Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Terza Domenica di Pasqua [4 maggio 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! In questi giorni, essendo intensa la preghiera della Chiesa in attesa della scelta del successore di Pietro, assume grande valore la proclamazione del Vangelo (Gv 21, 1-19) che riguarda proprio Pietro.
*Prima Lettura, dagli Atti degli Apostoli (5, 27b-32. 40b-41)
Dopo che gli apostoli sono stati flagellati per la loro predicazione, san Luca scrive che usciti dal sinedrio se ne andarono lieti di essere stati ritenuti degni di subire oltraggi per il nome di Gesù. Del resto il Signore aveva loro predetto che sarebbero stati odiati, messi al bando, insultati e infamati a causa del Figlio dell’uomo e che proprio quello sarebbe stato il momento di rallegrarsi e addirittura esultare perché grande è la ricompensa nei cieli dato che così capitava anche ai profeti (cf Lc 6,22-23). Del resto, se hanno perseguitato il Maestro, faranno lo stesso con voi (cf. Gv 15,20). Pietro e Giovanni, dopo la guarigione dello storpio alla Porta Bella, miracolo che fece molto rumore in città, erano stati processati davanti al Sinedrio, il tribunale di Gerusalemme, il medesimo che qualche settimana prima aveva condannato Gesù. Appena liberati, avevano ripreso a predicare e a fare miracoli. Arrestati nuovamente e messi in prigione, durante la notte furono scarcerati da un angelo e si capisce che quest’intervento miracoloso li rese ancor più forti; ripresero infatti a predicare. Il brano di oggi ci situa proprio in questo momento: arrestati ancora una volta e portati in tribunale, al sommo sacerdote che li interroga Pietro risponde che “bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini”. Parla poi della differenza tra la logica di Dio e quella degli uomini: quella degli uomini, cioè quella del tribunale giudaico, ritiene che a un malfattore ucciso non bisogna certo far pubblicità. E argomenta così: Gesù, agli occhi delle autorità religiose, è un impostore crocifisso perché si doveva impedirgli di ingannare il popolino incline a dar credito a ogni presunto messia. Un condannato appeso alla croce, secondo la Torah, diventa maledetto persino da Dio. Esiste però anche la logica di Dio: voi avete crocifisso Gesù eppure, contro ogni previsione, non solo non è maledetto da Dio ma innalzato alla destra di Dio che l’ha fatto Principe e Salvatore per concedere a Israele la conversione e il perdono dei peccati. Parole che suonano scandalose per i giudici esasperati dalla sicurezza degli apostoli per cui molti decidono di eliminarli come fecero con Gesù. Interviene però Gamaliele, che invita il Sinedrio alla prudenza perché se quest’opera è di origine umana si distruggerà da sola, ma se viene da Dio questo non avverrà mai; anzi li mette in guardia perché “non vi accada di combattere contro Dio “(At 5,34-39). L’odierna lettura liturgica salta l’episodio di Gamaliele e narra direttamente la risposta di Pietro al tribunale deciso a flagellare gli apostoli e poi a liberarli. La storia mostra che nella Chiesa da sempre ci sono persecuzioni, scandali e attacchi di ogni tipo, eppure continua a camminare nei secoli. Scrive sant’Agostino: ““La città di Dio avanza nel tempo, pellegrinando tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio.” (De Civitate Dei, XIX, 26).
*Salmo responsoriale 29 (30), 3-4, 5-6ab, 6cd.12, 13
Il Salmo 29 (30) è molto breve, solo tredici versetti (di cui otto soltanto proposti nell’odierna liturgia). Leggendo l’intero salmo si percepisce la situazione di un disperato che ha fatto di tutto per essere salvato, gridando, supplicando, chiedendo aiuto. Ci sono persone che addirittura godono nel vederlo soffrire e lo deridono, ma lui continua a invocare soccorso finché qualcuno finalmente ascolta e lo libera. A intervenire è Dio stesso e, liberato dall’oppressione, il disperato esplode di gioia. L’incipit del salmo dà il tono a tutto il resto: “Ti esalto, Signore perché mi hai risollevato e non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me”. In ogni salmo ci sono due livelli di lettura: e anche qui l’avventura d’un tale che, pur avendo subito un inatteso crollo nella sua vita, continua a essere certo che alla fine sarà liberato, è immagine d’Israele che dopo l’esilio babilonese esplode di gioia, come aveva esultato dopo il passaggio del Mar Rosso. Nei momenti tragici Israele confida in Dio: “Nella mia sicurezza dicevo: mai potrò vacillare”; grida al Signore: “Ascolta, Signore, abbi pietà di me, Signore vieni in mio aiuto!” e utilizza ogni argomento possibile arrivando a provocare Dio: “a che ti servirebbe se io morissi, A che ti servirebbe il mio sangue se scendessi nella tomba?” E quando il salmista dice: “La polvere può forse lodarti, annunciare la tua fedeltà?” ci fa capire che allora si credeva che dopo la morte c’era il nulla per cui inutili davanti alla morte erano preghiere, sacrifici, canti. Dio però ascolta e compie il miracolo: “Ho gridato verso di te, mio Dio, e mi hai guarito; Signore mi hai fatto risalire dall’abisso e rivivere quando stavo per morire”. Questo salmo trova il suo compimento nel grido pasquale dell’Alleluia perché il Signore ci ha liberati dalla schiavitù del male. Tra i commenti rabbinici ho trovato questo: “Dio ci ha condotti dalla schiavitù alla libertà, dalla tristezza alla gioia, dal lutto al giorno di festa, dalle tenebre alla luce splendente, dalla schiavitù alla Redenzione. Per questo cantiamo davanti a lui l’Alleluia!”
*Seconda Lettura: Dal Libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (5, 11-14)
Il libro dell’Apocalisse è un inno alla vittoria narrato con molte visioni. Nell’odierno testo milioni e milioni di angeli gridano a squarciagola in cielo: “lunga vita al Re!” mentre in terra, mare e sotto terra, ogni creatura che respira inneggia al nuovo Re, Gesù Cristo: l’Agnello immolato, acclamato mentre riceve “potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione”. Per descrivere la regalità di Cristo, la visione utilizza un linguaggio di immagini e di numeri; un testo quindi ricco perché solo il linguaggio simbolico può introdurci nel mondo di Dio ineffabile e lindicibile. Si tratta, al tempo stesso, di un testo difficile perché si serve di immagini, colori e numeri ricorrenti, non facili da interpretare. Difficile è voler afferrare il senso nascosto di un passaggio come l’espressione “i quattro esseri viventi” che nel capitolo precedente sono quattro esseri alati: il primo con volto d’uomo, gli altri tre di animali – un leone, un’aquila, un toro – e siamo abituati a vederli in molti dipinti, sculture e mosaici, credendo di sapere senza esitazione a chi si riferiscano. Sant’Ireneo, nel II secolo, propose una lettura simbolica: per lui i quattro viventi sono i quattro evangelisti; sant’Agostino riprese la stessa idea, modificandola leggermente e la sua interpretazione è rimasta nella tradizione: secondo lui Matteo è il vivente dal volto d’uomo, Marco il leone, Luca il toro e Giovanni l’aquila. Biblisti moderni non sembrano d’accordo perché per loro l’autore dell’Apocalisse ha ripreso un’immagine di Ezechiele, dove i quattro esseri sostengono il trono di Dio e rappresentano semplicemente il mondo creato. Pure per i numeri è difficile l’interpretazione. Secondo molti il numero 3 simboleggia Dio; il 4 il mondo il creato in ragione dei quattro punti cardinali; il 7 (3+4) evoca sia Dio e il mondo creato nella sua pienezza e perfezione, mentre il 6 (7–1) sta per incompletezza, imperfezione. Singolare interesse riveste quest’acclamazione: ”L’Agnello che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e lode”: potenza e ricchezza, sapienza e forza rimandano al successo terreno, onore, gloria e lode sono riservati a Dio. Si tratta in totale di sette parole: questo per dire che l’Agnello immolato, cioè Gesù è pienamente Dio e pienamente uomo, il tutto espresso con la forza suggestiva del linguaggio simbolico. Tutte le creature che sono in cielo, sulla terra, sotto la terra e sul mare proclamano così la loro sottomissione a Dio che siede sul Trono e all’Agnello: “A colui che siede sul Trono e all’Agnello, lode, onore, gloria e potenza nei secoli dei secoli”. L’insistenza di Giovanni mira a esaltare la vittoria dell’Agnello immolato: sconfitto agli occhi degli uomini, è il grande vincitore. Contempliamo qui il mistero che sta nel cuore del Nuovo Testamento, che è al tempo stesso il suo paradosso: il Signore del mondo si fa il più piccolo, il Giudice dei vivi e dei morti viene giudicato come un malfattore; colui che è Dio viene accusato di bestemmia e rifiutato proprio in nome di Dio. Tutto questo avviene perché Dio lo ha permesso. Utilizzando questo linguaggio san Giovanni ha un duplice obbiettivo: da una parte offre alla comunità una risposta allo scandalo della croce fornendo argomenti ai cristiani che discutevano aspramente con gli ebrei a proposito della morte di Cristo. Per gli ebrei era chiaro che non era il Messia perché nel Deuteronomio è scritto che “chiunque sia stato condannato a morte in base alla legge, giustiziato e appeso a un legno, è un maledetto di Dio” (Dt 21,22). Per i cristiani, invece, alla luce della risurrezione la sua morte è l’opera di Dio e la croce costituisce il luogo dell’esaltazione del Figlio, come Gesù stesso aveva annunciato: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, voi conoscerete che “Io Sono”» (Gv 8,28). Cioè riconoscerete la mia divinità: “Io Sono” è esattamente il nome di Dio (Es, 3,14). In un misero condannato brilla la gloria di Dio e nella visione di Giovanni l’Agnello riceve gli stessi onori e le stesse acclamazioni di colui che siede sul Trono. In secondo luogo, con l’Apocalisse Giovanni voleva sostenere i cristiani nell’ora della prova perché sulla croce l’Amore ha vinto l’odio e, in fondo è proprio questo il messaggio dell’Apocalisse a sostegno dei cristiani perseguitati
*Dal Vangelo secondo Giovanni (21, 1-19)
Giovanni precisa in questo testo la presenza di sette apostoli (21,2). Poiché le sette Chiese dell’Apocalisse rappresentano tutta la Chiesa, si può ritenere che i sette apostoli indicano i discepoli di ogni tempo, cioè l’intero mondo cristiano. Questo capitolo, come spesso succede nel IV vangelo, è tutto simbolico. Vediamo solo qualche esempio.
