Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
(Gv 10,31-42)
«Non ti lapidiamo per un’opera splendida, ma per bestemmia, e poiché tu che sei uomo fai te stesso Dio» (v.33).
Il sottofondo teologico del passo è la festa della Dedicazione, durante la quale si leggeva fra l'altro il passo di Ez 34 che presenta l’Eterno come «il» Pastore autentico e vero.
L’intento del quarto Vangelo non è quello particolare di convertire Ebrei, piuttosto di rafforzare la Fede nella Persona del Consacrato del Signore che si proclamava «Figlio».
Il Richiamo è alle chiese giovannee dell’Asia Minore. E in Gv il termine «Giudei» indica non il popolo, bensì le guide spirituali.
A loro cospetto un Gesù “blasfemo” rivendica la mutua immanenza col Padre, e osa dilatare a noi i confini del Mistero che lo avvolge e riempie.
Sembrava un sacrilegio - soprattutto per i coinvolti nell’istituzione ufficiale.
La condizione divina che si manifesta nella pienezza umana viene rifiutata dai capi religiosi. Ciò in nome dell’adesione all’Eterno, immaginato distante e antico.
[Nei casi “interni” alle prime assemblee - di veterani che già avevano conquistato posizioni di rilevo - li vede tentennanti].
Dover vigilare sull’ortodossia della dottrina è sempre un pretesto per diminuire ogni principiante, o la persona malferma - e la sua franchigia, che escluderebbe una struttura di “mediazione”, anzitutto i suoi vertici.
Niente di eccezionale, ma mette paura agli installati.
Il salmo 82 recita: «Io ho detto: Voi siete dèi, siete tutti figli dell’Altissimo».
Il riferimento poetico dell’inno è ai dirigenti e giudici d’Israele, ma Gesù che amava autodefinirsi «Figlio dell’uomo» lo estende - fuori dell’élite - agli inviati del Padre, a coloro che accolgono la sua Parola.
Se in qualche modo la divinità può essere attribuita agli agenti di Dio (non solo leaders) tanto più essa può essere assegnata alla Parola stessa di Dio - e ai figli che la recano, tutti degni di confidenza eminente.
Il contrappunto fra «opere» di condanna e di sola vita è figura del passaggio dalla religiosità comune alla vita di Fede personale.
Essa va a sottolineare il carattere di chi rappresenta il Padre e porge l’Opera divina, esclusivamente buona e di liberazione.
Le autorità rigettano il Figlio in nome dell’Altissimo, e della fedeltà all’idea tradizionale. Pensiero ancorato all’immagine irriducibile del Re vincitore, da cui scaturisce un certo tipo di società competitiva, spietata anche nella vita spirituale - già in via d’estinzione.
Secondo Gesù l’Eterno non è rivelato da ragionamenti e argomentazioni cerebrali, né da dottrine, codici orali e scritti, o discipline, bensì dalla qualità indistruttibile delle opere «belle» (vv.32-33) che sono «dal Padre» (v.32).
Il termine greco sta a indicare il senso di pienezza e meraviglia - verità, bontà, fascino, stupore - che emana dall’unica “azione” richiesta in qualsiasi «opera» di rilievo o minuta: l'amore che risuscita il bisognoso.
E la Scrittura riconosce in ciascuno di noi questa sacra scintilla, che dà a tutti gli accadimenti e alle emozioni il passo della Vertigine: capogiro che supera le cose circostanti [o il “come dovrebbero essere” fatte].
Certo, a nostro sostegno abbiamo bisogno d’un Volto, di una relazione e vicenda di stretta parentela per identificare ciò che ci muove, per scrutare dentro quel che appare o viene suscitato.
L’Unità di nature - Lui in noi e noi col Padre - ci corrisponde nel Volto del Cristo.
Tale reciprocità si rende manifesta nell’ascoltare, accogliere, non precipitarsi a condannare - piuttosto, rendere colma (e incredibile) la “perdita”. E forte il debole.
La simbiosi con Dio nelle nostre attività, col nostro modo di proporre o reagire, durante tutta la nostra vita, dispiega in ciascun figlio la sua Somiglianza, anche nelle circostanze difficili.
Non sarà il linguaggio della “lettera”, ma il senso vivo e leale della verità-disalienazione, che rivela il mistero d’amore della vita intima dell’Onnipotente.
Nessun cumulo di sassi (v.31) potrà seppellire l’anelito divino e la testimonianza di chi viene «da» Lui.
Anche se qualcuno uccidesse i figli, parlerebbero le loro «molte e splendide opere» (v.32).
Alcuni - interessati - tentano d’immobilizzare il Verbo che agisce in noi: il Logos partecipe di Comunione, fonte della Luce e della Vita.
I detrattori fanno ancora leva sull’atmosfera ostile della religiosità cruda, del vanitoso centro sacro, della città eterna… Ebbene, i figli intimi troveranno accoglienza altrove, in territorio straniero «al di là del Giordano» (v.40).
Ogni cosa che accade, anche le persecuzioni e i tentativi di omicidio per incomprensione o invidia [persino spirituale], tutto può essere guardato in un’altra ottica.
Sono eventi, accadimenti esterni che attivano energie complessive: si fanno cosmiche fuori e acutamente divine in noi.
Più che pericoli e fastidi, tracciano un destino di Esodo - come un fiume che trasporta, ma che in Cristo ci scampa dalle mani d’una stasi mortifera (v.39), e risintonizza mirabilmente sulle forze che guidano alle periferie - dove dobbiamo andare.
È come Presenza divina e Azione fuori del comune, Guida infallibile del mondo interiore - che ricolloca in missione e alla ricerca della libertà più sacra.
Abbiamo bisogno di un Altro punto di vista, che orienti in modo assai più ricco, e in relazione alla marea che si affaccia - per cogliere l’insegnamento nascosto.
L’anima non sbaglia, e ciò che recano le circostanze può essere sempre reso funzionale.
Tale ottica di Fede inclusiva riavvicina alla Sorgente dell’essere, e dell’essenza particolare; accosta alle Radici che vivono dentro e nella natura delle cose.
Spesso l’io è assorbito dal mondo esteriore o dalle memorie; anche da falsi insegnamenti.
Ma la Fonte dell’essere nelle potenze cosmiche e l’Io intimo agiscono al di là - ci portano altrove dalle solite proposte, dalle usuali reazioni e interventi [altrui e sotto condizione].
Per quanto note, meravigliose e scintillanti, le storie del passato devono rimanere nel passato.
Sia i desideri che i disagi ci guideranno lontano.
Non siamo usurpatori della gloria celeste, bensì incessanti restauratori del valore della dignità, della promozione, dell’Amicizia: la più sfolgorante e umanizzante delle Opere divine.
Dice il Tao Tê Ching (LIX): «Chi possiede la madre del regno può durare a lungo. Questo si chiama affondare le radici e rinsaldare il tronco, Via della lunga vita e dell’eterna giovinezza».
Commenta questo passo il maestro Ho-Shang Kung: «Il regno e la persona sono simili, la madre è la Via».
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Perché Gesù parla con distacco di «vostra legge» proprio rivolgendosi ai maestri spirituali più rinomati?
Quale Immagine di Dio ti abita? È radicale, splendida d’amore, d’Esodo e novità, o di trastulli?
Il Vangelo […] propone un duplice comandamento sulla fede: credere in Dio e credere in Gesù. Il Signore, infatti, dice ai suoi discepoli: «Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me» (Gv 14,1). Non sono due atti separati, ma un unico atto di fede, la piena adesione alla salvezza operata da Dio Padre mediante il suo Figlio Unigenito. Il Nuovo Testamento ha posto fine all’invisibilità del Padre. Dio ha mostrato il suo volto, come conferma la risposta di Gesù all’apostolo Filippo: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). Il Figlio di Dio, con la sua incarnazione, morte e risurrezione, ci ha liberati dalla schiavitù del peccato per donarci la libertà dei figli di Dio e ci ha fatto conoscere il volto di Dio che è amore: Dio si può vedere, è visibile in Cristo. Santa Teresa d’Avila scrive che «non dobbiamo allontanarci da ciò che costituisce tutto il nostro bene e il nostro rimedio, cioè dalla santissima umanità di nostro Signore Gesù Cristo» (Castello interiore, 7, 6: Opere Complete, Milano 1998, 1001). Quindi solo credendo in Cristo, rimanendo uniti a Lui, i discepoli, tra i quali siamo anche noi, possono continuare la sua azione permanente nella storia: «In verità, in verità io vi dico – dice il Signore –: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio» (Gv 14,12).
La fede in Gesù comporta seguirlo quotidianamente, nelle semplici azioni che compongono la nostra giornata. «È proprio del mistero di Dio agire in modo sommesso. Solo pian piano Egli costruisce nella grande storia dell’umanità la sua storia. Diventa uomo ma in modo da poter essere ignorato dai contemporanei, dalle forze autorevoli della storia. Patisce e muore e, come Risorto, vuole arrivare all’umanità soltanto attraverso la fede dei suoi ai quali si manifesta. Di continuo Egli bussa sommessamente alle porte dei nostri cuori e, se gli apriamo, lentamente ci rende capaci di “vedere”» (Gesù di Nazareth II, 2011, 306). Sant’Agostino afferma che «era necessario che Gesù dicesse: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), perché una volta conosciuta la via, restava da conoscere la meta» (Tractatus in Ioh., 69, 2: CCL 36, 500), e la meta è il Padre. Per i cristiani, per ciascuno di noi, dunque, la Via al Padre è lasciarsi guidare da Gesù, dalla sua parola di Verità, e accogliere il dono della sua Vita. Facciamo nostro l’invito di San Bonaventura: «Apri dunque gli occhi, tendi l’orecchio spirituale, apri le tue labbra e disponi il tuo cuore, perché tu possa in tutte le creature vedere, ascoltare, lodare, amare, venerare, glorificare, onorare il tuo Dio» (Itinerarium mentis in Deum, I, 15).
[Papa Benedetto, Angelus 22 maggio 2011]
Carissimi giovani!
1. Nella mia memoria resta vivo il ricordo dei momenti straordinari che abbiamo vissuto insieme a Roma, durante il Giubileo dell'Anno 2000, allorché siete venuti in pellegrinaggio presso le tombe degli Apostoli Pietro e Paolo. In lunghe file silenziose avete varcato la Porta Santa e vi siete preparati a ricevere il sacramento della Riconciliazione; nella veglia serale e nella Messa del mattino a Tor Vergata avete poi vissuto un'esperienza spirituale ed ecclesiale intensa; rafforzati nella fede, avete fatto ritorno a casa con la missione che vi ho affidato: divenire, in quest'aurora del nuovo millennio, testimoni coraggiosi del Vangelo.
L'evento della Giornata Mondiale della Gioventù è diventato ormai un momento importante della vostra vita, come pure della vita della Chiesa. Vi invito dunque a cominciare a prepararvi alla XVII edizione di questo grande evento, che vedrà la sua celebrazione internazionale a Toronto, in Canada, nell'estate del prossimo anno. Sarà una nuova occasione per incontrare Cristo, rendere testimonianza della sua presenza nella società contemporanea e diventare costruttori della "civiltà dell'amore e della verità".
2. "Voi siete il sale della terra... voi siete la luce del mondo" (Mt 5,13-14): questo è il tema che ho scelto per la prossima Giornata Mondiale della Gioventù. Le due immagini del sale e della luce utilizzate da Gesù sono complementari e ricche di senso. Nell'antichità, infatti, sale e luce erano ritenuti elementi essenziali della vita umana.
"Voi siete il sale della terra...". Una delle funzioni primarie del sale, come ben si sa, è quella di condire, di dare gusto e sapore agli alimenti. Quest'immagine ci ricorda che, mediante il battesimo, tutto il nostro essere è stato profondamente trasformato, perché "condito" con la vita nuova che viene da Cristo (cfr Rm 6,4). Il sale, grazie al quale l'identità cristiana non si snatura, anche in un ambiente fortemente secolarizzato, è la grazia battesimale che ci ha rigenerati, facendoci vivere in Cristo e rendendoci capaci di rispondere alla sua chiamata ad "offrire i [nostri] corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio" (Rm 12,1). Scrivendo ai cristiani di Roma, san Paolo li esorta ad evidenziare chiaramente il loro modo diverso di vivere e di pensare rispetto ai contemporanei: "Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto" (Rm 12,2).
Per lungo tempo il sale è stato anche il mezzo abitualmente usato per conservare gli alimenti. Come sale della terra, siete chiamati a conservare la fede che avete ricevuto e a trasmetterla intatta agli altri. La vostra generazione è posta con particolare forza di fronte alla sfida di mantenere integro il deposito della fede (cfr 2 Ts 2,15; 1 Tm 6,20; 2 Tm 1,14).
Scoprite le vostre radici cristiane, imparate la storia della Chiesa, approfondite la conoscenza dell'eredità spirituale che vi è stata trasmessa, seguite i testimoni e i maestri che vi hanno preceduto! Solo restando fedeli ai comandamenti di Dio, all'Alleanza che Cristo ha suggellato con il suo sangue versato sulla Croce, potrete essere gli apostoli ed i testimoni del nuovo millennio.
È proprio della condizione umana e, in particolar modo, della gioventù, cercare l'Assoluto, il senso e la pienezza dell'esistenza. Cari giovani, nulla vi accontenti che stia al di sotto dei più alti ideali! Non lasciatevi scoraggiare da coloro che, delusi dalla vita, sono diventati sordi ai desideri più profondi e più autentici del loro cuore. Avete ragione di non rassegnarvi a divertimenti insipidi, a mode passeggere ed a progetti riduttivi. Se conservate grandi desideri per il Signore, saprete evitare la mediocrità e il conformismo, così diffusi nella nostra società.
3. "Voi siete la luce del mondo...". Per quanti da principio ascoltarono Gesù, come anche per noi, il simbolo della luce evoca il desiderio di verità e la sete di giungere alla pienezza della conoscenza, impressi nell'intimo di ogni essere umano.
Quando la luce va scemando o scompare del tutto, non si riesce più a distinguere la realtà circostante. Nel cuore della notte ci si può sentire intimoriti ed insicuri, e si attende allora con impazienza l'arrivo della luce dell'aurora. Cari giovani, tocca a voi essere le sentinelle del mattino (cfr Is 21, 11-12) che annunciano l'avvento del sole che è Cristo risorto!
