don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Martedì, 25 Febbraio 2025 03:25

L’io inferiore senza Fede, teatrante

Trombe, grancasse e recitanti, o strumenti perfetti

(Mt 6,1-6.16-18)

 

Le astuzie esterne non possiedono sapienza: diventano un boomerang.

Chi tenta di splendere, oscura la sua stessa luce. Chi si preoccupa dell’opinione delle folle, ne sarà prigioniero.

La vita nello Spirito si distacca dalla pratica delle cose (accidentali) da mostrare per mendicare riconoscimenti:

 

Le elemosine artificiali:

Pure agli uomini di spettacolo cui inizia a mancare lo spunto piace farsi considerare benefattori dell’umanità, ma il loro vero obbiettivo è andare in scena - non la diffusione d’uno spirito di disinteresse.

Intendono essere riconosciuti e di nuovo acclamati - per questo usano un modo assolutamente vistoso, esibizionista e pacchiano.

Raggiunta la mèta individualista, malgrado l’altruismo di facciata pianterebbero tutto lì.

Ben altro sarebbe se la sinistra non sapesse cosa fa la destra, ossia se ogni gesto fiorisse spontaneo e nel nascondimento invece che nel sovraccarico - ma figuriamoci che gusto, non farlo sapere.

 

Un medesimo orientamento vale per la Preghiera, molto meglio se inapparente. La vita interiore non è recita innaturale.

Nel Tempio i sacrifici erano accompagnati da pubbliche formule. A tale effetto, anche le sinagoghe erano considerate un prolungamento del Tempio. E nelle ore stabilite si faceva orazione anche per strada.

Chi era in grado di recitare lunghe litanie a memoria poteva così ostentare la propria virtù e farsi ammirare.

Ma il Dialogo con Dio non è prestazione, bensì Ascolto essenziale: radice del rinnovamento; distinguo di criteri e azione.

Preghiera è percezione intima e lettura profonda delle cose. Intesa ed empatia che ci recuperano al senso della vita personale - discrimine della nostra crescita e dell’amore per i fratelli.

L’anima sovrastata di fracassi non coglie la guida dell’Amico innato, né la sua stessa qualità essenziale.

L’orazione aperta stabilisce le persone in questa atmosfera intima, segreta, nascosta, che nello Spirito s’intreccia alle fibre più profonde e ancestrali.

Ancora, la preghiera personale è creativa. Non solo cancella l’idea che ci siamo fatti della vita, dei dolori, delle mète, delle relazioni, delle sconfitte, dei giudizi…

[Le amarezze sembra non facciano volare la vita - ma invitano a spostare l’occhio].

E l’Ascolto d’attenzione ci trasmette una nuova Lettura; fa uscire dai confini. Mette in contatto con altre energie e virtù.

 

Un più alto livello di umanità ‘viene’ a noi solo nello stupore di tale consiglio differente, dell’intuizione inattesa; d’una realtà che spiazza.

Principio di Liberazione che lascia incontrare i nostri lati profondi, e li ricorda a noi stessi, facendo percorrere il territorio affine - che ancora non sappiamo.

La donna e l’uomo che si raccolgono in preghiera vengono strappati dall’omologazione dei codici interpretativi, e dalla malattia della società dell’apparire - tutta seduta nei pareri e nel tempo del minimale.

 

Infine l’aria (forzatamente) pensosa e disfatta:

Forse ancora oggi alcuni usano atteggiarsi in modo stravagante, mettendosi in vetrina. Qua e là sembra ci sia qualche rigurgito di ascesi artificiosa.

Ma così i credenti percorrono solo la via delle rinunce di maniera [quelle che Dio non chiede], artefatte. E per l’esatto contrario, rendendo isterica l’onda vitale.

Siamo invece chiamati ad essere in compagnia: di se stessi e dei fratelli. Perfino la rinuncia è per la convivenza armonica, senza forzature che dissocino le linee portanti della personalità.

Anche qui il discernimento degli spiriti diventa occasione propizia per creare spazio alla vocazione umanizzante, e mettere sullo sfondo il tempo del chiasso ambiguo.

 

 

[Mercoledì delle Ceneri, 5 marzo 2025]

L’io inferiore senza Fede, teatrante

Mt 6,1-6.16-18 (.19-23)

 

«Guardatevi dal praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro» (Mt 6,1). Gesù, nel Vangelo di oggi, rilegge le tre opere fondamentali di pietà previste dalla legge mosaica. L’elemosina, la preghiera e il digiuno caratterizzano l’ebreo osservante della legge. Nel corso del tempo, queste prescrizioni erano state intaccate dalla ruggine del formalismo esteriore, o addirittura si erano mutate in un segno di superiorità. Gesù mette in evidenza in queste tre opere di pietà una tentazione comune. Quando si compie qualcosa di buono, quasi istintivamente nasce il desiderio di essere stimati e ammirati per la buona azione, di avere cioè una soddisfazione. E questo, da una parte rinchiude in se stessi, dall’altra porta fuori da se stessi, perché si vive proiettati verso quello che gli altri pensano di noi e ammirano in noi. Nel riproporre queste prescrizioni, il Signore Gesù non chiede un rispetto formale ad una legge estranea all'uomo, imposta da un legislatore severo come fardello pesante, ma invita a riscoprire queste tre opere di pietà vivendole in modo più profondo, non per amore proprio, ma per amore di Dio, come mezzi nel cammino di conversione a Lui. Elemosina, preghiera e digiuno: è il tracciato della pedagogia divina che ci accompagna, non solo in Quaresima, verso l’incontro con il Signore Risorto; un tracciato da percorrere senza ostentazione, nella certezza che il Padre celeste sa leggere e vedere anche nel segreto del nostro cuore».

[Papa Benedetto, omelia 9 marzo 2011]

 

«Ma tu quando preghi, entra nella tua camera e chiusa la tua porta [Is 26,20; 2Re 4,33] prega il Padre tuo che è nel segreto» (Mt 6,6).

 

Dice il Tao: «Chi tenta di splendere, oscura la sua stessa Luce» e «Se ti preoccupi delle opinioni della gente, sarai loro prigioniero».

I discepoli sono chiamati a una rettitudine d’intenzione (perfezione) superiore a quella di scribi e farisei - i quali adempivano in funzione dell’apparenza, dell’opinione pubblica, della retribuzione.

Gesù non mette in forse le pratiche religiose in sé, ma il loro scopo e modo.

Obbiettivo: [fra i veterani ancora giudaizzanti, delle sue comunità di Galilea e Siria] smascherare gli insistenti dell’adempiere esteriore.

Perché scaltrezza e recita della santità riescono a imbrogliare l’immaginario di molti... almeno per un periodo.

Ma le astuzie che siamo abilissimi allestire per mendicare riconoscimenti non possiedono il passo della Sapienza.

Digiuno, penitenza e preghiera sono opere fondamentali, eppure del tutto prive di valore e significato, se non sono rese vive dalla carità e accompagnate da giustizia.

La vita nello Spirito si distacca dalla pratica delle cose “spirituali” - da mostrare… per illudere anche se stessi.

Infine, l’artificio (tutto accidentale) della santa doppiezza diventa vago; prima o poi un boomerang.

 

A quel tempo l’impegno per le Elemosine era tenuto in gran conto, ma era divenuto generale l’uso di annunciare le iniziative più importanti - in sinagoga e perfino nelle strade.

Per Gesù la pubblicità intacca quel che ci appartiene profondamente [non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra] ed è onorevole.

Pure agli uomini di spettacolo anche “devotamente” funambolo, o politici di mestiere cui inizia a mancare lo spunto, piace farsi considerare benefattori dell’umanità. Ma il loro vero obbiettivo è andare in scena - non la diffusione d’uno spirito di disinteresse.

Intendono essere riconosciuti e di nuovo acclamati - per questo usano un modo assolutamente vistoso, esibizionista e pacchiano.

Raggiunta la loro vera mèta opportunista e individualista, malgrado l’altruismo di facciata pianterebbero tutto lì.

Ogni adempimento convinto dovrebbe fiorire spontaneo e nascosto, invece che nel sovraccarico - ma figuriamoci che gusto, non farlo sapere [...].

In realtà, rinunciando alla propaganda di facciata per promuovere dimensioni contrarie, si spegnerebbero lacerazioni intime e conflitti; si libererebbero energie nascoste. Si allargherebbe la consapevolezza più feconda.

 

Un medesimo orientamento vale per la Preghiera, molto meglio se inapparente. La vita interiore non è recita innaturale.

L'orazione dei figli non si riduce a una ripetizione di nenie, né a una richiesta di favori; tantomeno passerella esibizionista e affettata, per farsi considerare persone pie, “a modo” e “a posto”.

Nel Tempio i sacrifici erano accompagnati da pubbliche formule. A tale effetto, anche le sinagoghe erano considerate un prolungamento del Tempio. E nelle ore stabilite si faceva orazione anche per strada.

Chi era in grado di recitare lunghe litanie a memoria poteva così ostentare la propria virtù e farsi ammirare.

Ma il Dialogo con Dio non è prestazione, bensì Ascolto essenziale: radice del rinnovamento; distinguo di criteri e azione.

Intesa ed empatia, percezione intima e intelligenza profonda delle cose ci recuperano al senso della vita personale - discrimine della nostra crescita e dell’amore per i fratelli.

Perché abbiamo sete di questo sapere, che si coglie nella sua purezza esclusiva unicamente in uno spazio di solitudine?

Per il fatto che l’anima - sovrastata di fracassi - non coglierebbe altrimenti la guida dell’Amico innato, né la sua stessa qualità essenziale.

 

Ci sono domande ineludibili, fuori della portata del nostro io inferiore, ossia delle nostre attività cerebrali o pratiche.

Qual è la nostra Via? Come accogliere ciò che ha peso specifico e caratterizza?

Non vale la pena risolvere i problemi precipitosamente, a tutti i costi, in modo conformista o esasperato.

Certo, non sempre si va d’accordo con Dio che pure vuole farci fiorire. Qual è l’antidoto?

L’orazione aperta stabilisce le persone in questa atmosfera intima, segreta, nascosta, che ci appartiene radicalmente,

Nello Spirito s’intreccia alle fibre più profonde, ancestrali - e via via fa affiorare il percorso e destino celato.

 

La preghiera personale è creativa.

Non solo cancella l’idea che ci siamo fatti della vita, dei dolori, delle mète, delle relazioni, delle sconfitte, dei giudizi…

(Le amarezze sembra non facciano volare la vita - ma invitano a spostare l’occhio).

E l’Ascolto d’attenzione ci trasmette una nuova Lettura; fa uscire dai confini. Mette in contatto con altre energie e virtù.

 

Un più alto livello di umanità viene a noi solo nello stupore di tale consiglio differente, dell’intuizione inattesa; d’una realtà che spiazza.

Principio di Liberazione che lascia incontrare i nostri stessi lati profondi, e li ricorda a noi stessi, facendo percorrere il territorio affine - che ancora non sappiamo.

Bisogna comprendere più a fondo di quanto consentono i meccanismi azione-reazione, ricolmi di tensione distratta - assente dalla propria Chiamata per Nome, che ci donerebbe entusiasmo.

Non di rado, l’anima stessa - che detesta certi esiti con cui la società [anche ecclesiale] dell’esterno vorrebbe lasciarci convivere - si rivolta, attacca e porta al fallimento degli obbiettivi troppo normali.

Persino i disagi giungono per il semplice fatto che non siamo sulla Via delle profonde sintonie: “punta” che flette le sue contrazioni verso di noi, per aver scelto la strada larga ma artificiale dei compromessi.

Vi sono inclinazioni fondamentali per ciascuno: ad esse sarebbe costruttivo cedere - e lasciarsi guidare.

Il nostro esistere completo non è un percorso tracciato dal “dove dovremmo andare”.

È opportuno non intestardire, e imparare a ospitare l'attività di metamorfosi che vuole vivere; esprimersi in noi - per guidarci e talora deviare dal “come dovremmo essere”.

La donna e l’uomo che si raccolgono in preghiera vengono strappati dall’omologazione dei codici interpretativi, e dalla malattia della società dell’apparire - tutta seduta nei pareri e nel tempo del minimale.

 

Identica impostazione di visuale per il tema del Digiuno: pratica considerata manifestazione della conversione a Dio.

Ma con sorpresa notiamo che il richiamo di Gesù vale in specie per i religiosi dall’aria forzatamente pensosa e disfatta.

Non pochi devoti d’ogni credo usano atteggiarsi in modo stravagante - pacchiana espressione dei propri problemi affettivi.

Infatti, qua e là, anche in ambiti giovanili, sembra ci sia qualche rigurgito di ascesi artificiosa.