1. Quando la barca tocca la riva, nonostante che i discepoli trovano un fuoco di brace con del pesce e del pane, Gesù chiede loro di portare il pesce pescato da loro. Probabilmente questo il messaggio: nell’opera di evangelizzazione, da quando ha chiamato Pietro «pescatore d’uomini», Gesù ci precede (ecco il pesce già posto sul fuoco prima dell’arrivo dei discepoli), ma chiede sempre la nostra collaborazione.
2. Altro punto è il dialogo tra Gesù e Pietro di cui la traduzione italiana ha cercato di rendere in qualche modo la sottigliezza del verbo greco utilizzato per amare. Commentando i versetti 15-17 nella catechesi del 24 maggio 2006, Benedetto XVI osserva l’uso dei due verbi agapaō e phileō. In greco phileō esprime l’amore d’amicizia, affettuoso ma non totalizzante; agapaō l’amore senza riserve. La prima volta Gesù chiede a Pietro: “Simone… mi «agapā̄s me»?” (21,15), cioè “Mi ami di quell’amore totale e incondizionato?”, Pietro però non risponde con agapaō ma con phileō, dicendo: “Signore, ti amo (phileō) come so amare”. Gesù ripete il verbo agapaō nella seconda domanda, ma Pietro insiste con phileō. Infine, la terza volta, Gesù chiede solo “phileîs me?”e Simone comprende che il suo povero amore basta a Gesù. Si può dire che Gesù si è adattato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù ed è quest’adattarsi di Dio che dà speranza al discepolo, che ha provato la sofferenza dell’infedeltà. Come nella notte tra giovedì e venerdì, Pietro negò tre volte di conoscere quell’uomo, ora Gesù lo interroga tre volte: infinita delicatezza per permettergli di cancellare il suo triplice rinnegamento. Da qui nasce la fiducia che lo renderà capace di seguire il Cristo fino alla fine.
3. Ogni volta Gesù fonda la sua domanda su quest’adesione di Pietro per affidargli il ministero di pastore della comunità: “Pasci le mie pecore”. La nostra relazione con il Cristo ha senso e verità se realizza una missione al servizio degli altri. Gesù infatti precisa “mie” pecore: Pietro è invitato a condividere il “peso” di Cristo. Non è proprietario del gregge, ma la cura che dedicherà al gregge di Cristo costituirà la verifica del suo amore per lo stesso Cristo. Quando Gesù gli chiede se mi ami più di costoro non è da intendere “poiché mi ami più degli altri, ti affido il gregge”, ma al contrario. Proprio perché ti affido questo compito, dovrai amarmi di più e ricorda che in qualunque ambito ecclesiale accettare un incarico pastorale comporta molto amore gratuito. Sant’Agostino commenta: «Se mi ami, non pensare che tu sia il pastore; ma pasci le mie pecore come mie, non come tue.»
4. Abbiamo anche qui un racconto di apparizione del Risorto, ma il termine apparizione non deve ingannarci perché Gesù non viene da altrove per poi scomparire; anzi è presente in permanenza presso i suoi discepoli, presso di noi come aveva promesso: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Per questo è meglio che apparizione usare il termine manifestazione. Cristo è Invisibile, ma non assente e nelle apparizioni di allora e di ogni tempo si rende visibile (in greco: “si dà a, si fa vedere”). Queste manifestazioni della presenza di Cristo sono un sostegno per rafforzare la nostra fede: ricche di dettagli concreti, talvolta sorprendenti, ma con alto valore simbolico.
5. Quale significato hanno i 153 pesci? Pare che allora si conoscevano esattamente centocinquantatre specie di pesci. Per sant’Eusebio di Cesarea è un modo simbolico per indicare una pesca al massimo rendimento. E in seguito diventa il simbolo teologico della pienezza della salvezza operata da Cristo tramite la Chiesa nei secoli che raccoglie tutti, giudei e pagani, in un’unica fede.
NOTA. Il cap.20 del IV vangelo si conclude dicendo che Gesù fece molti altri segni in presenza dei discepoli, che non sono scritti in questo libro perché noi crediamo che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e credendo abbiamo la vita nel suo nome (20, 30-31). E’ dunque un bel finale e perché il capitolo 21? Per molti è stato aggiunto in un secondo tempo, quasi come un post-scriptum per chiarire la questione della preminenza di Pietro, già avvertita nelle prime comunità cristiane. Detto altrimenti, può sorprendere il ruolo di Pietro in un racconto di apparizione di Cristo sotto la penna di san Giovanni e questo fa pensare a uno dei problemi delle prime comunità cristiane. Per questo sembrò utile ricordare alla comunità legata alla memoria di Giovanni che, per volontà di Cristo, il pastore della Chiesa universale è Pietro e non Giovanni. “Quando sarai vecchio, tenderai le tue mani e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi” (v.18), frase che segue immediatamente la consegna a Pietro: “pasci le mie pecore” e sembra indicare con chiarezza che la missione affidata a Pietro è di servizio e non di dominio. All’epoca, la cintura era indossata dai viaggiatori e dai servitori: ecco un doppio segno per i servitori itineranti del Vangelo. Pietro morirà fedele al servizio del vangelo; ecco perché Giovanni spiega: Gesù “questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio”(v.19) e ciò fa supporre che questo capitolo sia posteriore alla morte di Pietro (durante la persecuzione di Nerone, nel 66 o 67). In genere si pensa che il vangelo di Giovanni sia stato scritto molto tardi e alcuni persino ipotizzano (a partire da Gv 21,23-24) che la stesura finale sia posteriore alla sua stessa morte.
+Giovanni D’Ercole
L’altra Via Verità Vita, nella dimensione umana
(Gv 14,6-14)
Le mani divine hanno piaghe d’amore, non sono artigli. Percorrono la «via» alternativa del lavoro, dell’edificare e accogliere; traiettoria davvero speciale, disinteressata, priva di ribalta.
Mani segnate da ciò che si desidera per il mondo: aperte, non chiuse a pugno - semmai con quella leggera stretta che dice: «Sono con Te».
Accompagnano «la via» che fa diventare forte il debole. «Via» che ci dilata l’orizzonte per conquistare la terra della Libertà.
Egli è «la Verità». Sappiamo cosa capita a una notizia quando passa di bocca in bocca: si deturpa.
Ma uniti alla Persona Vera - intrecciati alla sua storia - incontriamo noi stessi, conosciamo la ‘Fedeltà’ [‘Verità’] divina, scegliamo la sostanza invece d’idee convenzionali, conformiste o volatili (diventeremmo esteriori).
«Io Sono la Vita». Il Padre dilata e potenzia le inclinazioni, il nostro portato esistenziale; non ci vampirizza come se fosse Lui ad aver bisogno di qualcosa.
Egli è totalità di Essere, e Sorgente in atto, scaturigine di essenze particolari.
La sua Chiamata è Seme; una Radice che caratterizza ed espande la vita, rendendola singolare, più contraddistinta; unica, irripetibile; significativa e relazionale.
Per costruire una società alternativa capace di creare ben-essere: sorrisi e stupore che sfociano in dilatazioni, rallegrando tutti.
«Fateci vedere il Padre» (cf. vv.8-9) è la supplica - spesso anonima - che sin dalle origini accompagna il Popolo dei credenti, i quali spontaneamente rivelano il loro Signore come Via, Verità e Vita (v.6).
E la Chiesa che riflette Cristo è quella ‘in uscita’ che non si autocompiace dei suoi traguardi statici, ma si smuove [appunto: «Via»] di Esodo in Esodo, per migliorare se stessa prima di altri.
L’assemblea dei figli non teme dunque di rendersi impura frequentando le periferie culturali ed esistenziali, perché ha compreso l’autentico volto di Dio. Padre, Madre, Nucleo profondo, Amico.