La luce di cui Gesù ci parla nel Vangelo è quella della fede, dono gratuito di Dio, che viene a illuminare il cuore e a rischiarare l'intelligenza: "Dio che disse: «Rifulga la luce dalle tenebre», rifulse anche nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo" (2 Cor 4,6). Ecco perché le parole di Gesù assumono uno straordinario rilievo allorché spiega la sua identità e la sua missione: "Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita" (Gv 8,12).
L'incontro personale con Cristo illumina di luce nuova la vita, ci incammina sulla buona strada e ci impegna ad essere suoi testimoni. Il nuovo modo, che da Lui ci viene, di guardare al mondo e alle persone ci fa penetrare più profondamente nel mistero della fede, che non è solo un insieme di enunciati teorici da accogliere e ratificare con l'intelligenza, ma un'esperienza da assimilare, una verità da vivere, il sale e la luce di tutta la realtà (cfr Veritatis splendor, 88).
Nel contesto attuale di secolarizzazione, in cui molti dei nostri contemporanei pensano e vivono come se Dio non esistesse o sono attratti da forme di religiosità irrazionali, è necessario che proprio voi, cari giovani, riaffermiate che la fede è una decisione personale che impegna tutta l'esistenza. Il Vangelo sia il grande criterio che guida le scelte e gli orientamenti della vostra vita! Diventerete così missionari con i gesti e le parole e, dovunque lavoriate e viviate, sarete segni dell'amore di Dio, testimoni credibili della presenza amorosa di Cristo. Non dimenticate: "Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio" (Mt 5,15)!
Come il sale dà sapore al cibo e la luce illumina le tenebre, così la santità dà senso pieno alla vita, rendendola riflesso della gloria di Dio. Quanti santi, anche tra i giovani, annovera la storia della Chiesa! Nel loro amore per Dio hanno fatto risplendere le proprie virtù eroiche al cospetto del mondo, diventando modelli di vita che la Chiesa ha additato all'imitazione di tutti. Tra i molti basti ricordare: Agnese di Roma, Andreas di Phú Yên, Pedro Calungsod, Giuseppina Bakhita, Teresa di Lisieux, Pier Giorgio Frassati, Marcel Callo, Francisco Castelló Aleu o ancora Kateri Tekakwitha, la giovane irochese detta "il giglio dei Mohawks". Prego il Dio tre volte Santo che, per l'intercessione di questa folla immensa di testimoni, vi renda santi, cari giovani, i santi del terzo millennio!
4. Carissimi, è tempo di prepararsi per la XVII Giornata Mondiale della Gioventù. Vi rivolgo uno speciale invito a leggere e ad approfondire la Lettera apostolica Novo millennio ineunte, che ho scritto all'inizio dell'anno per accompagnare i battezzati in questa nuova tappa della vita della Chiesa e degli uomini: "Un nuovo secolo, un nuovo millennio si aprono alla luce di Cristo. Non tutti però vedono questa luce. Noi abbiamo il compito stupendo di esserne il «riflesso»" (n. 54).
Sì, è l'ora della missione! Nelle vostre diocesi e nelle vostre parrocchie, nei vostri movimenti, associazioni e comunità il Cristo vi chiama, la Chiesa vi accoglie come casa e scuola di comunione e di preghiera. Approfondite lo studio della Parola di Dio e lasciate che essa illumini la vostra mente ed il vostro cuore. Traete forza dalla grazia sacramentale della Riconciliazione e dell'Eucarestia. Frequentate il Signore in quel «cuore a cuore» che è l'adorazione eucaristica. Giorno dopo giorno, riceverete nuovo slancio che vi consentirà di confortare coloro che soffrono e di portare la pace al mondo. Sono tante le persone ferite dalla vita, escluse dallo sviluppo economico, senza un tetto, una famiglia o un lavoro; molte si perdono dietro false illusioni o hanno smarrito ogni speranza. Contemplando la luce che risplende sul volto di Cristo risorto, imparate a vostra volta a vivere come "figli della luce e figli del giorno" (1 Ts 5,5), manifestando a tutti che "il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità" (Ef 5,9).
5. Cari giovani amici, per tutti coloro che possono l'appuntamento è a Toronto! Nel cuore di una città multiculturale e pluriconfessionale diremo l'unicità di Cristo Salvatore e l'universalità del mistero di salvezza di cui la Chiesa è sacramento. Pregheremo per la piena comunione tra i cristiani nella verità e nella carità, rispondendo all'invito pressante del Signore che desidera ardentemente "che tutti siano una cosa sola" (Gv 17,11).
Venite a far risuonare nelle grandi arterie di Toronto l'annuncio gioioso di Cristo che ama tutti gli uomini e porta a compimento ogni segno di bene, di bellezza e di verità presente nella città umana. Venite a dire davanti al mondo la vostra gioia di aver incontrato Cristo Gesù, il vostro desiderio di conoscerlo sempre meglio, il vostro impegno di annunciarne il Vangelo di salvezza fino agli estremi confini della terra!
I vostri coetanei canadesi si preparano già ad accogliervi con calore e grande ospitalità, insieme ai loro Vescovi e alle Autorità civili. Per questo li ringrazio fin d'ora vivamente. Possa questa prima Giornata Mondiale dei Giovani all'inizio del terzo millennio trasmettere a tutti un messaggio di fede, di speranza e d'amore!
La mia benedizione vi accompagna, mentre a Maria, Madre della Chiesa, affido ciascuno di voi, la vostra vocazione e la vostra missione.
Da Castel Gandolfo, 25 Luglio 2001
[Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la XVII GMG, Toronto]
64. Dopo aver preso visione della Parola di Dio, non possiamo limitarci a dire che i giovani sono il futuro del mondo: sono il presente, lo stanno arricchendo con il loro contributo. Un giovane non è più un bambino, si trova in un momento della vita in cui comincia ad assumersi diverse responsabilità, partecipando insieme agli adulti allo sviluppo della famiglia, della società, della Chiesa. Però i tempi cambiano, e ritorna la domanda: come sono i giovani oggi, cosa succede adesso ai giovani?
In positivo
65. Il Sinodo ha riconosciuto che i fedeli della Chiesa non sempre hanno l’atteggiamento di Gesù. Invece di disporci ad ascoltarli a fondo, «prevale talora la tendenza a fornire risposte preconfezionate e ricette pronte, senza lasciar emergere le domande giovanili nella loro novità e coglierne la provocazione».[24] D’altra parte, quando la Chiesa abbandona gli schemi rigidi e si apre ad un ascolto disponibile e attento dei giovani, questa empatia la arricchisce, perché «consente ai giovani di donare alla comunità il proprio apporto, aiutandola a cogliere sensibilità nuove e a porsi domande inedite».[25]
66. Oggi noi adulti corriamo il rischio di fare una lista di disastri, di difetti della gioventù del nostro tempo. Alcuni forse ci applaudiranno perché sembriamo esperti nell’individuare aspetti negativi e pericoli. Ma quale sarebbe il risultato di questo atteggiamento? Una distanza sempre maggiore, meno vicinanza, meno aiuto reciproco.
67. Lo sguardo attento di chi è stato chiamato ad essere padre, pastore e guida dei giovani consiste nell’individuare la piccola fiamma che continua ad ardere, la canna che sembra spezzarsi ma non si è ancora rotta (cfr Is 42,3). È la capacità di individuare percorsi dove altri vedono solo muri, è il saper riconoscere possibilità dove altri vedono solo pericoli. Così è lo sguardo di Dio Padre, capace di valorizzare e alimentare i germi di bene seminati nel cuore dei giovani. Il cuore di ogni giovane deve pertanto essere considerato “terra sacra”, portatore di semi di vita divina e davanti al quale dobbiamo “toglierci i sandali” per poterci avvicinare e approfondire il Mistero.
Molte gioventù
68. Potremmo cercare di descrivere le caratteristiche dei giovani di oggi, ma prima di tutto voglio raccogliere un’osservazione dei Padri sinodali: «La composizione stessa del Sinodo ha reso visibile la presenza e l’apporto delle diverse regioni del mondo, evidenziando la bellezza di essere Chiesa universale. Pur in un contesto di globalizzazione crescente, i Padri sinodali hanno chiesto di mettere in evidenza le molte differenze tra contesti e culture, anche all’interno di uno stesso Paese. Esiste una pluralità di mondi giovanili, tanto che in alcuni Paesi si tende a utilizzare il termine “gioventù” al plurale. Inoltre la fascia di età considerata dal presente Sinodo (16-29 anni) non rappresenta un insieme omogeneo, ma è composta di gruppi che vivono situazioni peculiari».[26]
69. Già dal punto di vista demografico, in alcuni Paesi ci sono molti giovani, mentre altri hanno un tasso di natalità molto basso. Tuttavia, «un’ulteriore differenza deriva dalla storia, che rende diversi i Paesi e i continenti di antica tradizione cristiana, la cui cultura è portatrice di una memoria da non disperdere, dai Paesi e continenti segnati invece da altre tradizioni religiose e in cui il cristianesimo è una presenza minoritaria e talvolta recente. In altri territori poi le comunità cristiane e i giovani che ne fanno parte sono oggetto di persecuzione».[27] Occorre inoltre distinguere quei giovani «che hanno accesso a una quantità crescente di opportunità offerte dalla globalizzazione, da quanti invece vivono ai margini della società o nel mondo rurale e patiscono gli effetti di forme di esclusione e scarto».[28]
70. Ci sono molte altre differenze che sarebbe complicato descrivere qui nei dettagli. Pertanto, non mi sembra opportuno soffermarmi ad offrire un’analisi esaustiva dei giovani nel mondo di oggi, di come vivono e di cosa stia succedendo loro. Tuttavia, poiché non posso evitare di osservare la realtà, segnalerò brevemente alcuni contributi che sono pervenuti prima del Sinodo e altri che ho potuto raccogliere durante il suo svolgimento.
Alcune cose che succedono ai giovani
71. La gioventù non è un oggetto che può essere analizzato in termini astratti. In realtà, “la gioventù” non esiste, esistono i giovani con le loro vite concrete. Nel mondo di oggi, pieno di progressi, tante di queste vite sono esposte alla sofferenza e alla manipolazione.
Giovani di un mondo in crisi
72. I Padri sinodali hanno evidenziato con dolore che «molti giovani vivono in contesti di guerra e subiscono la violenza in una innumerevole varietà di forme: rapimenti, estorsioni, criminalità organizzata, tratta di esseri umani, schiavitù e sfruttamento sessuale, stupri di guerra, ecc. Altri giovani, a causa della loro fede, faticano a trovare un posto nelle loro società e subiscono vari tipi di persecuzioni, fino alla morte. Numerosi sono i giovani che, per costrizione o mancanza di alternative, vivono perpetrando crimini e violenze: bambini soldato, bande armate e criminali, traffico di droga, terrorismo, ecc. Questa violenza spezza molte giovani vite. Abusi e dipendenze, così come violenza e devianza sono tra le ragioni che portano i giovani in carcere, con una particolare incidenza in alcuni gruppi etnici e sociali».[29]
73. Molti giovani sono ideologizzati, strumentalizzati e usati come carne da macello o come forza d’urto per distruggere, intimidire o ridicolizzare altri. E la cosa peggiore è che molti si trasformano in soggetti individualisti, nemici e diffidenti verso tutti, e diventano così facile preda di proposte disumanizzanti e dei piani distruttivi elaborati da gruppi politici o poteri economici.
74. Ancora «più numerosi nel mondo sono i giovani che patiscono forme di emarginazione ed esclusione sociale, per ragioni religiose, etniche o economiche. Ricordiamo la difficile situazione di adolescenti e giovani che restano incinte e la piaga dell’aborto, così come la diffusione dell’HIV, le diverse forme di dipendenza (droghe, azzardo, pornografia, ecc.) e la situazione dei bambini e ragazzi di strada, che mancano di casa, famiglia e risorse economiche».[30] E quando poi si tratta di donne, queste situazioni di emarginazione diventano doppiamente dolorose e difficili.
75. Non possiamo essere una Chiesa che non piange di fronte a questi drammi dei suoi figli giovani. Non dobbiamo mai farci l’abitudine, perché chi non sa piangere non è madre. Noi vogliamo piangere perché anche la società sia più madre, perché invece di uccidere impari a partorire, perché sia promessa di vita. Piangiamo quando ricordiamo quei giovani che sono morti a causa della miseria e della violenza e chiediamo alla società di imparare ad essere una madre solidale. Quel dolore non se ne va, ci accompagna ad ogni passo, perché la realtà non può essere nascosta. La cosa peggiore che possiamo fare è applicare la ricetta dello spirito mondano che consiste nell’anestetizzare i giovani con altre notizie, con altre distrazioni, con banalità.
76. Forse «quelli che facciamo una vita più o meno senza necessità non sappiamo piangere. Certe realtà della vita si vedono soltanto con gli occhi puliti dalle lacrime. Invito ciascuno di voi a domandarsi: io ho imparato a piangere? Quando vedo un bambino affamato, un bambino drogato per la strada, un bambino senza casa, un bambino abbandonato, un bambino abusato, un bambino usato come schiavo per la società? O il mio è il pianto capriccioso di chi piange perché vorrebbe avere qualcosa di più?».[31] Cerca di imparare a piangere per i giovani che stanno peggio di te. La misericordia e la compassione si esprimono anche piangendo. Se non ti viene, chiedi al Signore di concederti di versare lacrime per la sofferenza degli altri. Quando saprai piangere, soltanto allora sarai capace di fare qualcosa per gli altri con il cuore.
77. A volte il dolore di alcuni giovani è lacerante; è un dolore che non si può esprimere a parole; è un dolore che ci colpisce come uno schiaffo. Questi giovani possono solo dire a Dio che soffrono molto, che è troppo difficile per loro andare avanti, che non credono più in nessuno. In questo grido straziante, però, si fanno presenti le parole di Gesù: «Beati gli afflitti, perché saranno consolati» (Mt 5,4). Ci sono giovani che sono riusciti ad aprirsi un sentiero nella vita perché li ha raggiunti questa promessa divina. Possa sempre esserci una comunità cristiana vicino a un giovane che soffre, per far risuonare quelle parole con gesti, abbracci e aiuti concreti!
