Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Santissimo Corpo e sangue di Cristo [22 Giugno 2025]
Dio ci benedica e la Vergine di protegga! In un tempo in cui sembra che l’Eucaristia non sia sempre il centro della vita dei cristiani, questo giorno ci invita a riflettere e a rimettere nel cuore della nostra vita sacerdotale la quotidiana degna celebrazione dell’Eucaristia e l’adorazione che la prepara e ne continua la contemplazione lungo tutta la giornata.
*Prima Lettura dal Libro della Genesi (14,18-20)
Melchisedek è nominato solo due volte nell’Antico Testamento: qui nel libro della Genesi e nel salmo 109/110 che leggiamo anche questa domenica. Questo personaggio ricoprirà un ruolo importante per coloro che attendevano il Messia, e ancor più tra i cristiani così da essere citato anche in una preghiera eucaristica. Abramo incontra Melchisedek mentre torna da una spedizione vittoriosa. La Bibbia raramente racconta i festeggiamenti dopo una vittoria militare, invece qui si celebra e, molto tempo dopo, viene data a questa storia un grande interesse. Questi i fatti: scoppia una guerra tra due piccole coalizioni, cinque contro quattro e il re di Sodoma fa parte dei combattenti, ma né Melchisedek né Abramo sono direttamente coinvolti all’inizio. Il re di Sodoma viene sconfitto e tra i suoi sudditi viene fatto prigioniero Lot, nipote di Abramo, il quale, informato, corre a liberarlo insieme al re di Sodoma e i suoi sudditi. Il re di Sodoma diventa così alleato di Abramo. A questo punto interviene Melchisedek (il cui nome significa “re di giustizia”) forse per un pasto di alleanza, ma l’autore biblico non lo precisa, e anzi, a partire da questo momento, concentra il racconto sulla figura di Melchisedek e sul suo rapporto con Abramo. Di Melchisedek abbiamo informazioni molto inusuali nella Bibbia: non ha genealogia, è contemporaneamente re e sacerdote mentre per molti secoli in Israele questo non doveva accadere; è re di Salem, probabilmente la città che più tardi sarà Gerusalemme quando Davide la conquista per farne la sua capitale; l’offerta che porta è composta di pane e vino e non di animali, come sarà invece il sacrificio che offrirà Abramo, raccontato in Gn. 15. Melchisedek benedice il Dio Altissimo e Abramo che gli versa la decima (un decimo del bottino di guerra) e con tale gesto riconosce il suo sacerdozio. Sono tutte precisazioni che hanno un chiaro valore per l’autore sacro, che si concentra sulle relazioni tra il potere regale e il sacerdozio: per esempio, è la prima volta che compare la parola “sacerdote” nella Bibbia e Melchisedek ne ha tutte le caratteristiche: offre un sacrificio, pronuncia la benedizione in nome del “Dio Altissimo che crea cielo e terra” e riceve da Abramo la decima dei suoi beni. Silenzio assoluto circa le origini di Melchisedek: la Bibbia attribuisce grande importanza alla genealogia dei sacerdoti, ma di Melchisedek, il primo della lista, non sappiamo nulla e sembra fuori dal tempo. Il fatto però che sia riconosciuto come sacerdote significa che esisteva un sacerdozio prima dell’istituzione legale del sacerdozio nella legge ebraica legato alla tribù di Levi, figlio di Giacobbe e pronipote di Abramo. Esistevano cioè sacerdoti non discendenti da Levi e perciò “secondo l’ordine di Melchisedek”, alla maniera di Melchisedek. Nessun esegeta sa dire con certezza da chi, quando e con quale scopo questo testo sia stato scritto, che potrebbe risalire all’epoca in cui la dinastia di Davide sembrava ormai spenta e si cominciava a intravedere un Messia diverso: non più un re discendente di Davide, ma un sacerdote, capace di portare ai discendenti di Abramo la benedizione del Dio Altissimo. Melchisedek, “re di giustizia e re di pace” è considerato un antenato del Messia come vediamo meglio nel salmo 109/110. Abramo non era ancora circonciso quando fu benedetto da Melchisedek e nelle controversie delle prime comunità formate da ebrei circoncisi e pagani, i cristiani dedurranno che non è necessario essere circoncisi per essere benedetti da Dio. Infine nell’offerta di pane e vino, che suggella un pasto di alleanza, noi cristiani riconosciamo il gesto di Cristo in continuità col progetto di Dio. Ad ogni Eucaristia, ripetiamo il gesto di Melchisedek accompagnando l’offerta di pane e vino con le parole “Tu sei benedetto, Dio dell’universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto il pane (il vino) che ti presentiamo…”
*Salmo responsoriale (109 /110,1-4)
Alcune di questi versi del salmo sono rivolti al nuovo re di Gerusalemme nel giorno della sua incoronazione, un rituale che esprimeva in filigrana l’attesa del Messia e si sperava che ogni nuovo re incoronato fosse il Messia. La cerimonia si svolgeva in due momenti, dapprima nel Tempio, poi all’interno del palazzo reale nella sala del trono. Quando il re arrivava nel Tempio scortato dalla guardia reale un profeta gli poneva il diadema sul suo capo, gli consegnava un rotolo detto “i Testimoni” cioè la carta dell’Alleanza conclusa da Dio con la discendenza di Davide contenente formule applicate a ogni re: “Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato”, “Chiedimi e ti darò in eredità le nazioni” e questa carta gli rivelava anche il suo nuovo nome (cfr. Isaia 9,5). Il sacerdote gli conferiva l’unzione e il rito nel Tempio si concludeva con l’acclamazione chiamata “Terouah”, grido di guerra trasformato in ovazione per il nuovo re-condottiero. Si snodava poi la processione verso il Palazzo e lungo il cammino il re si fermava per bere a una sorgente, simbolo della vita nuova e della forza di cui doveva rivestirsi per trionfare sui suoi nemici. Arrivati al Palazzo, nella sala del trono si svolgeva la seconda parte della cerimonia. A questo punto inizia il salmo di oggi: il profeta prende la parola a nome di Dio, usando la formula solenne: ““Oracolo del Signore al mio signore” che va letto come “parola di Dio per il nuovo re”. Nella Bibbia si incontra l’espressione “sedersi sul trono dei re” che significa “regnare”. Il nuovo re è invitato a salire i gradini del trono e a sedersi: “Siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi”. Sui gradini del trono sono scolpiti o incisi guerrieri nemici incatenati: quindi, salendo i gradini, il re poserà il piede sulla nuca di questi soldati, gesto di vittoria e presagio delle sue vittorie future. Questo è il senso della prima strofa, fare dei suoi nemici lo sgabello dei suoi piedi. L’espressione “alla mia destra” aveva un tempo un significato concreto, topografico: a Gerusalemme, il palazzo di Salomone è situato a sud del Tempio (quindi a destra del Tempio, se ci si volge verso oriente) per cui Dio troneggia invisibilmente sopra l’Arca nel Tempio e il re, sedendo sul suo trono, sarà alla sua destra. Poi il profeta consegna lo scettro al nuovo re; ed è la seconda strofa: “Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion domina in mezzo ai tuoi nemici”. La consegna dello scettro è simbolo della missione affidata al re che dominerà i nemici inserendosi nella lunga catena dei re discendenti di Davide, a sua volta portatore della promessa fatta a Davide. Il re è solo un uomo mortale, ma porta un destino eterno perché eterno è il progetto di Dio. Probabilmente questo è il significato della strofa seguente, un po’ oscura: “A te il principato nel giorno della tua potenza (cioè il giorno dell’incoronazione) tra santi splendori (sei rivestito della santità di Dio e quindi della sua immortalità). dal seno dell’aurora come rugiada, io ti ho generato”, un modo per dire che è previsto da Dio dall’alba del mondo. Il re resta mortale ma, nella fede d’Israele, la discendenza di Davide, prevista dall’eternità, è immortale. Nello stesso senso, la strofa seguente usa l’espressione “per sempre”: “Tu sei sacerdote per sempre”, il re futuro (cioè il Messia) sarà dunque al contempo re e sacerdote mediatore tra Dio e il suo popolo. Qui abbiamo la prova che, negli ultimi secoli della storia biblica, si pensava che il Messia sarebbe stato anche sacerdote. Infine il salmo precisa: sacerdote “secondo l’ordine di Melchisedek” perché esisteva il problema che non si può essere sacerdote se non si discende da Levi. Come conciliare questa Legge con la promessa che il Messia, re discendente di Davide della tribù di Giuda e non di Levi? Il salmo 109/110 dà la risposta: egli sarà sacerdote, sì, ma alla maniera di Melchisedek, re di Salem, al tempo stesso re e sacerdote, ben prima che esistesse la tribù di Levi. Il salmo 109/110 veniva cantato a Gerusalemme durante la Festa delle Capanne per ricordare le promesse messianiche di Dio: evocando una scena di intronizzazione, si pensava proprio a queste promesse per mantenere viva la speranza del popolo. Rileggendo questo salmo nel Nuovo Testamento vi si è scoperta una profondità nuova: Gesù Cristo è davvero quel sacerdote “in eterno”, mediatore dell’Alleanza definitiva, vincitore del peggiore nemico dell’uomo, la morte. San Paolo lo dice nella prima lettera ai Corinzi: “L’ultimo nemico ad essere distrutto sarà la morte, perché tutto ha posto sotto i suoi piedi”.