«Fedele» [«Verità», in senso teologico] che non ha paura di mescolarsi con le vicende terrene.
Egli non fugge il vaglio critico; né abbandona coloro che sbandano, o non sopportano obblighi, ovvero si ritrovano in penuria.
La comunità autentica è capace di convivenza e reciprocità: quella della «Vita» che mostra in atto Padre e Figlio [Iniziativa e Corrispondenza].
Nello Spirito, tale Famiglia recupera l’itinerario di ciascuno e restituisce completezza, pienezza di essere senza confini, anche a coloro che hanno perduto speranza o stima di sé.
Differenza con la religione antica? L’Eterno non si rivela più nella strabiliante potenza di manifestazioni esteriori clamorose: fuoco, terremoto, folgori e tuoni.
Dio non è appannaggio di coloro che mostrano grande energia.
Nei focolari di Fede si rende presente la Persona del Cristo nel suo essere, nella sua vicenda travagliata e reale [«nel Nome»: vv.13-14].
È in tale Popolo che Dio sogna un riflesso immediato d’idee, parole, opere; e mutua immanenza.
Perché l’evento efficace del Padre è tutto nella carne del Figlio. Il loro Sogno, nella dimensione umana dei credenti.
[ss. Filippo e Giacomo, 3 maggio]
Cari fratelli e sorelle,
proseguendo nel tratteggiare le fisionomie dei vari Apostoli, come facciamo da alcune settimane, incontriamo oggi Filippo. Nelle liste dei Dodici, egli è sempre collocato al quinto posto (così in Mt 10,3; Mc 3,18; Lc 6,14; At 1,13), quindi sostanzialmente tra i primi. Benché Filippo fosse di origine ebraica, il suo nome è greco, come quello di Andrea, e questo è un piccolo segno di apertura culturale da non sottovalutare. Le notizie che abbiamo di lui ci vengono fornite dal Vangelo di Giovanni. Egli proveniva dallo stesso luogo d’origine di Pietro e di Andrea, cioè Betsaida (cfr Gv 1,44), una cittadina appartenente alla tetrarchìa di uno dei figli di Erode il Grande, anch’egli chiamato Filippo (cfr Lc 3,1).
Il Quarto Vangelo racconta che, dopo essere stato chiamato da Gesù, Filippo incontra Natanaele e gli dice: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe, di Nazaret” (Gv 1,45). Alla risposta piuttosto scettica di Natanaele (“Da Nazaret può forse venire qualcosa di buono?”), Filippo non si arrende e controbatte con decisione: “Vieni e vedi!” (Gv 1,46). In questa risposta, asciutta ma chiara, Filippo manifesta le caratteristiche del vero testimone: non si accontenta di proporre l’annuncio, come una teoria, ma interpella direttamente l’interlocutore suggerendogli di fare lui stesso un’esperienza personale di quanto annunciato. I medesimi due verbi sono usati da Gesù stesso quando due discepoli di Giovanni Battista lo avvicinano per chiedergli dove abita. Gesù rispose: “Venite e vedrete” (cfr Gv 1,38-39).
Possiamo pensare che Filippo si rivolga pure a noi con quei due verbi che suppongono un personale coinvolgimento. Anche a noi dice quanto disse a Natanaele: “Vieni e vedi”. L’Apostolo ci impegna a conoscere Gesù da vicino. In effetti, l’amicizia, il vero conoscere l’altro, ha bisogno della vicinanza, anzi in parte vive di essa. Del resto, non bisogna dimenticare che, secondo quanto scrive Marco, Gesù scelse i Dodici con lo scopo primario che “stessero con lui” (Mc 3,14), cioè condividessero la sua vita e imparassero direttamente da lui non solo lo stile del suo comportamento, ma soprattutto chi davvero Lui fosse. Solo così infatti, partecipando alla sua vita, essi potevano conoscerlo e poi annunciarlo. Più tardi, nella Lettera di Paolo agli Efesini, si leggerà che l’importante è “imparare il Cristo” (4,20), quindi non solo e non tanto ascoltare i suoi insegnamenti, le sue parole, quanto ancor più conoscere Lui in persona, cioè la sua umanità e divinità, il suo mistero, la sua bellezza. Egli infatti non è solo un Maestro, ma un Amico, anzi un Fratello. Come potremmo conoscerlo a fondo restando lontani? L’intimità, la familiarità, la consuetudine ci fanno scoprire la vera identità di Gesù Cristo. Ecco: è proprio questo che ci ricorda l’apostolo Filippo. E così ci invita a “venire”, a “vedere”, cioè ad entrare in un contatto di ascolto, di risposta e di comunione di vita con Gesù giorno per giorno.
Egli, poi, in occasione della moltiplicazione dei pani, ricevette da Gesù una precisa richiesta, alquanto sorprendente: dove, cioè, fosse possibile comprare il pane per sfamare tutta la gente che lo seguiva (cfr Gv 6,5). Allora Filippo rispose con molto realismo: “Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno di loro possa riceverne anche solo un pezzo” (Gv 6,7). Si vedono qui la concretezza e il realismo dell’Apostolo, che sa giudicare gli effettivi risvolti di una situazione. Come poi siano andate le cose, lo sappiamo. Sappiamo che Gesù prese i pani e, dopo aver pregato, li distribuì. Così si realizzò la moltiplicazione dei pani. Ma è interessante che Gesù si sia rivolto proprio a Filippo per avere una prima indicazione su come risolvere il problema: segno evidente che egli faceva parte del gruppo ristretto che lo circondava. In un altro momento, molto importante per la storia futura, prima della Passione, alcuni Greci che si trovavano a Gerusalemme per la Pasqua “si avvicinarono a Filippo ... e gli chiesero: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù” (Gv 12,20-22). Ancora una volta, abbiamo l’indizio di un suo particolare prestigio all’interno del collegio apostolico. Soprattutto, in questo caso, egli fa da intermediario tra la richiesta di alcuni Greci – probabilmente parlava il greco e potè prestarsi come interprete – e Gesù; anche se egli si unisce ad Andrea, l’altro Apostolo con un nome greco, è comunque a lui che quegli estranei si rivolgono. Questo ci insegna ad essere anche noi sempre pronti, sia ad accogliere domande e invocazioni da qualunque parte giungano, sia a orientarle verso il Signore, l'unico che le può soddisfare in pienezza. E’ importante, infatti, sapere che non siamo noi i destinatari ultimi delle preghiere di chi ci avvicina, ma è il Signore: a lui dobbiamo indirizzare chiunque si trovi nella necessità. Ecco: ciascuno di noi dev'essere una strada aperta verso di lui!
C'è poi un'altra occasione tutta particolare, in cui entra in scena Filippo. Durante l’Ultima Cena, avendo Gesù affermato che conoscere Lui significava anche conoscere il Padre (cfr Gv 14,7), Filippo quasi ingenuamente gli chiese: “Signore, mostraci il Padre, e ci basta» (Gv 14,8). Gesù gli rispose con un tono di benevolo rimprovero: “Filippo, da tanto tempo sono con voi e ancora non mi conosci? Colui che vede me, vede il Padre! Come puoi tu dire: «Mostraci il Padre»? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? ... Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14,9-11). Queste parole sono tra le più alte del Vangelo di Giovanni. Esse contengono una rivelazione vera e propria. Al termine del Prologo del suo Vangelo, Giovanni afferma: “Dio nessuno lo ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18). Ebbene, quella dichiarazione, che è dell’evangelista, è ripresa e confermata da Gesù stesso. Ma con una nuova sfumatura. Infatti, mentre il Prologo giovanneo parla di un intervento esplicativo di Gesù mediante le parole del suo insegnamento, nella risposta a Filippo Gesù fa riferimento alla propria persona come tale, lasciando intendere che è possibile comprenderlo non solo mediante ciò che dice, ma ancora di più mediante ciò che egli semplicemente è. Per esprimerci secondo il paradosso dell’Incarnazione, possiamo ben dire che Dio si è dato un volto umano, quello di Gesù, e per conseguenza d’ora in poi, se davvero vogliamo conoscere il volto di Dio, non abbiamo che da contemplare il volto di Gesù! Nel suo volto vediamo realmente chi è Dio e come è Dio!
L’evangelista non ci dice se Filippo capì pienamente la frase di Gesù. Certo è che egli dedicò interamente a lui la propria vita. Secondo alcuni racconti posteriori (Atti di Filippo e altri), il nostro Apostolo avrebbe evangelizzato prima la Grecia e poi la Frigia e là avrebbe affrontato la morte, a Gerapoli, con un supplizio variamente descritto come crocifissione o lapidazione. Vogliamo concludere la nostra riflessione richiamando lo scopo cui deve tendere la nostra vita: incontrare Gesù come lo incontrò Filippo, cercando di vedere in lui Dio stesso, il Padre celeste. Se questo impegno mancasse, verremmo rimandati sempre solo a noi come in uno specchio, e saremmo sempre più soli! Filippo invece ci insegna a lasciarci conquistare da Gesù, a stare con lui, e a invitare anche altri a condividere questa indispensabile compagnia. E vedendo, trovando Dio, trovare la vera vita.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 6 settembre 2006]
«Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6)
Carissimi giovani!