78. È vero che i potenti forniscono alcuni aiuti, ma spesso ad un costo elevato. In molti Paesi poveri, l’aiuto economico di alcuni Paesi più ricchi o di alcuni organismi internazionali è solitamente vincolato all’accettazione di proposte occidentali in materia di sessualità, matrimonio, vita o giustizia sociale. Questa colonizzazione ideologica danneggia in modo particolare i giovani. Nello stesso tempo, vediamo come una certa pubblicità insegna alle persone ad essere sempre insoddisfatte e contribuisce alla cultura dello scarto, in cui i giovani stessi finiscono per diventare un materiale “usa e getta”.
79. La cultura di oggi presenta un modello di persona strettamente associato all’immagine del giovane. Si sente bello chi appare giovane, chi effettua trattamenti per far scomparire le tracce del tempo. I corpi giovani sono utilizzati costantemente nella pubblicità, per vendere. Il modello di bellezza è un modello giovanile, ma stiamo attenti, perché questo non è un elogio rivolto ai giovani. Significa soltanto che gli adulti vogliono rubare la gioventù per sé stessi, non che rispettino, amino i giovani e se ne prendano cura.
80. Alcuni giovani «sentono le tradizioni familiari come opprimenti e ne fuggono sotto la spinta di una cultura globalizzata che a volte li lascia senza punti di riferimento. In altre parti del mondo invece tra giovani e adulti non vi è un vero e proprio conflitto generazionale, ma una reciproca estraneità. Talora gli adulti non cercano o non riescono a trasmettere i valori fondanti dell’esistenza oppure assumono stili giovanilistici, rovesciando il rapporto tra le generazioni. In questo modo la relazione tra giovani e adulti rischia di rimanere sul piano affettivo, senza toccare la dimensione educativa e culturale».[32] Come fa male questo ai giovani, benché alcuni non se ne rendano conto! I giovani stessi ci hanno fatto notare che questo ostacola enormemente la trasmissione della fede «in quei Paesi in cui non vi è libertà di espressione, dove ai giovani […] non è permesso partecipare alla vita della Chiesa».[33]
Desideri, ferite e ricerche
81. I giovani riconoscono che il corpo e la sessualità sono essenziali per la loro vita e per la crescita della loro identità. Tuttavia, in un mondo che enfatizza esclusivamente la sessualità, è difficile mantenere una buona relazione col proprio corpo e vivere serenamente le relazioni affettive. Per questa e per altre ragioni, la morale sessuale è spesso «causa di incomprensione e di allontanamento dalla Chiesa, in quanto è percepita come uno spazio di giudizio e di condanna». Nello stesso tempo, i giovani esprimono «un esplicito desiderio di confronto sulle questioni relative alla differenza tra identità maschile e femminile, alla reciprocità tra uomini e donne, all’omosessualità».[34]
82. Nel nostro tempo, «gli sviluppi della scienza e delle tecnologie biomediche incidono fortemente sulla percezione del corpo, inducendo l’idea che sia modificabile senza limite. La capacità di intervenire sul DNA, la possibilità di inserire elementi artificiali nell’organismo (cyborg) e lo sviluppo delle neuroscienze costituiscono una grande risorsa, ma sollevano allo stesso tempo interrogativi antropologici ed etici».[35] Possono farci dimenticare che la vita è un dono, che siamo esseri creati e limitati, che possiamo facilmente essere strumentalizzati da chi detiene il potere tecnologico.[36] «Inoltre in alcuni contesti giovanili si diffonde il fascino per comportamenti a rischio come strumento per esplorare se stessi, ricercare emozioni forti e ottenere riconoscimento. […] Tali fenomeni, a cui le nuove generazioni sono esposte, costituiscono un ostacolo per una serena maturazione».[37]
83. Nei giovani troviamo anche, impressi nell’anima, i colpi ricevuti, i fallimenti, i ricordi tristi. Molte volte «sono le ferite delle sconfitte della propria storia, dei desideri frustrati, delle discriminazioni e ingiustizie subite, del non essersi sentiti amati o riconosciuti». «Ci sono poi le ferite morali, il peso dei propri errori, i sensi di colpa per aver sbagliato».[38] Gesù si fa presente in queste croci dei giovani, per offrire loro la sua amicizia, il suo sollievo, la sua compagnia risanatrice, e la Chiesa vuole essere il suo strumento in questo percorso verso la guarigione interiore e la pace del cuore.
84. In alcuni giovani riconosciamo un desiderio di Dio, anche se non con tutti i contorni del Dio rivelato. In altri possiamo intravedere un sogno di fraternità, che non è poco. In molti ci può essere un reale desiderio di sviluppare le capacità di cui sono dotati per offrire qualcosa al mondo. In alcuni vediamo una particolare sensibilità artistica, o una ricerca di armonia con la natura. In altri ci può essere forse un grande bisogno di comunicazione. In molti di loro troveremo un profondo desiderio di una vita diversa. Sono autentici punti di partenza, energie interiori che attendono con apertura una parola di stimolo, di luce e di incoraggiamento.
85. Il Sinodo ha trattato in modo particolare tre temi di grande importanza, e su questi voglio accoglierne le conclusioni testualmente, anche se ci richiederanno ancora di proseguire con ulteriori analisi e di sviluppare una capacità di risposta più adeguata ed efficace.
L’ambiente digitale
86. «L’ambiente digitale caratterizza il mondo contemporaneo. Larghe fasce dell’umanità vi sono immerse in maniera ordinaria e continua. Non si tratta più soltanto di “usare” strumenti di comunicazione, ma di vivere in una cultura ampiamente digitalizzata che ha impatti profondissimi sulla nozione di tempo e di spazio, sulla percezione di sé, degli altri e del mondo, sul modo di comunicare, di apprendere, di informarsi, di entrare in relazione con gli altri. Un approccio alla realtà che tende a privilegiare l’immagine rispetto all’ascolto e alla lettura influenza il modo di imparare e lo sviluppo del senso critico».[39]
87. Internet e le reti sociali hanno creato un nuovo modo di comunicare e stabilire legami, e «sono una piazza in cui i giovani trascorrono molto tempo e si incontrano facilmente, anche se non tutti vi hanno ugualmente accesso, in particolare in alcune regioni del mondo. Essi costituiscono comunque una straordinaria opportunità di dialogo, incontro e scambio tra le persone, oltre che di accesso all’informazione e alla conoscenza. Inoltre, quello digitale è un contesto di partecipazione sociopolitica e di cittadinanza attiva, e può facilitare la circolazione di informazione indipendente capace di tutelare efficacemente le persone più vulnerabili palesando le violazioni dei loro diritti. In molti Paesi web e social network rappresentano ormai un luogo irrinunciabile per raggiungere e coinvolgere i giovani, anche in iniziative e attività pastorali».[40]
88. Tuttavia, per comprendere questo fenomeno nella sua totalità, occorre riconoscere che, come ogni realtà umana, esso è attraversato da limiti e carenze. Non è sano confondere la comunicazione con il semplice contatto virtuale. Infatti, «l’ambiente digitale è anche un territorio di solitudine, manipolazione, sfruttamento e violenza, fino al caso estremo del dark web. I media digitali possono esporre al rischio di dipendenza, di isolamento e di progressiva perdita di contatto con la realtà concreta, ostacolando lo sviluppo di relazioni interpersonali autentiche. Nuove forme di violenza si diffondono attraverso i social media, ad esempio il cyberbullismo; il web è anche un canale di diffusione della pornografia e di sfruttamento delle persone a scopo sessuale o tramite il gioco d’azzardo».[41]
89. Non andrebbe dimenticato che «operano nel mondo digitale giganteschi interessi economici, capaci di realizzare forme di controllo tanto sottili quanto invasive, creando meccanismi di manipolazione delle coscienze e del processo democratico. Il funzionamento di molte piattaforme finisce spesso per favorire l’incontro tra persone che la pensano allo stesso modo, ostacolando il confronto tra le differenze. Questi circuiti chiusi facilitano la diffusione di informazioni e notizie false, fomentando pregiudizi e odio. La proliferazione delle fake news è espressione di una cultura che ha smarrito il senso della verità e piega i fatti a interessi particolari. La reputazione delle persone è messa a repentaglio tramite processi sommari on line. Il fenomeno riguarda anche la Chiesa e i suoi pastori».[42]
90. In un documento preparato da 300 giovani di tutto il mondo prima del Sinodo, essi hanno segnalato che «le relazioni on line possono diventare disumane. Gli spazi digitali ci rendono ciechi alla fragilità dell’altro e ci impediscono l’introspezione. Problemi come la pornografia distorcono la percezione della sessualità umana da parte dei giovani. La tecnologia usata in questo modo crea una ingannevole realtà parallela che ignora la dignità umana».[43] L’immersione nel mondo virtuale ha favorito una sorta di “migrazione digitale”, vale a dire un distanziamento dalla famiglia, dai valori culturali e religiosi, che conduce molte persone verso un mondo di solitudine e di auto-invenzione, fino a sperimentare una mancanza di radici, benché rimangano fisicamente nello stesso luogo. La vita nuova e traboccante dei giovani, che preme e cerca di affermare la propria personalità, affronta oggi una nuova sfida: interagire con un mondo reale e virtuale in cui si addentrano da soli come in un continente sconosciuto. I giovani di oggi sono i primi a operare questa sintesi tra ciò che è personale, ciò che è specifico di una cultura e ciò che è globale. Questo però richiede che riescano a passare dal contatto virtuale a una comunicazione buona e sana.
I migranti come paradigma del nostro tempo
91. Come non ricordare i tanti giovani direttamente coinvolti nelle migrazioni? Queste «rappresentano a livello mondiale un fenomeno strutturale e non un’emergenza transitoria. Le migrazioni possono avvenire all’interno dello stesso Paese oppure tra Paesi diversi. La preoccupazione della Chiesa riguarda in particolare coloro che fuggono dalla guerra, dalla violenza, dalla persecuzione politica o religiosa, dai disastri naturali dovuti anche ai cambiamenti climatici e dalla povertà estrema: molti di loro sono giovani. In genere sono alla ricerca di opportunità per sé e per la propria famiglia. Sognano un futuro migliore e desiderano creare le condizioni perché si realizzi».[44] I migranti «ci ricordano la condizione originaria della fede, ovvero quella di essere “stranieri e pellegrini sulla terra” (Eb 11,13)».[45]
92. Altri migranti sono «attirati dalla cultura occidentale, nutrendo talvolta aspettative irrealistiche che li espongono a pesanti delusioni. Trafficanti senza scrupolo, spesso legati ai cartelli della droga e delle armi, sfruttano la debolezza dei migranti, che lungo il loro percorso troppo spesso incontrano la violenza, la tratta, l’abuso psicologico e anche fisico, e sofferenze indicibili. Va segnalata la particolare vulnerabilità dei migranti minori non accompagnati, e la situazione di coloro che sono costretti a passare molti anni nei campi profughi o che rimangono bloccati a lungo nei Paesi di transito, senza poter proseguire il corso di studi né esprimere i propri talenti. In alcuni Paesi di arrivo, i fenomeni migratori suscitano allarme e paure, spesso fomentate e sfruttate a fini politici. Si diffonde così una mentalità xenofoba, di chiusura e di ripiegamento su se stessi, a cui occorre reagire con decisione».[46]
93. «I giovani che migrano sperimentano la separazione dal proprio contesto di origine e spesso anche uno sradicamento culturale e religioso. La frattura riguarda anche le comunità di origine, che perdono gli elementi più vigorosi e intraprendenti, e le famiglie, in particolare quando migra uno o entrambi i genitori, lasciando i figli nel Paese di origine. La Chiesa ha un ruolo importante come riferimento per i giovani di queste famiglie spezzate. Ma quelle dei migranti sono anche storie di incontro tra persone e tra culture: per le comunità e le società in cui arrivano sono una opportunità di arricchimento e di sviluppo umano integrale di tutti. Le iniziative di accoglienza che fanno riferimento alla Chiesa hanno un ruolo importante da questo punto di vista, e possono rivitalizzare le comunità capaci di realizzarle».[47]
94. «Grazie alla diversa provenienza dei Padri, rispetto al tema dei migranti il Sinodo ha visto l’incontro di molte prospettive, in particolare tra Paesi di partenza e Paesi di arrivo. Inoltre è risuonato il grido di allarme di quelle Chiese i cui membri sono costretti a scappare dalla guerra e dalla persecuzione e che vedono in queste migrazioni forzate una minaccia per la loro stessa esistenza. Proprio il fatto di includere al suo interno tutte queste diverse prospettive mette la Chiesa in condizione di esercitare un ruolo profetico nei confronti della società sul tema delle migrazioni»[48]. Chiedo in particolare ai giovani di non cadere nelle reti di coloro che vogliono metterli contro altri giovani che arrivano nei loro Paesi, descrivendoli come soggetti pericolosi e come se non avessero la stessa inalienabile dignità di ogni essere umano.
Porre fine a ogni forma di abuso
95. Negli ultimi tempi ci è stato chiesto con forza di ascoltare il grido delle vittime dei vari tipi di abusi commessi da alcuni vescovi, sacerdoti, religiosi e laici. Questi peccati provocano nelle vittime «sofferenze che possono durare tutta la vita e a cui nessun pentimento può porre rimedio. Tale fenomeno è diffuso nella società, tocca anche la Chiesa e rappresenta un serio ostacolo alla sua missione».[49]
96. È vero che «la piaga degli abusi sessuali su minori è un fenomeno storicamente diffuso purtroppo in tutte le culture e le società», soprattutto all’interno delle famiglie stesse e in diverse istituzioni, la cui estensione è venuta in evidenza in particolare «grazie al cambiamento della sensibilità dell’opinione pubblica». Tuttavia, «l’universalità di tale piaga, mentre conferma la sua gravità nelle nostre società, non diminuisce la sua mostruosità all’interno della Chiesa» e «nella rabbia, giustificata, della gente, la Chiesa vede il riflesso dell’ira di Dio, tradito e schiaffeggiato».[50]
97. «Il Sinodo ribadisce il fermo impegno per l’adozione di rigorose misure di prevenzione che ne impediscano il ripetersi, a partire dalla selezione e dalla formazione di coloro a cui saranno affidati compiti di responsabilità ed educativi».[51] Allo stesso tempo, non deve più essere abbandonata la decisione di applicare «azioni e sanzioni così necessarie».[52] E tutto questo con la grazia di Cristo. Non si può più tornare indietro.