*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo ai Corinzi (11,23-26)
San Paolo qui rivela il vero significato della parola “tradizione”: un prezioso deposito fedelmente tramandato di generazione in generazione. Se oggi siamo credenti, è perché, da oltre duemila anni, i cristiani, in ogni epoca, hanno trasmesso fedelmente il deposito della fede come in una staffetta senza interruzione. La trasmissione è fedele quando si conserva la tradizione del Signore, come scrive san Paolo: “Io ho ricevuto da Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso”. Solo questa trasmissione fedele costruisce il Corpo di Cristo lungo la storia dell’umanità, non essendo trasmissione di un sapere intellettuale, ma del mistero di Cristo e la fedeltà si misura nel nostro modo di vivere. Per questo Paolo si preoccupa di correggere le cattive abitudini dei Corinzi e afferma che vivere in comunione fraterna è direttamente connesso con il mistero dell’Eucaristia. Scrive Paolo: Gesù “nella notte in cui veniva tradito, prese del pane”. “Veniva tradito”: Proprio mentre incompreso e tradito, veniva consegnato nelle mani nemiche, Gesù “prese del pane, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse…”. Ha così la forza di capovolgere la situazione e da una condotta di morte, compie il gesto supremo dell’Alleanza tra Dio e gli uomini facendo eco a queste sue parole: “La mia vita, nessuno me la toglie: la do io” (Gv 10,18). Trasforma un contesto di odio e di accecamento in luogo dell’amore e della condivisione: “Il mio corpo che è per voi”, corpo donato per la nostra liberazione e l’efficacia di questa donazione è legata al concetto biblico di “memoriale”: fate questo in memoria di me”. “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue”, questa formula è centrata sul tema della nuova alleanza, ripreso dal passo di Geremia (31,31-34) e stabilita non con il sangue versato sul popolo (Es 24), ma con il suo sangue e nello Spirito Santo. Qui possiamo capire cosa è il perdono, il dono perfetto compiuto al di là dell’odio, amore puro che trasforma condotte di morte in sorgente di vita. Solo il perdono è questo miracolo e lo ripetiamo in ogni Eucaristia: “Mistero della fede”. “Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore”: annunciamo la sua morte, testimonianza d’amore fino all’estremo, come ben ricorda la Preghiera eucaristica della Riconciliazione: “le sue braccia distese disegnano tra cielo e terra il segno indelebile dell’Alleanza” tra Dio e l’umanità. “Annunciamo la sua morte”: ci impegniamo nella grande opera di riconciliazione e di alleanza inaugurata da Gesù. “Finché egli venga”: siamo il popolo dell’attesa che proclamiamo in ogni Eucaristia e se Gesù ci invita a ripetere così spesso questa preghiera è per educarci alla speranza che significa diventare impazienti del suo Regno in gioiosa attesa della sua venuta. Infine: Paolo dice “finché egli venga” e non finché ritorni perché Cristo non è partito, è con noi fino alla fine del mondo (Cf Mt 28, 20). Anzi non smette mai di venire perché è presenza operante che realizza progressivamente il grande progetto divino fin dalla creazione del mondo e ci chiede di collaborarvi.
NOTA. L’ultima parola della Bibbia, nell’Apocalisse, è proprio «Vieni, Signore Gesù». L’inizio del libro della Genesi ci parlava della vocazione dell’umanità, chiamata ad essere immagine e somiglianza di Dio, dunque destinata a vivere di amore, di dialogo, di condivisione come Dio stesso è Trinità. L’ultima parola della Bibbia ci dice che il progetto si realizza in Gesù Cristo e quando diciamo “Vieni, Signore Gesù”, invochiamo con tutte le nostre forze il giorno in cui egli ci radunerà dai quattro angoli del mondo per formare un solo Corpo.
*Dal vangelo secondo Luca (9, 11b-17)
Per la festa del Corpo e Sangue di Cristo, leggiamo il miracolo della moltiplicazione dei pani in cui Luca vuole certamente sottolinearne il legame con l’Eucaristia descrivendo i gesti di Gesù con le stesse parole della liturgia eucaristica: “Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli”: una chiara allusione anche ai discepoli di Emmaus (Lc24,30). Gesù sta annunciando il regno di Dio, predica il vangelo e compie miracoli. La moltiplicazione dei pani si colloca in questo contesto: è sera, i discepoli si preoccupano della folla e suggeriscono di rimandare tutti perché nelle vicinanze ognuno per conto proprio trovi di che sfamarsi. Gesù non accetta la soluzione di dispersione perché il Regno di Dio è un mistero di comunione, non si accontenta del “ciascuno per sé” e propone la sua soluzione: “Voi stessi date loro da mangiare”. Ma come? Cinque pani e due pesci, replicano gli apostoli, sono sufficienti solo per una famiglia e non per cinquemila uomini. Gesù non vuole metterli in difficoltà, ma se dice loro di dare essi stessi da mangiare, è perché sa che possono farlo. I discepoli rispondono mettendosi a disposizione per andare a comperare il pane, ma Gesù ha un’altra soluzione: “Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa”. Sceglie la “soluzione del radunarsi” perché il Regno di Dio non è folla indistinta, ma comunità di comunità. Gesù benedisse i pani, riconoscendo il pane come dono di Dio da usare per servire gli affamati. Riconoscere il pane come dono di Dio è un vero e proprio programma di vita ed è questo il significato della “preparazione dei doni” durante la Messa. Si chiamava prima “offertorio” e la riforma liturgica del Concilio Vaticano II l’ha sostituito con “preparazione dei doni” per aiutarci a capire meglio che non siamo noi a dare qualcosa di nostro, ma è la “preparazione dei doni di Dio” e recando pane e vino, simboli di tutto il cosmo e del lavoro dell’umanità, riconosciamo che tutto è dono e non siamo padroni di ciò che Dio ci ha dato (sia i beni materiali che le ricchezze fisiche, intellettuali, spirituali), ma solo amministratori. Questo gesto, ripetuto ad ogni Eucaristia con fede, ci trasforma facendoci diventare davvero amministratori delle nostre ricchezze per il bene di tutti. Proprio in questo gesto di generosa spoliazione di sé stessi possiamo trovare il coraggio dei miracoli: quando dice ai discepoli “Date loro voi stessi da mangiare”, Gesù vuole far loro scoprire che hanno risorse insospettate, ma a condizione di riconoscere tutto come dono di Dio. Davanti agli affamati del mondo intero dice anche a noi: “Date loro voi stessi da mangiare” e, come i discepoli, abbiamo risorse che ignoriamo a condizione di riconoscere che quanto possediamo é dono di Dio e noi siamo solo amministratori che rifiutano la “logica della dispersione”, il pensare cioè ognuno al proprio interesse. Diventa quindi chiaro il legame tra questa moltiplicazione dei pani e la festa del Corpo e Sangue di Cristo. I tre sinottici raccontano l’istituzione dell’Eucaristia la sera del Giovedì santo e Luca aggiunge l’ordine del Signore “Fate questo in memoria di me”, ma san Giovanni ci offre un’altra chiave: riferisce la lavanda dei piedi con il comando di Gesù ai discepoli a fare altrettanto. Ecco quindi due modi inseparabili di celebrare il memoriale di Cristo: condividere l’Eucaristia e mettersi al servizio degli altri.