Ma così i credenti percorrono solo la via delle rinunce di maniera [quelle che Dio non chiede], artefatte. E per l’esatto contrario, rendendo isterica l’onda vitale.

Siamo invece chiamati ad essere in compagnia: di se stessi e dei fratelli. Perfino la rinuncia è per la convivenza armonica, senza forzature che dissocino le linee portanti della personalità.

Anche qui il discernimento degli spiriti diventa occasione propizia per creare spazio alla vocazione umanizzante.

Già il profeta Isaia aveva distinto fra digiuno autentico e falso [Is 58] ossia non finalizzato alla vita di giustizia e comunione, quindi alla festa e alla gioia.

Inutile sottoporsi a pratiche che non cambiano il cuore.

Lungo la strada poco spontanea o col trucco - abnorme, o adultoide (del plagio subìto o imposto di testa propria all’anima) il belare dell’agnellino prima o poi diverrà un ruggire o un ragliare. Questione di tempo.

Nel discernimento degli spiriti, è l’atteggiamento che rivela la fiction di chi in realtà pensa solo il potere (nell’avidità) e grandi cose, proprio quelle da superiori megalomani, o eletti.

Tutto ciò usando il povero Gesù e i piccoli, ovvero un qualsiasi credo purchessia, come paraventi - appunto, per il viceversa.

 

Elemosina, digiuno e preghiera sono attitudini, non pratiche conoscibili fuori del linguaggio irripetibile di Dio stesso e del suo modo eccezionale di comunicare con ogni persona.

Dialogo d’una eccentrica, preziosa, ineffabile, fantastica, insuperabile unicità, che non si lascia attrarre da esteriorità di vetrine, né dal livellamento da branco, o grancasse.

Mettendo sullo sfondo il tempo del chiasso ambiguo.

 

«Proprio perché grande, la mia Via sembra non sia simile a nulla [...] Non ardisco esser primo nel mondo, perciò posso essere capo degli strumenti perfetti» [Tao Tê Ching, Lxvii].

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

La tua vita spirituale è tempo di chiasso... o periodo e terreno fecondo, occasione propizia per interiorizzare, incontrare se stessi, la propria essenza, e Dio nei fratelli?

 

 

Conclusione:

Dov’è il cuore ecclesiale?

(Mt 6,19-23)

 

«Dove è il tuo Tesoro, là sarà il tuo cuore» (v.21). Non è un problema personale o istituzionale abusato, insipido; da facili ironie.

Ignorarlo significa concedergli ulteriore respiro, facendolo crescere a dismisura; rendendolo ancor più fuori tempo e difficile leggerlo (e individuarne le terapie).

Tutto ciò, però, va fatto mettendo fra parentesi le precipitazioni… nello spirito di comprensione più largo. Fermo restando che per comprendersi e attivare differenti risorse ogni comunità deve attraversare i momenti della verifica più severa.

Anche per chiese denominazionali di ampia e prestigiosa tradizione, la coscienza di essere oggi perdenti sotto questo aspetto è indispensabile per ritrovarsi. Superando l’incaglio… in avanti, “in uscita”.

 

 

Leggiamo nell’Enciclica «Spe Salvi» n.2 («La Fede è Speranza»):

 

«Speranza è una parola centrale della fede biblica – al punto che in diversi passi le parole “fede” e “speranza” sembrano interscambiabili […]

Quanto sia stato determinante per la consapevolezza dei primi cristiani l'aver ricevuto in dono una speranza affidabile, si manifesta anche là dove viene messa a confronto l'esistenza cristiana con la vita prima della fede o con la situazione dei seguaci di altre religioni […]

I loro dèi si erano rivelati discutibili e dai loro miti contraddittori non emanava alcuna speranza. Nonostante gli dèi, essi erano “senza Dio” e conseguentemente si trovavano in un mondo buio, davanti a un futuro oscuro. “In nihil ab nihilo quam cito recidimus” (Nel nulla dal nulla quanto presto ricadiamo) dice un epitaffio di quell'epoca […]

Compare come elemento distintivo dei cristiani il fatto che essi hanno un futuro: non è che sappiano nei particolari ciò che li attende, ma sanno nell'insieme che la loro vita non finisce nel vuoto.

Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente. Così possiamo ora dire: il cristianesimo non era soltanto una “buona notizia” – una comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti.

Nel nostro linguaggio si direbbe: il messaggio cristiano non era solo “informativo”, ma “performativo”. Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita.

La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova».

 

Nella forma della Relazione, tutto apre la vita intensa - che integra e valica l’amor proprio, la sete di dominio.

Ciò libera dal “vecchio”, ossia chiude un ciclo di percorsi già messi a punto - per farci tornare come neonati.

La Speranza che ha peso smantella l’inessenziale; espelle il rumore dei pensieri che non sono più in sintonia con la nostra crescita, e introduce energie sognanti, una ricchezza di possibilità.

Ci saranno resistenze iniziali, ma lo sviluppo si predispone.

La Speranza sacrifica le zavorre e ci attiva secondo il “divino interiore”. Spalanca le porte a una nuova fase, più luminosa e corrispondente.

 

I tesori della terra rapidamente accecano; allo stesso modo passano: d’improvviso. L’età della crisi globale ce lo sbatte in faccia.

Eppure, è un dolore necessario.

Capiamo: i nuovi percorsi non sono tracciati dai beni, né da memorie devote, ma dal Vuoto che fa da intercapedine a facilonerie comuni, scontate, rassicuranti.

La religiosità buona per tutte le stagioni cede il passo alla vita inedita di Fede.

Qui si colloca l’Arte del discernimento e della pastorale: dovrebbe saper introdurre nuove energie competitive, difformi - cosmiche e personali - che preparano sintesi inedite, aperte, gratuite.

Lo sappiamo, eppure in alcune cerchie (prestigiose e già straricche) la bramosia di possedere sotto parvenza di necessità non consente di vedere chiaro.

Capita anche a dei consacrati di lungo corso - non si capisce perché tale avida, sommaria doppiezza.

 

Vogliamo ancora emergere, sollevando altre confusioni? In fondo siamo scontenti delle nostre scelte mediocri.

All’inizio della Vocazione sentivamo la necessità d’una Relazione che infondesse Senso e un Centro alla ferialità…

Poi abbiamo deviato, forse per insoddisfazione o motivi di calcolo e comodo - e l’ottundimento degli occhi malati di rapina ha prevalso. Prima qua e là, via via occupando l’anima.

Anche in alcuni dirigenti e ambiti di spicco ecclesiale, la base dell’esistenza è diventato il conto corrente a molti zeri.

Così… la scena vanitosa, il sacchetto del commercio, l’ebbrezza del salire sul tabellone, in diverse realtà hanno soppiantato i cuori veri - e gli occhi stessi.

Come dire: c’è un’altra esperienza del “divino”, dozzinale: fra un Salmo e l’altro, meglio dell’Amore diventa il sentirsi potente, sicuro e rispettato attorno.

(Dio e l’accumulo danno ordini diversi? Non c’è problema: facciamo intendere che lo si fa per la “sua” Gloria).

E bando al bene comune.

Non pochi si stanno accorgendo che il far di conto è lo sport più frequentato in diverse aziende pie multimpianti, fantasticamente imbellettate di eventi e iniziative (a copertura di quel che vale).

E cartina al tornasole è proprio quello scrutare meschino (vv.22-23) che dietro fitte quinte, trattiene, giudica persino, e si tiene a distanza dagli altri. Con lo sguardo che chiude l’orizzonte dell’esistenza: conta l’immediatamente a portata di mano, e di circostanza.

Un credere in apparenza sovrabbondante - guarda caso senza il rilievo della Speranza - ci sta condannando al peggiore tasso di denatalità mondiale.

Il panorama dei nostri devotissimi paesini e cittadine vuoti è sconfortante. Ma ci si bea del proprio loculo, e della piccina situazione.

L’importante è che tutto sia epidermicamente adornato.

Sotto il campanile particolare che dà il ritmo alle solite cose, molta gente trattiene il “suo” (troppo) per sé, accontentandosi di sacralizzare egoismi con l’esibizione di belle statue, usi, stendardi, costumi variopinti e manierismi.

Invece, secondo i Vangeli, nei tentativi e nei percorsi di Fede che non si accontentano d’una spiritualità vuota, la vita diventa luminosa d’Amore creativo che rifiorisce, e mette tutti a proprio agio.

Anche il vecchio potrà riemergere in questo nuovo spirito, stavolta perenne. Perché ci sono altre Altezze. Perché ciò che rende intimi a Dio non è nulla di esterno.

L’autentica Chiesa suscitata da “visioni” limpide - senza cartapesta e doppiezze - rivela sempre qualcosa di portentoso: la fecondità dalla nullità, la vita dall’effusione di essa, la nascita dall’apparente sterilità.

Un fiume di sintonie impensate riallaccerà la lettura degli accadimenti e l’azione dei credenti all’opera dello Spirito, senza barriere.

Perché quando qualcuno cede il pensiero normalizzato e si deposita, il nuovo avanza.

La scelta è ormai inesorabile: tra morte e vita; fra bramosia e «tenebra» (v.23), o Felicità.

Il primo passo è ammettere di dover fare un cammino.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Dov’è il tuo Tesoro? Il tuo cuore e il tuo occhio sono semplici?

Hai mai fatto esperienza di lati che altri giudicano inconcludenti (dal punto di vista materiale) e che invece hanno preparato i tuoi nuovi percorsi?

Martedì, 25 Febbraio 2025 03:15

Trasformare l’anima in Tempio della Presenza

Questo itinerario della Quaresima che siamo invitati a percorre nella Quaresima è caratterizzato, nella tradizione della Chiesa, da alcune pratiche: il digiuno, l’elemosina e la preghiera. Il digiuno significa l’astinenza dal cibo, ma comprende altre forme di privazione per una vita più sobria. Tutto questo però non è ancora la realtà piena del digiuno: è il segno esterno di una realtà interiore, del nostro impegno, con l’aiuto di Dio, di astenerci dal male e di vivere del Vangelo. Non digiuna veramente chi non sa nutrirsi della Parola di Dio.

Il digiuno, nella tradizione cristiana, è legato poi strettamente all’elemosina. San Leone Magno insegnava in uno dei suoi discorsi sulla Quaresima: “Quanto ciascun cristiano è tenuto a fare in ogni tempo, deve ora praticarlo con maggiore sollecitudine e devozione, perché si adempia la norma apostolica del digiuno quaresimale consistente nell’astinenza non solo dai cibi, ma anche e soprattutto dai peccati. A questi doverosi e santi digiuni, poi, nessuna opera si può associare più utilmente dell’elemosina, la quale sotto il nome unico di ‘misericordia’ abbraccia molte opere buone. Immenso è il campo delle opere di misericordia. Non solo i ricchi e i facoltosi possono beneficare gli altri con l’elemosina, ma anche quelli di condizione modesta e povera. Così, disuguali nei beni di fortuna, tutti possono essere pari nei sentimenti di pietà dell’anima” (Discorso 6 sulla Quaresima, 2: PL 54, 286). San Gregorio Magno ricordava, nella sua Regola Pastorale, che il digiuno è reso santo dalle virtù che l’accompagnano, soprattutto dalla carità, da ogni gesto di generosità, che dona ai poveri e ai bisognosi il frutto di una nostra privazione (cfr 19,10-11).

La Quaresima, inoltre, è un tempo privilegiato per la preghiera. Sant’Agostino dice che il digiuno e l’elemosina sono “le due ali della preghiera”, che le permettono di prendere più facilmente il suo slancio e di giungere sino a Dio. Egli afferma: “In tal modo la nostra preghiera, fatta in umiltà e carità, nel digiuno e nell’elemosina, nella temperanza e nel perdono delle offese, dando cose buone e non restituendo quelle cattive, allontanandosi dal male e facendo il bene, cerca la pace e la consegue. Con le ali di queste virtù la nostra preghiera vola sicura e più facilmente viene portata fino al cielo, dove Cristo nostra pace ci ha preceduto” (Sermone 206, 3 sulla Quaresima: PL 38,1042). La Chiesa sa che, per la nostra debolezza, è faticoso fare silenzio per mettersi davanti a Dio, e prendere consapevolezza della nostra condizione di creature che dipendono da Lui e di peccatori bisognosi del suo amore; per questo, in Quaresima, invita ad una preghiera più fedele ed intensa e ad una prolungata meditazione sulla Parola di Dio. San Giovanni Crisostomo esorta: “Abbellisci la tua casa di modestia e umiltà con la pratica della preghiera. Rendi splendida la tua abitazione con la luce della giustizia; orna le sue pareti con le opere buone come di una patina di oro puro e al posto dei muri e delle pietre preziose colloca la fede e la soprannaturale magnanimità, ponendo sopra ogni cosa, in alto sul fastigio, la preghiera a decoro di tutto il complesso. Così prepari per il Signore una degna dimora, così lo accogli in splendida reggia. Egli ti concederà di trasformare la tua anima in tempio della sua presenza” (Omelia 6 sulla Preghiera: PG 64,466). 

