la Quaresima, e l’odierna domenica ci mostra ormai da vicino questo mistero, nel quale si sono rivelati l’amore e la potenza di Dio, poiché la vita ha riportato la vittoria sulla morte.

5. Ciò che è avvenuto a Betania presso il sepolcro di Lazzaro, fu quasi l’ultimo annuncio del mistero pasquale.

Gesù di Nazaret si fermò accanto al sepolcro del suo amico Lazzaro, e disse: “Lazzaro, vieni fuori!” (Gv 11, 43). Con queste parole, piene di potenza, Gesù lo risuscitò alla vita e lo fece uscire dalla tomba.

Prima di compiere questo miracolo, Cristo “alzò gli occhi e disse: "Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato"” (Gv 11, 41-42).

Presso il sepolcro di Lazzaro avvenne un particolare confronto della morte con la missione redentrice di Cristo. Cristo era il testimone dell’eterno amore del Padre, di quell’amore che resiste alla morte e desidera la vita. Risuscitando Lazzaro, rese testimonianza a quest’amore. Rese anche testimonianza all’esclusiva potenza di Dio sulla vita e sulla morte.

Al tempo stesso, presso la tomba di Lazzaro, Cristo fu il profeta del suo proprio mistero: del mistero pasquale, nel quale la morte redentrice sulla croce divenne la sorgente della nuova vita nella risurrezione.

8. Il pellegrinaggio, che oggi avete intrapreso a motivo del Giubileo, vi introduce, cari militari qui convenuti da Paesi differenti, nel mistero della redenzione, mediante la liturgia dell’odierna domenica di Quaresima, la quale ci invita a fermarci, direi, sulla frontiera della vita e della morte, per adorare la presenza e l’amore di Dio.

Ecco le parole del profeta Ezechiele: “Dice il Signore Dio: "Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio"” (Ez 37, 12.13).

Queste parole si sono compiute presso il sepolcro di Lazzaro in Betania. Si sono compiute definitivamente presso il sepolcro di Cristo sul Calvario. Di questo ci rende consapevoli l’odierna liturgia.

Nella risurrezione di Lazzaro si è manifestata la potenza di Dio sullo spirito e sul corpo dell’uomo.

Nella risurrezione di Cristo è stato concesso lo Spirito Santo come sorgente della nuova vita: la vita divina. Questa vita è l’eterno destino dell’uomo. È la sua vocazione ricevuta da Dio. In questa vita si realizza l’eterno amore del Padre.

L’amore infatti desidera la vita e si oppone alla morte.

Cari fratelli! Viviamo di questa vita! Che in noi non domini il peccato! Viviamo di questa vita, il prezzo della quale è la redenzione mediante la morte sulla croce di Cristo!

“E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Gesù dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rm 8, 11).

Che lo Spirito Santo abiti in voi sempre per mezzo della grazia della redenzione di Cristo. Amen.

[Papa Giovanni Paolo II, omelia per il Giubileo dei Militari 8 aprile 1984]

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The fool in the Bible, the one who does not want to learn from the experience of visible things, that nothing lasts for ever but that all things pass away, youth and physical strength, amenities and important roles. Making one's life depend on such an ephemeral reality is therefore foolishness (Pope Benedict)
L’uomo stolto nella Bibbia è colui che non vuole rendersi conto, dall’esperienza delle cose visibili, che nulla dura per sempre, ma tutto passa: la giovinezza come la forza fisica, le comodità come i ruoli di potere. Far dipendere la propria vita da realtà così passeggere è, dunque, stoltezza (Papa Benedetto)
We see this great figure, this force in the Passion, in resistance to the powerful. We wonder: what gave birth to this life, to this interiority so strong, so upright, so consistent, spent so totally for God in preparing the way for Jesus? The answer is simple: it was born from the relationship with God (Pope Benedict)
Noi vediamo questa grande figura, questa forza nella passione, nella resistenza contro i potenti. Domandiamo: da dove nasce questa vita, questa interiorità così forte, così retta, così coerente, spesa in modo così totale per Dio e preparare la strada a Gesù? La risposta è semplice: dal rapporto con Dio (Papa Benedetto)
Christians are a priestly people for the world. Christians should make the living God visible to the world, they should bear witness to him and lead people towards him (Pope Benedict)
I cristiani sono popolo sacerdotale per il mondo. I cristiani dovrebbero rendere visibile al mondo il Dio vivente, testimoniarLo e condurre a Lui (Papa Benedetto)
The discovery of the Kingdom of God can happen suddenly like the farmer who, ploughing, finds an unexpected treasure; or after a long search, like the pearl merchant who eventually finds the most precious pearl, so long dreamt of (Pope Francis)
La scoperta del Regno di Dio può avvenire improvvisamente come per il contadino che arando, trova il tesoro insperato; oppure dopo lunga ricerca, come per il mercante di perle, che finalmente trova la perla preziosissima da tempo sognata (Papa Francesco)
Christ is not resigned to the tombs that we have built for ourselves (Pope Francis)
Cristo non si rassegna ai sepolcri che ci siamo costruiti (Papa Francesco)
We must not fear the humility of taking little steps, but trust in the leaven that penetrates the dough and slowly causes it to rise (cf. Mt 13:33) [Pope Benedict]
Occorre non temere l’umiltà dei piccoli passi e confidare nel lievito che penetra nella pasta e lentamente la fa crescere (cfr Mt 13,33) [Papa Benedetto]
The disciples, already know how to pray by reciting the formulas of the Jewish tradition, but they too wish to experience the same “quality” of Jesus’ prayer (Pope Francis)
I discepoli, sanno già pregare, recitando le formule della tradizione ebraica, ma desiderano poter vivere anche loro la stessa “qualità” della preghiera di Gesù (Papa Francesco)
Saint John Chrysostom affirms that all of the apostles were imperfect, whether it was the two who wished to lift themselves above the other ten, or whether it was the ten who were jealous of them (“Commentary on Matthew”, 65, 4: PG 58, 619-622) [Pope Benedict]
San Giovanni Crisostomo afferma che tutti gli apostoli erano ancora imperfetti, sia i due che vogliono innalzarsi sopra i dieci, sia gli altri che hanno invidia di loro (cfr Commento a Matteo, 65, 4: PG 58, 622) [Papa Benedetto]

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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