+Giovanni D’Ercole
Per una convivenza trasparente
(Mt 7,1-5)
Il Discorso della Montagna (Mt 5-7) elenca catechesi su questioni salienti del vissuto nelle comunità di Galilea e Siria - composte di giudei convertiti a Cristo.
Da parte dei veterani non mancavano episodi di disprezzo nei confronti dei nuovi che si presentavano alla soglia delle chiese - per il loro modello di vita lontano dalla norma riconosciuta, o anche per inezie.
«Teatrante» (v.5) è chi pensa in grande di sé e ha sempre la manìa di guardarsi attorno per convincersi di poter primeggiare - senza porsi in atteggiamento di riguardo nei confronti dell’enigma della vita, dove invece i fardelli possono tramutarsi in progresso.
Lo sguardo obbiettivo su noi stessi e la nostra crescita personale - spesso scaturita proprio da deviazioni a stereotipi o nomenclature - può renderci benevolenti. Può convincere di rispetto e perfino di ossequio dovuto, nei confronti del ‘di più’ che ci circonda e chiama.
Il legalismo dei dettagli ingessati porta infatti la trascuratezza dell’essenziale, nell’amore vicendevole (cf. vv.3-5).
Negli anni 70 del primo secolo la consapevolezza della diversa relazione famigliare e serena con Dio - e il modo nuovo di vivere la sua Legge - stava interrogando i credenti e coinvolgeva i rapporti con i fratelli e sorelle di comunità.
Dopo aver introdotto sia gl’inediti criteri di ‘Giustizia maggiore’ che il recupero dei princìpi della Creazione, l’evangelista suggerisce alcuni spunti essenziali per la qualità di vita interna delle fraternità.
L’estrazione culturale dei membri di chiesa anziani era di stampo accanitamente legalista. Tale bagaglio non favoriva la libertà delle valutazioni reciproche: la convivenza doveva essere più trasparente.
Per incoraggiare la comunione, Mt vuole presentare un Gesù libero e tranquillo - non superuomo, né idolo o modello: viceversa, Persona genuina; Maestro non unilaterale.
Egli infatti sapeva recuperare e desiderava valorizzare tutte le singole sensibilità, per consentire l’espressione dell’amicizia e dell’arricchimento in ogni realtà umana.
Solo la sua forte ‘radice’ nella relazione col Padre doveva essere di esempio sacro per ciascuno, e paragone inviolabile per tutti, sempre.
In Palestina il Signore non si era mostrato fondamentalista.
La «Fiducia» nel Padre e nella sua «vita che viene» donava al Figlio stesso la certezza di potersi totalmente aprire alle situazioni e a ciascuno - in qualsivoglia realtà si trovasse a districarsi.
Un’apertura conviviale alle differenze, per non bloccare i varchi e l’esito della Novità, nello Spirito delle Beatitudini.
Questo perché siamo stati chiamati a rendere esponenziale l’esistenza nostra e di tutti, non a smorzarla di preconcetti e convincimenti relativi.
Accettiamo la Provvidenza, noi stessi e l’altro così com’è: consapevoli che c’è un segreto prezioso, un destino inedito, un Mistero che ci supera… dietro ogni evento, in ognuno dei nostri stessi ‘volti intimi’ [sostenuti dal Padre], o nel fratello pur eccentrico.
I modi della sequela che risuonano in fondo al cuore sono tanto vari quante le persone, gli accadimenti, i ritmi commisurati all’anima, le età.
Essi abbracciano la medesima Proposta - senza che in tale poliedricità si perda il Mistero perdurante, né alcun legame.
Solo qui… Mondo reale, Persona, Natura ed Eternità si alleano.
[Lunedì 12.a sett. T.O. 23 giugno 2025]
Per una convivenza trasparente
(Mt 7,1-5)
Il Discorso della Montagna (Mt 5-7) elenca catechesi su questioni salienti del vissuto nelle comunità di Galilea e Siria - composte di giudei convertiti a Cristo.
Non mancavano episodi di disprezzo anche reciproco, acceso in specie da veterani abituati a mettere sotto inchiesta i nuovi che si presentavano alla soglia delle chiese - per il loro modello di vita lontano dalla norma riconosciuta, o anche per inezie.
Ma non siamo giudici, bensì famigliari. E certo, in ultima analisi è proprio la malizia che aguzza l’occhio sui minimi difetti altrui: in genere, pagliuzze e mancanze esterne.
Ciò mentre la medesima scaltrezza sorvola enormità proprie - pesantissima trave che ci separa non solo da Dio e da tutti, ma perfino da noi stessi, accostandoci all’io egoista e arrogante.
«Teatrante» (v.5) è chi pensa in grande di sé e ha sempre la manìa di guardarsi attorno per convincersi di poter primeggiare - senza porsi in atteggiamento di riguardo nei confronti dell’enigma della vita, dove invece i fardelli possono tramutarsi in progresso.
Lo sguardo obbiettivo su noi stessi e la nostra crescita personale - spesso scaturita proprio da deviazioni a stereotipi o nomenclature - può renderci benevolenti. Può convincere di rispetto e perfino di ossequio dovuto, nei confronti del di più che ci circonda e chiama.
Il legalismo dei dettagli ingessati porta infatti la trascuratezza dell’essenziale, nell’amore vicendevole (cf. vv.3-5).
Ben sappiamo quant’è dura metterci in discussione, o educare proprio i religiosi perfezionisti a successivi distacchi da loro convincimenti accidentali [o mode], diventati per abitudine sclerotici come totem.
Insomma, negli anni 70 del primo secolo la consapevolezza della diversa relazione famigliare e serena con Dio - e il modo nuovo di vivere la sua Legge - stava interrogando i credenti e coinvolgeva i rapporti con i fratelli e sorelle di comunità.
Dopo aver introdotto sia gl’inediti criteri di ‘Giustizia maggiore’ che il recupero dei princìpi della Creazione, l’evangelista suggerisce alcuni spunti essenziali per la qualità di vita interna delle fraternità.
L’estrazione culturale dei membri di chiesa anziani era di stampo accanitamente legalista.
Tale bagaglio non favoriva la libertà delle valutazioni reciproche: la convivenza doveva essere più trasparente.
I preconcetti devoti parevano un macigno insuperabile per la vita personalizzante e di condivisione reciproca secondo la nuova logica delle Beatitudini [Mt 5,1-12: Autoritratto di Cristo come ‘libro aperto’ (a colpi di lancia)].
Il bagaglio culturale legato agli adempimenti, al senso di dovere e gerarchia, allo stile di vita assuefatto, e alle credenze che facevano fatica a essere deposte, moltiplicava giudizi severi reciproci fra generazioni e tra variegate impostazioni culturali.
Per incoraggiare la comunione, Mt vuole presentare un Gesù libero e tranquillo - non superuomo, né idolo o modello: viceversa, Persona genuina; Maestro non unilaterale.
Egli infatti sapeva recuperare; desiderava valorizzare tutte le poliedriche, singole sensibilità, per consentire l’espressione dell’amicizia e dell’arricchimento in ogni realtà umana.
Solo la sua forte ‘radice’ nella relazione col Padre doveva essere di esempio sacro per ciascuno, e paragone inviolabile per tutti, sempre.