Sono molto lieto di essere ancora una volta fra voi ad annunziare la celebrazione della IV Giornata Mondiale della Gioventù. Nel mio dialogo con voi, infatti, questa giornata occupa un posto privilegiato, perché mi offre la felice occasione di rivolgere la parola ai giovani non di un solo paese, ma di tutto il mondo, per dire a tutti e a ciascuno di voi che il Papa vi guarda con tanto amore e tanta speranza, che vi ascolta con molta attenzione e vuole rispondere alle vostre attese più profonde.
La Giornata Mondiale del 1989 avrà al suo centro Gesù Cristo, quale nostra via, verità e vita (cfr. Gv 18,6). Essa, pertanto, dovrà diventare per tutti voi la giornata di una nuova, più matura e più profonda scoperta di Cristo nella vostra vita.
Esser giovani costituisce già di per sé una singolare ricchezza, propria di ogni ragazzo e di ogni ragazza (cfr. «Epistula apostolica ad iuvenes internationali vertente anno iuventuti dicato», 3, die 31 mar. 1985: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VIII, 1 [1985] 760). Questa ricchezza consiste, fra l'altro, nel fatto che la vostra è un'età di molte importanti scoperte. Ciascuno e ciascuna di voi scopre se stesso, la propria personalità, il senso della propria esistenza, la realtà del bene e del male. Scoprite anche tutto il mondo che vi circonda - il mondo degli uomini e il mondo della natura. Ora, fra queste numerose scoperte non ne deve mancare una, che è di importanza fondamentale per ogni essere umano: la scoperta personale di Gesù Cristo. Scoprire Cristo sempre di nuovo e sempre meglio è l'avventura più meravigliosa della nostra vita. Perciò, in occasione della prossima Giornata della Gioventù, desidero porre a ciascuno e a ciascuna di voi alcune domande molto importanti ed indicarvi le risposte.
- Hai già scoperto Cristo, che è la via?
Sì, Gesù è per noi una via che conduce al Padre - la via unica. Chi vuole raggiungere la salvezza, deve incamminarsi per questa via. Voi giovani molto spesso vi trovate al bivio, non sapendo quale strada scegliere, dove andare; ci sono tante strade sbagliate, tante proposte facili, tante ambiguità. In tali momenti non dimenticate che Cristo, col suo Vangelo, col suo esempio, con i suoi comandamenti, è sempre e solo la via più sicura, la via che sbocca in una piena e duratura felicità.
- Hai già scoperto Cristo, che è la verità?
La verità è l'esigenza più profonda dello spirito umano. Soprattutto i giovani sono affamati della verità intorno a Dio e all'uomo, alla vita ed al mondo. Nella mia prima enciclica «Redemptor Hominis» ho scritto: «L'uomo che vuole comprendere se stesso fino in fondo, - non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere - deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo» («Redemptor Hominis, 10). Cristo è la parola di verità, pronunciata da Dio stesso, come risposta a tutti gli interrogativi del cuore umano. E' colui che ci svela pienamente il mistero dell'uomo e del mondo.
- Hai già scoperto Cristo, che è la vita?
Ciascuno di voi desidera tanto vivere la vita nella sua pienezza. Vivete animati da grandi speranze, da tanti bei progetti per l'avvenire. Non dimenticate, però, che la vera pienezza della vita si trova solo in Cristo, morto e risorto per noi. Solo Cristo è capace di riempire fino in fondo lo spazio del cuore umano. Egli solo dà la forza e la gioia di vivere, e ciò nonostante ogni limite o impedimento esterno.
Sì, scoprire Cristo è la più bella avventura della vostra vita. Ma non basta scoprirlo una volta sola. Ogni scoperta, che si fa di lui, diventa un invito a cercarlo sempre di più, a conoscerlo ancora meglio mediante la preghiera, la partecipazione ai sacramenti, la meditazione della sua Parola, la catechesi, l'ascolto degli insegnamenti della Chiesa. E', questo, il nostro compito più importante, come aveva capito molto bene san Paolo, quando scriveva: «Per me, infatti, il vivere è Cristo» (Fil 1,21).
2. Dalla nuova scoperta di Cristo - quando è autentica - nasce sempre, come diretta conseguenza, il desiderio di portarlo agli altri, cioè un impegno apostolico. Questa è appunto la seconda linea-guida della prossima Giornata della Gioventù.
Tutta la Chiesa è destinataria del mandato di Cristo: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). Tutta la Chiesa, quindi, è missionaria ed evangelizzatrice, vivendo in continuo stato di missione (cfr. «Ad Gentes», 2). Essere cristiani significa essere missionari-apostoli (cfr. «Apostolicam Actuositatem», 2). Non basta scoprire Cristo - bisogna portarlo agli altri!
Il mondo di oggi è una grande terra di missione, perfino nei Paesi di antica tradizione cristiana. Dappertutto oggi il neopaganesimo ed il processo di secolarizzazione costituiscono una grande sfida al messaggio evangelico. Ma, al tempo stesso, si aprono anche ai nostri giorni nuove occasioni per l'annuncio del Vangelo; si nota, ad esempio, una crescente nostalgia del sacro, dei valori autentici, della preghiera. Perciò, il mondo di oggi ha bisogno di molti apostoli - soprattutto di apostoli giovani e coraggiosi. A voi giovani spetta in modo particolare il compito di testimoniare la fede oggi e l'impegno di portare il Vangelo di Cristo - via, verità e vita - nel terzo millennio cristiano, di costruire una nuova civiltà che sia civiltà di amore, di giustizia e di pace.
Per ogni nuova generazione sono necessari nuovi apostoli. E qui sorge una speciale missione per voi. Siete voi giovani i primi apostoli ed evangelizzatori del mondo giovanile, tormentato oggi da tante sfide e minacce (cfr. «Apostolicam Actuositatem», 12). Principalmente voi potete esserlo, e nessuno può sostituirvi nell'ambiente dello studio, del lavoro e dello svago. Sono tanti i vostri coetanei che non conoscono Cristo, o che non lo conoscono abbastanza. Perciò, non potete rimanere silenziosi e indifferenti! Dovete avere il coraggio di parlare di Cristo, di testimoniare la vostra fede mediante il vostro stile di vita ispirato al Vangelo. San Paolo scrive: «Guai a me, se non predicassi il Vangelo!» (1Cor 9,16). Davvero, la messe evangelica è grande e ci vogliono tanti operai. Cristo si fida di voi e conta sulla vostra collaborazione. In occasione della prossima Giornata della Gioventù, vi invito quindi a rinnovare il vostro impegno apostolico. Cristo ha bisogno di voi! Rispondete alla sua chiamata col coraggio e con lo slancio proprio della vostra età.
3. Il famoso Santuario a Santiago di Compostela, in Spagna, costituirà un punto di riferimento assai importante per la celebrazione di questa giornata nel 1989. Come vi ho già annunciato, dopo la celebrazione ordinaria della vostra festa - la Domenica delle Palme - nelle Chiese particolari, io vi dò appuntamento proprio in quel Santuario, dove mi recherò, pellegrino come voi, il 19 e 20 agosto 1989; sono certo che non mancherete al mio invito, così come non siete mancati all'indimenticabile incontro di Buenos Aires, nel 1987.
L'appuntamento di Santiago vedrà comunque la partecipazione di tutta la Chiesa universale, sarà un momento di comunione spirituale anche con quelli tra di voi che non potranno essere fisicamente presenti. A Santiago i giovani rappresenteranno, infatti, le Chiese particolari di tutto il mondo, e il «Cammino di Santiago» e la spinta evangelizzatrice saranno patrimonio di voi tutti.
Santiago di Compostela è un luogo che ha svolto un ruolo di grande importanza nella storia del cristianesimo e, perciò, già di per sé trasmette a tutti un messaggio spirituale molto eloquente. Questo luogo è stato nei secoli «punto di attrazione e di convergenza per l'Europa e per tutta la cristianità... L'intera Europa si è ritrovata attorno alla "memoria" di Giacomo in quegli stessi secoli, nei quali essa si costruiva come continente omogeneo e spiritualmente unito» (cfr. «Allocutio Compostelae, in cathedrali templo sancti Iacobi, ad quosdam Europae civiles Auctoritates et Episcopos conferentiarum praesides habita», 1, die 9 nov. 1982: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V, 3 [1982] 1258).
Presso la tomba di san Giacomo vogliamo imparare che la nostra fede è storicamente fondata, e quindi non è qualcosa di vago e di passeggero: nel mondo di oggi, contrassegnato da un grave relativismo e da una forte confusione di valori, dobbiamo sempre ricordare che, come cristiani, siamo realmente edificati sulle stabili fondamenta degli apostoli, avendo Cristo stesso come pietra angolare (cfr. Ef 2,20).
Presso la tomba dell'apostolo, vogliamo anche accogliere di nuovo il mandato di Cristo: «Mi sarete testimoni... fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). San Giacomo, che fu il primo a sigillare la sua testimonianza di fede col proprio sangue, è per tutti noi un esempio ed un maestro eccellente.