98. «Esistono diversi tipi di abuso: di potere, economici, di coscienza, sessuali. Si rende evidente il compito di sradicare le forme di esercizio dell’autorità su cui essi si innestano e di contrastare la mancanza di responsabilità e trasparenza con cui molti casi sono stati gestiti. Il desiderio di dominio, la mancanza di dialogo e di trasparenza, le forme di doppia vita, il vuoto spirituale, nonché le fragilità psicologiche sono il terreno su cui prospera la corruzione».[53] Il clericalismo è una tentazione permanente dei sacerdoti, che interpretano «il ministero ricevuto come un potere da esercitare piuttosto che come un servizio gratuito e generoso da offrire; e ciò conduce a ritenere di appartenere a un gruppo che possiede tutte le risposte e non ha più bisogno di ascoltare e di imparare nulla».[54] Indubbiamente, il clericalismo espone le persone consacrate al rischio di perdere il rispetto per il valore sacro e inalienabile di ogni persona e della sua libertà.
99. Insieme ai Padri sinodali, voglio esprimere con affetto e riconoscenza la mia «gratitudine verso coloro che hanno il coraggio di denunciare il male subìto: aiutano la Chiesa a prendere coscienza di quanto avvenuto e della necessità di reagire con decisione».[55] Tuttavia, merita una riconoscenza speciale anche «l’impegno sincero di innumerevoli laiche e laici, sacerdoti, consacrati, consacrate e vescovi che ogni giorno si spendono con onestà e dedizione al servizio dei giovani. La loro opera è una foresta che cresce senza fare rumore. Anche molti tra i giovani presenti al Sinodo hanno manifestato gratitudine per coloro da cui sono stati accompagnati e ribadito il grande bisogno di figure di riferimento».[56]
100. Grazie a Dio, i sacerdoti che si sono macchiati di questi orribili crimini non sono la maggioranza, che invece è costituita da chi porta avanti un ministero fedele e generoso. Ai giovani chiedo di lasciarsi stimolare da questa maggioranza. In ogni caso, se vedete un sacerdote a rischio, perché ha perso la gioia del suo ministero, perché cerca compensazioni affettive o ha imboccato la strada sbagliata, abbiate il coraggio di ricordargli il suo impegno verso Dio e verso il suo popolo, annunciategli voi stessi il Vangelo e incoraggiatelo a rimanere sulla strada giusta. Così facendo, offrirete un aiuto inestimabile su un aspetto fondamentale: la prevenzione che permette di evitare il ripetersi di queste atrocità. Questa nuvola nera diventa anche una sfida per i giovani che amano Gesù Cristo e la sua Chiesa, perché possono contribuire molto a guarire questa ferita se mettono in gioco la loro capacità di rinnovare, rivendicare, esigere coerenza e testimonianza, di tornare a sognare e a reinventare.
101. Questo non è l’unico peccato dei membri della Chiesa, la cui storia presenta molte ombre. I nostri peccati sono davanti agli occhi di tutti; si riflettono senza pietà nelle rughe del volto millenario della nostra Madre e Maestra. Perché essa cammina da duemila anni, condividendo «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini».[57] E cammina così com’è, senza ricorrere ad alcuna chirurgia estetica. Non ha paura di mostrare i peccati dei suoi membri, che talvolta alcuni di loro cercano di nascondere, davanti alla luce ardente della Parola del Vangelo che pulisce e purifica. E non cessa di ripetere ogni giorno, con vergogna: «Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; […] il mio peccato mi sta sempre dinanzi» (Sal 51,3.5). Ricordiamoci però che non si abbandona la Madre quando è ferita, al contrario, la si accompagna affinché tragga da sé tutta la sua forza e la sua capacità di cominciare sempre di nuovo.
102. Nel pieno di questa tragedia che, giustamente, ci ferisce l’anima, «il Signore Gesù, che mai abbandona la sua Chiesa, le offre la forza e gli strumenti per un nuovo cammino».[58] Così, questo momento oscuro, «con il prezioso aiuto dei giovani, può essere davvero un’opportunità per una riforma di portata epocale»,[59] per aprirsi a una nuova Pentecoste e iniziare una fase di purificazione e di cambiamento che conferisca alla Chiesa una rinnovata giovinezza. Ma i giovani potranno aiutare molto di più se di cuore si sentono parte del «santo e paziente Popolo fedele di Dio, sostenuto e vivificato dallo Spirito Santo», perché «sarà proprio questo santo Popolo di Dio a liberarci dalla piaga del clericalismo, che è il terreno fertile per tutti questi abomini».[60]
C’è una via d’uscita
103. In questo capitolo mi sono soffermato a guardare la realtà dei giovani nel mondo di oggi. Alcuni altri aspetti compariranno nei capitoli successivi. Come ho già detto, non pretendo di essere esaustivo con questa analisi. Esorto le comunità a realizzare con rispetto e serietà un esame della propria realtà giovanile più vicina, per poter discernere i percorsi pastorali più adeguati. Non voglio però concludere questo capitolo senza rivolgere alcune parole ad ognuno di voi.
104. Ti ricordo la buona notizia che ci è stata donata il mattino della Risurrezione: che in tutte le situazioni buie e dolorose di cui parliamo c’è una via d’uscita. Ad esempio, è vero che il mondo digitale può esporti al rischio di chiuderti in te stesso, dell’isolamento o del piacere vuoto. Ma non dimenticare che ci sono giovani che anche in questi ambiti sono creativi e a volte geniali. È il caso del giovane Venerabile Carlo Acutis.
105. Egli sapeva molto bene che questi meccanismi della comunicazione, della pubblicità e delle reti sociali possono essere utilizzati per farci diventare soggetti addormentati, dipendenti dal consumo e dalle novità che possiamo comprare, ossessionati dal tempo libero, chiusi nella negatività. Lui però ha saputo usare le nuove tecniche di comunicazione per trasmettere il Vangelo, per comunicare valori e bellezza.
106. Non è caduto nella trappola. Vedeva che molti giovani, pur sembrando diversi, in realtà finiscono per essere uguali agli altri, correndo dietro a ciò che i potenti impongono loro attraverso i meccanismi del consumo e dello stordimento. In tal modo, non lasciano sbocciare i doni che il Signore ha dato loro, non offrono a questo mondo quelle capacità così personali e uniche che Dio ha seminato in ognuno. Così, diceva Carlo, succede che “tutti nascono come originali, ma molti muoiono come fotocopie”. Non lasciare che ti succeda questo.
107. Non lasciare che ti rubino la speranza e la gioia, che ti narcotizzino per usarti come schiavo dei loro interessi. Osa essere di più, perché il tuo essere è più importante di ogni altra cosa. Non hai bisogno di possedere o di apparire. Puoi arrivare ad essere ciò che Dio, il tuo Creatore, sa che tu sei, se riconosci che sei chiamato a molto. Invoca lo Spirito Santo e cammina con fiducia verso la grande meta: la santità. In questo modo non sarai una fotocopia, sarai pienamente te stesso.
[Papa Francesco, Esortazione postsinodale Christus vivit]
Io Sono, e la nostra dignità
(Gv 8,51-59)
Il passo di Vangelo si rivolge ai discepoli delle comunità giovannee che ancora esitavano a dichiararsi pienamente di Cristo.
Braccati e ingiuriati dai veterani del sapere giudaico, essi facevano difficoltà a identificare l’immanenza dell’Eterno con un semplice falegname.
La dignità di Cristo non può essere stabilita mediante un paragone con le figure più celebri della storia della salvezza: il suo è un essere eterno, sebbene appaia [in noi] di figura insufficiente.
Ma quanto efficacemente comunica, non esiste solo in un luogo o in un momento determinato del tempo. Quindi non poteva essere strumento per rivendicazioni culturali.
Il suo Mistero sembra difficile da sondare e descrivere.
Per esprimerlo in breve possiamo riferirlo al paradossale ribaltamento delle categorie «di lassù» e «di quaggiù» (cf. vv.21-30).
La sua è una spiritualità fondata sulla Fede personale che supera il senso religioso comune.
In chi è a Lui unito, il Mistero implicito diventa creativo di luce, eppure senza pretese.
Come qualcuno che sottilmente non ha principio né fine, ovunque; anche nel sommario e modesto, ma continuo e presente.
Sebbene privi di fama conclamata, se ‘intimi’ al Signore anche noi possiamo diventare ‘ponte’ fra due mondi - senza troppe appariscenze.
Il che insegna a riconoscere «il suo giorno» (v.56).
Qui Gesù rivendica la condizione divina, ridicolizzando il sapere degli esperti, solo difensori di posizione.
I leaders antichi o nuovi si sentono sempre sminuiti dalla spada della Parola in atto.
Seme che in chi la riceve, fa propria e coltiva, trasmette una potenza di rigenerazione indistruttibile.
Verbo che emana una prospettiva, un rallegramento dell’essere; nuovi albori, senza la cappa delle discendenze o delle idee à la page.
Chi vuole svincolarsi dalla terra di schiavitù custodisce tale Proposta. Essa ci emancipa dal senso di appartenenza a tutti i costi, e non muore.
Né capitola di fronte alle insidie del potere antico o glamour.
Sistema che malgrado le grandi promesse, non dona la qualità di vita dell’Eterno; non ci fa Alleati.
Il Nome di Dio che Gesù attribuisce a se stesso indica che Lui è sacramento d’illuminazione.
«Io Sono» non è l’attributo d’un personaggio da annoverare nella galleria di coloro che pur hanno combattuto e pagato le proprie idee - padri nella fede e profeti.
Il Signore è nostro Liberatore. In Lui possiamo dire: «io» con dignità.
Ora non siamo più a guinzaglio della terra di schiavitù.
Riusciamo a esprimere noi stessi. Non restiamo pedine di crepuscoli e contrade anguste.
Tale Amico interiore ‘non muore’: ci consente anche di vagare, ma ‘sa’ dove.
Egli ‘guida’ infallibilmente a destinazione; alla luminosità di orizzonti aperti, vitali perché ancora grezzi, non sofisticati.
Veniamo introdotti così nella conoscenza di Colui che ormai «esce» dal Tempio (v.59).
Con l’ampiezza smisurata che non pesa sul cuore.
[Giovedì 5.a sett. Quaresima, 10 aprile 2025]
Controversia sulla discendenza (e sul mondo astratto)
(Gv 8,51-59)
Il passo di Vangelo si rivolge ai discepoli delle comunità giovannee che ancora esitavano a dichiararsi pienamente di Cristo.
Braccati e ingiuriati dai veterani del sapere giudaico, essi facevano difficoltà a identificare l’immanenza dell’Eterno con un semplice falegname.
La dignità di Cristo non può essere stabilita mediante un paragone con le figure più celebri della storia della salvezza: il suo è un essere eterno, sebbene appaia [in noi] di figura insufficiente.
Ma quanto efficacemente comunica, non esiste solo in un luogo o in un momento determinato del tempo.
Quindi non poteva essere strumento per rivendicazioni culturali artificiose, né mezzo per accentuare tare nazionalistiche elettive.
Il suo Mistero sembra difficile da sondare e descrivere.
Per esprimerlo in breve possiamo riferirlo all’Appello di vita preziosa ma non sofisticata, nel paradossale ribaltamento delle categorie «di lassù» e «di quaggiù» (cf. vv.21-30).
La sua è una spiritualità terrestre, non vuota - fondata sull’Amore creativo della Fede personale che supera il senso religioso comune.
E nel credente diventa fucina vitale, che si fa realtà anche sommaria; però continua, presente.
In chi è a Lui unito, il Mistero implicito diventa Persona nuova, zampillante, maestosa nella sua modestia; creativa di luce, eppure senza pretese.
Come qualcuno che sottilmente non ha principio né fine, ovunque.
Sebbene privi di fama conclamata, intimi al Signore anche noi possiamo diventare ponte fra due mondi - senza troppe appariscenze.
Il che insegna a riconoscere «il suo giorno» (v.56).
Qui Gesù rivendica la condizione divina, ridicolizzando il sapere degli esperti antichi, solo difensori di posizione.
E ignoranti del loro specifico - ossia della vita nello Spirito - a parte qualche vago pensiero concordista; parziale, apodittico ma inadeguato, o stravagante.
I leaders antichi o nuovi si sentono sempre sminuiti dalla spada della Parola in atto.
Seme che in chi la riceve, fa propria e coltiva, trasmette una potenza di rigenerazione indistruttibile.
Verbo che emana una prospettiva, un rallegramento dell’essere; nuovi albori, senza la cappa delle discendenze o delle idee à la page.
Chi vuole svincolarsi dalla terra di schiavitù, custodisce tale Proposta. Essa ci emancipa dal senso di appartenenza a tutti i costi, e non muore.
Né capitola di fronte alle insidie del potere antico o glamour.
Sistema che malgrado le grandi promesse non dona la qualità di vita dell’Eterno; non ci fa Alleati.
Al massimo rinchiude nello smarrimento delle devozioni, delle facciate, degli opportunismi, delle fantasie.
Il Nome di Dio che Gesù attribuisce a se stesso indica che Lui è sacramento d’illuminazione.
Non un’immaginetta da tenere sul comodino, cui mandare bacini [per strappare rassicurazioni o posizioni].
Non è questo il Sigillo che effonde.
«Io Sono» non è neppure l’attributo d’un personaggio da annoverare nella galleria di coloro che pur hanno combattuto e pagato le proprie idee - padri nella fede e profeti.
Il Signore è nostro Liberatore. In Lui possiamo dire: «io» con dignità.
Ciò - sebbene come nel brano di Vangelo gli snob o i vecchi (e logici) furbetti del quartierino mondano considerino i veri fedeli degli squilibrati e demenziali.
Chi li segue, purtroppo rimane a guinzaglio della terra di schiavitù e non riesce a esprimere se stesso; resta una pedina di crepuscoli, di contrade anguste.
Tale seguace non sbaglierà “binario” né “maniere”... solo per opinione fissa e allineata.
Invece l’Amico interiore non muore: ci consente anche di vagare, ma sa dove.
Egli guida infallibilmente a destinazione.
Conduce dall’esperienza di stilemi e cappe dottrinali, tutte nobili e sfasate, alla luminosità di orizzonti aperti, vitali perché ancora grezzi, non sofisticati.
Dice il Tao Tê Ching (xix): «Tralascia la santità e ripudia la sapienza, e il popolo s’avvantaggerà di cento doppie».
Commenta il maestro Ho-shang Kung: «Tralascia il regolare e il creare dei santi [...] torna al non agire [secondo propositi o dirigismi] [...] Le attività dell’agricoltura sviluppano il senso comunitario senza egoismi».