[Papa Benedetto, Udienza Generale 9 marzo 2011]

Martedì, 25 Febbraio 2025 03:10

Vita e morte

«Suonate il corno, proclamate un solenne digiuno» (Gl 2,15), dice il profeta nella prima Lettura. La Quaresima si apre con un suono stridente, quello di un corno che non accarezza le orecchie, ma bandisce un digiuno. È un suono forte, che vuole rallentare la nostra vita che va sempre di corsa, ma spesso non sa bene dove. È un richiamo a fermarsi - un “fermati!” -, ad andare all’essenziale, a digiunare dal superfluo che distrae. È una sveglia per l’anima.

Al suono di questa sveglia si accompagna il messaggio che il Signore trasmette per bocca del profeta, un messaggio breve e accorato: «Ritornate a me» (v. 12). Ritornare. Se dobbiamo ritornare, vuol dire che siamo andati altrove. La Quaresima è il tempo per ritrovare la rotta della vita. Perché nel percorso della vita, come in ogni cammino, ciò che davvero conta è non perdere di vista la meta. Quando invece nel viaggio quel che interessa è guardare il paesaggio o fermarsi a mangiare, non si va lontano. Ognuno di noi può chiedersi: nel cammino della vita, cerco la rotta? O mi accontento di vivere alla giornata, pensando solo a star bene, a risolvere qualche problema e a divertirmi un po’? Qual è la rotta? Forse la ricerca della salute, che tanti oggi dicono venire prima di tutto ma che prima o poi passerà? Forse i beni e il benessere? Ma non siamo al mondo per questo. Ritornate a me, dice il Signore. A me. È il Signore la meta del nostro viaggio nel mondo. La rotta va impostata su di Lui.

Per ritrovare la rotta, oggi ci è offerto un segno: cenere in testa. È un segno che ci fa pensare a che cosa abbiamo in testa. I nostri pensieri inseguono spesso cose passeggere, che vanno e vengono. Il lieve strato di cenere che riceveremo è per dirci, con delicatezza e verità: di tante cose che hai per la testa, dietro cui ogni giorno corri e ti affanni, non resterà nulla. Per quanto ti affatichi, dalla vita non porterai con te alcuna ricchezza. Le realtà terrene svaniscono, come polvere al vento. I beni sono provvisori, il potere passa, il successo tramonta. La cultura dell’apparenza, oggi dominante, che induce a vivere per le cose che passano, è un grande inganno. Perché è come una fiammata: una volta finita, resta solo la cenere. La Quaresima è il tempo per liberarci dall’illusione di vivere inseguendo la polvere. La Quaresima è riscoprire che siamo fatti per il fuoco che sempre arde, non per la cenere che subito si spegne; per Dio, non per il mondo; per l’eternità del Cielo, non per l’inganno della terra; per la libertà dei figli, non per la schiavitù delle cose. Possiamo chiederci oggi: da che parte sto? Vivo per il fuoco o per la cenere?

In questo viaggio di ritorno all’essenziale che è la Quaresima, il Vangelo propone tre tappe, che il Signore chiede di percorrere senza ipocrisia, senza finzioni: l’elemosina, la preghiera, il digiuno. A che cosa servono? L’elemosina, la preghiera e il digiuno ci riportano alle tre sole realtà che non svaniscono. La preghiera ci riannoda a Dio; la carità al prossimo; il digiuno a noi stessi. Dio, i fratelli, la mia vita: ecco le realtà che non finiscono nel nulla, su cui bisogna investire. Ecco dove ci invita a guardare la Quaresima: verso l’Alto, con la preghiera, che libera da una vita orizzontale, piatta, dove si trova tempo per l’io ma si dimentica Dio. E poi verso l’altro, con la carità, che libera dalla vanità dell’avere, dal pensare che le cose vanno bene se vanno bene a me. Infine, ci invita a guardarci dentro, col digiuno, che libera dagli attaccamenti alle cose, dalla mondanità che anestetizza il cuore. Preghiera, carità, digiuno: tre investimenti per un tesoro che dura.

Gesù ha detto: «Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21). Il nostro cuore punta sempre in qualche direzione: è come una bussola in cerca di orientamento. Possiamo anche paragonarlo a una calamita: ha bisogno di attaccarsi a qualcosa. Ma se si attacca solo alle cose terrene, prima o poi ne diventa schiavo: le cose di cui servirsi diventano cose da servire. L’aspetto esteriore, il denaro, la carriera, i passatempi: se viviamo per loro, diventeranno idoli che ci usano, sirene che ci incantano e poi ci mandano alla deriva. Invece, se il cuore si attacca a quello che non passa, ritroviamo noi stessi e diventiamo liberi. Quaresima è il tempo di grazia per liberare il cuore dalle vanità. È tempo di guarigione dalle dipendenze che ci seducono. È tempo per fissare lo sguardo su ciò che resta.

Dove fissare allora lo sguardo lungo il cammino della Quaresima? È semplice: sul Crocifisso. Gesù in croce è la bussola della vita, che ci orienta al Cielo. La povertà del legno, il silenzio del Signore, la sua spogliazione per amore ci mostrano la necessità di una vita più semplice, libera dai troppi affanni per le cose. Gesù dalla croce ci insegna il coraggio forte della rinuncia. Perché carichi di pesi ingombranti non andremo mai avanti. Abbiamo bisogno di liberarci dai tentacoli del consumismo e dai lacci dell’egoismo, dal voler sempre di più, dal non accontentarci mai, dal cuore chiuso ai bisogni del povero. Gesù, che sul legno della croce arde di amore, ci chiama a una vita infuocata di Lui, che non si perde tra le ceneri del mondo; una vita che brucia di carità e non si spegne nella mediocrità. È difficile vivere come Lui chiede? Sì, è difficile, ma conduce alla meta. Ce lo mostra la Quaresima. Essa inizia con la cenere, ma alla fine ci porta al fuoco della notte di Pasqua; a scoprire che, nel sepolcro, la carne di Gesù non diventa cenere, ma risorge gloriosa. Vale anche per noi, che siamo polvere: se con le nostre fragilità ritorniamo al Signore, se prendiamo la via dell’amore, abbracceremo la vita che non tramonta. E certamente saremo nella gioia.

[Papa Giovanni Paolo II, stazione quaresimale s. Sabina 8 marzo 2000]

«Suonate il corno, proclamate un solenne digiuno» (Gl 2,15), dice il profeta nella prima Lettura. La Quaresima si apre con un suono stridente, quello di un corno che non accarezza le orecchie, ma bandisce un digiuno. È un suono forte, che vuole rallentare la nostra vita che va sempre di corsa, ma spesso non sa bene dove. È un richiamo a fermarsi - un “fermati!” -, ad andare all’essenziale, a digiunare dal superfluo che distrae. È una sveglia per l’anima.

Al suono di questa sveglia si accompagna il messaggio che il Signore trasmette per bocca del profeta, un messaggio breve e accorato: «Ritornate a me» (v. 12). Ritornare. Se dobbiamo ritornare, vuol dire che siamo andati altrove. La Quaresima è il tempo per ritrovare la rotta della vita. Perché nel percorso della vita, come in ogni cammino, ciò che davvero conta è non perdere di vista la meta. Quando invece nel viaggio quel che interessa è guardare il paesaggio o fermarsi a mangiare, non si va lontano. Ognuno di noi può chiedersi: nel cammino della vita, cerco la rotta? O mi accontento di vivere alla giornata, pensando solo a star bene, a risolvere qualche problema e a divertirmi un po’? Qual è la rotta? Forse la ricerca della salute, che tanti oggi dicono venire prima di tutto ma che prima o poi passerà? Forse i beni e il benessere? Ma non siamo al mondo per questo. Ritornate a me, dice il Signore. A me. È il Signore la meta del nostro viaggio nel mondo. La rotta va impostata su di Lui.

Per ritrovare la rotta, oggi ci è offerto un segno: cenere in testa. È un segno che ci fa pensare a che cosa abbiamo in testa. I nostri pensieri inseguono spesso cose passeggere, che vanno e vengono. Il lieve strato di cenere che riceveremo è per dirci, con delicatezza e verità: di tante cose che hai per la testa, dietro cui ogni giorno corri e ti affanni, non resterà nulla. Per quanto ti affatichi, dalla vita non porterai con te alcuna ricchezza. Le realtà terrene svaniscono, come polvere al vento. I beni sono provvisori, il potere passa, il successo tramonta. La cultura dell’apparenza, oggi dominante, che induce a vivere per le cose che passano, è un grande inganno. Perché è come una fiammata: una volta finita, resta solo la cenere. La Quaresima è il tempo per liberarci dall’illusione di vivere inseguendo la polvere. La Quaresima è riscoprire che siamo fatti per il fuoco che sempre arde, non per la cenere che subito si spegne; per Dio, non per il mondo; per l’eternità del Cielo, non per l’inganno della terra; per la libertà dei figli, non per la schiavitù delle cose. Possiamo chiederci oggi: da che parte sto? Vivo per il fuoco o per la cenere?

In questo viaggio di ritorno all’essenziale che è la Quaresima, il Vangelo propone tre tappe, che il Signore chiede di percorrere senza ipocrisia, senza finzioni: l’elemosina, la preghiera, il digiuno. A che cosa servono? L’elemosina, la preghiera e il digiuno ci riportano alle tre sole realtà che non svaniscono. La preghiera ci riannoda a Dio; la carità al prossimo; il digiuno a noi stessi. Dio, i fratelli, la mia vita: ecco le realtà che non finiscono nel nulla, su cui bisogna investire. Ecco dove ci invita a guardare la Quaresima: verso l’Alto, con la preghiera, che libera da una vita orizzontale, piatta, dove si trova tempo per l’io ma si dimentica Dio. E poi verso l’altro, con la carità, che libera dalla vanità dell’avere, dal pensare che le cose vanno bene se vanno bene a me. Infine, ci invita a guardarci dentro, col digiuno, che libera dagli attaccamenti alle cose, dalla mondanità che anestetizza il cuore. Preghiera, carità, digiuno: tre investimenti per un tesoro che dura.

Gesù ha detto: «Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21). Il nostro cuore punta sempre in qualche direzione: è come una bussola in cerca di orientamento. Possiamo anche paragonarlo a una calamita: ha bisogno di attaccarsi a qualcosa. Ma se si attacca solo alle cose terrene, prima o poi ne diventa schiavo: le cose di cui servirsi diventano cose da servire. L’aspetto esteriore, il denaro, la carriera, i passatempi: se viviamo per loro, diventeranno idoli che ci usano, sirene che ci incantano e poi ci mandano alla deriva. Invece, se il cuore si attacca a quello che non passa, ritroviamo noi stessi e diventiamo liberi. Quaresima è il tempo di grazia per liberare il cuore dalle vanità. È tempo di guarigione dalle dipendenze che ci seducono. È tempo per fissare lo sguardo su ciò che resta.

Dove fissare allora lo sguardo lungo il cammino della Quaresima? È semplice: sul Crocifisso. Gesù in croce è la bussola della vita, che ci orienta al Cielo. La povertà del legno, il silenzio del Signore, la sua spogliazione per amore ci mostrano la necessità di una vita più semplice, libera dai troppi affanni per le cose. Gesù dalla croce ci insegna il coraggio forte della rinuncia. Perché carichi di pesi ingombranti non andremo mai avanti. Abbiamo bisogno di liberarci dai tentacoli del consumismo e dai lacci dell’egoismo, dal voler sempre di più, dal non accontentarci mai, dal cuore chiuso ai bisogni del povero. Gesù, che sul legno della croce arde di amore, ci chiama a una vita infuocata di Lui, che non si perde tra le ceneri del mondo; una vita che brucia di carità e non si spegne nella mediocrità. È difficile vivere come Lui chiede? Sì, è difficile, ma conduce alla meta. Ce lo mostra la Quaresima. Essa inizia con la cenere, ma alla fine ci porta al fuoco della notte di Pasqua; a scoprire che, nel sepolcro, la carne di Gesù non diventa cenere, ma risorge gloriosa. Vale anche per noi, che siamo polvere: se con le nostre fragilità ritorniamo al Signore, se prendiamo la via dell’amore, abbracceremo la vita che non tramonta. E certamente saremo nella gioia.