Santiago di Compostela non è solo un Santuario, ma è anche un cammino, cioè una fitta rete di itinerari di pellegrinaggio. Il «Cammino di Santiago» fu per secoli un cammino di conversione e di straordinaria testimonianza della fede. Lungo questo cammino sorgevano i monumenti visibili della fede dei pellegrini: le chiese e numerosi ospizi.
Il pellegrinaggio ha un significato spirituale molto profondo e può costituire già di per sé un'importante catechesi. Infatti - come ci ha ricordato il Concilio Vaticano II - la Chiesa è un Popolo di Dio in cammino, «alla ricerca della città futura e permanente» (cfr. «Lumen Gentium», 9). Oggi nel mondo la pratica del pellegrinaggio conosce un periodo di rinascita, soprattutto tra i giovani. Voi siete tra i più sensibili a rivivere, oggi, il pellegrinaggio come «cammino» di rinnovamento interiore, di approfondimento della fede, di rafforzamento del senso della comunione e della solidarietà con i fratelli, e come mezzo per scoprire le personali vocazioni. Sono certo che grazie al vostro entusiasmo giovanile il «Cammino di Santiago» riceverà quest'anno un nuovo e ricco sviluppo.
4. Il programma di questa giornata è molto impegnativo. Per raccoglierne i frutti, è perciò necessaria una specifica preparazione spirituale sotto la guida dei vostri pastori nelle diocesi, nelle parrocchie, associazioni e movimenti, sia per la Domenica delle Palme, sia per il pellegrinaggio a Santiago di Compostela nell'agosto 1989. All'inizio di questa fase preparatoria, mi rivolgo a tutti ed a ciascuno di voi con le parole dell'apostolo Paolo: «Camminate nella carità...; camminate da figli della luce» (Ef 5,2.8). Entrate in questo periodo di preparazione con tali disposizioni di spirito!
Camminate, dunque, io dico a tutti voi, giovani pellegrini del «Cammino di Santiago». Cercate di ritrovare, durante i giorni del pellegrinaggio, lo spirito degli antichi pellegrini, coraggiosi testimoni della fede cristiana. In questo cammino imparate a scoprire Gesù che è la nostra via, verità e vita.
Desidero, infine, rivolgere una speciale parola di incoraggiamento ai giovani della Spagna. Questa volta sarete voi ad offrire ospitalità ai vostri fratelli e sorelle, provenienti da tutto il mondo. Vi auguro che questo incontro a Santiago lasci tracce profonde nella vostra vita e sia per tutti voi un potente fermento di rinascita spirituale.
Carissimi giovani, carissime giovani, concludo questo messaggio con un abbraccio di pace che desidero inviare a tutti voi, dovunque vi troviate. Affido il cammino di preparazione e di celebrazione della Giornata Mondiale della Gioventù 1989 alla speciale protezione di Maria, Regina degli apostoli, e di san Giacomo, venerato nei secoli presso l'antico Santuario di Compostela. La mia benedizione apostolica vi accompagni, in segno di incoraggiamento e di augurio, lungo tutto l'itinerario.
Dal Vaticano, il 27 novembre dell'anno 1988.
[Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la IV GMG]
Pregare, celebrare, imitare Gesù: sono le tre “porte” — da aprire per trovare «la via, per andare alla verità e alla vita» — che Papa Francesco ha indicato stamane, venerdì 16 maggio, durante la messa nella cappella della casa Santa Marta. Secondo il Pontefice, infatti, Gesù non si lascia studiare a tavolino e chi prova a farlo rischia di scivolare nell’eresia. Al contrario occorre chiedersi continuamente come vanno nella nostra vita la preghiera, la celebrazione e l’imitazione di Cristo. «Pensiamo a queste tre porte e ci faranno bene a tutti» ha detto, suggerendo di iniziare con la lettura del libro del Vangelo, che troppo spesso rimane «pieno di polvere, perché mai si apre. Prendilo, aprilo — ha esortato — e troverai Gesù».
Dopo aver ricordato che la riflessione precedente era stata incentrata sul fatto che «la vita cristiana è sempre andare nella strada e non andare da soli», sempre «nella Chiesa, nel popolo di Dio», il vescovo di Roma ha fatto notare come nelle letture liturgiche del giorno — tratte dagli Atti degli apostoli (13, 26-33) e dal vangelo di Giovanni (14 1, 6) — sia lo stesso Gesù a dirci «che lui è la strada: Io sono la via, la verità e la vita. Tutto. Io ti do la vita, io mi manifesto come verità e se tu vieni con me, sono la via». Ecco allora che per conoscere colui che si presenta «come via, verità e vita» occorre mettersi in «cammino». Anzi, secondo Papa Francesco «la conoscenza di Gesù è il lavoro più importante della nostra vita». Anche perché conoscendo lui si arriva a conoscere il Padre.
Ma, si è domandato il Pontefice, «come possiamo conoscere Gesù?». Con quanti rispondono che «si deve studiare tanto» il vescovo di Roma si è detto d’accordo e ha invitato a «studiare il catechismo: un bel libro, il Catechismo della Chiesa cattolica, dobbiamo studiarlo». Ma, ha subito aggiunto, non ci si può limitare a «credere che conosceremo Gesù solo con lo studio». Qualcuno, infatti, ha «questa fantasia che le idee, solo le idee, ci porteranno alla conoscenza di Gesù». Anche «tra i primi cristiani» alcuni la pensavano in questo modo «e alla fine sono finiti un po’ ingarbugliati nei loro pensieri». Perché «le idee sole non danno vita» e, dunque, chi va per questa strada «finisce in un labirinto» da cui «non esce più». Proprio per tale motivo, sin dagli inizi, nella Chiesa «ci sono le eresie», le quali sono questo «cercare di capire soltanto con le nostre menti chi è Gesù». In proposito il Papa ha ricordato le parole di «un grande scrittore inglese», Gilbert Keith Chesterton, che definiva l’eresia un’idea diventata pazza. In effetti, ha detto il Papa, «è così: quando le idee sono sole, diventano pazze».
Da qui l’indicazione delle tre porte da aprire per «conoscere Gesù». Soffermandosi sulla prima — pregare — il Pontefice ha ribadito che «lo studio senza preghiera non serve. I grandi teologi fanno teologia in ginocchio». Se infatti «con lo studio ci avviciniamo un po’, senza preghiera mai conosceremo Gesù».
Quanto alla seconda — celebrare — il vescovo di Roma ha affermato che anche la preghiera da sola «non basta; è necessaria la gioia della celebrazione: celebrare Gesù nei suoi sacramenti, perché lì ci dà la vita, ci dà la forza, ci dà il pasto, ci dà il conforto, ci dà l’alleanza, ci dà la missione. Senza la celebrazione dei sacramenti non arriviamo a conoscere Gesù. E questo è proprio della Chiesa».
Infine, per aprire la terza porta, quella dell’imitatio Christi, la consegna è di prendere il vangelo per scoprirvi «cosa ha fatto lui, com’era la sua vita, cosa ci ha detto, cosa ci ha insegnato», in modo da «cercare di imitarlo». In conclusione il Papa ha spiegato che attraversare queste tre porte significa «entrare nel mistero di Gesù». Infatti noi «possiamo conoscerlo soltanto se siamo capaci di entrare nel suo mistero». E non bisogna avere paura di farlo.
Al termine dell’omelia Papa Francesco ha quindi invitato a pensare «durante la giornata, come va la porta della preghiera nella mia vita: ma — ha precisato — la preghiera del cuore» quella vera.
[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 17/05/2014]
Il semplice Mistero, Nuova Mistica. Vocazione da offrire al mondo
(Gv 6,1-15)
«L’uomo è l’essere-limite che non ha limite» (Fratelli Tutti n.150).
Nel cuore abbiamo un gran desiderio di appagamento e Felicità. Il Padre lo ha introdotto, Lui stesso lo soddisfa - ma ci vuole associati alla sua opera - dentro e fuori di noi.
Il Figlio riflette il disegno di Dio nella compassione per le folle bisognose di tutto e - malgrado la pletora di maestri ed esperti - prive di qualsiasi insegnamento autentico.
La sua ‘soluzione’ è diversissima da quella di tutte le guide spirituali, perché non ci sorvola con un paternalismo esterno, indiretto (vv.5-6) che asciughi le lacrime, rimargini le ferite, cancelli le umiliazioni.
Invita a utilizzare in prima persona ciò che siamo e abbiamo, sebbene possa apparire cosa ridicola (v.9).
Ma insegna in modo assolutamente netto che spostando le energie si realizzano risultati prodigiosi.
Così rispondiamo ai grandi problemi del mondo: recuperando la condizione dell’uomo ‘viator’ - essere di passaggio.
E condividendo i beni; non, lasciando che ciascuno si arrangi.
La nostra cruda nudità, le peripezie, e l’esperienza dei molti fratelli, diversi, sono risorse da non valutare con diffidenza «come concorrenti o nemici pericolosi» della nostra realizzazione [FT n.152].
Non solo quel poco che rechiamo con noi basterà a saziarci, ma avanzerà per altri e con identica Pienezza di verità, umana, epocale (vv.12-13).