Ciò per una trasparenza ricca e globale, da proporre anche ai discepoli.
In tal guisa, non si configurava l’adesione a credenze particolari, né la ripetizione delle solite discipline di perfezione.
Neppure dovevano prediligersi le pie osservanze di massa, talora primo impedimento al dialogo e all’Esodo - nelle sue differenti opulenze.
Poi la vita stessa avrebbe guidato ciascuno in modo provvidente, verso una specifica testimonianza, che potesse essa stessa creare un’altra apertura - attinente il proprio carattere e vocazione d’anima.
In Palestina il Signore non si era mostrato ossessivo e unilaterale, né ridotto a schemi normali e verosimili - sulla base di codici culturali, prudenze valutative, o paradigmi morali e religiosi.
La fiducia nel Padre e nella vita che viene donava al Maestro Gesù la certezza di potersi totalmente aprire alle situazioni e a ciascuno - in qualsivoglia realtà si trovasse a districarsi.
Un’apertura conviviale alle differenze più eccezionali, per non bloccare i varchi e l’esito della Novità, nello Spirito delle Beatitudini.
Il senza-condizioni dell’Amore vale sempre in primis per il discepolo, i membri della medesima comunità, e il prossimo.
Questo perché siamo stati chiamati a rendere esponenziale l’esistenza nostra e di tutti, non a smorzarla con versioni glamour, o di preconcetti-a-monte, e convincimenti relativi.
Creati per amare la verità eccezionale della donna e dell’uomo, non per spegnere le unicità - sentenziando sui nonnulla.
Accettiamo la Provvidenza, noi stessi e l’altro così com’è: consapevoli che c’è un segreto prezioso, un destino di novità, un Mistero che ci supera… dietro ogni evento, in ognuno dei nostri stessi volti intimi [sostenuti dal Padre], o nel fratello pur eccentrico.
I modi della sequela che risuonano in fondo al cuore sono tanto vari quante le persone, gli accadimenti, i ritmi commisurati all’anima, le età.
Essi abbracciano la medesima Proposta - senza che in tale poliedricità si perda il Mistero perdurante, né alcun legame.
Solo qui… Mondo reale, Persona, Natura ed Eternità si alleano.
«Quando il tessitore alza un piede, l’altro si abbassa. Quando il movimento cessa e uno dei piedi si ferma, il tessuto non si fa più. Le sue mani lanciano la spola che passa dall’una all’altra; ma nessuna mano può sperare di tenerla. Come i gesti del tessitore, è l’unione dei contrari a tessere la nostra vita» [Tradizione orale africana Peul].
«Siamo assolutamente perduti se ci viene a mancare questa particolare Individualità, l’unica cosa che possiamo dire veramente nostra e la cui perdita costituisce anche una perdita per il mondo intero. Essa è preziosissima, appunto perché non è universale» [Tagore].
«Dobbiamo imparare ad abbandonare le nostre difese e il nostro bisogno di controllare, e fidarci totalmente della guida dello spirito» [Sobonfu Somé].
«La vera moralità non consiste nel seguire la via battuta, ma nel trovare il sentiero vero per noi e nel seguirlo senza paura» [Gandhi].
Travi e pagliuzze: situazione paradossale, dove talora c’è un eccesso di “credo” - eppure manca la Fede.
“Prestiamo attenzione”: la responsabilità verso il fratello.
Il primo elemento è l'invito a «fare attenzione»: il verbo greco usato è katanoein,che significa osservare bene, essere attenti, guardare con consapevolezza, accorgersi di una realtà. Lo troviamo nel Vangelo, quando Gesù invita i discepoli a «osservare» gli uccelli del cielo, che pur senza affannarsi sono oggetto della sollecita e premurosa Provvidenza divina (cfr Lc 12,24), e a «rendersi conto» della trave che c’è nel proprio occhio prima di guardare alla pagliuzza nell'occhio del fratello (cfr Lc 6,41). Lo troviamo anche in un altro passo della stessa Lettera agli Ebrei, come invito a «prestare attenzione a Gesù» (3,1), l'apostolo e sommo sacerdote della nostra fede. Quindi, il verbo che apre la nostra esortazione invita a fissare lo sguardo sull’altro, prima di tutto su Gesù, e ad essere attenti gli uni verso gli altri, a non mostrarsi estranei, indifferenti alla sorte dei fratelli. Spesso, invece, prevale l’atteggiamento contrario: l’indifferenza, il disinteresse, che nascono dall’egoismo, mascherato da una parvenza di rispetto per la «sfera privata». Anche oggi risuona con forza la voce del Signore che chiama ognuno di noi a prendersi cura dell'altro. Anche oggi Dio ci chiede di essere «custodi» dei nostri fratelli (cfr Gen 4,9), di instaurare relazioni caratterizzate da premura reciproca, da attenzione al bene dell'altro e a tutto il suo bene. Il grande comandamento dell'amore del prossimo esige e sollecita la consapevolezza di avere una responsabilità verso chi, come me, è creatura e figlio di Dio: l’essere fratelli in umanità e, in molti casi, anche nella fede, deve portarci a vedere nell'altro un vero alter ego, amato in modo infinito dal Signore. Se coltiviamo questo sguardo di fraternità, la solidarietà, la giustizia, così come la misericordia e la compassione, scaturiranno naturalmente dal nostro cuore. Il Servo di Dio Paolo VI affermava che il mondo soffre oggi soprattutto di una mancanza di fraternità: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (Lett. enc. Populorum progressio [26 marzo 1967], n. 66).
[Papa Benedetto, Messaggio per la Quaresima 2012]
Nella liturgia della parola il Vangelo di Luca ci ha riproposto l’interrogativo di Gesù: “Può forse un cieco guidare un altro cieco?” (Lc 6, 39). Il Signore intende dire che una guida non può essere cieca, deve vedere bene, se non vuol rischiare di arrecare danno alle persone che le sono state affidate. Gesù richiama così l’attenzione di tutti coloro che hanno compiti educativi o di comando: i pastori d’anime, i reggitori dei popoli, i legislatori, i maestri, i genitori, esortandoli ad avere coscienza, a sentire la responsabilità, a interrogarsi sulla strada giusta e a percorrerla essi stessi per primi.
3. E il percorso giusto è quello tracciato dal divin Maestro. Lo ha detto Lui stesso con un’espressione semitica, che suona così: “Il discepolo non è da più del maestro, ma ognuno ben preparato sarà come il suo maestro” (Lc 6, 40). Con essa Gesù si presenta come Modello e ci invita a seguire la sua condotta e i suoi insegnamenti. Solo così si è guide sicure e sagge. Gli insegnamenti del Signore, per quanto attiene alla vita morale, sono contenuti principalmente nel discorso della montagna, che da tre domeniche leggiamo nella celebrazione della Santa Messa. Nel brano d’oggi troviamo un’altra frase molto significativa, quella che esorta a non essere presuntuosi e ipocriti. “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non t’accorgi della trave che è nel tuo?” (Lc 6, 41). Com’è facile scorgere i difetti e i peccati altrui e non vedere i propri! E come possiamo accorgerci se il nostro occhio è libero o se è impedito da una trave? La verifica ci viene dalle nostre azioni. È ancora Gesù che ce lo dice: “Ogni albero si riconosce dal suo frutto” (Lc 6, 44). Il frutto sono le azioni, ma anche le parole. Anche da queste si conosce la qualità dell’albero. Infatti, chi è buono trae fuori dal suo cuore e dalla sua bocca il bene e chi è cattivo trae fuori il male. Questo insegnamento di Gesù fa eco agli antichi detti sapienziali del Siracide, che abbiamo ascoltato nella prima lettura: “Il frutto dimostra come è coltivato l’albero, così la parola rivela il sentimento dell’uomo” (Sir 27, 6).