[Papa Francesco, omelia 6 marzo 2019]

Il Signore ci benedica e la Vergine ci protegga!

VII Domenica del tempo Ordinario anno C (23 febbraio 2025)

 

Lettura dal Primo Libro di Samuele (26,2.7-9.12-13.22-23)

Saul fu il primo re del popolo d’Israele, intorno al 1040 a.C. I testi dicono che «nessun figlio d’Israele era più bello di lui, e superava dalla spalla in su chiunque altro del popolo» (1 Sam 9,2). Era un contadino, originario di una famiglia semplice della  tribù di Beniamino, scelto da Dio e consacrato re dal profeta Samuele che inizialmente esitò  perché diffidava della monarchia in generale, ma dovette obbedire a Dio. Saul fu consacrato con l’unzione dell’olio e portava il titolo di “messia”.  Dopo un buon inizio, Saul purtroppo diede ragione ai peggiori timori di Samuele: il suo piacere personale, l’amore per il potere e per la guerra prevalsero sulla fedeltà all’Alleanza. Fu così grave che, senza attendere la fine del suo regno, Samuele, su ordine di Dio, si mise a cercare il suo successore e scelse Davide, il piccolo pastore di Betlemme, l’ottavo figlio di Iesse. Davide fu accolto alla corte di Saul e divenne pian piano un abile capo di guerra, i cui successi erano sulla bocca di tutti. Un giorno, Saul  udì il canto popolare che circolava ovunque: «Saul ha ucciso i suoi mille, e Davide i suoi diecimila» (1 Sam 18,7) e fu preso dalla gelosia che  divenne così feroce nei confronti di Davide da farlo impazzire. Davide dovette fuggire più volte per salvarsi, ma contrariamente ai sospetti di Saul, Davide non venne mai meno alla sua lealtà verso il re. Nell’episodio che ci viene qui narrato è Saul a prendere l’iniziativa: i tremila uomini di cui si parla furono radunati da lui con il solo scopo di soddisfare il suo odio per Davide. “Saul scese nel deserto di Zif con tremila uomini scelti d’Israele per cercare Davide” (v 2) e chiara era la sua intenzione: eliminarlo appena possibile. Ma la situazione si ribalta a favore di Davide: durante la notte Davide entra nel campo di Saul e trova tutti addormentati e quindi l’occasione favorevole per ucciderlo. Abisai, la guardia del corpo di Davide, non ha dubbi e si offre di ucciderlo: “Oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico. Lascia dunque che io l’inchiodi a terra con la lancia in un sol colpo e non aggiungerò il secondo” (v 8). Davide sorprende tutti, incluso Saul, che stenterà a credere ai suoi occhi quando vedrà la prova che Davide lo ha risparmiato. Si pongono due domande: perché Davide ha risparmiato colui che voleva la sua morte? L’unica ragione è il rispetto per la scelta di Dio: “Non ho voluto stendere la mano contro il messia del Signore” (v.11).  Perché la Bibbia racconta questo episodio? Ci sono certamente diversi motivi. Anzitutto, l’autore sacro vuole delineare il ritratto di Davide: rispettoso della volontà di Dio e magnanimo, che  rifiuta la vendetta e comprende che la Provvidenza non si manifesta mai attraverso la semplice consegna del nemico nelle proprie mani. In secondo luogo, perché il re regnante è intoccabile e non va dimenticato che questo racconto fu scritto alla corte di Salomone, il quale aveva tutto l’interesse a far passare questo insegnamento. Infine, questo testo rappresenta una tappa nella storia biblica, un momento nella pedagogia di Dio: prima di imparare ad amare tutti gli uomini, bisogna iniziare a trovare qualche buona ragione per amarne alcuni. Davide risparmia un nemico pericoloso perché questi è stato, a suo tempo, l’eletto di Dio. L’ultima tappa sarà comprendere che ogni uomo va rispettato ovunque perché in lui è segnata l’immagine di Dio. Siamo tutti creati a immagine e somiglianza di Dio.

 

*Salmo 102 (103), 1-2, 3-4, 8. 10. 12-13

Questo salmo s’incontra più volte nei tre anni liturgici e possiamo ammirare il parallelismo dei versetti, una sorta di alternanza dei versi che si rispondono l’un l’altro. Sarebbe bene recitarlo o cantarlo a due voci, riga per riga o a due cori alternati. Primo coro: “Benedici il Signore, anima mia”… Secondo coro: “quanto è in me benedica  il suo santo nome santo”… Primo coro: “Egli perdona tutte le tue colpe … Secondo coro: “Non ci tratta secondo i nostri peccati”. E così via. Un’altra caratteristica è la tonalità gioiosa del rendimento di grazie. L’espressione “Benedici il Signore, anima mia” si ripete come inclusione nel primo e nell’ultimo versetto del salmo. Tra tutti i benefici, i versetti scelti per questa domenica insistono sul perdono di Dio: “Egli perdona tutte le tue colpe… Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore; non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe. Quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe.” Più volte lo abbiamo notato: una delle grandi scoperte della Bibbia è che Dio è solo amore e perdono. Ed è proprio per questo che è così diverso da noi e costantemente ci sorprende. Quando il profeta Isaia afferma: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, dice Dio; le vostre vie non sono le mie vie” (55,6-8), invita a cercare il Signore mentre si fa trovare, a invocarlo mentre è vicino. Invita l’empio ad abbandonare la sua via e l’uomo perverso i suoi pensieri, e aggiunge: “Ritorni al Signore che avrà misericordia di lui, al nostro Dio che largamente perdona” - e aggiunge - ”perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri”. Proprio la congiunzione “perché” dà il senso a tutta la frase: è proprio la sua misericordia inesauribile a fare la differenza tra Dio e noi. Circa cinquecento anni prima di Cristo, si era già compreso che il perdono di Dio è incondizionato e che precede tutte le nostre preghiere o pentimenti. Il perdono di Dio non è un atto puntuale, un evento, ma è la sua essenza stessa. Tuttavia, siamo solo noi a poter compiere liberamente il gesto di andare a ricevere questo perdono di Dio e rinnovare l’Alleanza; Egli non ci forzerà mai e allora andiamo da lui con fiducia, compiamo il passo indispensabile per entrare nel perdono di Dio che è già acquisito. A ben vedere si tratta di una scoperta che risale a tempi molto antichi. Quando Natan annunciò al re Davide, che si era appena sbarazzato del marito della sua amante, Betsabea, il perdono di Dio, Davide in verità non aveva ancora avuto il tempo di esprimere il minimo pentimento.  Dopo avergli ricordato tutti i benefici con cui Dio lo aveva colmato, il profeta aggiunse: “E se questo fosse poco, aggiungerei ancora di più” (2 Sam 12,8). Ecco il significato della parola perdono, formata da due sillabe che è bene separare “per – dono” a indicare il dono perfetto, dono al di là dell’offesa e al di là dell’ingratitudine; è l’alleanza sempre offerta nonostante l’infedeltà. Perdonare chi ci ha fatto del male significa continuare, nonostante tutto, a offrirgli un’alleanza, una relazione di amore o di amicizia; significa accettare di rivedere quella persona, tendergli la mano, accoglierla comunque alla nostra tavola o nella nostra casa; significa rischiare un sorriso; significa rifiutare di odiare e di vendicarsi. Tuttavia, questo non significa dimenticare. Spesso si sente dire: posso perdonare ma non dimenticherò mai. In realtà, si tratta di due cose completamente diverse. Il perdono non è un colpo di spugna, non è né dimenticanza né cancellazione di quanto è successo perché nulla lo cancellerà, sia che si tratti di un bene o di un male. Ci sono offese che non si potranno mai dimenticare, perché è successo l’irreparabile. È proprio questo che conferisce grandezza e gravità alle nostre vite umane: se un colpo di spugna potesse cancellare tutto, che senso avrebbe agire bene? Potremmo fare qualsiasi cosa. Il perdono quindi non cancella il passato, ma apre al futuro. Spezza le catene della colpa, porta la liberazione interiore e ci permette di ripartire. Quando Davide fece uccidere il marito di Betsabea, nulla poté riparare il male commesso. Ma Davide, perdonato, poté rialzare la testa e cercare di non fare più il male. Quando i genitori perdonano l’assassino di un loro figlio non significa che dimenticano il crimine commesso ma proprio nel loro dolore trovano la forza necessaria per perdonare e il perdono diventa un atto profondamente liberatore per loro stessi. Chi viene perdonato non sarà mai più un innocente, ma può rialzare la testa. Senza arrivare a crimini così gravi, la vita di ogni giorno è segnata da gesti più o meno gravi che seminano ingiustizia o dolore. Perdonando e ricevendo il perdono si smette di guardare al passato e si volge lo sguardo verso il futuro. Avviene così nel nostro rapporto con Dio dato che nessuno può dirsi innocente, ma tutti siamo peccatori perdonati.

 

*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,45-49)

Continua la meditazione di san Paolo sulla resurrezione di Cristo e sulla nostra e si rivolge a cristiani di origine greca che vorrebbero avere una risposta chiara e precisa sulla resurrezione della carne, sul quando e sul come avverrà. Paolo ha già spiegato domenica scorsa  che la resurrezione è un articolo di fede per cui non credere nella resurrezione dei morti, significa non credere nemmeno nella resurrezione di Cristo. Adesso affronta la domanda: Come risorgono i morti e con quale corpo ritornano? In verità riconosce di non sapere come saranno i risorti, ma ciò che può affermare con certezza è che il nostro corpo risorto sarà completamente diverso da quello terreno. Se pensiamo che Gesù apparso dopo la risurrezione non veniva subito riconosciuto dai suoi discepoli e Maria Maddalena lo ha scambiato per il giardiniere, ciò dimostra che era lo stesso e, allo stesso tempo, completamente diverso. Paolo distingue un corpo animale da un corpo spirituale e l’espressione corpo spirituale ha sorpreso i suoi ascoltatori che conoscevano la distinzione greca tra corpo e anima. Egli però, essendo ebreo, sa che il pensiero ebraico non contrappone mai il corpo e l’anima e la sua formazione giudaica lo ha condotto invece a contrapporre due tipi di comportamento: quello dell’uomo terreno e quello dell’uomo spirituale, inaugurato dal Messia. In ogni uomo, Dio ha insufflato un soffio di vita che lo rende capace di vita spirituale, ma rimane ancora un uomo terreno. Solo nel Messia abita pienamente lo Spirito stesso di Dio, che guida ogni sua azione. Paolo per argomentare fa riferimento alla Genesi, nella quale legge la vocazione dell’umanità, ma non la interpreta in modo storico. Per lui Adamo è un tipo di uomo o, meglio, un tipo di comportamento. Questa lettura può sembrarci insolita, ma dobbiamo abituarci a leggere i testi della creazione nella Genesi non come un resoconto degli eventi, bensì come racconti di vocazione. Creando l’umanità (Adamo è un nome collettivo), Dio la chiama a un destino straordinario. Adamo, l’essere terrestre, è chiamato a diventare il tempio dello Spirito di Dio. E va ricordato che nella Bibbia la Creazione non è considerata un evento del passato perché la Bibbia parla molto di più di Dio Creatore che della Creazione; parla del nostro rapporto con Dio: siamo stati creati da Lui, dipendiamo da Lui, siamo sospesi al suo soffio e non si tratta del passato, bensì del futuro. L’atto creativo ci viene presentato come un progetto ancora in corso: nei due racconti della creazione, l’uomo ha un ruolo da svolgere. “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela” nel primo racconto (Gn 1,28). “Il SIGNORE Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse” nel secondo racconto (Gn 2,15). E questo compito riguarda tutti noi, poiché Adamo è un nome collettivo che rappresenta tutta l’umanità. La nostra vocazione, dice ancora la Genesi, è essere l’immagine di Dio, cioè abitati dallo Spirito stesso di Dio. “Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza… Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò.” (Gn 1,26-27). Adamo è anche il tipo di uomo che non risponde alla sua vocazione; si è lasciato influenzare dal serpente, che gli ha instillato, come un veleno, la sfiducia verso Dio. Questo è ciò che Paolo chiama un comportamento terreno, come il serpente che striscia rasoterra. Gesù Cristo, il nuovo Adamo, invece, si lascia guidare solo dallo Spirito di Dio. In questo modo, egli realizza la vocazione di ogni uomo, cioè di Adamo; è questo il senso della frase di Paolo: “Fratelli, il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente ma l’ultimo Adamo  ( cioè il Cristo) divenne  spirito datore di vita.”