Il Signore benedice e approva. Presenza sempre inedita, dispiegata in ogni scintilla e distratta dalle manipolazioni.
Così spinge a valicare cricche condizionanti, e ogni soglia - per accedere a ulteriori esperienze di sé, di gruppo, di Dio, e del prossimo fuori, che diventa intimo.
Proiettati oltre il recinto sacro ridotto a palude, sull’onda della sua Parola correlata agli accadimenti veniamo introdotti nella conoscenza di Colui che ormai esce dal Tempio (v.59).
Dalla religiosità tradizionale o chic, alla Fede personale.
Con l’ampiezza smisurata di concreta e sovreminente Dimora, sempre successiva, che non pesa sul cuore.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come vivi il «Se uno osserva la mia Parola, non vedrà mai la morte»?
E il tuo rapporto con coloro che si sentono dottori specializzati?
Gioia e Speranza, o mondo astratto
«Nelle due letture» proposte oggi dalla liturgia, ha fatto subito notare il Pontefice all’omelia, «si parla di tempo, di eternità, di anni, di futuro, di passato» (Genesi 17, 3-9 e Giovanni 8, 51-59). Tanto che proprio «il tempo sembra essere la realtà più importante nel messaggio liturgico di questo giovedì». Ma Francesco ha preferito «prendere un’altra parola» che, ha suggerito, «credo sia proprio il messaggio nella Chiesa oggi». E sono le parole di Gesù riportate dall’evangelista Giovanni: «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia».
Dunque, il messaggio centrale di oggi è «la gioia della speranza, la gioia della fiducia nella promessa di Dio, la gioia della fecondità». Proprio «Abramo, nel tempo del quale parla la prima lettura, aveva novantanove anni e il Signore apparve a lui e assicurò l’alleanza» con queste parole: «Quanto a me, ecco, la mia alleanza è con te: diventerai padre».
Abramo, ha ricordato Francesco, «aveva un figlio di dodici, tredici anni: Ismaele». Ma Dio gli assicura che diventerà «padre di una moltitudine di nazioni». E «gli cambia il nome». Poi «continua e gli chiede di essere fedele all’alleanza» dicendo: «Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza e dopo di te di generazione in generazione, come alleanza perenne». In pratica, Dio dice ad Abramo «ti do tutto, ti do il tempo: ti do tutto, tu sarai padre».
Sicuramente Abramo, ha detto il Papa, «era felice di questo, era pieno di consolazione» ascoltando la promessa del Signore: «Entro un anno avrai un altro figlio». Certo, a quelle parole «Abramo rise, dice la Bibbia in seguito: ma come, a cento anni un figlio?». Sì, «aveva generato Ismaele a ottantasette anni, ma a cento anni un figlio è troppo, non si può capire!». E così «rise». Ma proprio «quel sorriso, quel riso è stato l’inizio della gioia di Abramo». Ecco, dunque, il senso delle parole di Gesù riproposte oggi dal Papa come messaggio centrale: «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza». Difatti, «non osava credere e disse al Signore: “Ma se almeno Ismaele vivesse nella tua presenza?”». Ricevendo questa risposta: «No, non sarà Ismaele. Sarà un altro».
Per Abramo, dunque, «la gioia era piena» ha affermato il Papa. Ma «anche la moglie Sara, un po’ dopo, rise: era un po’ nascosta, dietro le tende dell’entrata, ascoltando quello che dicevano gli uomini». E «quando questi inviati di Dio dissero ad Abramo della notizia sul figlio, anche lei rise». È proprio questo, ha ribadito Francesco, «l’inizio della grande gioia di Abramo». Sì, «la grande gioia: esultò nella speranza di vedere questo giorno; lo vide e fu pieno di gioia». E il Papa ha invitato a guardare «questa bella icona: Abramo che era davanti a Dio, che si prostrò con il viso a terra: sentì questa promessa e aprì il cuore alla speranza e fu pieno di gioia».
E proprio «questo è quello che non capivano questi dottori della legge» ha rimarcato Francesco. «Non capivano la gioia della promessa; non capivano la gioia della speranza; non capivano la gioia dell’alleanza. Non capivano». E «non sapevano gioire, perché avevano perso il senso della gioia che, soltanto, viene dalla fede». Invece, ha spiegato il Papa, «il nostro padre Abramo è stato capace di gioire perché aveva fede: è stato fatto giusto nella fede». Da parte loro quei dottori della legge «avevano perso la fede: erano dottori della legge, ma senza fede!». Ma «di più: avevano perso la legge! Perché il centro della legge è l’amore, l’amore per Dio e per il prossimo». Essi, però, «avevano solo un sistema di dottrine precise e che precisavano ogni giorno in più che nessuno le toccasse».
Erano «uomini senza fede, senza legge, attaccati a dottrine che anche diventano un atteggiamento casistico». E Francesco ha proposto anche esempi concreti: «Si può pagare la tassa a Cesare, non si può? Questa donna, che è stata sposata sette volte, quando andrà in cielo sarà sposa di quei sette?». E «questa casistica era il loro mondo: un mondo astratto, un mondo senza amore, un mondo senza fede, un mondo senza speranza, un mondo senza fiducia, un mondo senza Dio». Proprio «per questo non potevano gioire».
E non gioivano neppure se facevano qualche festa per divertirsi: tanto che, ha affermato il Papa, di sicuro avranno «stappato alcune bottiglie quando Gesù è stato condannato». Ma sempre «senza gioia», anzi «con paura perché uno di loro, forse mentre bevevano», avrà ricordato la promessa «che sarebbe risorto». E così «subito, con paura, sono andati dal procuratore a dire “per favore, prendetevi cura di questo, che non ci sia un trucco”». Tutto questo perché «avevano paura».
Ma «questa è la vita senza fede in Dio, senza fiducia in Dio, senza speranza in Dio» ha affermato ancora il Papa. «La vita di questi — ha aggiunto — che soltanto quando hanno capito che non avevano ragione» hanno pensato che rimaneva solo la strada di prendere le pietre per lapidare Gesù. «Il loro cuore era pietrificato». Infatti «è triste essere credente senza gioia — ha spiegato Francesco — e la gioia non c’è quando non c’è la fede, quando non c’è la speranza, quando non c’è la legge, ma soltanto le prescrizioni, la dottrina fredda. Questo è quello che vale». In contrapposizione, il Papa ha riproposto di nuovo «la gioia di Abramo, quel bel gesto del sorriso di Abramo» quando ascolta la promessa di avere «un figlio a cento anni». E «anche il sorriso di Sara, un sorriso di speranza». Perché «la gioia della fede, la gioia del Vangelo è la pietra di paragone della fede di una persona: senza gioia quella persona non è un vero credente».
In conclusione, Francesco ha invitato a far proprie le parole di Gesù: «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia». E ha chiesto «al Signore la grazia di essere esultanti nella speranza, la grazia di poter vedere il giorno di Gesù quando ci troveremo con Lui e la grazia della gioia».
[Papa Francesco, s Marta, in L’Osservatore Romano 27/03/2015]
La speranza è attesa di qualcosa di positivo per il futuro, ma che al tempo stesso deve sostenere il nostro presente, segnato non di rado da insoddisfazioni e insuccessi. Dove si fonda la nostra speranza? Guardando alla storia del popolo di Israele narrata nell’Antico Testamento, vediamo emergere, anche nei momenti di maggiore difficoltà come quelli dell’esilio, un elemento costante, richiamato in particolare dai profeti: la memoria delle promesse fatte da Dio ai Patriarchi; memoria che chiede di imitare l’atteggiamento esemplare di Abramo, il quale, ricorda l’Apostolo Paolo, «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: così sarà la tua discendenza» (Rm 4,18). Una verità consolante e illuminante che emerge da tutta la storia della salvezza è allora la fedeltà di Dio all’alleanza, alla quale si è impegnato e che ha rinnovato ogniqualvolta l’uomo l’ha infranta con l’infedeltà, con il peccato, dal tempo del diluvio (cfr Gen 8,21-22), a quello dell’esodo e del cammino nel deserto (cfr Dt 9,7); fedeltà di Dio che è giunta a sigillare la nuova ed eterna alleanza con l’uomo, attraverso il sangue del suo Figlio, morto e risorto per la nostra salvezza.
In ogni momento, soprattutto in quelli più difficili, è sempre la fedeltà del Signore, autentica forza motrice della storia della salvezza, a far vibrare i cuori degli uomini e delle donne e a confermarli nella speranza di giungere un giorno alla «Terra promessa». Qui sta il fondamento sicuro di ogni speranza: Dio non ci lascia mai soli ed è fedele alla parola data. Per questo motivo, in ogni situazione felice o sfavorevole, possiamo nutrire una solida speranza e pregare con il salmista: «Solo in Dio riposa l’anima mia: da lui la mia speranza» (Sal 62,6). Avere speranza equivale, dunque, a confidare nel Dio fedele, che mantiene le promesse dell’alleanza. Fede e speranza sono pertanto strettamente unite. « “Speranza”, di fatto, è una parola centrale della fede biblica, al punto che in diversi passi le parole “fede” e “speranza” sembrano interscambiabili. Così la Lettera agli Ebrei lega strettamente alla “pienezza della fede” (10,22) la “immutabile professione della speranza” (10,23). Anche quando la Prima Lettera di Pietro esorta i cristiani ad essere sempre pronti a dare una risposta circa il logos - il senso e la ragione - della loro speranza (cfr 3,15), “speranza” è l'equivalente di “fede”» (Enc. Spe salvi, 2).
Cari fratelli e sorelle, in che cosa consiste la fedeltà di Dio alla quale affidarci con ferma speranza? Nel suo amore. Egli, che è Padre, riversa nel nostro io più profondo, mediante lo Spirito Santo, il suo amore (cfr Rm 5,5). E proprio questo amore, manifestatosi pienamente in Gesù Cristo, interpella la nostra esistenza, chiede una risposta su ciò che ciascuno vuole fare della propria vita, su quanto è disposto a mettere in gioco per realizzarla pienamente. L’amore di Dio segue a volte percorsi impensabili, ma raggiunge sempre coloro che si lasciano trovare. La speranza si nutre, dunque, di questa certezza: « Noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16). E questo amore esigente, profondo, che va oltre la superficialità, ci dà coraggio, ci fa sperare nel cammino della vita e nel futuro, ci fa avere fiducia in noi stessi, nella storia e negli altri. Vorrei rivolgermi in modo particolare a voi giovani e ripetervi: «Che cosa sarebbe la vostra vita senza questo amore? Dio si prende cura dell’uomo dalla creazione fino alla fine dei tempi, quando porterà a compimento il suo progetto di salvezza. Nel Signore Risorto abbiamo la certezza della nostra speranza» (Discorso ai giovani della diocesi di San Marino-Montefeltro, 19 giugno 2011).
Come avvenne nel corso della sua esistenza terrena, anche oggi Gesù, il Risorto, passa lungo le strade della nostra vita, e ci vede immersi nelle nostre attività, con i nostri desideri e i nostri bisogni. Proprio nel quotidiano continua a rivolgerci la sua parola; ci chiama a realizzare la nostra vita con Lui, il solo capace di appagare la nostra sete di speranza. Egli, Vivente nella comunità di discepoli che è la Chiesa, anche oggi chiama a seguirlo. E questo appello può giungere in qualsiasi momento. Anche oggi Gesù ripete: «Vieni! Seguimi!» (Mc 10,21). Per accogliere questo invito, occorre non scegliere più da sé il proprio cammino. Seguirlo significa immergere la propria volontà nella volontà di Gesù, dargli davvero la precedenza, metterlo al primo posto rispetto a tutto ciò che fa parte della nostra vita: alla famiglia, al lavoro, agli interessi personali, a se stessi. Significa consegnare la propria vita a Lui, vivere con Lui in profonda intimità, entrare attraverso di Lui in comunione col Padre nello Spirito Santo e, di conseguenza, con i fratelli e le sorelle. E questa comunione di vita con Gesù il «luogo» privilegiato dove sperimentare la speranza e dove la vita sarà libera e piena!
[Papa Benedetto, Messaggio per la L Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, 21 aprile 2013]
Cristo afferma; “Prima che Abramo fosse, Io sono” (Gv 8, 58). Non dice: “Io ero”, ma “Io sono” cioè da sempre, in un eterno presente. L’apostolo Giovanni nel prologo del suo Vangelo scrive: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1, 1-3). Dunque quel “prima di Abramo”, nel contesto della polemica di Gesù con gli eredi della tradizione di Israele, che si appellavano ad Abramo, significa: “ben prima di Abramo” e s’illumina alle parole del prologo del quarto Vangelo: “in principio era presso Dio”, cioè nell’eternità propria solo a Dio: nell’eternità comune con il Padre e con lo Spirito Santo. Annuncia infatti il Simbolo Quicumque: “E in questa Trinità nulla è prima o dopo, nulla maggiore o minore, ma tutte e tre le persone sono fra loro coeterne e coeguali”.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 6 novembre 1985]
1. “Credo . . . in Gesù Cristo, suo (di Dio Padre) unico Figlio, nostro Signore; il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine”. Il ciclo di catechesi su Gesù Cristo, che qui sviluppiamo, fa costante riferimento alla verità espressa dalle parole del Simbolo apostolico, ora citate. Esse ci presentano Cristo quale vero Dio - Figlio del Padre - e, nello stesso tempo, quale vero Uomo, Figlio di Maria Vergine. Le catechesi precedenti ci hanno già consentito di avvicinare questa fondamentale verità della fede. Ora, però, dobbiamo cercare di approfondirne il contenuto essenziale: dobbiamo chiederci che cosa significa vero Dio e vero Uomo. È una realtà, questa, che si svela davanti agli occhi della nostra fede mediante l’autorivelazione di Dio in Gesù Cristo. E dato che essa - come ogni altra verità rivelata - può essere rettamente accolta soltanto mediante la fede, è qui in questione il “rationabile obsequium fidei”, l’ossequio ragionevole della fede. A favorire una simile fede vogliono servire le prossime catechesi, incentrate sul mistero del Dio Uomo.