[Papa Giovanni Paolo II, omelia a Corviale 1 marzo 1992]
Ci sono regole chiare suggerite da Gesù per non cadere nell’ipocrisia: non giudicare gli altri per non essere a nostra volta giudicati con la stessa misura; e quando ci viene la tentazione di farlo, è meglio guardarsi prima allo specchio, non per nasconderci con il trucco ma per vedere bene come siamo realmente. Ricordando che l’unico vero giudizio è quello di Dio con la sua misericordia, Papa Francesco — nella messa celebrata lunedì mattina 20 giugno nella cappella della Casa Santa Marta — ha raccomandato di non cedere alla tentazione di mettersi al posto del Signore, dubitando della sua parola.
«Gesù parla alla gente e insegna tante cose sulla preghiera, sulle ricchezze, sulle preoccupazioni vane, tante, su come deve comportarsi un suo discepolo» ha affermato Francesco. E così «arriva a questo passo del Vangelo sul giudizio», proposto dalla liturgia (Matteo, 7, 1-5). È un brano in cui «il Signore è molto concreto». Se infatti «alcune volte il Signore per farci capire ci racconta una parabola, qui è: “ta, ta, ta”: diretto, perché il giudizio è una cosa che può fare solo lui».
«Il fatto incomincia» con una parola chiara di Gesù: «Non giudicate, per non essere giudicati». Dunque, «se tu non vuoi essere giudicato non giudicare gli altri: “tac, tac”, chiaro». E il Signore «va un passo avanti», indicando appunto il criterio della misura: «Perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi».
«Tutti noi vogliamo, il giorno del giudizio, che il Signore ci guardi con benevolenza, che il Signore si dimentichi di tante cose brutte che abbiamo fatto nella vita» ha detto Francesco. E «questo è giusto, perché siamo figli, e un figlio dal padre si aspetta questo, sempre». Ma «se tu giudichi continuamente gli altri, con la stessa misura tu sarai giudicato: questo è chiaro».
«Primo, il comandamento, il fatto: “Non giudicate per non essere giudicati”» ha ribadito il Papa, aggiungendo: «Secondo, la misura sarà la stessa che voi usate per i fratelli». E poi «il terzo passo: guardati allo specchio ma non per truccarti perché non si vedano le rughe; no, no, no, quello non è il consiglio!». Piuttosto, ha suggerito Francesco, «guardati allo specchio per guardare te, come tu sei». Le parole di Gesù sono chiare: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? O come dirai a tuo fratello: “lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio” mentre nel tuo occhio c’è la trave?”».
«Come ci qualifica il Signore — si è chiesto il Pontefice — quando facciamo questo? Una sola parola: “Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”». In realtà, non dovrebbe sorprendere la reazione del Signore che «si arrabbia; è molto forte, e sembra anche che ci insulti: dice “ipocrita” a chi giudica gli altri».
La ragione è che «chi giudica — ha spiegato il Papa — si mette al posto di Dio, si fa Dio e dubita della parola di Dio». È proprio «quello che il serpente ha convinto a fare ai nostri padri: “No, no, Dio è un bugiardo, se voi mangiate di questo, sarete come lui”. E loro volevano mettersi al posto di Dio».
Per questo, ha insistito il Pontefice, «è tanto brutto giudicare: il giudizio solo a Dio, solo a lui!». A noi compete piuttosto «l’amore, la comprensione, il pregare per gli altri quando vediamo cose che non sono buone», se serve «anche parlare loro» per metterli in guardia se qualcosa non sembra andare per il verso giusto. In ogni caso «mai giudicare, mai», perché «se noi giudichiamo è ipocrisia».
Del resto, ha affermato Francesco, «quando giudichiamo ci mettiamo al posto di Dio, questo è vero, ma il nostro giudizio è un povero giudizio: mai, mai può essere un vero giudizio». Perché, appunto, «il vero giudizio è quello che dà Dio». E «perché il nostro non può essere come quello di Dio? Perché Dio è onnipotente e noi no? No, perché al nostro giudizio manca la misericordia». E «quando Dio giudica, giudica con misericordia».
In conclusione il Papa ha suggerito di pensare «oggi a questo che il Signore ci dice: non giudicare, per non essere giudicato; la misura con la quale giudichiamo sarà la stessa che useranno con noi; e, terzo, guardiamoci allo specchio prima di giudicare». E così quando ci viene da dire: «questa fa quello, questo fa quello», è meglio guardarsi allo specchio prima di parlare. Altrimenti «sarò un ipocrita — ha ripetuto Francesco — perché mi metto al posto di Dio». E comunque «il mio giudizio è un povero giudizio: manca qualcosa di tanto importante che ha il giudizio di Dio, manca la misericordia». Il Signore, ha auspicato il Papa, «ci faccia capire bene queste cose».
[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 20/06/2016]
Corpus Domini
(Lc 9,11b-17)
Il Vaticano II non ha speso una sola parola riguardo le molteplici devozioni eucaristiche.
Per farci comprendere appieno la Persona del Cristo, i padri conciliari avevano ben presente che Gesù non ha lasciato una statua o una reliquia.
Ha preferito esprimersi in un gesto, che ci interpella.
Nel mondo ebraico, di sera ogni famiglia si ritrovava attorno alla mensa, e quello dello spezzare il pane era il momento più significativo della loro esperienza di convivialità (e di memoria della consegna di sé agli altri).
L’unico pane veniva frazionato e condiviso fra tutti i famigliari - ma anche un povero affamato poteva affacciarsi all’uscio, che non doveva venire serrato.
Pane e vino, prodotti che avevano assimilato le energie del cielo e della terra, erano percepiti con sensibilità spirituale - doni del Creatore per la vita e la gioia dell’umanità.
In quella cultura, il pane è cibo base. Ma la nostra vita è completa solo se c’è anche l’elemento della festa: ecco il vino.
Il pane ancora oggi non viene tagliato con un coltello, per rispettarne la sacralità: solo spezzato. Esso contiene l’esistere concreto.
Per questo Gesù sceglie il Banchetto come segno della sua Persona, vita, parola, vicenda rischiosa, donate in alimento.
Durante la cena in famiglia, pane e vino non venivano percepiti al pari della manna, ossia come prodotti naturali e grezzi. Neppure era un nutrirsi per ricuperare le forze, e basta.
Nel frumento e nell’uva si erano dati appuntamento anche tutti i variegati contributi del focolare domestico.
Attorno alla mensa, ciascun uomo vedeva nel pane e nel vino il frutto del suo lavoro: pulitura del terreno, aratura, seminagione, mietitura, potature, vendemmia e opera di torchio.
La donna coglieva nel pane il suo lavoro di macinatura, impastatura, cottura. Anche i minori potevano ricordare qualcosa di proprio, perché i ragazzetti si prestavano ad attingere acqua.
La cena era una celebrazione dell’armonia. La mensa era appunto un luogo in cui i giovani venivano educati alla percezione dell’esistere nell’unità, invece che nel disinteresse.
Gratitudine verso i doni di Dio e percezione del proprio apporto, che giunge (realmente) all’obiettivo nello spirito di sinergia e comunione.
Contributi, risorse e capacità convenivano a porgersi in servizio, per la vita di tutti.
Nel gesto eucaristico Gesù dice: cieli e terra nuovi non corrispondono al mondo in cui ciascuno si affretta a mietere per sé o la sua cerchia, onde accaparrarsi il massimo delle risorse.
Il suo Regno? Tutti invitati e fratelli concordi, nessuno padrone o dominatore - destinato a stare davanti o sopra (anche se più svelto degli altri) persino in Cielo.
Anche gli Apostoli - chiamati da Gesù con sé ma ancora rimasti a distanza di sicurezza da Lui (cf. Lc 9,10.12) - non sono i proprietari del Pane, bensì coloro che lo devono porgere a tutti (vv.13.16), per creare abbondanza dov’essa non c’è.
Nel brano di Lc Gesù suscita sconcerto. Non è d’accordo con l’idea che ciascuno s’arrangi; neppure gli va a genio l’elemosina (vv.12-13).
Impone ai suoi che la folla si sdrai (v.14 testo greco) come facevano i signori e le persone libere nei momenti solenni.
