Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
C’è un’espressione di Gesù, nel Vangelo di questa domenica, che attira ogni volta la nostra attenzione e richiede di essere ben compresa. Mentre è in cammino verso Gerusalemme, dove lo attende la morte di croce, Cristo confida ai suoi discepoli: "Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione". E aggiunge: "D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera" (Lc 12,51-53). Chiunque conosca minimamente il Vangelo di Cristo, sa che è messaggio di pace per eccellenza; Gesù stesso, come scrive san Paolo, "è la nostra pace" (Ef 2,14), morto e risorto per abbattere il muro dell’inimicizia e inaugurare il Regno di Dio che è amore, gioia e pace. Come si spiegano allora queste sue parole? A che cosa si riferisce il Signore quando dice di essere venuto a portare – secondo la redazione di san Luca – la "divisione", o – secondo quella di san Matteo – la "spada" (Mt 10,34)?
Questa espressione di Cristo significa che la pace che Egli è venuto a portare non è sinonimo di semplice assenza di conflitti. Al contrario, la pace di Gesù è frutto di una costante lotta contro il male. Lo scontro che Gesù è deciso a sostenere non è contro uomini o poteri umani, ma contro il nemico di Dio e dell’uomo, Satana. Chi vuole resistere a questo nemico rimanendo fedele a Dio e al bene deve necessariamente affrontare incomprensioni e qualche volta vere e proprie persecuzioni. Perciò, quanti intendono seguire Gesù e impegnarsi senza compromessi per la verità devono sapere che incontreranno opposizioni e diventeranno, loro malgrado, segno di divisione tra le persone, addirittura all’interno delle loro stesse famiglie. L’amore per i genitori infatti è un comandamento sacro, ma per essere vissuto in modo autentico non può mai essere anteposto all’amore di Dio e di Cristo. In tal modo, sulle orme del Signore Gesù, i cristiani diventano "strumenti della sua pace", secondo la celebre espressione di san Francesco d’Assisi. Non di una pace inconsistente e apparente, ma reale, perseguita con coraggio e tenacia nel quotidiano impegno di vincere il male con il bene (cfr Rm 12,21) e pagando di persona il prezzo che questo comporta.
La Vergine Maria, Regina della Pace, ha condiviso fino al martirio dell’anima la lotta del suo Figlio Gesù contro il Maligno, e continua a condividerla sino alla fine dei tempi. Invochiamo la sua materna intercessione, perché ci aiuti ad essere sempre testimoni della pace di Cristo, mai scendendo a compromessi con il male.
[Papa Benedetto, Angelus 19 agosto 2007]
1. Quest'anno la Giornata Mondiale della Pace viene celebrata sullo sfondo dei drammatici eventi dell'11 settembre scorso. In quel giorno, fu perpetrato un crimine di terribile gravità: nel giro di pochi minuti migliaia di persone innocenti, di varie provenienze etniche, furono orrendamente massacrate. Da allora, la gente in tutto il mondo ha sperimentato con intensità nuova la consapevolezza della vulnerabilità personale ed ha cominciato a guardare al futuro con un senso fino ad allora ignoto di intima paura. Di fronte a questi stati d'animo la Chiesa desidera testimoniare la sua speranza, basata sulla convinzione che il male, il mysterium iniquitatis, non ha l'ultima parola nelle vicende umane. La storia della salvezza, delineata nella Sacra Scrittura, proietta grande luce sull'intera storia del mondo, mostrando come questa sia sempre accompagnata dalla sollecitudine misericordiosa e provvida di Dio, che conosce le vie per toccare gli stessi cuori più induriti e trarre frutti buoni anche da un terreno arido e infecondo.
È questa la speranza che sostiene la Chiesa all'inizio del 2002: con la grazia di Dio il mondo, in cui il potere del male sembra ancora una volta avere la meglio, sarà realmente trasformato in un mondo in cui le aspirazioni più nobili del cuore umano potranno essere soddisfatte, un mondo nel quale prevarrà la vera pace.
La pace: opera di giustizia e di amore
2. Quanto è recentemente avvenuto, con i terribili fatti di sangue appena ricordati, mi ha stimolato a riprendere una riflessione che spesso sgorga dal profondo del mio cuore, al ricordo di eventi storici che hanno segnato la mia vita, specialmente negli anni della mia giovinezza.