Insomma, in Cristo ciascuno può inaugurare un Tempo nuovo, e la Salvezza è già a portata di mano, perché la gente si riunisce spontaneamente intorno a Lui, giungendo così com’è, col carico dei tanti bisogni differenti (v.2).
Il nuovo popolo di Dio non è una folla di gente scelta e pura.
Ognuno reca con sé problemi, che il Signore guarisce - ma curando non con provvedimenti per procura, come dal di sopra o dal di fuori.
In tal guisa un altro mondo è possibile, però attraverso lo «spezzare» il proprio anche misero ‘pane e companatico’.
Soluzione autentica, se la si fa emergere «da dentro» e stando «in mezzo» - non davanti, non a capo, non ‘in alto’.
Il luogo della Rivelazione doveva essere quello delle “saette”, su un ‘monte’ fumante come di fornace (Es 19,18). Ma infine persino lo zelo violento di Elia aveva dovuto ricredersi (1Re 19,12).
Anche a donne e uomini d’altra sponda (v.1) il Figlio rivela un Padre il quale non semplicemente cancella le infermità: ce le fa capire come luogo che sta preparando uno sviluppo personale, e quello della Comunità.
S’immaginava che nei tempi del Messia, tutti i bisognosi sarebbero scomparsi (Is 35,5ss.).
‘Età dell’oro’: tutto al vertice, nessun abisso.
In Gesù - Pane di povero orzo, ma distribuito - si manifesta una pienezza dei tempi inconsueta, apparentemente nebulosa e fragile (v.9) tuttavia reale e in grado di riavviare persone e relazioni.
L’Incarnazione ci ritesse il cuore in dignità e promozione.
Si dispiega realmente, perché non trascina via le povertà e gli ostacoli: poggia su di essi e non li cancella affatto.
Così li surclassa, ma trasmutandoli; su quei semi, creando nuova vita.
La vecchia pozzanghera esclusiva della religione che non osa il rischio dell’Esodo e della Fede (v.2) non ci avrebbe aiutato ad assimilare la proposta del Messia ‘inferiore’.
Egli è in noi che ne abbiamo abbracciato la proposta di vita: nella coesistenza e condivisione.
Signore-in-noi, risolve i problemi del mondo - senza fulmini immediati, né scorciatoie.
Iniziativa-Risposta del Padre, «sostegno nel Viaggio» alla ricerca della Speranza dei poveri - di tutti noi, indigenti in attesa.
[Venerdì 2.a sett. di Pasqua, 2 maggio 2025]
La soluzione diversissima. Moltiplicazione per Divisione, nell’itineranza
(Gv 6,1-15)
«Ora, lo seguiva molta folla, poiché vedevano i segni che faceva sugli infermi» (v.2).
«C’è un un ragazzetto che ha cinque pani di orzo e due pesci, ma che è questo per tanti?» (V.5).
«Gesù dunque sapendo che stavano per venire e rapirlo per farlo re, si ritirò di nuovo su il monte da solo» (v.15).
«L’uomo è l’essere-limite che non ha limite» (Fratelli Tutti n.150).
Nel cuore abbiamo un gran desiderio di appagamento e Felicità. Il Padre lo ha introdotto, Lui stesso lo soddisfa - ma ci vuole associati alla sua opera - dentro e fuori di noi.
Il Figlio riflette il disegno di Dio nella compassione per le folle bisognose di tutto e - malgrado la pletora di maestri ed esperti - prive di qualsiasi insegnamento autentico.
La sua soluzione è diversissima da quella di tutte le guide “spirituali”, perché non ci sorvola con un paternalismo indiretto (vv.5-6) che asciughi le lacrime, rimargini le ferite, cancelli le umiliazioni, dall’esterno.
Invita a utilizzare in prima persona ciò che siamo e abbiamo, sebbene possa apparire cosa ridicola. Ma insegna in modo assolutamente netto che spostando le energie si realizzano risultati prodigiosi.
Così rispondiamo in Cristo ai grandi problemi del mondo: recuperando la condizione dell’uomo ‘viator’ - essere di passaggio, sua impronta essenziale - e condividendo i beni; non lasciando che ciascuno si arrangi.
La nostra cruda nudità, le peripezie e l’esperienza dei molti fratelli, diversi, sono risorse da non valutare con diffidenza, «come concorrenti o nemici pericolosi» della nostra realizzazione [FT n.152].
Non solo quel poco che rechiamo con noi basterà a saziarci, ma avanzerà per altri e con identica pienezza di verità, umana, epocale [vv.12-13: il passo particolare insiste sulla simbologia semitica del numero “dodici”; in Mc 8,8 e Mt 15,34-37 subentra quella del numero “sette”].
In Cristo, ciascuno può inaugurare un Tempo nuovo, e la Salvezza è già a portata di mano, perché la gente si riunisce spontaneamente intorno a Lui, giungendo così com’è, col carico dei tanti bisogni differenti (v.2).
Il nuovo popolo di Dio non è una folla di gente scelta e pura.
Ognuno reca con sé problemi, che il Signore guarisce - ma curando non con provvedimenti per procura (cf. Mt 14,16; Mc 6,37; Lc 9,13), come dal di sopra o dal di fuori.
Insomma: un altro mondo è possibile, però attraverso lo spezzare il proprio anche misero pane e companatico.
Soluzione autentica, se la si fa emergere da dentro, e stando in mezzo - non davanti, non a capo, non in alto.
La nota simbologia dei «cinque pani» e «due pesci» (v.9) - in prospettiva cristologica, significa:
Assumere la propria tradizione anche legalista che ha fatto da saggio nutrimento base (5 libri della Torah), quindi la propria storia e afflato sapienziale (Scritti: Kethubhiim) nonché profetico (Nevi’im: Profeti).
[Come diceva s. Agostino: «La Parola di Dio che ogni giorno viene a voi spiegata e in un certo senso “spezzata” è anch’essa Pane quotidiano» (Sermo 58, IV: PL 38,395). Alimento completo: cibo base e “companatico” - storico e ideale, in codice e in atto].
Il luogo della Rivelazione di Dio doveva essere quello delle “saette”, su un ‘monte’ fumante come di fornace (Es 19,18). Ma infine persino lo zelo violento di Elia aveva dovuto ricredersi (1Re 19,12).
Anche a donne e uomini d’altra sponda (v.1) il Figlio rivela un Padre il quale non semplicemente cancella le infermità: le fa capire come luogo che sta preparando uno sviluppo personale, e quello della Comunità.
S’immaginava infatti che nei tempi del Messia, tutti i bisognosi sarebbero scomparsi (Is 35,5ss.). Età dell’oro: tutto al vertice, nessun abisso.
In Gesù - Pane di povero orzo, ma distribuito - si manifesta una pienezza dei tempi inconsueta; apparentemente nebulosa e fragile (v.9) ma reale e in grado di riavviare tutti, e le relazioni.
Lo Spirito di Dio agisce non calandosi come un fulmine dall’alto, bensì attivando in noi capacità che appaiono impalpabili, eppure in grado di raggranellare il nostro essere disperso [classificato inconsistente - che coinvolge il sommario di tutti i giorni - e lo rivaluta].
L’Incarnazione ci ritessere il cuore, in dignità e promozione; si dispiega realmente, perché non solo trascina via gli ostacoli: poggia su di essi e non li cancella affatto.
Così li surclassa, ma trasmutando - ponendo nuova vita.
Linfa che trae succo e germoglia Fiori dall’unico terreno melmoso e fecondo, e li comunica.
Solidarietà cui sono invitati tutti, non solo quelli ritenuti in condizione di ‘perfezione’ e compattezza.
Le nostre carenze ci rendono attenti, e unici. Non vanno disprezzate, bensì assunte, poste nelle mani del Figlio e dinamizzate (vv.11-13).
Le stesse cadute possono essere un segnale prezioso; in Cristo, non sono più umiliazioni riduttive, bensì indicatori di percorso (v.2).
Forse non stiamo utilizzando e investendo al meglio le nostre risorse.
Così i crolli possono trasformarsi rapidamente in risalite - differenti, non confezionate. E ricerca di completamento totale nella Comunione.
In tal guisa, nell’ideale di realizzare la Vocazione, nonché intuire il tipo di contributo da porgere, nulla di meglio d’un ambiente vivo, che non tarpi le ali: fraternità vivace nello scambio delle qualità, e convivenza.
Non tanto per attutirci gli scossoni, ma perché siamo messi in grado di edificare magazzini sapienziali non tarati da nomenclature - cui tutti possono attingere, persino i diversi e lontani da noi.
Se poi anche qui verrà a trovarci una manchevolezza, sarà per insegnare a essere presenti al mondo secondo magari altre e ulteriori direzioni, o per far emergere la missione e una maturazione creativa - non per rimanere fissati su parzialità e minuzie.
Così, insieme, i “momenti no” divengono subito una molla per non stagnare nelle medesime situazioni di sempre; rigenerando, procedendo molto altrove.
Ed i fallimenti che mettono in bilico servono a farci accorgere di ciò che non avevamo notato, quindi a deviare da un destino conformista.
Essi costringono a cercare suggerimenti, differenti orizzonti e relazioni, un completamento che non avevamo immaginato.