Vuole e insiste che siano anzitutto gli apostoli a servire (vv.13.16), non altri schiavi.
E forse la cosa più sbalorditiva è che a nessuno dei presenti impone gesti preventivi di purificazione, com’era abitudine nella religiosità tradizionale.
Prima del pasto essa postulava l’abluzione: una sorta di cerimonia che sottolineasse un distacco sacrale fra puro e impuro.
Unico compito degli apostoli è quello di distribuire l’Alimento - poi da sminuzzare, vagliare e assimilare, per edificare un nuovo Regno - non fare radiografie preventive; tantomeno interessate.
In religione abbiamo una lunga trafila di adempimenti da osservare per presentarci a cospetto di Dio.
Nel cammino di Fede è l’incontro gratuito col Signore che fa crescere, rendendoci puri senza condizioni.
Appello alla Convivialità reale, e Richiamo sempreverde a non accontentarsi.
(Lc 9,11b-17)
Alimento moltiplicato perché distribuito: Richiamo a non accontentarsi
Il Vaticano II non ha speso una sola parola riguardo le molteplici devozioni eucaristiche.
Per farci comprendere appieno la Persona del Cristo, i padri conciliari avevano ben presente che Gesù non ha lasciato una statua o una reliquia. Ha preferito esprimersi in un gesto, che ci interpella.
Nel mondo ebraico, di sera ogni famiglia si ritrovava attorno alla mensa, e quello dello spezzare il pane era il momento più significativo della loro esperienza di convivialità (e di memoria della consegna di sé agli altri).
L’unico pane veniva frazionato e condiviso fra tutti i famigliari - ma anche un povero affamato poteva affacciarsi all’uscio, che non doveva venire serrato.
Pane e vino, prodotti che avevano assimilato le energie del cielo e della terra, erano percepiti con sensibilità spirituale - doni del Creatore per la vita e la gioia dell’umanità.
In quella cultura, il pane è cibo base. Ma la nostra vita è completa solo se c’è anche l’elemento della festa: ecco il vino.
Il pane ancora oggi non viene tagliato con un coltello, per rispettarne la sacralità: solo spezzato. Esso contiene l’esistere concreto.
Per questo Gesù sceglie il Banchetto come segno della sua Persona, vita, parola, vicenda rischiosa, donate in alimento.
Durante la cena in famiglia, pane e vino non venivano percepiti al pari della manna, ossia come prodotti naturali e grezzi. Neppure era un nutrirsi per ricuperare le forze, e basta.
Nel frumento e nell’uva si erano dati appuntamento anche tutti i variegati contributi del focolare domestico.
Attorno alla mensa, ciascun uomo vedeva nel pane e nel vino il frutto del suo lavoro: pulitura del terreno, aratura, seminagione, mietitura, potature, vendemmia e opera di torchio.
La donna coglieva nel pane il suo lavoro di macinatura, impastatura, cottura. Anche i minori potevano ricordare qualcosa di proprio, perché i ragazzetti si prestavano ad attingere acqua (se non ai pozzi, a una sorgente).
La cena era una celebrazione dell’armonia. La mensa era appunto un luogo in cui i giovani venivano educati alla percezione dell’esistere nell’unità, invece che nel disinteresse.
Gratitudine verso i doni di Dio e percezione del proprio contributo, ch’era giunto (realmente) all’obiettivo nello spirito di sinergia e comunione.
Contributi, risorse e capacità convenivano a porgersi in servizio, per la vita di tutti.
Nel gesto eucaristico Gesù dice: cieli e terra nuovi non corrispondono al mondo in cui ciascuno si affretta a mietere per sé o la sua cerchia, onde accaparrarsi il massimo delle risorse.
Il suo Regno? Tutti invitati e fratelli concordi, nessuno padrone o dominatore - destinato a stare davanti o sopra (anche se più svelto degli altri) persino in Cielo.
Anche gli Apostoli - chiamati da Gesù con sé ma ancora rimasti a distanza di sicurezza da Lui (cf. Lc 9,10.12) - non sono i proprietari del Pane, bensì coloro che lo devono porgere a tutti (vv.13.16), per creare abbondanza dov’essa non c’è.
Per animare gli incontri sul tema dell’Eucaristia e interiorizzare come nella stessa Chiesa Cattolica ci sia stata un’evoluzione nella comprensione dell’efficacia del Segno, uso comparare due grandi opere d’arte.
Raffaello nella cosiddetta Disputa del Sacramento raffigura un mondo sacrale e statico. Oggi diremmo (a colpo d’occhio) quasi plastificato.
Ambiente che sembra tutto prevedibile e comunque caratterizzato da un modello sociale, culturale e spirituale situato; dove ciascuno è collocato in base a origini, posizione, status, rango spirituale.
Arcabas - artista francese recentemente scomparso - dipinge un quadro che sembra privo di Protagonista: come tagliato, o (meglio) focalizzato sul semplice gesto. A dire: il contorno di addobbi non riguarda questa proposta di vita.
Nell’opera del pittore contemporaneo cogliamo la sobrietà di una Persona e d’una missionarietà ben centrata (che graffia, ma ci fa perdere la testa assai più delle belle sceneggiature); perché nel mondo dell’Amore il meglio deve ancora Venire.
Siamo interrogati.
Arcabas illustra una tavola semplicemente imbandita: un piatto non certo della migliore collezione, un bicchiere di vino senza fronzoli, una tovaglia semplicemente appoggiata alla mensa e connotata dalle sue piegature (neanche stirate) che ricordano il quotidiano reale.
E soprattutto il gesto normale dello spezzare il pane, quello del passo dopo passo, con le sue briciole non vaporose né candide. Il Banchetto eucaristico non è per l’aldilà - chissà quando.
(Per quasi mille anni la Chiesa cattolica ha celebrato con il pane quotidiano come ancora fa ad es. la Chiesa ortodossa. A testimonianza, ci sono rimasti vassoi-patena molto ampi, oggi ridotti a un piattello).
Nel brano di Lc Gesù suscita sconcerto. Non è d’accordo con l’idea che ciascuno s’arrangi; neppure gli va a genio l’elemosina (vv.12-13).
Impone ai suoi che la folla si sdrai (v.14 testo greco) come facevano i signori e le persone libere nei momenti solenni.
Vuole e insiste che siano anzitutto gli apostoli a servire (vv.13.16), non altri schiavi.
E forse la cosa più sbalorditiva è che a nessuno dei presenti impone gesti preventivi di purificazione, com’era abitudine nella religiosità tradizionale.
Prima del pasto essa postulava l’abluzione: una sorta di cerimonia che sottolineasse un distacco sacrale fra puro e impuro.
(Il Cristo neppure gradisce che i percorsi di ciascuno siano assoggettati a osservatori esterni, esperti che impongano astratti princìpi e un ritmo disumanizzante, non commisurato alla persona).
Unico compito degli apostoli è quello di distribuire l’Alimento - poi da sminuzzare, vagliare e assimilare, per edificare un nuovo Regno - non fare radiografie preventive; tantomeno interessate.
Criterio assoluto e non negoziabile è la pienezza di vita dell’ultimo arrivato; il viceversa sarebbe (davvero) una valle di lacrime, venata d’insoddisfazione e scontento.
In religione abbiamo una lunga trafila di adempimenti da osservare per presentarci a cospetto di Dio.
Nel cammino di Fede è l’incontro gratuito col Signore che fa crescere, rendendoci puri senza condizioni.
Anche nella Disputa del Sacramento il più prossimo all’Altare (quasi a identificarsi) è s. Francesco, accovacciato al di sotto del piano della Mensa. Anche lui un reduce.
Lo sguardo verso l’esterno dell’alter-Christus incrocia e richiama l’attenzione di due giovani collocati sulla nostra sinistra a metà prospettiva, altrettanto accovacciati - e soverchiati da personaggi di alto rango spirituale.
Morale: l’Eucaristia non è un premio per i giusti, bensì (lì dove e come siamo) un Appello alla Convivialità reale. Richiamo sempreverde a non accontentarsi.