Chiaro il messaggio: il comportamento di Adamo conduce alla morte, quello di Cristo conduce alla vita. Noi però siamo costantemente combattuti tra questi due comportamenti, tra cielo e terra e possiamo fare nostra l’espressione di Paolo quando grida: “Infelice uomo che sono! Non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio.” (Rm 7,24.19). In altri termini la storia individuale e quella collettiva di tutta l’umanità è un lungo cammino per lasciarci abitare sempre di più dallo Spirito di Dio.  Scrive Paolo: “Il primo uomo tratto dalla terra è fatto di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli della terra e come è l’uomo celeste, così anche i celesti”. E san Giovanni osserva: “Carissimi, fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si manifesterà, saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.» (1 Gv 3,2). L’immagine perfetta di Dio in Gesù Cristo, gli apostoli l’hanno vista sul volto di Cristo durante la Trasfigurazione.

Nota: il serpente strisciante per terra tenta l’umanità (Adamo – adam uomo collegato a adamah terra, non è il nome di una persona ma indica l’umanità intera  fatta di terra Gn1,26-27)  e il nome del serpente è nahash parola che può significare sia serpente che il dragone dell’Apocalisse: Gn3,15; Ap 12)

 

*Dal Vangelo secondo Luca (6, 27-38)

“Siate misericordiosi come il vostro Padre è misericordioso” e sarete allora figli dell’Altissimo, perché lui è buono con gli ingrati e i cattivi.  Questo è il programma di ogni cristiano, è la nostra vocazione. L’intera Bibbia appare come il racconto della conversione dell’uomo, che impara gradualmente a dominare la propria violenza. Non è certo un processo facile, ma Dio è paziente, perché, come dice san Pietro , un giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno (cf 2 Pt 3,8) ed educa il suo popolo con tanta pazienza, come leggiamo nel Deuteronomio: “Come un uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te” (Dt 8,5). Questa lenta estirpazione della violenza dal cuore dell’uomo è espressa in modo figurato fin dal libro della Genesi: la violenza viene presentata come una forma di animalità. Riprendiamo il racconto del giardino dell’Eden: Dio aveva invitato Adamo a dare un nome agli animali, a simboleggiare la sua superiorità su tutte le creature. Dio aveva infatti concepito Adamo come il re della creazione: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza. Domini sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra» (Gn 1,26). E lo stesso Adamo si era riconosciuto diverso, superiore: «L’uomo diede un nome a tutti gli animali, agli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche; ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse» (Gn 2,20). L’uomo non trovò il suo pari. Ma due capitoli dopo, troviamo la storia di Caino e Abele. Nel momento in cui Caino è preso da una folle voglia di uccidere, Dio gli dice: «Il peccato è accovacciato (come una bestia) alla tua porta. È in agguato, ma tu devi dominarlo» (Gn 4,7). E a partire da questo primo omicidio, il testo biblico mostra la proliferazione della vendetta (Gn 4,1-26). Fin dai primi capitoli della Bibbia, la violenza è dunque riconosciuta: esiste, ma viene smascherata e paragonata a un animale. L’uomo non merita più di essere chiamato uomo quando è violento. I testi biblici intraprendono quindi l’arduo cammino della conversione del cuore dell’uomo. In questo percorso possiamo distinguere delle tappe. Fermiamoci sulla prima: «Occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,24). In risposta al terribile vanto di Lamech (Gn 4,23), pronipote di Caino, che si glorificava di uccidere uomini e bambini per vendicare semplici graffi, la Legge introduce un primo limite: un solo dente per un dente, e non tutta la mascella; una sola vita per una vita, e non un intero villaggio in rappresaglia. La legge del taglione rappresentava dunque già un progresso significativo, anche se oggi ci appare ancora insufficiente. La pedagogia dei profeti affronta costantemente il problema della violenza, ma si scontra con una grande difficoltà psicologica: l’uomo che accetta di non vendicarsi teme di perdere il proprio onore. I testi biblici allora mostrano all’uomo che il suo vero onore è altrove: consiste proprio nell’assomigliare a Dio, che è «buono con gli ingrati e i malvagi». Il discorso di Gesù, che leggiamo questa domenica, rappresenta l’ultima tappa di questa educazione: dalla legge del taglione siamo passati all’invito alla dolcezza, al disinteresse, alla gratuità perfetta. Egli insiste: per due volte, all’inizio e alla fine, dice «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano»… «Amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperare nulla in cambio». E così il finale ci sorprende un po’: fino a questo punto, sebbene non fosse facile, almeno era logico. Dio è misericordioso e ci invita a imitarlo. Ma ecco che le ultime righe sembrano cambiare tono: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati. Perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6,37-38). Siamo forse tornati a una logica del “do ut des”? Ovviamente no! Gesù qui ci sta semplicemente indicando un cammino molto rassicurante: per non temere di essere giudicati, basta non giudicare né condannare gli altri. Giudicate le azioni, ma mai le persone. Instaurate un clima di benevolenza. In questo modo, le relazioni fraterne non verranno mai spezzate. Quanto alla frase: «La vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo», essa esprime la meraviglia che sperimentano coloro che si conformano all’ideale cristiano della mitezza e del perdono. È la profonda trasformazione che avviene in loro: perché hanno aperto la porta allo Spirito di Dio, e lui abita in loro e li ispira sempre di più. A poco a poco vedono compiersi in loro la promessa formulata dal profeta Ezechiele: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne.» (Ez 36,26).

+Giovanni D’Ercole

 

 

Sintesi su richiesta: Commento breve.

 

Lettura dal Primo Libro di Samuele (26,2.7-9.12-13.22-23)

Saul fu il primo re del popolo d’Israele, intorno al 1040 a.C. Era un contadino, originario di una famiglia semplice della  tribù di Beniamino, scelto da Dio e consacrato re dal profeta Samuele che inizialmente esitò  perché diffidava della monarchia in generale, ma dovette obbedire a Dio. Dopo un buon inizio, Saul purtroppo diede ragione ai peggiori timori di Samuele: il suo piacere personale, l’amore per il potere e per la guerra prevalsero sulla fedeltà all’Alleanza. Fu così grave che, senza attendere la fine del suo regno, Samuele, su ordine di Dio, si mise a cercare il suo successore e scelse Davide, il piccolo pastore di Betlemme, l’ottavo figlio di Iesse. Davide fu accolto alla corte di Saul e divenne pian piano un abile capo di guerra, i cui successi erano sulla bocca di tutti. Un giorno, Saul  udì il canto popolare che circolava ovunque: «Saul ha ucciso i suoi mille, e Davide i suoi diecimila» (1 Sam 18,7) e fu preso dalla gelosia che  divenne così feroce nei confronti di Davide da farlo impazzire. Davide dovette fuggire più volte per salvarsi, ma contrariamente ai sospetti di Saul, Davide non venne mai meno alla sua lealtà verso il re. Nell’episodio che ci viene qui narrato è Saul a prendere l’iniziativa: i tremila uomini di cui si parla furono radunati da lui con il solo scopo di soddisfare il suo odio per Davide. “Saul scese nel deserto di Zif con tremila uomini scelti d’Israele per cercare Davide” (v 2) e chiara era la sua intenzione: eliminarlo appena possibile. Ma la situazione si ribalta a favore di Davide: durante la notte Davide entra nel campo di Saul e trova tutti addormentati e quindi l’occasione favorevole per ucciderlo. Abisai, la guardia del corpo di Davide, non ha dubbi e si offre di ucciderlo: “Oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico. Lascia dunque che io l’inchiodi a terra con la lancia in un sol colpo e non aggiungerò il secondo” (v 8). Davide sorprende tutti, incluso Saul, che stenterà a credere ai suoi occhi quando vedrà la prova che Davide lo ha risparmiato. Si pongono due domande: perché Davide ha risparmiato colui che voleva la sua morte? L’unica ragione è il rispetto per la scelta di Dio: “Non ho voluto stendere la mano contro il messia del Signore” (v.11).  L’autore sacro vuole delineare il ritratto di Davide: rispettoso della volontà di Dio e magnanimo, che  rifiuta la vendetta e comprende che la Provvidenza non si manifesta mai attraverso la semplice consegna del nemico nelle proprie mani. In secondo luogo, perché il re regnante è intoccabile e non va dimenticato che questo racconto fu scritto alla corte di Salomone, il quale aveva tutto l’interesse a far passare questo insegnamento. Infine, questo testo rappresenta una tappa nella storia biblica, un momento nella pedagogia di Dio: prima di imparare ad amare tutti gli uomini, bisogna iniziare a trovare qualche buona ragione per amarne alcuni e Davide risparmia un nemico pericoloso perché come re è l’eletto di Dio. L’ultima tappa sarà comprendere che ogni uomo va rispettato perché siamo tutti creati a immagine e somiglianza di Dio.

 

*Salmo 102 (103), 1-2, 3-4, 8. 10. 12-13

Questo salmo sarebbe bene recitarlo o cantarlo a due voci, a due cori alternati. Primo coro: “Benedici il Signore, anima mia”… Secondo coro: “quanto è in me benedica  il suo santo nome santo”… Primo coro: “Egli perdona tutte le tue colpe … Secondo coro: “Non ci tratta secondo i nostri peccati”. E così via. Un’altra caratteristica è la tonalità gioiosa del rendimento di grazie. L’espressione “Benedici il Signore, anima mia” si ripete come inclusione nel primo e nell’ultimo versetto del salmo. Tra tutti i benefici, i versetti scelti per questa domenica insistono sul perdono di Dio: “Perché Egli perdona tutte le tue colpe… Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore; non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe …”perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri”. Proprio la congiunzione “perché” dà il senso a tutta la frase: è proprio la sua misericordia inesauribile a fare la differenza tra Dio e noi. Circa cinquecento anni prima di Cristo, si era già compreso che il perdono di Dio è incondizionato e che precede tutte le nostre preghiere o pentimenti. Il perdono di Dio non è un atto puntuale, un evento, ma è la sua essenza stessa. Tuttavia, siamo solo noi a poter compiere liberamente il gesto di andare a ricevere questo perdono di Dio e rinnovare l’Alleanza; Egli non ci forzerà mai e allora andiamo da lui con fiducia, compiamo il passo indispensabile per entrare nel perdono di Dio che è già acquisito. A ben vedere si tratta di una scoperta che risale a tempi molto antichi. Quando Natan annunciò al re Davide, che si era appena sbarazzato del marito della sua amante, Betsabea, il perdono di Dio, Davide in verità non aveva ancora avuto il tempo di esprimere il minimo pentimento.  Dopo avergli ricordato tutti i benefici con cui Dio lo aveva colmato, il profeta aggiunse: “E se questo fosse poco, aggiungerei ancora di più” (2 Sam 12,8). Ecco il significato della parola perdono, formata da due sillabe che è bene separare “per – dono” a indicare il dono perfetto, dono al di là dell’offesa e al di là dell’ingratitudine; è l’alleanza sempre offerta nonostante l’infedeltà. Perdonare chi ci ha fatto del male significa continuare, nonostante tutto, a offrirgli un’alleanza, una relazione di amore o di amicizia; significa rifiutare di odiare e di vendicarsi. Tuttavia, questo non significa dimenticare. Spesso si sente dire: posso perdonare ma non dimenticherò mai. In realtà, si tratta di due cose completamente diverse. Il perdono non è un colpo di spugna. Ci sono offese che non si potranno mai dimenticare, perché è successo l’irreparabile. È proprio questo che conferisce grandezza e gravità alle nostre vite umane: se un colpo di spugna potesse cancellare tutto, che senso avrebbe agire bene? Potremmo fare qualsiasi cosa. Il perdono quindi non cancella il passato, ma apre al futuro. Spezza le catene della colpa, porta la liberazione interiore e ci permette di ripartire. Quando Davide fece uccidere il marito di Betsabea, nulla poté riparare il male commesso. Ma Davide, perdonato, poté rialzare la testa e cercare di non fare più il male. Quando i genitori perdonano l’assassino di un loro figlio non significa che dimenticano il crimine commesso ma proprio nel loro dolore trovano la forza necessaria per perdonare e il perdono diventa un atto profondamente liberatore per loro stessi. Chi viene perdonato non sarà mai più un innocente, ma può rialzare la testa. Senza arrivare a crimini così gravi, la vita di ogni giorno è segnata da gesti più o meno gravi che seminano ingiustizia o dolore. Perdonando e ricevendo il perdono si smette di guardare al passato e si volge lo sguardo verso il futuro. Avviene così nel nostro rapporto con Dio dato che nessuno può dirsi innocente, ma tutti siamo peccatori perdonati.