Le immani sofferenze dei popoli e dei singoli, tra i quali anche non pochi miei amici e conoscenti, causate dai totalitarismi nazista e comunista, hanno sempre interpellato il mio animo e stimolato la mia preghiera. Molte volte mi sono soffermato a riflettere sulla domanda: qual è la via che porta al pieno ristabilimento dell'ordine morale e sociale così barbaramente violato? La convinzione, a cui sono giunto ragionando e confrontandomi con la Rivelazione biblica, è che non si ristabilisce appieno l'ordine infranto, se non coniugando fra loro giustizia e perdono. I pilastri della vera pace sono la giustizia e quella particolare forma dell'amore che è il perdono.
[Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la xxxv Giornata Mondiale della Pace]
[Il Vangelo di] (Lc 12,49-53) fa parte degli insegnamenti di Gesù rivolti ai discepoli lungo la sua salita verso Gerusalemme, dove l’attende la morte in croce. Per indicare lo scopo della sua missione, Egli si serve di tre immagini: il fuoco, il battesimo e la divisione. Oggi desidero parlare della prima immagine: il fuoco.
Gesù la esprime con queste parole: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!» (v.49). Il fuoco di cui Gesù parla è il fuoco dello Spirito Santo, presenza viva e operante in noi dal giorno del nostro Battesimo. Esso – il fuoco - è una forza creatrice che purifica e rinnova, brucia ogni umana miseria, ogni egoismo, ogni peccato, ci trasforma dal di dentro, ci rigenera e ci rende capaci di amare. Gesù desidera che lo Spirito Santo divampi come fuoco nel nostro cuore, perché è solo partendo dal cuore che l’incendio dell’amore divino potrà svilupparsi e far progredire il Regno di Dio. Non parte dalla testa, parte dal cuore. E per questo Gesù vuole che il fuoco entri nel nostro cuore. Se ci apriamo completamente all’azione di questo fuoco che è lo Spirito Santo, Egli ci donerà l’audacia e il fervore per annunciare a tutti Gesù e il suo consolante messaggio di misericordia e di salvezza, navigando in mare aperto, senza paure.
Nell’adempimento della sua missione nel mondo, la Chiesa - cioè tutti noi che siamo la Chiesa - ha bisogno dell’aiuto dello Spirito Santo per non lasciarsi frenare dalla paura e dal calcolo, per non abituarsi a camminare entro i confini sicuri. Questi due atteggiamenti portano la Chiesa ad essere una Chiesa funzionale, che non rischia mai. Invece, il coraggio apostolico che lo Spirito Santo accende in noi come un fuoco ci aiuta a superare i muri e le barriere, ci rende creativi e ci sprona a metterci in movimento per camminare anche su strade inesplorate o scomode, offrendo speranza a quanti incontriamo. Con questo fuoco dello Spirito Santo siamo chiamati a diventare sempre più comunità di persone guidate e trasformate, piene di comprensione, persone dal cuore dilatato e dal volto gioioso. Più che mai oggi c’è bisogno di sacerdoti, di consacrati e di fedeli laici, con lo sguardo attento dell’apostolo, per commuoversi e sostare dinanzi ai disagi e alle povertà materiali e spirituali, caratterizzando così il cammino dell’evangelizzazione e della missione con il ritmo sanante della prossimità. È proprio il fuoco dello Spirito Santo che ci porta a farci prossimi degli altri, dei bisognosi, di tante miserie umane, di tanti problemi, dei rifugiati, dei profughi, di quelli che soffrono.
In questo momento, penso anche con ammirazione soprattutto ai numerosi sacerdoti, religiosi e fedeli laici che, in tutto il mondo, si dedicano all’annuncio del Vangelo con grande amore e fedeltà, non di rado anche a costo della vita. La loro esemplare testimonianza ci ricorda che la Chiesa non ha bisogno di burocrati e di diligenti funzionari, ma di missionari appassionati, divorati dall’ardore di portare a tutti la consolante parola di Gesù e la sua grazia. Questo è il fuoco dello Spirito Santo. Se la Chiesa non riceve questo fuoco o non lo lascia entrare in sé, diviene una Chiesa fredda o soltanto tiepida, incapace di dare vita, perché è fatta da cristiani freddi e tiepidi. Ci farà bene, oggi, prendere cinque minuti e domandarci: “Ma come va il mio cuore? È freddo? È tiepido? È capace di ricevere questo fuoco?” Prendiamoci cinque minuti per questo. Ci farà bene a tutti.