Insomma, il nostro Cielo è intrecciato alla carne, alla terra e alla nostra polvere: un Sovrannaturale che sta dentro e in basso, anche nell’anima dei crollati a terra; non dietro le nuvole.
È il contatto diretto con il nostro humus colmo di succhi regali che ci rigenera e addirittura crea: come donne e uomini nuovi, appena ri-partoriti nella condivisione.
L’immagine del Regno nella gracile Eucaristia non elimina il difetto e la morte.
Li assume e trasfigura in punti di forza; creando incontro, dialogo, predilezione per le realtà minime - e Nuova Alleanza, francamente propulsiva.
Purtroppo, il target esagerato dei films sul Gesù che “moltiplica” l’abbondanza... porta completamente fuori strada.
Genera i devoti dell’accrescimento, i quali disdegnano la divisione (triplicatori di denari, proprietà, titoli, traguardi, rapporti che contano, e così via).
Viceversa, in Cristo che distribuisce ogni cosa diventiamo come un corpus attualizzato e propulsivo di testimoni [e Scritture viventi] sensibile.
Infanti nel Signore, nuotiamo in questa differente Acqua - a volte forse esteriormente velata, o melmosa e torbida. Infine fatta trasparente anche solo perché arrendevole, colma di compassione e benevola.
La vecchia pozzanghera esclusiva della religione che non osa il rischio dell’esodo e della Fede (v.2) non ci avrebbe aiutato ad assimilare la proposta del Messia inferiore, che risolve i problemi del mondo senza fulmini immediati, né scorciatoie.
Egli è in noi che ne abbiamo abbracciato la proposta di vita: Iniziativa-Risposta del Padre, sostegno nel poco etereo Viaggio alla ricerca della Speranza dei poveri - di tutti noi indigenti in attesa.
L’allusione ai ‘cinque’ o ‘sette’ «pani» (moltiplicati perché divisi) conforta le citazioni relative al magma plasmabile delle icone bibliche.
In tal caso, quelle di Mosè ed Elia: figure dei cinque Libri del Pentateuco [i primi Alimenti], più le due sezioni di Profeti e Scritti.
Tutti insieme: Pienezza di cibo e saggezza per l’anima, chiamata a procedere oltre le siepi circonvicine, rompendo gli argini della mentalità asservita; ormai solo di contorno.
Nutrimento-base dello spirito umano-divino, cui si aggiunge un alimento che ci coinvolge.
[Come diceva appunto s. Agostino: «La Parola di Dio che ogni giorno viene a voi spiegata e in un certo senso “spezzata” è anch’essa Pane quotidiano» (Sermo 58, IV: PL 38,395)].
Alimento completo: cibo base e companatico - storico e ideale, in codice e in atto.
Diventiamo nel Cristo come un corpus attualizzato e propulsivo di testimoni e Scritture sensibile; certo ridotto, non ancora affermato e privo di eroici fenomeni, ma accentuatamente sapienziale e pratico.
Annunciatori, condivisori senza clamorosi proclami di autosufficienza.
Mai rinchiusi entro steccati arcaici - sempre in fieri - perciò in grado di percepire binari sconosciuti.
E «spezzare il Pane»... ossia attivarsi, procedere oltre, dividere il poco - per alimentare, straripare - moltiplicando l’ascolto e l’azione di Dio; e far riconquistare stima anche ai disperati.
Siamo figli.
Come pochi e piccoli che non sguazzano in competizioni che rendono tossica la vita - anzi: chiamati in prima persona a scrivere una singolare, empatica e sacra, Parola-evento.
Infanti nel Signore, nuotiamo in questa differente Acqua.
A volte forse esteriormente velata o melmosa e torbida; infine fatta trasparente anche solo perché arrendevole, compassionevole e benevola.
La vecchia pozzanghera esclusiva della religione che non osa il rischio della Fede (v.2) non ci avrebbe aiutato ad assimilare la proposta del Gesù Messia, Figlio di Dio, Salvatore - noto acrostico del termine greco «Ichtys» [pesce].
Egli è l’Iniziativa-Risposta del Padre, sostegno nel poco etereo viaggio alla ricerca della Speranza dei poveri - di tutti noi indigenti in attesa.
La Fede operante ha dunque per emblema l’Eucaristia, rivoluzione della sacralità. Sembra strano, per noi che ci abbiamo fatto il callo.
Infatti scopo dell’evangelizzazione è partecipare ed emancipare l’essere integrale da tutto ciò che lo minaccia, non solo nel limite estremo: anche nella sua azione di ogni giorno - fino a cercare la comunione dei beni.
In Mc 6 il prodigio è collocato dopo la tirata d’orecchi verso gli apostoli, chiamati «in disparte» per una verifica della loro predicazione incerta [Gesù annunciato come Messia glorioso].
In Mc 8 [similmente] dopo l’apertura dei “sensi” del [medesimo discepolo preso «in disparte»] sordo e balbuziente (Mc 7,31-37).
Gv 6 segue gli episodi del ritorno in Galilea, la guarigione del figlio del funzionario, la guarigione del paralitico alla piscina di Betzata, e l’Apologia dello stesso Gesù.
Insomma, il Segno Fonte e Culmine della comunità dei figli è un gesto creativo che impone uno spostamento di visione, un occhio assolutamente nuovo.
Di fronte all’indigenza di molti causata dall’avidità di pochi, l’atteggiamento della Chiesa autentica non si compiace di emblemi e fervorini, né di parziali chiamate a distinguersi nell’elemosina.
Lo spezzare del Pane subentra alla Manna calata dall’alto nel deserto (cf. Mc 8,4; Gv 6,2) e comporta la sua distribuzione - non solo in situazioni particolari.
Non c’è da accontentarsi, nel moltiplicare vita per tutti.
Questa l’attitudine del Corpo vivente del Cristo [taumaturgico, non il facitore di miracoli] che si sente chiamato ad attivarsi in ogni circostanza.
L’adesione grata deve condurci al dono e alla condivisione del «pane».
Se la partecipazione eucaristica non suscita solo elemosina puntuale, pietismo esterno e assistenzialismo di maniera, ecco il Risultato:
Donne e uomini mangeranno, rimarranno sazi, e avanzerà alimento per altri. Non tutti i convitati da Dio previsti sono ancora presenti.
Notiamo che ad alcuni discepoli non era neanche passato per la testa che la soluzione potesse venire dalla gente stessa (v.7) e dal loro spirito - non dal patentato dei capi o da qualche singolo benefattore.
Accordo inatteso: la questione dell’alimento si risolve non dall’alto, ma a partire dall’interno delle persone e grazie ai pochi pani portati con sé (v.9).
Non c’è risoluzione alcuna col verbo “moltiplicare” - ossia “incrementare” [relazioni che contano, accrescere proprietà, ammucchiare astuzie].
Unica terapia è la convivenza dello «spezzare», «dare», «porgere», «distribuire» (v.11 testo greco).
E tutti sono coinvolti, nessuno privilegiato.
A quel tempo la competitività e la mentalità di classe caratterizzava la società piramidale dell’impero - e iniziava a infiltrarsi già nella piccola comunità, appena agli inizi.
Come se il Signore e il Dio del tornaconto potessero convivere uno a fianco all’altro.
È la comunione dei bisognosi che viceversa sale in cattedra nella Chiesa non artefatta; capace di far convivere gli opposti.
La condivisione reale fa da professore degli onnipresenti veterani, smaliziati e pretenziosi, unici a doversi convertire.
Il germe della loro “durata” dovrebbe essere non la posizione in quota e il ruolo, bensì l’amore.
Tale l’unico senso dei gesti sacri, non altri progetti venati da prevaricazioni, o dall’apparire.
Gli “appartenenti” sbalordiscono.
Per il Signore i lontani, ancora in bilico nelle scelte, sono pienamente partecipi del banchetto messianico - senza preclusioni, né discipline dell’arcano con attese snervanti.
Viceversa, quella Mensa urge in favore di altri che devono essere chiamati. Per una sorta di ristabilimento dell’Unità originale.
Insomma, la Redenzione non appartiene alle élites preoccupate della stabilità del loro dominio - che sono addirittura i deboli a dover sostenere.
La vita da salvati viene a noi per Incorporazione.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Hai mai spezzato il tuo pane, trasmesso felicità e compiuto recuperi che rinnovano i rapporti, rimettendo in piedi le persone che neppure hanno stima di sé? O hai privilegiato disinteresse, catene, cordate, atteggiamenti di élite?
Quest’oggi la liturgia prevede come pagina evangelica l’inizio del capitolo VI di Giovanni, che contiene dapprima il miracolo dei pani – quando Gesù diede da mangiare a migliaia di persone con solo cinque pani e due pesci –; quindi l’altro prodigio del Signore che cammina sulle acque del lago in tempesta; e infine il discorso in cui Egli si rivela come “il pane della vita”. Narrando il “segno” dei pani, l’Evangelista sottolinea che Cristo, prima di distribuirli, li benedisse con una preghiera di ringraziamento (cfr v. 11). Il verbo è eucharistein, e rimanda direttamente al racconto dell’Ultima Cena, nel quale, in effetti, Giovanni non riferisce l’istituzione dell’Eucaristia, bensì la lavanda dei piedi. L’Eucaristia è qui come anticipata nel grande segno del pane della vita […] Come non ricordare che specialmente noi sacerdoti possiamo rispecchiarci in questo testo giovanneo, immedesimandoci negli Apostoli, là dove dicono: Dove potremo trovare il pane per tutta questa gente? E leggendo di quell’anonimo ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci, anche a noi viene spontaneo dire: Ma che cos’è questo per una tale moltitudine? In altre parole: che sono io? Come posso, con i miei limiti, aiutare Gesù nella sua missione? E la risposta la dà il Signore: proprio mettendo nelle sue mani “sante e venerabili” il poco che essi sono, noi sacerdoti diventiamo strumenti di salvezza per tanti, per tutti!