2. Già in precedenza abbiamo rilevato che Gesù Cristo parlava spesso di sé, utilizzando l’appellativo di “figlio dell’uomo” (cf. Mt 16, 28; Mc 2, 28). Tale titolo si collegava con la tradizione messianica dell’Antico Testamento, e nello stesso tempo rispondeva a quella “pedagogia della fede”, a cui Gesù volutamente ricorreva. Egli infatti desiderava che i suoi discepoli e i suoi ascoltatori arrivassero da soli alla scoperta che il “figlio dell’uomo” era insieme il vero Figlio di Dio. Di ciò abbiamo una dimostrazione particolarmente significativa nella professione di Simon Pietro, avvenuta nei dintorni di Cesarea di Filippo, a cui abbiamo già fatto riferimento nelle catechesi precedenti. Gesù provoca con domande gli apostoli e quando Pietro giunge al riconoscimento esplicito della sua identità divina, ne conferma la testimonianza chiamandolo “beato perché né la carne né il sangue gliel’hanno rivelato, ma il Padre” (cf. Mt 16, 17). È il Padre, che rende testimonianza al Figlio, perché soltanto lui conosce il Figlio (cf. Mt 11, 27).
3. Tuttavia nonostante la discrezione a cui Gesù s’atteneva in applicazione di quel principio pedagogico di cui s’è parlato, la verità della sua filiazione divina diventava via via più palese, in base a ciò che egli diceva, e particolarmente a ciò che faceva. Ma, mentre per gli uni essa costituiva oggetto di fede, per gli altri era causa di contraddizione e di accusa. Questo si manifestò in forma definitiva durante il processo davanti al Sinedrio. Racconta il Vangelo di Marco (Mc 14, 61-62): “Il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: “Sei tu il Cristo, figlio di Dio benedetto?”. Gesù rispose: “Io lo sono! E vedrete il figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo””. Nel Vangelo di Luca (Lc 22, 70) la domanda è così formulata: “”Tu dunque sei il figlio di Dio?”. Rispose loro: “Lo dite voi stessi: io lo sono””.
4. La reazione dei presenti è concorde: “Ha bestemmiato! . . . avete udito la bestemmia . . . È reo di morte!” (Mt 26, 65-66). Questa accusa è, per così dire, frutto di un’interpretazione materiale della legge antica.
Leggiamo infatti nel Libro del Levitico: “Chi bestemmia il nome del Signore dovrà essere messo a morte: tutta la comunità lo dovrà lapidare” (Lv 24, 16). Gesù di Nazaret, che davanti ai rappresentanti ufficiali dell’Antico Testamento dichiara di essere il vero Figlio di Dio, pronuncia - secondo la loro convinzione - una bestemmia. Perciò “è reo di morte” e la condanna viene eseguita, anche se non con la lapidazione secondo la disciplina vetero-testamentaria, ma con la crocifissione, secondo la legislazione romana. Chiamare se stesso “Figlio di Dio” voleva dire “farsi Dio” (cf. Gv 10, 33), il che suscitava una protesta radicale da parte dei custodi del monoteismo dell’Antico Testamento.
5. Ciò che alla fine si compì nel processo intentato contro Gesù, in realtà era stato minacciato già prima, come riferiscono i Vangeli, particolarmente quello di Giovanni. Vi leggiamo più di una volta che gli ascoltatori volevano lapidare Gesù, quando ciò che avevano udito dalla sua bocca sembrava loro una bestemmia. Riscontrarono una tale bestemmia, per esempio, nelle sue parole sul tema del Buon Pastore (cf. Gv 10, 27.29), e nella conclusione a cui egli giunse in tale circostanza: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10, 30). Il racconto evangelico prosegue così: “I Giudei portarono di nuovo delle pietre per lapidarlo. Gesù rispose loro: “Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre mio; per quale di esse mi volete lapidare?”. Gli risposero i Giudei: “Non ti lapidiamo per un’opera buona ma per la bestemmia e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio”” (Gv 10, 31-33).
6. Analoga fu la reazione a queste altre parole di Gesù: “Prima che Abramo fosse, Io Sono” (Gv 8, 58). Anche qui Gesù si trovò davanti a una domanda e a un’accusa identica: “Chi pretendi di essere?” (Gv 8, 53), e la risposta a tale domanda ebbe come conseguenza la minaccia della lapidazione (Gv 8, 59).
È dunque chiaro che, benché Gesù parlasse di se stesso soprattutto come del “figlio dell’uomo”, tuttavia tutto l’insieme di ciò che faceva e insegnava rendeva testimonianza che egli era il Figlio di Dio nel senso letterale della parola: che cioè era con il Padre una cosa sola, e quindi: come il Padre, così anche lui era Dio. Del contenuto univoco di tale testimonianza è prova sia il fatto che egli fu riconosciuto e accolto da alcuni: “molti credettero in lui”: (cf. per esempio Gv 8, 30); sia, ancor più, il fatto che trovò in altri un’opposizione radicale, anzi l’accusa di bestemmia con la disposizione a infliggergli la pena, prevista per i bestemmiatori dalla Legge dell’Antico Testamento.
7. Tra le affermazioni di Cristo relative a questo argomento, particolarmente significativa appare l’espressione: “Io Sono”. Il contesto in cui essa viene pronunciata indica che Gesù richiama qui la risposta data a Mosè da Dio stesso, quando gli viene rivolta la domanda circa il suo nome: “Io sono colui che sono . . . Dirai agli Israeliti: Io Sono mi ha mandato a voi” (Es 3, 14). Ora, Cristo si serve della stessa espressione “Io Sono” in contesti molto significativi. Quello di cui s’è parlato, concernente Abramo; “Prima che Abramo fosse, “Io Sono”: ma non solo quello. Così, per esempio: “Se . . . non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati” (Gv 8, 24). E ancora: “Quando avrete innalzato il figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono” (Gv 8, 28), e inoltre: “Ve lo dico fin d’ora, prima che accada, perché, quando sarà avvenuto, crediate che “Io Sono” (Gv 13, 19).
Questo “Io Sono” si trova pure in altri luoghi, presenti nei Vangeli sinottici (per esempio Mt 28,20; Lc 24, 39); ma nelle affermazioni citate sopra l’uso del nome di Dio, proprio del Libro dell’Esodo, appare particolarmente limpido e fermo. Cristo parla della sua “elevazione” pasquale mediante la croce e la successiva risurrezione: “Allora saprete che Io Sono”. Il che vuol dire: allora risulterà pienamente che io sono colui al quale compete il nome di Dio. Con tale espressione perciò Gesù indica di essere il vero Dio. E ancora prima della passione egli prega il Padre così: “Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie” (Gv 17, 10) che è un altro modo per affermare: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10, 30).
Davanti a Cristo, Verbo di Dio incarnato, uniamoci anche noi a Pietro e ripetiamo con lo stesso trasporto di fede: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16)
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 26 agosto 1987]
1. Nella catechesi precedente abbiamo rivolto particolare attenzione a quelle affermazioni, in cui Cristo parla di sé adoperando l’espressione “Io Sono”. Il contesto in cui tali affermazioni compaiono, soprattutto nel Vangelo di Giovanni, ci permette di pensare che, nel ricorrere a detta espressione, Gesù fa riferimento al Nome con cui il Dio dell’antica alleanza qualifica se stesso dinanzi a Mosè, al momento di affidargli la missione a cui è chiamato: “Io sono colui che sono . . . Dirai agli Israeliti: Io Sono mi ha mandato a voi” (Es 3, 14).
Gesù parla di sé in questo modo, per esempio nell’ambito della discussione su Abramo: “Prima che Abramo fosse, Io Sono” (Gv 8, 58). Già quest’espressione ci permette di comprendere che “il Figlio dell’uomo” rende testimonianza alla sua divina preesistenza. E una tale affermazione non è isolata.
2. Più di una volta Cristo parla del mistero della sua Persona, e l’espressione più sintetica sembra essere questa: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo, e vado al Padre” (Gv 16, 28). Gesù rivolge queste parole agli apostoli nel discorso d’addio alla vigilia degli avvenimenti pasquali. Esse indicano chiaramente che prima di “venire” nel mondo, Cristo “era” presso il Padre come Figlio. Indicano quindi la sua preesistenza in Dio. Gesù fa capire chiaramente che la sua esistenza terrena non può essere separata da tale preesistenza in Dio. Senza di essa la sua realtà personale non può essere correttamente intesa.
3. Espressioni simili sono numerose. Quando Gesù accenna alla sua venuta dal Padre nel mondo, le sue parole fanno di solito riferimento alla sua preesistenza divina. Questo è particolarmente chiaro nel Vangelo di Giovanni. Gesù dice davanti a Pilato: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18, 37); e forse non è senza importanza il fatto che Pilato Gli chieda più tardi: “Di dove sei?” (Gv 19, 9). E prima ancora leggiamo: “La mia testimonianza è vera, perché so da dove vengo e dove vado” (Gv 8, 14). A proposito di quel “di dove sei?” nel colloquio notturno con Nicodemo possiamo udire una significativa dichiarazione: “Nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo” (Gv 3, 13). Questa “venuta” dal cielo, dal Padre, indica la “preesistenza” divina di Cristo anche in relazione alla sua “dipartita”: “E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?” - domanda Gesù nel contesto del “discorso eucaristico” nei pressi di Cafarnao (cf. Gv 6, 62).
4. L’intera esistenza terrena di Gesù come Messia risulta da quel “prima” e ad esso si riconnette come a una “dimensione” fondamentale secondo la quale il Figlio è “una cosa sola” con il Padre. Quanto eloquenti sono da questo punto di vista le parole della “preghiera sacerdotale” nel cenacolo: “Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse” (Gv 17, 4-5).
Anche nei Vangeli sinottici si parla in molti luoghi della “venuta” del Figlio dell’uomo per la salvezza del mondo (cf. ad esempio Lc 19, 10; Mc 10, 45; Mt 20, 28); tuttavia i testi di Giovanni contengono un riferimento particolarmente chiaro alla preesistenza di Cristo.
5. La sintesi più piena di questa verità è contenuta nel Prologo del quarto Vangelo. Si può dire che in tale testo la verità sulla preesistenza divina del Figlio dell’uomo acquista un’ulteriore esplicitazione, quella in certo senso definitiva: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui . . . In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta” (Gv 1, 1-5).
In queste frasi l’evangelista conferma ciò che Gesù diceva di se stesso, quando dichiarava: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo” (Gv 16, 28), oppure quando pregava perché il Padre lo glorificasse con quella gloria che egli aveva preso di lui prima che il mondo fosse (cf. Gv 17, 5). Nello stesso tempo la preesistenza del Figlio nel Padre si collega strettamente con la rivelazione del mistero trinitario di Dio: il Figlio è l’eterno Verbo, è “Dio da Dio”, della stessa sostanza del Padre (come si esprimerà il Concilio di Nicea nel Simbolo della fede). La formula conciliare riflette precisamente il Prologo di Giovanni: “Il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”. Affermare la preesistenza di Cristo nel Padre equivale a riconoscerne la Divinità. Alla sua sostanza, così come alla sostanza del Padre, appartiene l’eternità. È ciò che viene indicato col riferimento alla preesistenza eterna nel Padre.
6. Il Prologo di Giovanni, mediante la rivelazione della verità sul Verbo, ivi contenuta, costituisce come il definitivo completamento di ciò che già l’Antico Testamento aveva detto della Sapienza. Si vedano, ad esempio, le seguenti affermazioni: “Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi creò; per tutta l’eternità non verrò meno” (Sir 24, 9), “Il mio creatore mi fece piantare la tenda e mi disse: fissa la tenda in Giacobbe” (Sir 24, 8). La Sapienza, di cui parla l’Antico Testamento, è una creatura e nello stesso tempo ha attributi che la mettono al di sopra dell’intero creato: “Sebbene unica, essa può tutto; pur rimanendo in se stessa, tutto rinnova” (Sap 7, 27).
La verità sul Verbo, contenuta nel Prologo di Giovanni, riconferma in un certo senso la rivelazione circa la sapienza presente nell’Antico Testamento, e in pari tempo la trascende in modo definitivo. Il Verbo non soltanto “è presso Dio”, ma “è Dio”. Venendo in questo mondo nella persona di Gesù Cristo, il Verbo “venne fra la sua gente”, poiché “il mondo fu fatto per mezzo di lui” (cf. Gv 1, 10-11). Venne tra “i suoi” perché è “la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (cf. Gv 1, 9). L’autorivelazione di Dio in Gesù Cristo consiste in questa “venuta” nel mondo del Verbo, che è l’eterno Figlio.
7. “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1, 14). Diciamolo ancora una volta: il Prologo di Giovanni è l’eco eterna delle parole con cui Gesù dice: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo” (Gv 16, 28), e di quelle con cui prega che il Padre lo glorifichi con quella gloria che Egli aveva presso di lui prima che il mondo fosse (cf. Gv 17, 5). L’Evangelista ha davanti agli occhi la rivelazione veterotestamentaria circa la Sapienza, e nello stesso tempo l’intero avvenimento pasquale: la dipartita mediante la croce e la risurrezione, in cui la verità su Cristo, Figlio dell’uomo e vero Dio, si è resa completamente chiara a quanti sono stati i suoi testimoni oculari.
8. In stretto rapporto con la rivelazione del Verbo, cioè con la divina preesistenza di Cristo, trova pure conferma la verità sull’Emmanuele. Questa parola - che nella traduzione letterale significa “Dio con noi” - esprime una presenza particolare e personale di Dio nel mondo. Quell’“Io sono” di Cristo manifesta proprio questa presenza già preannunziata da Isaia (cf. Is 7, 14), proclamata sulla scia del profeta nel Vangelo di Matteo (cf. Mt 1, 23), e confermata nel Prologo di Giovanni: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1, 14). Il linguaggio degli evangelisti è multiforme, ma la verità che essi esprimono è la stessa. Nei sinottici Gesù pronuncia il suo “io sono con voi” particolarmente nei momenti difficili (come per esempio: Mt 14, 27; Mc 6, 50; Gv 6, 20), in occasione della tempesta sedata, come pure nella prospettiva della missione apostolica della Chiesa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20).
9. L’espressione di Cristo: “Sono uscito dal Padre e sono nel mondo” (Gv 16, 28) contiene un significato salvifico, soteriologico. Tutti gli evangelisti lo manifestano. Il Prologo di Giovanni lo esprime nelle parole: “A quanti . . . l’hanno accolto (il Verbo), ha dato potere di diventare figli di Dio”, la possibilità cioè di essere generati da Dio (cf. Gv 1, 12-13).