[Papa Francesco, Angelus 14 agosto 2016]
XXIX Domenica Tempo Ordinario (anno C) [19 Ottobre 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Ancora un forte richiamo a come vivere la fede in ogni situazione della vita.
Prima Lettura dal libro dell’Esodo (17,8-13)
La prova della fede. Nel cammino di Israele nel deserto, l’incontro con gli Amaleciti segna una tappa decisiva: è la prima battaglia del popolo liberato dall’Egitto, ma anche la prima grande prova della sua fede. Gli Amaleciti, discendenti di Esaù, rappresentano nella tradizione biblica il nemico ereditario, figura del male che tenta di impedire al popolo di Dio di raggiungere la terra promessa. La loro aggressione improvvisa contro gli ultimi della carovana — i più deboli e stanchi — manifesta la logica del male: colpire dove la fede vacilla, dove la stanchezza e la paura aprono la breccia del dubbio. Questo episodio avviene a Refidim, lo stesso luogo di Massa e Meriba, dove Israele aveva già mormorato contro Dio per la mancanza d’acqua. Là il popolo aveva sperimentato la prova della sete, ora vive la prova del combattimento: in entrambi i casi, la tentazione è la stessa — pensare che Dio non sia più con lui. Ma ancora una volta Dio interviene, mostrando che la fede si purifica attraverso la lotta e che la fiducia deve restare salda anche nel pericolo. Mosè, mentre Giosuè combatte nella pianura, sale sul monte con in mano il bastone di Dio — segno della sua presenza e del suo potere. Il racconto non insiste sui movimenti delle truppe, ma sul gesto di Mosè: le mani levate verso il cielo. Non è un gesto magico: è la preghiera che sostiene il combattimento, la fede che diventa forza per tutto il popolo. Quando le braccia di Mosè si abbassano, Israele perde; quando restano alzate, Israele vince. La vittoria dipende dunque non solo dalla forza delle armi, ma dalla comunione con Dio e dalla preghiera perseverante. Mosè si stanca, Aronne e Cur gli sostengono le mani: ecco l’immagine della fraternità spirituale, della comunità che porta insieme il peso della fede. Così la preghiera non è isolamento, ma solidarietà: chi prega sostiene gli altri, e chi combatte attinge forza dalla preghiera dei fratelli. Questo episodio diventa quindi un paradigma della vita spirituale: Israele, fragile e ancora in cammino, impara che la vittoria non viene dalla forza umana, ma dalla fiducia in Dio. La preghiera, rappresentata dalle mani levate di Mosè, non sostituisce l’azione ma la accompagna e la trasfigura. L’orante e il combattente sono due volti dello stesso credente: uno lotta nel mondo, l’altro intercede davanti a Dio ed entrambi partecipano all’unica opera della salvezza. Infine, la comunità orante diventa il segno vivente della presenza di Dio che opera nel suo popolo e quando un credente non ha più la forza di pregare, la fede dei fratelli lo sostiene. La storia di Amalek a Refidim non è solo una pagina di cronaca, bensì un’icona della vita cristiana: viviamo tutti le nostre battaglie sapendo che la vittoria appartiene a Dio e la preghiera è sorgente di ogni forza e garanzia della presenza divina.