(Gv 13,1-15)
Fiducia integrale: l’Azione emblematica, che genera incontaminati
Introduciamo il senso della Lavanda dei piedi da parte del Signore, gesto emblematico che i Sinottici evocano nella Frazione del Pane.
Anticamente in Israele la famiglia patriarcale, il clan e la comunità erano la base della convivenza sociale.
Garantivano la trasmissione dell’identità di popolo e assicuravano protezione agli afflitti.
Difendere il clan era anche un modo concreto di confermare la Prima Alleanza.
Ma al tempo di Gesù la Galilea soffriva sia la segregazione dettata dalla politica di Erode Antipas che l'oppressione della religiosità ufficiale.
Il collaborazionismo smidollato del sovrano aveva accentuato il numero dei senza tetto e privi d’impiego.
La congiuntura politica ed economica obbligava le persone a ripiegarsi sui problemi materiali e individuali o di famiglia ristretta.
Un tempo, il collante identitario del clan e della comunità garantivano un carattere (interno) di nazione solidale, espresso nella difesa e soccorso prestati ai meno abbienti del popolo.
Ora tale legame fraterno risultava indebolito, ingessato, quasi contraddetto - anche a motivo dell’atteggiamento severo delle autorità religiose, fondamentaliste e amanti d’un purismo saccente, contrario al mischiarsi coi ceti meno abbienti.
La Legge (scritta e orale) finiva per essere usata non per favorire l’accoglienza degli emarginati e bisognosi, ma per accentuare i distacchi e la ghettizzazione.
Situazione che stava portando al collasso delle fasce di popolazione meno tutelate.
Insomma la devozione tradizionale - amante dell’alleanza fra trono e altare - invece di rafforzare il senso comunitario veniva usata per accentuare le gerarchie; come arma che legittimasse tutta una mentalità di esclusioni (e confermasse la logica imperiale del dividi et impera).
Gesù vuole invece tornare al Sogno del Padre: quello ineliminabile della fraternità, unico suggello alla storia della salvezza.
Secondo una felice espressione di Origene, l’Eucaristia è la ferita del costato di Cristo sempre aperta; ma il Vaticano II non ha speso una sola parola riguardo le molteplici devozioni eucaristiche.
Per farci comprendere appieno la sua Persona, i padri conciliari avevano ben presente che Gesù non ha lasciato una statua o una reliquia. Ha preferito esprimersi in un gesto, che ci interpella.
Nel mondo ebraico, di sera ogni famiglia si ritrovava attorno alla mensa, e spezzare il pane era il momento più significativo della loro esperienza di convivialità (e memoria della consegna di sé agli altri).
L’unico pane veniva frazionato e condiviso fra tutti i famigliari - ma anche un povero affamato poteva affacciarsi all’uscio, che non doveva venire serrato.
Pane e vino, prodotti che avevano assimilato le energie del cielo e della terra, erano riconosciuti con sensibilità spirituale - doni del Creatore per la vita e la gioia dell’umanità.
In quella cultura, il pane è cibo base. Ma la nostra vita è completa solo se c’è anche l’elemento della festa: ecco il vino.
Il pane ancora oggi non viene tagliato con un coltello, per rispettarne la sacralità: solo frazionato. Esso contiene l’esistere concreto.
Per questo Gesù sceglie il Banchetto come segno della sua Persona, vita, parola, vicenda rischiosa e nuova felicità, donate in alimento.
Durante la cena in famiglia, pane e vino non venivano percepiti al pari della manna, ossia come prodotti naturali e grezzi. Neppure era un nutrirsi per ricuperare le forze, e basta.
Nel frumento e nell’uva si erano dati appuntamento anche tutti i variegati contributi del focolare domestico.
Attorno alla mensa, ciascun uomo vedeva nel pane e nel vino il frutto del suo lavoro: pulitura del terreno, aratura, seminagione, mietitura, potature, vendemmia e opera di torchio.
La donna coglieva nel pane la sua fatica: macinatura, impastatura, cottura. Anche i minori potevano ricordare qualcosa di proprio, perché i ragazzetti si prestavano (ad es. attingere acqua).
La cena era una celebrazione dell’armonia. La mensa era appunto un luogo in cui i giovani venivano educati alla percezione dell’esistere nell’unità, invece che nel disinteresse.
Ciò con gratitudine verso i doni di Dio e percezione del proprio apporto, che era giunto (realmente) all’obiettivo, nello spirito di sinergia e comunione.
Contributi, risorse e capacità convenivano a porgersi in servizio, per la vita di tutti.
Nel gesto eucaristico Gesù dice: cieli e terra nuovi non corrispondono al mondo in cui ciascuno si affretta a mietere per sé o la sua cerchia, onde accaparrarsi il massimo delle risorse.
Il suo Regno? Tutti invitati e fratelli concordi, nessuno padrone o dominatore - destinato a stare davanti o sopra (sebbene più svelto degli altri) persino in Cielo.
Anche gli Apostoli - chiamati da Gesù con sé ma ancora rimasti a distanza di sicurezza da Lui (cf. es. Lc 9,10.12) - non sono i proprietari del Pane, bensì coloro che lo devono porgere a tutti (vv.13.16), per creare abbondanza dov’essa non c’è.
Per animare gli incontri sul tema dell’Eucaristia e interiorizzare come nella stessa Chiesa Cattolica ci sia stata un’evoluzione decisiva per la comprensione dell’efficacia del Segno, uso comparare due grandi opere d’arte.
Raffaello nella cosiddetta Disputa del Sacramento raffigura un mondo sacrale e statico. Oggi diremmo (a colpo d’occhio) quasi plastificato.
Ambiente che sembra tutto prevedibile e comunque caratterizzato da un modello sociale, culturale e spirituale situato; dove ciascuno è collocato in base a origini, posizione, status e rango.
Arcabas - artista francese recentemente scomparso - dipinge un quadro che sembra privo di esclusivi, distinti e titolati protagonisti: come tagliato sopra, o (meglio) focalizzato sul semplice gesto.
A dire in modo eloquente: il contorno di addobbi sfarzosi o ruoli di rilievo non riguarda questa proposta di vita!
Nell’opera del pittore contemporaneo cogliamo la sobrietà di una Persona e d’una missionarietà ben centrata (che graffia, ma ci fa perdere la testa assai più delle belle sceneggiature); perché nel mondo dell’Amore il meglio deve ancora arrivare.
Siamo interrogati senza posa...
Arcabas illustra una tavola semplicemente imbandita: un piatto non certo della migliore collezione, un bicchiere di vino senza fronzoli, una tovaglia semplicemente appoggiata alla mensa e connotata dalle sue piegature (neanche stirate) che ricordano il quotidiano reale.
E soprattutto il gesto normale dello spezzare il pane, quello del passo dopo passo, con le sue briciole non vaporose né candide. A dire: il Banchetto eucaristico che non è per l’aldilà - chissà quando.
(Per quasi mille anni la Chiesa cattolica ha celebrato con il pane quotidiano come ancora fa ad es. la Chiesa ortodossa. A testimonianza, ci sono rimasti vassoi-patena molto ampi, oggi ridotti a un piattello).
Giunge l’«Ora»... Azione emblematica, in Gv - che non racconta formalmente l’istituzione dell’Eucaristia.
Ecco il senso dello spezzare il pane: cosa comporta entrare in comunione, per l’apostolo che rovescia le gerarchie e sovverte i criteri di purità, uniformità, compattezza e gloria.
Nel quarto Vangelo vengono proclamate solo due Beatitudini:
«In verità, in verità vi dico, non c’è servo più grande del suo signore, né inviato più grande di chi lo ha mandato. Se sapete queste cose, siete beati se le fate» (Gv 13,16-17).
E a Tommaso: «Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29b) - non perché lo sforzo sia un mezzo per accumulare dolori e meriti, e così piacere a Dio.
Le due Beatitudini di Gv garantiscono i binari sui quali il credente trova la sua realizzazione piena e lo stupore della felicità: la pratica della carità che recupera tutto l’essere disperso (anche altrui), nell’avventura della Fede.