Questa è la verità centrale di tutta la soteriologia cristiana, organicamente connessa con la realtà rivelata del Dio-Uomo. Dio si fece uomo, affinché l’uomo potesse partecipare realmente della vita di Dio, potesse anzi diventare, in un certo senso, Dio egli stesso. Già gli antichi Padri della Chiesa hanno avuto di ciò chiara coscienza. Basti ricordare sant’Ireneo, il quale, esortando a seguire Cristo, unico maestro vero e sicuro, affermava. “Per l’immenso suo amore egli s’è fatto ciò che noi siamo, per dare a noi la possibilità di essere ciò che è lui” (cf. S. Irenaei, Adversus haereses, V, Praef.: PG 7, 1120).
Questa verità ci apre orizzonti sconfinati, nei quali situare l’espressione concreta della nostra vita cristiana, alla luce della fede in Cristo, Figlio di Dio, Verbo del Padre.
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 2 settembre 1987]
«Nelle due letture» proposte oggi dalla liturgia, ha fatto subito notare il Pontefice all’omelia, «si parla di tempo, di eternità, di anni, di futuro, di passato» (Genesi 17, 3-9 e Giovanni 8, 51-59). Tanto che proprio «il tempo sembra essere la realtà più importante nel messaggio liturgico di questo giovedì». Ma Francesco ha preferito «prendere un’altra parola» che, ha suggerito, «credo sia proprio il messaggio nella Chiesa oggi». E sono le parole di Gesù riportate dall’evangelista Giovanni: «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia».
Dunque, il messaggio centrale di oggi è «la gioia della speranza, la gioia della fiducia nella promessa di Dio, la gioia della fecondità». Proprio «Abramo, nel tempo del quale parla la prima lettura, aveva novantanove anni e il Signore apparve a lui e assicurò l’alleanza» con queste parole: «Quanto a me, ecco, la mia alleanza è con te: diventerai padre».
Abramo, ha ricordato Francesco, «aveva un figlio di dodici, tredici anni: Ismaele». Ma Dio gli assicura che diventerà «padre di una moltitudine di nazioni». E «gli cambia il nome». Poi «continua e gli chiede di essere fedele all’alleanza» dicendo: «Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza e dopo di te di generazione in generazione, come alleanza perenne». In pratica, Dio dice ad Abramo «ti do tutto, ti do il tempo: ti do tutto, tu sarai padre».
Sicuramente Abramo, ha detto il Papa, «era felice di questo, era pieno di consolazione» ascoltando la promessa del Signore: «Entro un anno avrai un altro figlio». Certo, a quelle parole «Abramo rise, dice la Bibbia in seguito: ma come, a cento anni un figlio?». Sì, «aveva generato Ismaele a ottantasette anni, ma a cento anni un figlio è troppo, non si può capire!». E così «rise». Ma proprio «quel sorriso, quel riso è stato l’inizio della gioia di Abramo». Ecco, dunque, il senso delle parole di Gesù riproposte oggi dal Papa come messaggio centrale: «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza». Difatti, «non osava credere e disse al Signore: “Ma se almeno Ismaele vivesse nella tua presenza?”». Ricevendo questa risposta: «No, non sarà Ismaele. Sarà un altro».
Per Abramo, dunque, «la gioia era piena» ha affermato il Papa. Ma «anche la moglie Sara, un po’ dopo, rise: era un po’ nascosta, dietro le tende dell’entrata, ascoltando quello che dicevano gli uomini». E «quando questi inviati di Dio dissero ad Abramo della notizia sul figlio, anche lei rise». È proprio questo, ha ribadito Francesco, «l’inizio della grande gioia di Abramo». Sì, «la grande gioia: esultò nella speranza di vedere questo giorno; lo vide e fu pieno di gioia». E il Papa ha invitato a guardare «questa bella icona: Abramo che era davanti a Dio, che si prostrò con il viso a terra: sentì questa promessa e aprì il cuore alla speranza e fu pieno di gioia».
E proprio «questo è quello che non capivano questi dottori della legge» ha rimarcato Francesco. «Non capivano la gioia della promessa; non capivano la gioia della speranza; non capivano la gioia dell’alleanza. Non capivano». E «non sapevano gioire, perché avevano perso il senso della gioia che, soltanto, viene dalla fede». Invece, ha spiegato il Papa, «il nostro padre Abramo è stato capace di gioire perché aveva fede: è stato fatto giusto nella fede». Da parte loro quei dottori della legge «avevano perso la fede: erano dottori della legge, ma senza fede!». Ma «di più: avevano perso la legge! Perché il centro della legge è l’amore, l’amore per Dio e per il prossimo». Essi, però, «avevano solo un sistema di dottrine precise e che precisavano ogni giorno in più che nessuno le toccasse».
Erano «uomini senza fede, senza legge, attaccati a dottrine che anche diventano un atteggiamento casistico». E Francesco ha proposto anche esempi concreti: «Si può pagare la tassa a Cesare, non si può? Questa donna, che è stata sposata sette volte, quando andrà in cielo sarà sposa di quei sette?». E «questa casistica era il loro mondo: un mondo astratto, un mondo senza amore, un mondo senza fede, un mondo senza speranza, un mondo senza fiducia, un mondo senza Dio». Proprio «per questo non potevano gioire».
E non gioivano neppure se facevano qualche festa per divertirsi: tanto che, ha affermato il Papa, di sicuro avranno «stappato alcune bottiglie quando Gesù è stato condannato». Ma sempre «senza gioia», anzi «con paura perché uno di loro, forse mentre bevevano», avrà ricordato la promessa «che sarebbe risorto». E così «subito, con paura, sono andati dal procuratore a dire “per favore, prendetevi cura di questo, che non ci sia un trucco”». Tutto questo perché «avevano paura».
Ma «questa è la vita senza fede in Dio, senza fiducia in Dio, senza speranza in Dio» ha affermato ancora il Papa. «La vita di questi — ha aggiunto — che soltanto quando hanno capito che non avevano ragione» hanno pensato che rimaneva solo la strada di prendere le pietre per lapidare Gesù. «Il loro cuore era pietrificato». Infatti «è triste essere credente senza gioia — ha spiegato Francesco — e la gioia non c’è quando non c’è la fede, quando non c’è la speranza, quando non c’è la legge, ma soltanto le prescrizioni, la dottrina fredda. Questo è quello che vale». In contrapposizione, il Papa ha riproposto di nuovo «la gioia di Abramo, quel bel gesto del sorriso di Abramo» quando ascolta la promessa di avere «un figlio a cento anni». E «anche il sorriso di Sara, un sorriso di speranza». Perché «la gioia della fede, la gioia del Vangelo è la pietra di paragone della fede di una persona: senza gioia quella persona non è un vero credente».
In conclusione, Francesco ha invitato a far proprie le parole di Gesù: «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia». E ha chiesto «al Signore la grazia di essere esultanti nella speranza, la grazia di poter vedere il giorno di Gesù quando ci troveremo con Lui e la grazia della gioia».
[Papa Francesco, s Marta, in L’Osservatore Romano 27/03/2015]
5a Domenica di Quaresima (anno C) [6 aprile 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Domani, mercoledì 2 aprile sarà il XX anniversario della morte di san Giovanni Paolo II. Lo ricordiamo nella preghiera invocando la sua protezione e intercessione.
*Prima Lettura Dal libro del profeta Isaia (43,16-21)
A prima vista, questo testo consta di due parti tra loro contraddittorie: la prima è un richiamo al passato, all’uscita dall’Egitto, mentre nella seconda il profeta esorta a lasciarsi alle spalle il passato. Ma di quale passato si tratta? Proviamo a meglio capire esaminando una dopo l’altra queste due parti. L’incipit è come sempre solenne: “Così dice il Signore” per introdurre parole di grande importanza cui immediatamente segue il riferimento al celebre passaggio nel mare, il miracolo del mare dei Giunchi durante la fuga degli Ebrei dall’Egitto: “Il Signore aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti”. Torna sempre il richiamo alla notte memorabile della liberazione dall’Egitto narrata nel capitolo 14 del libro dell’Esodo. Nella prima lettura Isaia offre ulteriori dettagli: “il Signore fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo e tutti giacciono morti e mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo”. Dio salvò il suo popolo distruggendo gli egiziani ed è interessante notare che Isaia utilizza il nome “Signore” (il Tetragramma YHVH), nome che qualifica il Dio del Sinai come il liberatore del suo popolo. Ecco l’opera di Dio nel passato che costituisce la fonte della speranza per il futuro di Israele e Isaia precisa:”Ecco, io faccio una cosa nuova”. Per capire di che si tratta e a chi il profeta preannuncia un mondo nuovo, occorre rifarsi al contesto storico. Il deuteroIsaia, che qui stiamo leggendo, visse nel VI secolo a.C., durante l’esilio a Babilonia (dal 587 al 538 a.C.), periodo segnato da una prova terribile: deportanti a Babilonia da Nabucodonosor, re di Babilonia, che aveva sconfitto il piccolo regno di Giuda di cui Gerusalemme era la capitale, gli ebrei speravano un giorno di fuggire dalla Babilonia, ma esistevano serie difficoltà perché bisognava attraversare il deserto della Siria, lungo centinaia di chilometri e in condizioni terribili per dei fuggiaschi. Il profeta ha quindi il compito difficile di ridare coraggio ai suoi contemporanei: lo fa in questo libro chiamato il libro della Consolazione di Israele, perché il capitolo 40 inizia così: “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio”. E quando dice: “il vostro Dio” richiama l’Alleanza mai spezzata perché Dio non li ha abbandonati. In effetti, una delle formule dell’Alleanza era: “Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio” e ogni volta che echeggia l’espressione mio Dio o vostro Dio, il possessivo è un incoraggiante richiamo all’Alleanza e, al tempo stesso, una professione di fede. Isaia intende mantenere accesa la speranza degli esiliati ricordando che Dio non solo non li ha abbandonati, anzi al contrario prepara già il loro ritorno in patria. Non si vede ancora nulla, ma avverrà e perché si è certi? Perché Dio è fedele alla sua Alleanza e da quando ha scelto questo popolo non ha mai smesso di liberarlo e di mantenerlo in vita, attraverso tutte le vicissitudini della sua storia. L’ha liberato dal faraone; l’ha protetto lungo tutto il cammino, lo ha fatto passare attraverso il mare all’asciutto al momento dell’uscita dall’Egitto.La speranza di Israele poggia dunque sul suo passato: questo è il significato della parola “Memoriale”, costante memoria dell’opera di Dio che continua ancora oggi e da questo si trae la certezza che continuerà anche nel futuro. Passato, presente, futuro: Dio è sempre presente accanto al suo popolo. Questo è uno dei significati del nome di Dio: “Io sono”, cioè sono con voi in ogni circostanza. E proprio durante il difficile periodo dell’esilio, quando c’era il rischio di cedere alla disperazione, Isaia sviluppa una nuova metafora, quella del germoglio: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” Partendo dall’esperienza straordinaria di un minuscolo seme capace di diventare un grande albero, è facile capire come la parola “germoglio” sia diventata in Israele e oggi per noi simbolo di speranza ed è importante imparare a riconoscere i germogli del mondo nuovo, il Regno che Dio sta costruendo.
*Salmo responsoriale [125 (126)]
Questo salmo fa eco alla prima lettura, dove il profeta Isaia annuncia il ritorno del popolo esiliato a Babilonia e canta questo miracolo così come gli ebrei avevano cantato il prodigio dell’uscita dall’Egitto. Questi gli eventi: nel 587 a.C. Nabucodonosor, re di Babilonia, aveva conquistato Gerusalemme e deportato la popolazione, ma, a sua volta, fu sconfitto da Ciro, re di Persia ben noto per i suoi successi. Le truppe di Nabucodonosor saccheggiavano, depredavano, stupravano, massacravano e devastavano deportando sistematicamente le popolazioni. Ciro, invece, adottò una politica completamente diversa: preferì governare su popoli prosperi e permise a tutte le popolazioni deportate di tornare nelle loro terre d’origine fornendo pure i mezzi per farlo. E così, conquistata Babilonia nel 539 a.C., già nel 538 permise agli ebrei di rientrare a Gerusalemme, concedendo loro anche aiuti economici e restituendo persino gli oggetti saccheggiati dal Tempio dai soldati di Nabucodonosor.