Salmo responsoriale (120/121)
Il Salmo 120/121 appartiene al gruppo dei “Salmi delle ascensioni” (Sal 120-134), composti per accompagnare i pellegrinaggi del popolo d’Israele verso Gerusalemme, la città santa situata in alto, simbolo del luogo dove Dio abita in mezzo al suo popolo. Il verbo “salire” indica non solo l’ascesa geografica ma anche e soprattutto un movimento spirituale, una conversione del cuore che porta il credente ad avvicinarsi a Dio. Ogni pellegrinaggio rappresentava per Israele un segno dell’Alleanza e un atto di fede: il popolo, in cammino da ogni parte del paese, rinnovava la propria fiducia nel Signore. Quando il salmo parla in prima persona — “alzo gli occhi verso i monti” — in realtà dà voce al “noi” collettivo di tutto Israele, il popolo in marcia verso Dio. Questo cammino è immagine dell’intera storia d’Israele, una lunga marcia nella quale si intrecciano fatica, attesa, pericolo e fiducia. Le vie che conducono a Gerusalemme, oltre ad essere strade di pietra, sono vie spirituali segnate da prove e rischi. La stanchezza, la solitudine, le minacce esterne — briganti, animali, sole cocente, notti fredde — diventano simboli delle difficoltà della fede. In questa situazione, la parola del salmo è una professione di fiducia assoluta: “Il mio aiuto viene dal Signore: egli ha fatto cielo e terra.” Con queste parole si afferma che il vero aiuto non viene da potenze umane né da idoli muti, ma dal Dio vivente, Creatore dell’universo, che non dorme e non abbandona il suo popolo. Egli è chiamato “Custode d’Israele”: colui che veglia continuamente, che accompagna, che si fa vicino come un’ombra che protegge dal sole e dalla luna. L’espressione ebraica “alla tua destra” indica una presenza intima e fedele, come quella di un compagno inseparabile. Il popolo che prega questo salmo ricorda così la colonna di nube e di fuoco che guidava Israele nel deserto, segno di Dio che protegge di giorno e di notte, mentre accompagna il cammino e custodisce la vita. Perciò il salmista può dire: “Il Signore ti custodirà da ogni male, egli custodirà la tua vita. Il Signore ti custodirà quando esci e quando entri da ora e per sempre” . Il pellegrino che “sale” a Gerusalemme diventa l’immagine del credente che si affida a Dio solo, rinunciando agli idoli e alle false sicurezze. Questo movimento è la conversione: distogliersi da ciò che è vano per orientarsi al Dio che salva. Nel Nuovo Testamento, Gesù stesso ha potuto pregare questo salmo mentre “saliva a Gerusalemme” (Lc 9,51). Egli compie il cammino di Israele e di ogni uomo, affidando la propria vita al Padre. Le parole “Il Signore custodirà la tua vita” trovano il loro pieno compimento nella Pasqua, quando il ritorno del pellegrino diventa risurrezione perché è ritorno alla vita nuova e definitiva. Così, il Salmo 121 è molto più di una preghiera di viaggio: è la confessione di fede di un popolo in cammino, la proclamazione che Dio è fedele e che la sua presenza accompagna ogni passo dell’esistenza. In esso si uniscono la memoria storica, la fiducia teologica e la speranza escatologica. Israele, il credente e Cristo stesso condividono la stessa certezza: Dio custodisce la vita e ogni salita, anche la più faticosa, conduce alla comunione con Lui.
Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo a Timoteo (3, 14 - 4, 2)
In questo brano della seconda lettera a Timoteo (3,14-4,2), Paolo consegna al suo discepolo l’eredità più preziosa: la fedeltà alla Parola di Dio. È un testo scritto in un momento difficile, segnato da confusioni dottrinali e da tensioni nella comunità di Efeso. Timoteo è chiamato a essere “custode della Parola”, in mezzo a un mondo che rischia di smarrire la verità ricevuta. Le prime parole, “Tu rimani saldo in quello che hai imparato”, fanno capire che altri hanno abbandonato l’insegnamento apostolico: la fedeltà diventa allora un atto di resistenza spirituale, un rimanere ancorati alla sorgente. Paolo parla dell’“abitare” nella Parola: la fede non è un oggetto da possedere, ma un ambiente in cui vivere. Timoteo vi è entrato fin da bambino grazie alla madre Eunice e alla nonna Loide, donne credenti che gli hanno trasmesso l’amore per le Scritture. Abbiamo qui un richiamo al carattere comunitario e tradizionale della fede: nessuno scopre da sé la Parola, ma sempre nella Chiesa. L’accesso alla Scrittura avviene dentro la Tradizione viva, quella “catena” che parte da Cristo, passa attraverso gli apostoli e continua nei credenti. “Tradere” in latino significa “trasmettere”: ciò che si riceve, si dona. In questa fedeltà, la Scrittura è sorgente d’acqua viva che rigenera