 

*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,45-49)

Continua la meditazione di san Paolo sulla resurrezione di Cristo e sulla nostra e si rivolge a cristiani di origine greca che vorrebbero avere una risposta chiara e precisa sulla resurrezione della carne, sul quando e sul come avverrà. Paolo ha già spiegato domenica scorsa  che la resurrezione è un articolo di fede per cui non credere nella resurrezione dei morti, significa non credere nemmeno nella resurrezione di Cristo. Adesso affronta la domanda: Come risorgono i morti e con quale corpo ritornano? In verità riconosce di non sapere come saranno i risorti, ma ciò che può affermare con certezza è che il nostro corpo risorto sarà completamente diverso da quello terreno. Se pensiamo che Gesù apparso dopo la risurrezione non veniva subito riconosciuto dai suoi discepoli e Maria Maddalena lo ha scambiato per il giardiniere, ciò dimostra che era lo stesso e, allo stesso tempo, completamente diverso. Paolo distingue un corpo animale da un corpo spirituale e l’espressione corpo spirituale ha sorpreso i suoi ascoltatori che conoscevano la distinzione greca tra corpo e anima. Egli però, essendo ebreo, sa che il pensiero ebraico non contrappone mai il corpo e l’anima e la sua formazione giudaica lo ha condotto invece a contrapporre due tipi di comportamento: quello dell’uomo terreno e quello dell’uomo spirituale, inaugurato dal Messia. In ogni uomo, Dio ha insufflato un soffio di vita che lo rende capace di vita spirituale, ma rimane ancora un uomo terreno. Paolo per argomentare fa riferimento alla Genesi e vede Adamo  come un tipo di comportamento perché  il racconto della creazione nella Genesi non è il resoconto degli eventi, bensì il racconto di una vocazione. Creando l’umanità (Adamo è un nome collettivo), Dio la chiama a un destino straordinario. Adamo, l’essere terrestre, è chiamato a diventare il tempio dello Spirito di Dio. E va ricordato che nella Bibbia la Creazione non è considerata un evento del passato ma parla del nostro rapporto con Dio: siamo stati creati da Lui, dipendiamo da Lui, siamo sospesi al suo soffio e non si tratta del passato, bensì del futuro. L’atto creativo ci viene presentato come un progetto ancora in corso: nei due racconti della creazione, l’uomo ha un ruolo da svolgere. “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela” (Gn 1,28). “Il SIGNORE Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gn 2,15). E questo compito riguarda tutti noi, poiché Adamo è un nome collettivo che rappresenta tutta l’umanità. La nostra vocazione, dice ancora la Genesi, è essere l’immagine di Dio, cioè abitati dallo Spirito stesso di Dio. “Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza… Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò.” (Gn 1,26-27). Adamo è anche il tipo di uomo che non risponde alla sua vocazione; si è lasciato influenzare dal serpente, che gli ha instillato, come un veleno, la sfiducia verso Dio. Questo è ciò che Paolo chiama un comportamento terreno, come il serpente che striscia rasoterra. Gesù Cristo, il nuovo Adamo, invece, si lascia guidare solo dallo Spirito di Dio. In questo modo, egli realizza la vocazione di ogni uomo, cioè di Adamo; è questo il senso della frase di Paolo: “Fratelli, il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente ma l’ultimo Adamo  ( cioè il Cristo) divenne  spirito datore di vita.”

Chiaro il messaggio: il comportamento di Adamo conduce alla morte, quello di Cristo conduce alla vita. Noi però siamo costantemente combattuti tra questi due comportamenti, tra cielo e terra e possiamo fare nostra l’espressione di Paolo quando grida: “Infelice uomo che sono! Non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio.” (Rm 7,24.19). In altri termini la storia individuale e quella collettiva di tutta l’umanità è un lungo cammino per lasciarci abitare sempre di più dallo Spirito di Dio.  Scrive Paolo: “Il primo uomo tratto dalla terra è fatto di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli della terra e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. 

 

*Dal Vangelo secondo Luca (6, 27-38)

“Siate misericordiosi come il vostro Padre è misericordioso” e sarete allora figli dell’Altissimo, perché lui è buono con gli ingrati e i cattivi.  Questo è il programma di ogni cristiano, è la nostra vocazione. L’intera Bibbia appare come il racconto della conversione dell’uomo, che impara gradualmente a dominare la propria violenza. Non è certo un processo facile, ma Dio è paziente ed educa il suo popolo con tanta pazienza. Questa lenta estirpazione della violenza dal cuore dell’uomo è espressa in modo figurato fin dal libro della Genesi: la violenza viene presentata come una forma di animalità. Dio aveva invitato Adamo a dare un nome agli animali, a simboleggiare la sua superiorità su tutte le creature.  E lo stesso Adamo si era riconosciuto diverso, superiore e non trovò il suo pari. Ma dopo troviamo la storia di Caino e Abele. Nel momento in cui Caino è preso da una folle voglia di uccidere, Dio gli dice: «Il peccato è accovacciato (come una bestia) alla tua porta. È in agguato, ma tu devi dominarlo» (Gn 4,7). E a partire da questo primo omicidio, il testo biblico mostra la proliferazione della vendetta (Gn 4,1-26). Fin dai primi capitoli della Bibbia, la violenza è dunque riconosciuta: esiste, ma viene smascherata e paragonata a un animale. L’uomo non merita più di essere chiamato uomo quando è violento. I testi biblici intraprendono quindi l’arduo cammino della conversione del cuore dell’uomo. In questo percorso possiamo distinguere delle tappe. Fermiamoci sulla prima: «Occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,24). In risposta al terribile vanto di Lamech (Gn 4,23), pronipote di Caino, che si glorificava di uccidere uomini e bambini per vendicare semplici graffi, la Legge introduce un primo limite: un solo dente per un dente, e non tutta la mascella; una sola vita per una vita, e non un intero villaggio in rappresaglia. La legge del taglione rappresentava dunque già un progresso significativo, anche se oggi ci appare ancora insufficiente. La pedagogia dei profeti affronta costantemente il problema della violenza, ma si scontra con una grande difficoltà psicologica: l’uomo che accetta di non vendicarsi teme di perdere il proprio onore. I testi biblici allora mostrano all’uomo che il suo vero onore è altrove: consiste proprio nell’assomigliare a Dio, che è «buono con gli ingrati e i malvagi». Il discorso di Gesù, che leggiamo questa domenica, rappresenta l’ultima tappa di questa educazione: dalla legge del taglione siamo passati all’invito alla dolcezza, al disinteresse, alla gratuità perfetta. Egli insiste: per due volte, all’inizio e alla fine, dice «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano»…. Dio è misericordioso e ci invita a imitarlo. Ma ecco che le ultime righe sembrano cambiare tono: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati. Perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato (Lc 6,37-38). Siamo forse tornati a una logica del “do ut des”? Ovviamente no! Gesù qui ci sta semplicemente indicando un cammino molto rassicurante: per non temere di essere giudicati, basta non giudicare né condannare gli altri. Giudicate le azioni, ma mai le persone. Instaurate un clima di benevolenza. In questo modo, le relazioni fraterne non verranno mai spezzate.

+Giovanni D’Ercole

Giovedì, 13 Febbraio 2025 21:26

VI Domenica T.O. (C) [e Commento breve]

Buona giornata sotto lo sguardo materno della B.V. di Lourdes.

Commento alle Letture della VI Domenica del Tempo Ordinario anno C [16 Febbraio 2025].

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.

 

*Prima Lettura dal Libro del profeta Geremia (17, 5 – 8)

 Il profeta Geremia inizia in maniera solenne: “Così dice il Signore” per avvisare che quanto si sta per ascoltare è importante e grave perché è il “Signore” – cioè il Dio stesso dell’Alleanza del Sinai - che afferma: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo”. Qui però sorgono due domande: Dio può maledire l’uomo? E perché e in che senso fidarsi di un uomo è un errore? Non c’è alcun dubbio: Dio non può maledirci e l’espressione ebraica tradotta con “maledetto” nei profeti è “arur” (אָרוּר), che compare spesso nella Bibbia ebraica e il suo significato non va inteso come un’azione diretta di Dio che maledice, piuttosto come una dichiarazione dello stato di rovina o disgrazia in cui cade chi si allontana da Lui. Si tratta quindi di un avvertimento profetico e “maledetto l’uomo che confida nell’uomo” non indica un’azione attiva di Dio, ma un monito di questo tipo: se scegli di confidare solo negli uomini e non in Dio, ti metti in una situazione di insicurezza e fallimento. Nella mentalità biblica, Dio è fonte di vita e benedizione (berakha), e l’allontanamento da Lui porta automaticamente alla ’arur (rovina, sterilità, fallimento). Quando dunque i profeti usano “maledetto”, stanno dicendo: “Attenzione, questa strada porta alla tua distruzione”. Non è Dio a lanciare una maledizione come un castigo arbitrario, ma è una legge spirituale: quando ci si allontana dalla sorgente dell’acqua viva (Dio), inevitabilmente ci si ritrova nella siccità del deserto. Circa la seconda domanda concernente l’uomo che confida nell’uomo, dovremmo diffidare gli uni degli altri? Certamente no, perché Dio vuole che l’umanità diventi una cosa sola e dunque ogni sfiducia tra gli uomini va contro il suo disegno d’amore.  Qui si tratta di chi si allontana da Dio e confida, cioè ha fede nell’uomo. La parola chiave è confida/ ha “fede”, un termine assai forte che indica fare affidamento, appoggiarsi in modo assoluto sugli uomini, come ci si arrocca su una roccia. Senza Dio ogni sicurezza è fragile e si diventa come un arbusto nel deserto senza acqua destinato a morire. Chiaro il messaggio: Se ti allontani da Dio diventi spiritualmente arido e instabile, come un cespuglio nel deserto, mentre se confidi, hai fede, la tua vita sarà come un albero che rimane verde perché ha le sue radici nell’acqua.  Facile capire l’importanza dell’acqua per un popolo che camminava nel deserto e Geremia parla per esperienza avendo sotto gi occhi la strada che da Gerusalemme va a Gerico in un deserto completamente arido per gran parte dell’anno. Rinverdisce soltanto e fiorisce con le piogge primaverili, e così, attingendo a esempi e immagini dalla vita quotidiana dei suoi ascoltatori, il profeta offre saggi consigli di vita spirituale. La fede quindi è il fondamento: la fiducia in Dio è come radicarsi in una roccia sicura (Mt 7,24-25). Far dipendere la vita solo da umane realtà come il potere, il successo, i soldi, le relazioni, porta a diventare fragili. Inoltre il fatto di aver posto la propria fede in Dio non ti risparmia dalle difficoltà e dai problemi, ma dà la forza per superare ogni ostacolo. E allora ogni giorno Il credente è chiamato a scegliere: affidarsi solo su sé stesso e vivere nella paura, oppure radicare la vita in Dio e affrontare le tempeste dell’esistenza senza perdersi d’animo.

Una nota: Geremia probabilmente sta denunciando i due errori/peccati fatali dei re, dei capi religiosi e dell’intero popolo: l’idolatria e le alleanze. Per quanto concerne l’idolatria molti hanno introdotto in Israele vari culti idolatrici e offerto sacrifici agli idoli e Geremia lo stigmatizza: “Il mio popolo mi ha dimenticato per bruciare offerte a chi è un nulla.” ( 18,15). Quanto invece alle alleanze, il profeta critica la politica dei re che invece di contare sulla protezione di Dio, hanno moltiplicato manovre diplomatiche, alleandosi di volta in volta con ciascuna delle potenze del Medio Oriente ricavandone solo guerre e disgrazie. Così è avvenuto per Sedecia che, affidandosi a manovre diplomatiche e alla sua forza militare, è andato incontro  al fallimento con massacri, umiliazioni  per sé e per il popolo (Gr 39,1-10).