Prima e durante i pasti rituali, i pii d’Israele compivano abluzioni con acqua, per celebrare il distacco fra sacro e profano, puro e impuro.
Al capotavola le mani venivano lavate da un servo o dal più giovane dei convitati.
Con Gesù la tradizione viene scardinata dall’interno - da lasciare attoniti.
Per un giudeo il lavaggio altrui era un gesto che si doveva rifiutare di eseguire, anche se ridotto in schiavitù, per non disonorare il popolo. Invece il Messia si prostra e ha la libertà di prestarsi a lavare (neppure le mani, ma) i piedi.
Rivelazione assurda del Volto di Dio, che sgretola innumerevoli manierismi, speranze di prestigio artefatto, atti di sottomissione, grotteschi riconoscimenti - avanzati da prìncipi della chiesa.
Non solo un invito a servire il prossimo... gesto da imitare che proclama il carattere di umile servizio del ministero: è anche segno di purificazione dei suoi - come un nuovo Battesimo, che fa immediatamente partecipi del mondo di Dio.
Questo «lavare» è figura della Persona e della Missione del Figlio in favore degli uomini - tutti ora abilitati a passare (e far passare il prossimo) da questo assetto al Regno del Padre.
Il Maestro unisce a sé un gruppo di discepoli - anche poco convinti, ma resi puri - non perché mira a formare una scuola, distinta da altre o persino unilaterale, ma per introdurli nell’Amore, nel passaggio dalla schiavitù alla libertà del Gratis (che scende).
Dio non identifica le persone, né sovrappone un suo pensiero alla storia e sensibilità della gente. Chinandosi valica i ruoli, lo spirito di club, le stesse idee, e i certificati. Iniziativa - questa sì - esemplare.
Egli infatti nel suo Esodo traccia il nuovo cammino del popolo, anche di quello che si schiera contro - e ciò sconcerta, sembra inaccettabile. Pietro smania per comandare: non ci sta a introdursi in una logica che manifesti (nei dirigenti di comunità!) un Dio servitore degli uomini, indipendente dai loro trascorsi.
Abbassandosi al livello dello schiavo che depone le vesti, il Signore vuole umanizzarci recuperando invece gli opposti, radicati in ciascuno...
Egli ammette persino la contestazione - evidenziandola e sanandola (a meno che non si resti come Giuda pervicacemente legati a seduzioni esterne e false guide spirituali - ai cliché dell’appartenenza-tornaconto).
Infine Gesù non si toglie il grembiule, prima di rimettersi le vesti: è l’unica divisa che gli appartiene. Quel genere di vestiario gli rimane addosso: lo porta anche in Paradiso.
Non ha messo in scena la parte dell’inserviente, per tornare in cielo a spadroneggiare. Non condiziona nessuno.
La Vita del Padre c’insegue su ogni percorso, per farci sentire adeguati: Un-Corpo-Solo col Figlio, cui ha consegnato tutto nelle mani (v.3).
Fioritura totale anche per noi; indistruttibile, eminente, in se stessa priva di germi mortiferi occulti.
La sua Fiducia si trasmette nella storia della salvezza e si dispiega agli indecisi e imperfetti, ma suoi consanguinei nel Figlio. Pronto a innalzarci verso un’esistenza che non spegne più l’essere - e noi desiderosi di farlo fiorire, invece di boicottarlo o prenderlo in prestito.
Figli adottivi: non è una diminuzione, ma il riconoscimento insigne di una uguaglianza che non stride.
Anticamente, quando un sovrano designava il successore al trono, non di rado nominava dignitario un valoroso più affidabile del congiunto in linea naturale (spesso intrigante, viziato, stufo di esistere, parassita e stanco della sua stessa prosperità).
Dio non ci fa coincidere a forza. Piegandosi scavalca lo spirito di club, le parti, i personaggi e tutti i salvacondotti.
Questo il “servizio” dei discepoli, da espletare con la vita e l’annuncio della lieta notizia: far conoscere che il Padre non è il Dio selettivo della religione, bensì amante incondizionato dell’uomo.
L’amore si comunica da pari a pari ed ha il medesimo passo della vita: essa non può essere imbrigliata da opinioni ereditate o convenzioni fisse, né assoggettata a narrazioni casistiche.
Solo la consapevolezza di una libertà che permane ci porterà a gesti di completezza nitida, non per un vantaggio opportunista e individuale, bensì a favore della Gioia (pienezza di essere e intensità di relazione).
Solo la stima che il Padre riconosce a ciascuno conduce i figli e le loro storie verso atti di convivialità e recuperi inspiegabili.
Gesù che lava i piedi raffigura il segreto della vita beata ch’espande la via dell’io in quella del Tu: essere genuini e liberi fino a chinarsi per servire, approvando ogni cammino particolare (i piedi di ciascuno).
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come vivi in Cristo la tua responsabilità e la tua personalità secondo i vv.3-4? Dopo l’Eucaristia fai come Gesù o deponi subito il grembiule?
Paolo VI stated that the world today is suffering above all from a lack of brotherhood: “Human society is sorely ill. The cause is not so much the depletion of natural resources, nor their monopolistic control by a privileged few; it is rather the weakening of brotherly ties between individuals and nations” (Pope Benedict)
Paolo VI affermava che il mondo soffre oggi soprattutto di una mancanza di fraternità: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (Papa Benedetto)
Dear friends, this is the perpetual and living heritage that Jesus has bequeathed to us in the Sacrament of his Body and his Blood. It is an inheritance that demands to be constantly rethought and relived so that, as venerable Pope Paul VI said, its "inexhaustible effectiveness may be impressed upon all the days of our mortal life" (Pope Benedict)
Questa, cari amici, è la perpetua e vivente eredità che Gesù ci ha lasciato nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Eredità che domanda di essere costantemente ripensata, rivissuta, affinché, come ebbe a dire il venerato Papa Paolo VI, possa “imprimere la sua inesauribile efficacia su tutti i giorni della nostra vita mortale” (Papa Benedetto)
The road that Jesus points out can seem a little unrealistic with respect to the common mindset and to problems due to the economic crisis; but, if we think about it, this road leads us back to the right scale of values (Pope Francis)
La strada che Gesù indica può sembrare poco realistica rispetto alla mentalità comune e ai problemi della crisi economica; ma, se ci si pensa bene, ci riporta alla giusta scala di valori (Papa Francesco)
Our commitment does not consist exclusively of activities or programmes of promotion and assistance; what the Holy Spirit mobilizes is not an unruly activism, but above all an attentiveness that considers the other in a certain sense as one with ourselves (Pope Francis)
Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro considerandolo come un’unica cosa con se stesso (Papa Francesco)
The drama of prayer is fully revealed to us in the Word who became flesh and dwells among us. To seek to understand his prayer through what his witnesses proclaim to us in the Gospel is to approach the holy Lord Jesus as Moses approached the burning bush: first to contemplate him in prayer, then to hear how he teaches us to pray, in order to know how he hears our prayer (Catechism of the Catholic Church n.2598)
L’evento della preghiera ci viene pienamente rivelato nel Verbo che si è fatto carne e dimora in mezzo a noi. Cercare di comprendere la sua preghiera, attraverso ciò che i suoi testimoni ci dicono di essa nel Vangelo, è avvicinarci al santo Signore Gesù come al roveto ardente: dapprima contemplarlo mentre prega, poi ascoltare come ci insegna a pregare, infine conoscere come egli esaudisce la nostra preghiera (Catechismo della Chiesa Cattolica n.2598)
If penance today moves from the material to the spiritual side, let's say, from the body to the soul, from the outside to the inside, it is no less necessary and less feasible (Pope Paul VI)
Se la penitenza si sposta oggi dalla parte, diciamo, materiale a quella spirituale, dal corpo all’anima, dall’esterno all’interno, non è meno necessaria e meno attuabile (Papa Paolo VI)
don Giuseppe Nespeca
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