Nel salmo non si dice “Quando il re di Persia Ciro ristabilì la sorte di Sion” ma “quando il Signore ristabilì la sorte di Sion”, un modo per affermare che Dio rimane il Signore della storia che ne muove tutti i fili e pertanto non c’è nessun altro dio – ancora un cenno alla lotta contro l’idolatria. Questo salmo, scritto probabilmente molto tempo dopo il ritorno dall’esilio, evoca la gioia e l’emozione della liberazione e del ritorno. Quante volte durante l’esilio, si sognava questo momento! Quando si è realizzato, quasi non si osava crederci: “Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion ci sembrava di sognare…la bocca si riempì di sorriso, la nostra lingua di gioia”. Ci si immagina persino che anche gli altri popoli siano stupiti da questo miracolo: “Allora si diceva tra le genti: “Il Signore ha fatto grandi cose per loro”. In questa frase emergono due elementi: un’infinita gratitudine per la gratuità della scelta di Dio e la consapevolezza del popolo eletto di essere stato scelto per il mondo: la sua vocazione è essere testimone dell’opera di Dio, consapevolezza maturata proprio durante l’esilio. Nel salmo, lo stupore per la scelta di Dio è espresso con i termini: “grandi cose” cioè l’opera di liberazione di Dio, in particolare la liberazione dall’Egitto. Parole come impresa, opera, grandi cose, meraviglie, che si trovano spesso nei salmi, sono sempre un richiamo all’Esodo. Qui, si aggiunge una nuova opera di liberazione di Dio: la fine dell’esilio vissuta dal popolo come una vera e propria risurrezione. Per esprimerlo, il salmista usa due immagini: I torrenti nel deserto: “Ristabilisci, Signore, la nostra sorte, come i torrenti nel Negheb”, deserto a sud di Gerusalemme, dove in primavera fioriscono miriadi di fiori. L’altra immagine è il seme: “chi semina nelle lacrime, mieterà nella gioia”. il grano seminato sembra marcire e morire… ma quando spuntano le spighe, è come una rinascita, immagine eloquente perché il ritorno degli esiliati significava una vera rinascita anche per la terra. Un’ultima osservazione: quando in questo salmo si canta il ritorno dall’esilio babilonese, esso era già avvenuto da molto tempo, ma Israele non parla del passato solo per raccontarlo, bensì per comunicare un messaggio e un insegnamento per il futuro: questo ritorno alla vita, collocato storicamente, diventa ragione per sperare in altre future risurrezioni e liberazioni. Ogni anno, durante la festa delle Capanne, in autunno, questo canto veniva intonato durante il pellegrinaggio a Gerusalemme. Mentre i pellegrini salgono, cantano la liberazione già avvenuta e pregano Dio di affrettare il giorno della liberazione definitiva, quando apparirà il Messia promesso. Esistono anche oggi molti luoghi di schiavitù, molti «Egitto» e «Babilonia». È a questo che si pensa quando si canta: “Ristabilisci, Signore, la nostra sorte come i torrenti nel Negheb” chiedendo la grazia di collaborare con tutte le nostre forze all’opera di liberazione inaugurata dal Messia per affrettare il giorno in cui l’intera umanità possa cantare: “Grandi cose ha fatto il Signore per noi”
*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi (3,8-14)
San Paolo usa l’immagine della corsa e sappiamo quanto sia importante per ogni persona il traguardo e la voglia di raggiungerlo. Qui l’apostolo parla di sé stesso: “So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù in Cristo Gesù”. Per correre verso questa stessa meta e ottenere il premio promesso, occorre voltare le spalle a molte cose, come ha fatto san Paolo da quando si è sentito conquistato da Cristo. Il verbo greco che utilizza (katalambano) significa afferrare, catturare, prendere con forza ed esprime il modo con cui è stato trasformato completamente da persecutore dei cristiani in apostolo del vangelo (At.9) quando Cristo si è letteralmente impossessato di lui sulla via di Damasco. San Paolo presenta la sua fede cristiana come naturale continuazione della sua fede ebraica perché Cristo realizza pienamente le attese dell’Antico Testamento assicurandone la continuità con il Nuovo Testamento. Qui però insiste sulla novità che Gesù Cristo apporta: “Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore”. La conoscenza di Cristo reca una novità radicale perché si diventa realmente una “nuova creatura”, come scrive nella seconda lettera ai Corinzi, che abbiamo letto domenica scorsa (2 Cor 5,17-21). Ora lo dice in un altro modo: “Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui”. In altre parole: quel che prima ai mei occhi appariva importante, cioè un vantaggio e un privilegio , adesso li rifiuto del tutto. I vantaggi di cui parla erano l’orgoglio di appartenere al popolo d’Israele, la fede e l’incrollabile speranza di quel popolo, la pratica assidua e scrupolosa di tutti i comandamenti che egli chiama l’obbedienza alla legge di Mosè. Ma ormai Gesù Cristo ha preso tutto lo spazio nella sua vita ed egli possiede il bene più grande, l’unica vera ricchezza al mondo, il vero tesoro dell’umana esistenza: conoscere Cristo. Conoscere nel linguaggio biblico non significa conoscenza intellettuale ma vivere nell’ intimità con qualcuno, amarlo e condividerne la vita. Paolo insiste su questo legame con Cristo perché nella comunità di Filippi alcuni cristiani di origine ebraica volevano imporre la circoncisione a tutti i cristiani prima del battesimo e questo creava grande divisione come abbiamo letto nella seconda lettura della seconda domenica di Quaresima. Tale questione fu risolta dagli Apostoli durante il primo Concilio a Gerusalemme affermando che nella Nuova Alleanza, la Legge di Mosè è stata superata e il battesimo nel nome di Gesù ci rende figli di Dio per cui la circoncisione non è più indispensabile per far parte del popolo della Nuova Alleanza. Paolo inoltre parla qui di “comunione” alle sofferenze di Cristo, di conformazione alla sua morte nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti, innestati in lui per seguire il suo stesso cammino: “comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte”.
Nota: San Paolo c’invita a vivere come Cristo e ad accettare tutti i rischi dell’annuncio del Vangelo, ma riusciamo a dire, come lui, che l’unico bene per noi è la conoscenza di Cristo e tutto il resto non è che spazzatura? La parola spazzatura che qui è usata traduce il termine greco skubala che ha un significato molto forte traducibile in più modi: come rifiuto, scarto, escrementi secchi e sporcizia, residuo di cibo marcio e avariato. Insomma un rifiuto totale di tutto, quando si conosce Cristo e da lui si è posseduti.
*Dal Vangelo secondo Giovanni (8, 1-11)
Siamo già nel contesto della Passione e la prima riga menziona il Monte degli Ulivi. Dato che gli evangelisti ne parlano solo negli ultimi giorni della vita pubblica di Gesù e i farisei vogliono qui tendergli un tranello, questo fa capire che ormai si è deciso di processarlo e condannarlo. Per questo ogni dettaglio di questo testo va esaminato attentamente perché non si tratta di un semplice episodio della vita di Gesù, ma del cuore stesso della sua missione. All’inizio Gesù è seduto come un maestro: “tutto il popolo andava da lui ed egli sedette e si mise a insegnare loro”. Tuttavia la domanda degli scribi e dei farisei lo mette subito nella posizione di giudice e Gesù è l’unico personaggio seduto. Questo dettaglio ci aiuta a capire che il tema del giudizio, in san Giovanni, è centrale: l’episodio della donna adultera attua ciò che scrive all’inizio del suo vangelo: “Dio ha mandato il Figlio nel mondo, non per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17). Siamo davanti a un finto processo perché la questione è chiara: la donna adultera è stata colta in flagrante e ci sono testimoni; la Legge di Mosè condanna l’adulterio, come uno dei comandamenti dati da Dio sul Sinai (Non commetterai adulterio, Es 20,14; Dt 5,18); il Levitico prescrive la pena di morte: “Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno essere messi a morte” (Lv 20,10). Gli scribi e i farisei, che interrogano Gesù, sono come sempre molto attaccati alla Legge di Mosè, ma dimenticano di aggiungere che la Legge prevede la condanna per entrambi i colpevoli, l’uomo e la donna adultera. Il fatto che pur sapendolo nessuno lo ricorda, ciò dimostra che la vera questione non è l’osservanza della Legge, ma ben altro, e il testo lo dice chiaramente: “Dicevano questo per metterlo alla prova e per aver motivo di accusarlo”. E’ dunque una domanda-trappola e di che cosa vogliono accusare Gesù? Gesù non può approvare la lapidazione perché smentirebbe tutta la predicazione sulla misericordia; se però pubblicamente difende la donna, potrà essere accusato di incitare il popolo a disobbedire alla Legge. Nel Vangelo di Giovanni (capitolo 5), lo abbiamo già visto dire al paralitico guarito di prendere il suo lettuccio, un atto proibito di sabato. Quel giorno non riuscirono a condannarlo, ma questa volta la disobbedienza sarebbe stata pubblica. In fondo, nonostante l’apparente rispetto con cui lo chiamano “Maestro”, Gesù è in pericolo tanto quanto la donna adultera: entrambi rischiano la morte. Gesù non risponde subito: “Si chinò e si mise a scrivere col dito per terra”. Con il suo silenzio, silenzio costruttivo, invita ciascuno a riflettere senza umiliare nessuno e lui, incarnazione della misericordia, non mette in difficoltà né gli scribi e i farisei, né la donna adultera: Desidera che ciascuno faccia un passo avanti cercando di rivelare ai farisei e agli scribi il vero volto del Dio della misericordia. Quando risponde lo fa quasi ponendo una domanda: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. A questo punto tutti se ne vanno, “uno per uno, cominciando dai più anziani». Niente di sorprendente: i più anziani appaiono quelli più pronti ad ascoltare l’appello alla misericordia. Chi sa quante volte hanno sperimentato su di loro la misericordia di Dio… Quante volte hanno letto, cantato, meditato il versetto: «Dio di tenerezza e di pietà, lento all’ira e ricco di amore» (Es 34,6. Quante volte hanno recitato il Salmo 50(51): «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia, nella tua grande bontà cancella il mio peccato”. Ora possono capire che la loro mancanza di misericordia è una colpa, una mancanza di fedeltà al Dio dell’Alleanza. La frase di Gesù potrebbe averli portati a questa riflessione: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra”. Essere il primo a scagliare la pietra era un’espressione nota a tutti nel contesto della lotta contro l’idolatria. La Legge non diceva che doveva essere il testimone dell’adulterio a lanciare la prima pietra; ma lo diceva espressamente per il caso dell’idolatria (Dt 13,9-10; Dt 17,7). Così la risposta di Gesù può essere interpretata come: «Questa donna è colpevole di adulterio, nel senso letterale del termine, è vero; ma voi non state forse commettendo un adulterio ancora più grave, un’infedeltà al Dio dell’Alleanza? I profeti spesso parlano dell’idolatria in termini di adulterio. Alla fine, restano solo Gesù e la donna: è il faccia a faccia, come dice sant’Agostino, tra la miseria e la misericordia. Per lei, il Verbo compie ancora una volta la sua missione, dicendo la parola di riconciliazione. Isaia, parlando del servo di Dio, l’aveva annunciato: «Non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino fumigante…» (Is 42,3). Ma questo non è buonismo perché Gesù dice chiaramente alla donna di non peccare più, il peccato rimane condannato, ma solamente il perdono può permettere al peccatore di rinascere alla speranza.
Nota: Cosa scrive Gesù per terra? L’evangelista non lo specifica, e questo ha dato origine a diverse interpretazioni: Alcuni Padri della Chiesa, come Sant’Agostino, ipotizzano che Gesù stesse scrivendo i peccati nascosti di coloro che accusavano la donna. Per questo, uno dopo l’altro, essi se ne vanno via; Rimanda alla Legge mosaica: secondo un’interpretazione rabbinica, potrebbe riferirsi a Geremia 17,13: “Quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato il Signore, sorgente di acqua viva.” Se fosse così, Gesù starebbe indicando che gli accusatori stessi sono colpevoli di infedeltà a Dio. Potrebbe essere un atto simbolico di distacco; scrivere nella polvere potrebbe simboleggiare che le accuse contro la donna sono effimere, destinate a svanire; potrebbe indicare un richiamo alla pazienza e alla riflessione; infine potrebbe essere un modo per non rispondere subito, spingendo gli accusatori a riflettere sulla loro ipocrisia.
Il gesto di Gesù invita a spostare l’attenzione non sulla colpa degli altri, ma sulla propria coscienza. Nessuno può condannare un altro senza prima esaminare se stesso. Questo episodio ci insegna che la misericordia di Dio supera la condanna umana, e che il perdono è sempre possibile quando c’è un cuore disposto a cambiare.
La prima lettura e il Vangelo di questa domenica hanno lo stesso messaggio: dimentica il passato, non rimanere attaccato a esso… nulla, nemmeno i ricordi, deve impedirti di andare avanti. Nella prima lettura, Isaia parla al popolo in esilio… nel Vangelo, Gesù parla a una donna colta in flagrante adulterio: apparentemente, due casi molto diversi, ma il messaggio è lo stesso: volgi lo sguardo con decisione verso il futuro, non pensare più al passato.
+Giovanni D’Ercole
In addition to physical hunger man carries within him another hunger — all of us have this hunger — a more important hunger, which cannot be satisfied with ordinary food. It is a hunger for life, a hunger for eternity which He alone can satisfy, as he is «the bread of life» (Pope Francis)
Oltre alla fame fisica l’uomo porta in sé un’altra fame – tutti noi abbiamo questa fame – una fame più importante, che non può essere saziata con un cibo ordinario. Si tratta di fame di vita, di fame di eternità che Lui solo può appagare, in quanto è «il pane della vita» (Papa Francesco)
The Eucharist draws us into Jesus' act of self-oblation. More than just statically receiving the incarnate Logos, we enter into the very dynamic of his self-giving [Pope Benedict]
L'Eucaristia ci attira nell'atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione [Papa Benedetto]
Jesus, the true bread of life that satisfies our hunger for meaning and for truth, cannot be “earned” with human work; he comes to us only as a gift of God’s love, as a work of God (Pope Benedict)
Gesù, vero pane di vita che sazia la nostra fame di senso, di verità, non si può «guadagnare» con il lavoro umano; viene a noi soltanto come dono dell’amore di Dio, come opera di Dio (Papa Benedetto)
Jesus, who shared his quality as a "stone" in Simon, also communicates to him his mission as a "shepherd". It is a communication that implies an intimate communion, which also transpires from the formulation of Jesus: "Feed my lambs... my sheep"; as he had already said: "On this rock I will build my Church" (Mt 16:18). The Church is property of Christ, not of Peter. Lambs and sheep belong to Christ, and to no one else (Pope John Paul II)
Gesù, che ha partecipato a Simone la sua qualità di “pietra”, gli comunica anche la sua missione di “pastore”. È una comunicazione che implica una comunione intima, che traspare anche dalla formulazione di Gesù: “Pasci i miei agnelli… le mie pecorelle”; come aveva già detto: “Su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18). La Chiesa è proprietà di Cristo, non di Pietro. Agnelli e pecorelle appartengono a Cristo, e a nessun altro (Papa Giovanni Paolo II)
Praying, celebrating, imitating Jesus: these are the three "doors" - to be opened to find «the way, to go to truth and to life» (Pope Francis)
Pregare, celebrare, imitare Gesù: sono le tre “porte” — da aprire per trovare «la via, per andare alla verità e alla vita» (Papa Francesco)
In recounting the "sign" of bread, the Evangelist emphasizes that Christ, before distributing the food, blessed it with a prayer of thanksgiving (cf. v. 11). The Greek term used is eucharistein and it refers directly to the Last Supper, though, in fact, John refers here not to the institution of the Eucharist but to the washing of the feet. The Eucharist is mentioned here in anticipation of the great symbol of the Bread of Life [Pope Benedict]
Narrando il “segno” dei pani, l’Evangelista sottolinea che Cristo, prima di distribuirli, li benedisse con una preghiera di ringraziamento (cfr v. 11). Il verbo è eucharistein, e rimanda direttamente al racconto dell’Ultima Cena, nel quale, in effetti, Giovanni non riferisce l’istituzione dell’Eucaristia, bensì la lavanda dei piedi. L’Eucaristia è qui come anticipata nel grande segno del pane della vita [Papa Benedetto]
Work is part of God’s loving plan, we are called to cultivate and care for all the goods of creation and in this way share in the work of creation! Work is fundamental to the dignity of a person [Pope Francis]
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
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