 

*Salmo Responsoriale (1) 

Questo salmo, il primo, molto breve dove ogni dettaglio è significativo, costituisce la chiave interpretativa di tutto il Salterio ed è stato scelto per introdurre alla preghiera di Israele. Esso  si apre con questa parola: Beato!  “Beato l’uomo che non entra nel  consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siete in compagnia degli arroganti “. Il termine “beato” nella Bibbia deriva dall’ebraico “ashré”, che esprime uno stato di felicità e profondo appagamento, condizione di benedizione e di pace interiore che Dio accorda a chi vive secondo la sua volontà. Questo concetto è simile a “shalom”, che indica una pace profonda e completa. Chi evita le influenze negative e trova gioia nella legge del Signore, meditandola costantemente, viene paragonatao a un albero piantato lungo corsi d’acqua, che produce frutto al momento opportuno e le cui foglie non appassiscono. Il salmista ha compreso che Dio vuole la nostra felicità, e questa è la cosa più importante che ha voluto dirci sin dall’inizio. Per capire il senso della parola beato nella Bibbia, dobbiamo pensare alle felicitazioni che ci si scambia nelle occasioni di festa augurando gioia e prosperità. L’espressione “Beato” etimologicamente significa riconoscerlo felice e rallegrarsi con lui; è innanzitutto una constatazione (sei felice), ma è anche un augurio, un incoraggiamento a far crescere la felicità ogni giorno. È come dire: sei sulla buona strada, continua a essere felice. Il termine biblico “Beato” esprime in definitiva una duplice dimensione: constatazione e incoraggiamento. Per questo, molti studiosi, come André Chouraqui, traducono beato con “in cammino”, immagine che invita a considerare la storia dell’umanità come un lungo viaggio, durante il quale gli uomini sono continuamente chiamati a scegliere la strada che porta alla vera felicità. 

 

Qualche nota per meglio entrare nella Parola:

1. Nei pochi versetti del salmo troviamo un’insistenza particolare sulla parola via: “via dei peccatori…cammino dei giusti…via dei malvagi” ed emerge il tema delle due vie: la via giusta e la via sbagliata, il bene e il male. L’immagine è chiara: la nostra vita è come un incrocio, dove dobbiamo decidere quale direzione prendere. Se imbocchiamo la strada giusta, ogni passo ci avvicinerà alla meta; se scegliamo la direzione sbagliata, ogni passo ci allontanerà sempre di più dal traguardo.  L’intera Rivelazione biblica ha lo scopo di indicare all’umanità il cammino della felicità che Dio desidera per noi e per tale motivo offre tanti segnali come le espressioni beato/maledetto o felice/infelice che sono indicatori del cammino. Quando Geremia nella prima Lettura dice “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo… o Isaia proclama “Guai a coloro che promulgano leggi inique” (10,1), non stanno giudicando o condannando le persone in modo definitivo, ma stanno lanciando un allarme, come chi grida per avvertire un passante del pericolo di un burrone. Al contrario, espressioni come “Benedetto l’uomo che confida nel Signore (Ger 17,7) o “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei peccatori” (Sal 1) sono un incoraggiamento: siete sulla strada giusta!

2. Il tema delle due vie ci ricorda che siamo liberi e il desiderio di felicità è inscritto nel cuore di ogni uomo, ma spesso si sbaglia direzione e la legge di Dio non è altro che una guida per la nostra libertà, un aiuto per scegliere la via giusta. Israele sa che la Torah è un dono di Dio, un segno del suo desiderio di felicità per noi e per questo “la sua legge medita giorno e notte”.

3. Quando il salmo parla di giusti e malvagi, si riferisce a comportamenti, non a persone perché non esistono uomini perfettamente giusti o completamente malvagi e in verità dentro di noi convivono entrambe le tendenze. Ogni sforzo per ascoltare la Parola di Dio è un passo sulla via del vero bene. Ecco perché il salmo dice: ”Beato l’uomo che nella legge del Signore trova la sua gioia”.  Infine si capisce che la stessa costruzione letteraria del salmo sottolinea l’importanza della scelta giusta: il salmo non è infatti simmetrico e contrappone due atteggiamenti, quello dei giusti e quello dei peccatori, ma dedica la maggior parte a descrivere la felicità dei giusti per dirci che ciò che merita attenzione è il bene, non il male. Questo salmo è dunque un invito a scegliere consapevolmente il cammino della fedeltà a Dio e non è un caso che il salterio inizi proprio con questa parola: Beato l’uomo che confida nel Signore!  

 

*Seconda Lettura dalla prima Lettera di san Paolo ai Corinzi (15, 12 – 20)

Comprendiamo meglio quello che san Paolo vuol dirci se pensiamo allo svolgimento del funerale di un cristiano il cui rituale prevede tre “segni” di alto valore simbolico. Anzitutto il Cero Pasquale accanto alla bara arde durante tutta la celebrazione a ricordare la presenza del Cristo risorto vivo fra noi. Nel rito di commiato che segue la messa il celebrante e, secondo alcuni usi, anche i fedeli aspergono il corpo del defunto con l’acqua benedetta a ricordo del Battesimo. Inoltre il celebrante incensa il feretro e questo per i cristiani dei primi secoli era un gesto assai audace perché nell’Impero Romano l’incenso veniva bruciato davanti alle statue degli dèi e sembrava un fuori luogo incensare un corpo umano senza vita ridotto a nulla. Ma questo gesto è molto eloquente perché un cristiano, fin dal suo Battesimo, è tempio dello Spirito Santo come ci ricorda san Paolo e dimenticandolo si finisce per perdere il segno e il valore della risurrezione dei corpi. I cristiani di Corinto e forse non pochi oggi anche se credono alla risurrezione di Cristo, faticano a trarne la conseguenza che per Paolo è evidente: se Cristo è risorto, anche noi risorgeremo. E per spiegarci questa verità di fede procede per due tappe. Prima riafferma che Gesù è veramente risorto e poi ne trae le conseguenze. Essendo la risurrezione di Cristo il fondamento della fede cristiana, Paolo afferma che “se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede”.  In verità se non si crede nella risurrezione di Cristo, l’edificio della fede cristiana crolla: un rischio che corre ogni comunità. Chiediamoci: tutti i cattolici credono nella risurrezione di Cristo e nella nostra risurrezione? 

Da questa premessa san Paolo trae le conseguenze argomentando così: poiché Cristo è risorto e molti lo hanno visto vivo e lo possono testimoniare, egli è davvero il Salvatore del mondo ed è vero tutto ciò che ha detto e promesso. Con il battesimo noi siamo diventati tempio dello Spirito e questo significa che lo Spirito vive in noi, ma se lo Spirito d’amore è l’opposto del peccato, essendo il peccato mancanza di amore per Dio e per gli altri, lo Spirito Santo ci libera dal peccato e noi siamo, come Cristo, abitati dallo Spirito di Dio, per cui risorgeremo come lui. Ciò che è stato tempio dello Spirito può essere trasformato, ma non può essere distrutto. La morte biologica distrugge il nostro corpo, ma Gesù lo farà risorgere. 

 

Note per meglio capire il testo:

1.L’apostolo aggiunge “Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti”. Nel testo greco il termine utilizzato significa primizia nel senso di inizio di una lunga serie. Nell’Antico Testamento, le primizie erano i primi frutti della terra che segnavano l’inizio del raccolto. Dire che Gesù è risorto come “primizia di coloro che sono morti” significa affermare che è il fratello maggiore dell’umanità, il primo nato, come dice altrove Paolo: “Egli è il capo del corpo… Egli è il principio, il primogenito di coloro che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose…” (Col 1,18).

2. In definitiva, occorre sempre tornare al progetto misericordioso di Dio che è quello di riunire tutta l’umanità in Gesù Cristo come leggiamo nella Lettera agli Efesini ( cf. Ef 1,9-10). E Dio non ha certo previsto di riunire dei morti, ma dei vivi e Gesù nella sua discussione con i Sadducei: ebbe a spiegare: “Quanto poi alla risurrezione dei morti, non avete letto quello che vi è stato detto da Dio: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? Egli non è il Dio dei morti, ma dei vivi” (Mt 22,31-32).

3. C’è un aspetto del mistero dell’Incarnazione da non dimenticare: Dio prende sul serio la nostra umanità, il nostro corpo perché il Verbo si è fatto carne diventando in tutto simile agli uomini, così simile che il suo destino è diventato il nostro: se è risorto, anche noi risorgeremo. La risurrezione di Cristo non è dunque solo il felice epilogo della sua storia personale ma l’alba della vittoria dell’umanità sulla morte. La morte non è più un muro, ma una porta… e noi vi entriamo dietro di lui. Da qui si capisce l’inconciliabilità della fede cristiana con qualsiasi idea di reincarnazione. La dignità dell’essere umano arriva fino a questo punto: anche se il nostro corpo a volte è fragile e segnato dalla sofferenza, Dio non lo tratta mai come una cosa da gettare e sostituire; la nostra persona è un tutt’uno. Può capitare che ci disprezziamo, ma agli occhi di Dio, siamo ognuno unico e insostituibile. Il nostro intero essere è chiamato a vivere per sempre accanto a Lui.

 

*Dal Vangelo secondo Luca ( 6, 17......26)

Nella prima lettura il profeta Geremia ha esortato a non confidare in sé stessi e sui beni materiali, ma a poggiare la propria vita su Dio. Il Vangelo delle Beatitudini va ben oltre affermando: Beati voi poveri che ponete la vostra fiducia in Dio perché egli vi colmerà delle sue ricchezze. Ma chi sono i poveri secondo il vangelo? Il termine poveri nell’Antico Testamento non ha alcun legame con il conto in banca perché nel senso biblico (anawim) poveri sono coloro che non hanno un cuore superbo né lo sguardo altero chiamati “i curvi di schiena”: sono i piccoli, gli umili, che, mai sazi e compiaciuti di sé, sentono che manca loro qualcosa e proprio per questo Dio può colmarli. I profeti alternano nella loro predicazione il tono severo e minaccioso quando il popolo si smarrisce e insegue valori sbagliati, con quello incoraggiante e consolante quando attraversa momenti di sofferenza e disperazione. Gesù cerca di educare lo sguardo dei discepoli e della folla riprendendo il doppio linguaggio del profeta presente nella prima lettura. Geremia afferma: voi che ponete la vostra fiducia nelle ricchezze materiali, nella vostra posizione sociale, voi che siete ben considerati, presto non vi invidieranno più e per questo non siete sulla strada giusta. Se lo foste, non sareste così ricchi e così ben visti. Un vero profeta si espone al rischio di non piacere, e Gesù lo sa bene. Un vero profeta non ha né il tempo né la preoccupazione di accumulare denaro o curare la propria immagine. Queste quattro beatitudini fotografano perfettamente Gesù che è così povero da non avere una pietra su cui posare il capo ed è morto nell’abbandono totale; è colui che ha pianto la morte dell’amico Lazzaro e ha conosciuto l’angoscia nell’orto degli Ulivi, ha pianto la sorte di Gerusalemme; ha avuto fame e sete nel deserto e drammaticamente sulla croce; è colui che è stato disprezzato, calunniato, perseguitato e infine eliminato in nome dei principi della legge e quindi di quella che si riteneva la vera religione. In queste Beatitudini si profila la promessa della Risurrezione ed emerge un senso di gratitudine a Dio perché Gesù vuol far comprendere con quale sguardo d’amore il Padre ci avvolge sapendo che la vittoria è già certa. Ci rivela così lo sguardo di Dio, la sua misericordia: e noi sappiamo che “misericordia” etimologicamente significa viscere che fremono di compassione. In definitiva questo è il messaggio: lo sguardo dell’uomo è ben diverso da quello di Dio; l’ammirazione umana rischia spesso di sbagliare l’oggetto del proprio entusiasmo e si dirige ai ricchi, ai sazi, ai privilegiati della vita. Lo sguardo di Dio è ben diverso: “Un povero grida, il Signore lo ascolta”, dice il Salmo e “Un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi” (Sal 50/51). Isaia arriva persino a dire: “Nella sofferenza che schiaccia il suo servo, Dio lo ama con un amore di predilezione” (Is 53,10). I poveri, i perseguitati, coloro che hanno fame e che piangono, Dio si china su di loro con predilezione: non per un loro merito, ma per la loro stessa condizione. E così Gesù ci apre gli occhi su un’altra dimensione della felicità: la vera felicità è lo sguardo di Dio su di noi. Certi di questo sguardo di Dio, i poveri, coloro che piangono, coloro che hanno fame, troveranno la forza di prendere in mano il proprio destino. 

 

Una nota per meglio entrare nella Parola: 

Ricordo che André Chouraqui afferma che la parola “beati” significa anche “in cammino”. Cita l’esempio del popolo guidato da Mosè che trovò la forza di affrontare la lunga marcia nel deserto nella certezza della costante presenza di Dio. Ancora una volta, la contrapposizione tra beatitudini e maledizioni non divide l’umanità in due gruppi distinti: da una parte quelli che meritano parole di conforto, dall’altra quelli che meritano solo rimproveri. Tutti, a seconda dei momenti della vita, possiamo trovarci nell’uno o nell’altro gruppo. E a ciascuno di noi Cristo dice: “In cammino…Sarete saziati, consolati, rallegratevi ed esultate”.  Tutto questo era già presente nel linguaggio dell’Antico Testamento per descrivere la felicità che avrebbe portato il Messia. I discepoli conoscevano bene queste espressioni e capiscono subito cosa Gesù sta annunciando loro: Voi che siete usciti dalla folla per seguirmi, non lo avete fatto per raccogliere onori o ricchezze, ma avete fatto la scelta giusta, perché avete saputo riconoscere in me il Messia.