[Papa Benedetto, Angelus 26 luglio 2009]
“Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”.
Dinanzi alla folla, che lo ha seguito dalle rive del mare di Galilea fin verso la montagna per ascoltare la sua parola, Gesù dà inizio, con questa domanda, al miracolo della moltiplicazione dei pani, che costituisce il significativo preludio al lungo discorso, nel quale si rivela al mondo come il vero pane della vita disceso dal cielo (cf. Gv 6,41).
1. Abbiamo ascoltato il racconto evangelico: con cinque pani d’orzo e con due pesci, messi a disposizione da un ragazzo, Gesù sfama circa cinquemila uomini. Ma questi, non comprendendo la profondità del “segno” in cui sono stati coinvolti, sono convinti di aver trovato finalmente il Re-Messia, che risolverà i problemi politici ed economici della loro Nazione. Di fronte a tale ottuso fraintendimento della sua missione, Gesù si ritira, tutto solo, sulla montagna.
Anche noi, Sorelle e Fratelli carissimi, abbiamo seguito Gesù e continuiamo a seguirlo. Ma possiamo e dobbiamo chiederci: con quale atteggiamento interiore?Con quello autentico della fede, che Gesù attendeva dagli Apostoli e dalla folla sfamata, oppure con un atteggiamento di incomprensione? Gesù si presentava in quella occasione come, anzi più di Mosè, che nel deserto aveva sfamato il popolo israelita durante l’esodo; si presentava come, anzi più di Eliseo, che con venti pani d’orzo e di farro aveva dato da mangiare a cento persone. Gesù si manifestava, e si manifesta oggi a noi, come Colui che è capace di saziare per sempre la fame del nostro cuore: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete” (Gv 6,33).
E l’uomo, specialmente quello contemporaneo, ha tanta fame: fame di verità, di giustizia, di amore, di pace, di bellezza; ma, soprattutto, fame di Dio. “Noi dobbiamo essere affamati di Dio!” esclama Sant’Agostino (“famelici Dei esse debemus” (S. Agostino, Enarrat. in Ps. 146, 17: PL 37,1895ss.). È lui, il Padre celeste, che ci dona il vero pane!
2. Questo pane, di cui abbiamo bisogno, è anzitutto il Cristo, il quale si dona a noi nei segni sacramentali dell’Eucaristia, e ci fa sentire, in ogni Messa, le parole dell’ultima Cena: “Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”. Col sacramento del pane eucaristico – afferma il Concilio Vaticano II – “viene rappresentata e prodotta l’unità dei fedeli, che costituiscono un solo Corpo in Cristo (cf. 1Cor 10,17). Tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo che è luce del mondo; da lui veniamo, per lui viviamo, a lui siamo diretti” (Lumen Gentium, 3).
Il pane di cui abbiamo bisogno è, inoltre, la parola di Dio, perché “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio” (Mt 4,4; cf. Dt 8,3). Indubbiamente, anche gli uomini possono esprimere e pronunciare parole di alto valore. Ma la storia ci mostra come le parole degli uomini siano talvolta insufficienti, ambigue, deludenti, tendenziose; mentre la Parola di Dio è piena di verità (cf. 2Sam 7,28;1Cor 15,26); è retta (Sal 33,4); è stabile e rimane in eterno (cf. Sal 119,89;1Pt 1,25).
Dobbiamo metterci continuamente in religioso ascolto di tale Parola; assumerla come criterio del nostro modo di pensare e di agire; conoscerla, mediante l’assidua lettura e la personale meditazione; ma, specialmente, dobbiamo farla nostra, realizzarla, giorno dopo giorno, in ogni nostro comportamento.
Il pane, infine, di cui abbiamo bisogno, è la grazia; e dobbiamo invocarla, chiederla con sincera umiltà e con instancabile costanza, ben sapendo che essa è quanto di più prezioso possiamo possedere.
3. Il cammino della nostra vita, tracciatoci dall’amore provvidenziale di Dio, è misterioso, talvolta umanamente incomprensibile, e quasi sempre duro e difficile. Ma il Padre ci dona il “pane del cielo” (cf. Gv 6,32), per essere rinfrancati nel nostro pellegrinaggio sulla terra.
Mi piace concludere con un passo di Sant’Agostino, che sintetizza mirabilmente quanto abbiamo meditato: “Si comprende molto bene... come la tua Eucaristia sia il cibo quotidiano. Sanno infatti i fedeli che cosa essi ricevono ed è bene che essi ricevano il pane quotidiano necessario per questo tempo. Pregano per loro stessi, per diventare buoni, per essere perseveranti nella bontà, nella fede, e nella vita buona... la parola di Dio, che ogni giorno viene a voi spiegata e, in un certo senso, spezzata, è anch’essa pane quotidiano” (S. Agostino, Sermo 58, IV: PL 38,395).
Che Cristo Gesù moltiplichi sempre, anche per noi, il suo pane!
Così sia!
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 29 luglio 1979]
Praying, celebrating, imitating Jesus: these are the three "doors" - to be opened to find «the way, to go to truth and to life» (Pope Francis)
Pregare, celebrare, imitare Gesù: sono le tre “porte” — da aprire per trovare «la via, per andare alla verità e alla vita» (Papa Francesco)
In recounting the "sign" of bread, the Evangelist emphasizes that Christ, before distributing the food, blessed it with a prayer of thanksgiving (cf. v. 11). The Greek term used is eucharistein and it refers directly to the Last Supper, though, in fact, John refers here not to the institution of the Eucharist but to the washing of the feet. The Eucharist is mentioned here in anticipation of the great symbol of the Bread of Life [Pope Benedict]
Narrando il “segno” dei pani, l’Evangelista sottolinea che Cristo, prima di distribuirli, li benedisse con una preghiera di ringraziamento (cfr v. 11). Il verbo è eucharistein, e rimanda direttamente al racconto dell’Ultima Cena, nel quale, in effetti, Giovanni non riferisce l’istituzione dell’Eucaristia, bensì la lavanda dei piedi. L’Eucaristia è qui come anticipata nel grande segno del pane della vita [Papa Benedetto]
Work is part of God’s loving plan, we are called to cultivate and care for all the goods of creation and in this way share in the work of creation! Work is fundamental to the dignity of a person. Work, to use a metaphor, “anoints” us with dignity, fills us with dignity, makes us similar to God, who has worked and still works, who always acts (cf. Jn 5:17); it gives one the ability to maintain oneself, one’s family, to contribute to the growth of one’s own nation [Pope Francis]
Il lavoro fa parte del piano di amore di Dio; noi siamo chiamati a coltivare e custodire tutti i beni della creazione e in questo modo partecipiamo all’opera della creazione! Il lavoro è un elemento fondamentale per la dignità di una persona. Il lavoro, per usare un’immagine, ci “unge” di dignità, ci riempie di dignità; ci rende simili a Dio, che ha lavorato e lavora, agisce sempre (cfr Gv 5,17); dà la capacità di mantenere se stessi, la propria famiglia, di contribuire alla crescita della propria Nazione [Papa Francesco]
God loves the world and will love it to the end. The Heart of the Son of God pierced on the Cross and opened is a profound and definitive witness to God’s love. Saint Bonaventure writes: “It was a divine decree that permitted one of the soldiers to open his sacred wide with a lance… The blood and water which poured out at that moment was the price of our salvation” (John Paul II)
Il mondo è amato da Dio e sarà amato fino alla fine. Il Cuore del Figlio di Dio trafitto sulla croce e aperto, testimonia in modo profondo e definitivo l’amore di Dio. Scriverà San Bonaventura: “Per divina disposizione è stato permesso che un soldato trafiggesse e aprisse quel sacro costato. Ne uscì sangue ed acqua, prezzo della nostra salvezza” (Giovanni Paolo II))
[Nicodemus] felt the fascination of this Rabbi, so different from the others, but could not manage to rid himself of the conditioning of his environment that was hostile to Jesus, and stood irresolute on the threshold of faith (Pope Benedict)
[Nicodemo] avverte il fascino di questo Rabbì così diverso dagli altri, ma non riesce a sottrarsi ai condizionamenti dell’ambiente contrario a Gesù e resta titubante sulla soglia della fede (Papa Benedetto)
Those wounds that, in the beginning were an obstacle for Thomas’s faith, being a sign of Jesus’ apparent failure, those same wounds have become in his encounter with the Risen One, signs of a victorious love. These wounds that Christ has received for love of us help us to understand who God is and to repeat: “My Lord and my God!” (Pope Benedict)
don Giuseppe Nespeca
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