 

 

Commento Breve:

*Prima Lettura dal Libro del profeta Geremia (17, 5 – 8)

 Il profeta Geremia inizia in maniera solenne: “Così dice il Signore” per avvisare che quanto si sta per ascoltare è importante e grave perché è il “Signore” – cioè il Dio stesso dell’Alleanza del Sinai - che afferma: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo”. Qui però sorgono due domande: Dio può maledire l’uomo? E perché e in che senso fidarsi di un uomo è un errore? Non c’è alcun dubbio: Dio non può maledirci e l’espressione ebraica che compare spesso nella Bibbia e il suo significato non va inteso come un’azione diretta di Dio che maledice, piuttosto come una dichiarazione dello stato di rovina o disgrazia in cui cade chi si allontana da Lui. Si tratta quindi di un avvertimento profetico e “maledetto l’uomo che confida nell’uomo” non indica un’azione attiva di Dio, ma un monito di questo tipo: se scegli di confidare solo negli uomini e non in Dio, ti metti in una situazione di insicurezza e fallimento. Quando dunque i profeti usano “maledetto”, stanno dicendo: “Attenzione, questa strada porta alla tua distruzione”. Non è Dio a lanciare una maledizione come un castigo arbitrario, ma è una legge spirituale: quando ci si allontana dalla sorgente dell’acqua viva (Dio), inevitabilmente ci si ritrova nella siccità del deserto. Circa la seconda domanda concernente l’uomo che confida nell’uomo, dovremmo diffidare gli uni degli altri? Certamente no, perché Dio vuole che l’umanità diventi una cosa sola e dunque ogni sfiducia tra gli uomini va contro il suo disegno d’amore.  Qui si tratta di chi si allontana da Dio e confida, cioè mette tutta la sua fiducia nell’uomo, appoggiarsi in modo assoluto sugli uomini. Senza Dio ogni sicurezza è fragile e si diventa come un arbusto nel deserto senza acqua destinato a morire. Chiaro il messaggio: Se ti allontani da Dio diventi spiritualmente arido e instabile, come un cespuglio nel deserto, mentre se confidi, hai fede, la tua vita sarà come un albero che rimane verde perché ha le sue radici nell’acqua. La fede quindi è il fondamento: la fiducia in Dio è come radicarsi in una roccia sicura (Mt 7,24-25). Far dipendere la vita solo da umane realtà come il potere, il successo, i soldi, le relazioni, porta a diventare fragili. Inoltre il fatto di aver posto la propria fede in Dio non ti risparmia dalle difficoltà e dai problemi, ma dà la forza per superare ogni ostacolo. E allora ogni giorno Il credente è chiamato a scegliere: affidarsi solo su sé stesso e vivere nella paura, oppure radicare la vita in Dio e affrontare le tempeste dell’esistenza senza perdersi d’animo.

 

*Salmo Responsoriale (1) 

Questo salmo, il primo, molto breve dove ogni dettaglio è significativo, costituisce la chiave interpretativa di tutto il Salterio ed è stato scelto per introdurre alla preghiera di Israele. Esso  si apre con questa parola: Beato!  “Beato l’uomo che non entra nel  consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siete in compagnia degli arroganti “. Il termine “beato” nella Bibbia esprime uno stato di felicità e profondo appagamento, condizione di benedizione e di pace interiore che Dio accorda a chi vive secondo la sua volontà. Questo concetto è simile a “shalom”, che indica una pace profonda e completa. Chi evita le influenze negative e trova gioia nella legge del Signore, meditandola costantemente, viene paragonatao a un albero piantato lungo corsi d’acqua, che produce frutto al momento opportuno e le cui foglie non appassiscono. Il salmista ha compreso che Dio vuole la nostra felicità, e questa è la cosa più importante che ha voluto dirci sin dall’inizio. Per capire il senso della parola beato nella Bibbia, dobbiamo pensare alle felicitazioni che ci si scambia nelle occasioni di festa augurando gioia e prosperità. L’espressione “Beato” etimologicamente significa riconoscerlo felice e rallegrarsi con lui; è innanzitutto una constatazione (sei felice), ma è anche un augurio, un incoraggiamento a far crescere la felicità ogni giorno. È come dire: sei sulla buona strada, continua a essere felice. Il termine biblico “Beato” esprime in definitiva una duplice dimensione: constatazione e incoraggiamento.

 

*Seconda Lettura dalla prima Lettera di san Paolo ai Corinzi (15, 12 – 20)

Comprendiamo meglio quello che san Paolo vuol dirci se pensiamo allo svolgimento del funerale di un cristiano il cui rituale prevede tre “segni” di alto valore simbolico. Anzitutto il Cero Pasquale accanto alla bara arde durante tutta la celebrazione a ricordare la presenza del Cristo risorto vivo fra noi. Nel rito di commiato che segue la messa il celebrante e, secondo alcuni usi, anche i fedeli aspergono il corpo del defunto con l’acqua benedetta a ricordo del Battesimo. Inoltre il celebrante incensa il feretro e questo per i cristiani dei primi secoli era un gesto assai audace perché nell’Impero Romano l’incenso veniva bruciato davanti alle statue degli dèi e sembrava un fuori luogo incensare un corpo umano senza vita ridotto a nulla. Ma questo gesto è molto eloquente perché un cristiano, fin dal suo Battesimo, è tempio dello Spirito Santo come ci ricorda san Paolo e dimenticandolo si finisce per perdere il segno e il valore della risurrezione dei corpi. I cristiani di Corinto e forse non pochi oggi anche se credono alla risurrezione di Cristo, faticano a trarne la conseguenza che per Paolo è evidente: se Cristo è risorto, anche noi risorgeremo. E per spiegarci questa verità di fede procede per due tappe. Prima riafferma che Gesù è veramente risorto e poi ne trae le conseguenze. Essendo la risurrezione di Cristo il fondamento della fede cristiana.  In verità se non si crede nella risurrezione di Cristo, l’edificio della fede cristiana crolla: un rischio che corre ogni comunità. Chiediamoci: tutti i cattolici credono nella risurrezione di Cristo e nella nostra risurrezione?  Da questa premessa san Paolo trae la conclusione che, se  con il battesimo siamo, come Cristo, abitati dallo Spirito di Dio, risorgeremo come lui. La morte biologica distrugge il nostro corpo, ma Gesù lo farà risorgere. 

 

*Dal Vangelo secondo Luca ( 6, 17......26)

 Nella prima lettura il profeta Geremia ha esortato a non confidare in sé stessi e sui beni materiali, ma a poggiare la propria vita su Dio. Il Vangelo delle Beatitudini va ben oltre affermando: Beati voi poveri che ponete la vostra fiducia in Dio perché egli vi colmerà delle sue ricchezze. Ma chi sono i poveri secondo il vangelo? Il termine poveri nell’Antico Testamento non ha alcun legame con il conto in banca perché nel senso biblico (anawim) poveri sono coloro che non hanno un cuore superbo né lo sguardo altero chiamati “i curvi di schiena”: sono i piccoli, gli umili, che, mai sazi e compiaciuti di sé, sentono che manca loro qualcosa e proprio per questo Dio può colmarli. I profeti alternano nella loro predicazione il tono severo e minaccioso quando il popolo si smarrisce e insegue valori sbagliati, con quello incoraggiante e consolante quando attraversa momenti di sofferenza e disperazione. Queste quattro beatitudini fotografano perfettamente Gesù che è così povero da non avere una pietra su cui posare il capo ed è morto nell’abbandono totale; è colui che ha pianto la morte dell’amico Lazzaro e ha conosciuto l’angoscia nell’orto degli Ulivi, ha pianto la sorte di Gerusalemme; ha avuto fame e sete nel deserto e drammaticamente sulla croce; è colui che è stato disprezzato, calunniato, perseguitato e infine eliminato in nome dei principi della legge e quindi di quella che si riteneva la vera religione. In queste Beatitudini si profila la promessa della Risurrezione ed emerge un senso di gratitudine a Dio perché Gesù vuol far comprendere con quale sguardo d’amore il Padre ci avvolge sapendo che la vittoria è già certa. Ci rivela così lo sguardo di Dio, la sua misericordia. Lo sguardo dell’uomo è ben diverso da quello di Dio; l’ammirazione umana rischia spesso di sbagliare l’oggetto del proprio entusiasmo e si dirige ai ricchi, ai sazi, ai privilegiati della vita. Lo sguardo di Dio è ben diverso: “Un povero grida, il Signore lo ascolta”, dice il Salmo e “Un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi” (Sal 50/51). E così Gesù ci apre gli occhi su un’altra dimensione della felicità: la vera felicità è lo sguardo di Dio su di noi. Certi di questo sguardo di Dio, i poveri, coloro che piangono, coloro che hanno fame, troveranno la forza di prendere in mano il proprio destino.

Lunedì, 10 Febbraio 2025 12:19

Beatitudini dell’inversione dei ruoli

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Jesus, who shared his quality as a "stone" in Simon, also communicates to him his mission as a "shepherd". It is a communication that implies an intimate communion, which also transpires from the formulation of Jesus: "Feed my lambs... my sheep"; as he had already said: "On this rock I will build my Church" (Mt 16:18). The Church is property of Christ, not of Peter. Lambs and sheep belong to Christ, and to no one else (Pope John Paul II)
Gesù, che ha partecipato a Simone la sua qualità di “pietra”, gli comunica anche la sua missione di “pastore”. È una comunicazione che implica una comunione intima, che traspare anche dalla formulazione di Gesù: “Pasci i miei agnelli… le mie pecorelle”; come aveva già detto: “Su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18). La Chiesa è proprietà di Cristo, non di Pietro. Agnelli e pecorelle appartengono a Cristo, e a nessun altro (Papa Giovanni Paolo II)
Praying, celebrating, imitating Jesus: these are the three "doors" - to be opened to find «the way, to go to truth and to life» (Pope Francis)
Pregare, celebrare, imitare Gesù: sono le tre “porte” — da aprire per trovare «la via, per andare alla verità e alla vita» (Papa Francesco)
In recounting the "sign" of bread, the Evangelist emphasizes that Christ, before distributing the food, blessed it with a prayer of thanksgiving (cf. v. 11). The Greek term used is eucharistein and it refers directly to the Last Supper, though, in fact, John refers here not to the institution of the Eucharist but to the washing of the feet. The Eucharist is mentioned here in anticipation of the great symbol of the Bread of Life [Pope Benedict]
Narrando il “segno” dei pani, l’Evangelista sottolinea che Cristo, prima di distribuirli, li benedisse con una preghiera di ringraziamento (cfr v. 11). Il verbo è eucharistein, e rimanda direttamente al racconto dell’Ultima Cena, nel quale, in effetti, Giovanni non riferisce l’istituzione dell’Eucaristia, bensì la lavanda dei piedi. L’Eucaristia è qui come anticipata nel grande segno del pane della vita [Papa Benedetto]
Work is part of God’s loving plan, we are called to cultivate and care for all the goods of creation and in this way share in the work of creation! Work is fundamental to the dignity of a person. Work, to use a metaphor, “anoints” us with dignity, fills us with dignity, makes us similar to God, who has worked and still works, who always acts (cf. Jn 5:17); it gives one the ability to maintain oneself, one’s family, to contribute to the growth of one’s own nation [Pope Francis]
Il lavoro fa parte del piano di amore di Dio; noi siamo chiamati a coltivare e custodire tutti i beni della creazione e in questo modo partecipiamo all’opera della creazione! Il lavoro è un elemento fondamentale per la dignità di una persona. Il lavoro, per usare un’immagine, ci “unge” di dignità, ci riempie di dignità; ci rende simili a Dio, che ha lavorato e lavora, agisce sempre (cfr Gv 5,17); dà la capacità di mantenere se stessi, la propria famiglia, di contribuire alla crescita della propria Nazione [Papa Francesco]
God loves the world and will love it to the end. The Heart of the Son of God pierced on the Cross and opened is a profound and definitive witness to God’s love. Saint Bonaventure writes: “It was a divine decree that permitted one of the soldiers to open his sacred wide with a lance… The blood and water which poured out at that moment was the price of our salvation” (John Paul II)
Il mondo è amato da Dio e sarà amato fino alla fine. Il Cuore del Figlio di Dio trafitto sulla croce e aperto, testimonia in modo profondo e definitivo l’amore di Dio (Giovanni Paolo II))

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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