il credente e lo radica nella verità. Paolo afferma che le Sacre Scritture possono istruire per la salvezza che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù (v.15). L’Antico Testamento è cammino che conduce a Cristo: l’intera storia di Israele prepara il compimento del mistero pasquale. “Tutta la Scrittura è ispirata da Dio”: prima ancora che diventasse dogma, era la convinzione profonda del popolo d’Israele, da cui nasce il rispetto per i Libri santi custoditi nelle sinagoghe. L’ispirazione divina non annulla la parola umana, ma la trasfigura, facendone strumento dello Spirito. La Scrittura, dunque, non è un libro tra altri, ma una presenza viva di Dio che forma, educa, corregge e santifica: grazie a essa, l’uomo di Dio sarà perfetto, equipaggiato per ogni opera buona (vv16-17). Da questa sorgente nasce la missione e Paolo affida a Timoteo il comando decisivo: “Annuncia la Parola, insisti al momento opportuno e non opportuno”(v.4,2) perché l’annuncio del Vangelo è una necessità, non un compito facoltativo. Il riferimento solenne al giudizio di Cristo sui vivi e sui morti mostra la gravità della responsabilità apostolica. Proclamare la Parola significa rendere presente il Logos, cioè Cristo stesso, Parola vivente del Padre. È Lui che si comunica attraverso la voce del predicatore e la vita del testimone. Ma l’annuncio esige coraggio e pazienza: occorre parlare quando è comodo e quando non lo è, ammonire, correggere, incoraggiare, sempre con spirito di carità e desiderio di edificare la comunità. La verità, senza amore, ferisce; l’amore, senza verità, svuota la Parola. Per Paolo, la Scrittura non è solo memoria, ma dinamismo dello Spirito. Essa modella la mente e il cuore, forma il giudizio, ispira le scelte. Chi vi dimora diventa “uomo di Dio”, cioè persona plasmata dalla Parola e resa capace di servire. Timoteo è invitato non solo a custodire la dottrina, ma a farne sorgente di vita per sé e per gli altri. Così la Parola, accolta e vissuta, diventa luogo d’incontro con Cristo e sorgente di rinnovamento per la Chiesa. L’apostolo non fonda nulla di suo, ma trasmette ciò che ha ricevuto; allo stesso modo, ogni credente è chiamato a diventare anello di questa catena viva, perché la Parola continui a scorrere nel mondo come acqua che disseta, purifica e feconda. In sintesi: La Scrittura è la sorgente della fede, la Tradizione ne è il fiume che la trasmette, la proclamazione ne è il frutto che alimenta la vita della Chiesa. Restare nella Parola significa restare in Cristo; proclamarla significa lasciarLo agire e parlare attraverso di noi. Solo così l’uomo di Dio diventa pienamente formato e la comunità cresce nella verità e nella carità.
Dal Vangelo secondo Luca (18,1-8)
Il contesto di questa parabola è quello della “fine dei tempi”: Gesù cammina verso Gerusalemme, verso la Passione, morte e Risurrezione. I discepoli percepiscono l’epilogo tragico e misterioso, sentono la necessità di maggiore fede (“Aumenta in noi la fede”) e sono ansiosi di comprendere la venuta del Regno di Dio. Il termine “Figlio dell’uomo”, già presente in Daniele (7), indica colui che viene sulle nubi, riceve la regalità universale e eterna, e rappresenta in senso originale anche un essere collettivo, il popolo dei Santi dell’Altissimo. Gesù lo adopera per riferirsi a sé stesso, rassicurando i discepoli sulla vittoria definitiva di Dio, pur in un contesto di difficoltà imminenti. Il riferimento al giudizio e al Regno sottolinea la prospettiva escatologica: Dio farà giustizia ai suoi eletti, il Regno è già iniziato, ma sarà pienamente realizzato alla fine. La parabola della vedova ostinata è al cuore del messaggio: davanti a un giudice ingiusto, la vedova non si scoraggia perché la sua causa è giusta. Quest’esempio unisce due virtù essenziali per il cristiano: umiltà, riconoscendo la propria povertà (prima beatitudine: “Beati voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio”), e perseveranza, l’insistenza fiduciosa nella preghiera e nella giustizia. L’ostinazione della vedova diventa paradigma per la fede in attesa del Regno: anche la nostra causa, fondata sulla volontà di Dio, richiede tenacia. Il testo richiama inoltre il legame con l’episodio dell’Antico Testamento: durante la battaglia contro gli Amaleciti, Mosè prega con ostinazione sulla collina mentre Giosuè combatte in pianura. La vittoria del popolo dipende dalla presenza e dall’intervento di Dio, sostenuto dalla preghiera perseverante di Mosè. La parabola della vedova ha la stessa funzione: ricordare ai credenti, di ogni tempo, che la fede è un combattimento continuo, una prova di resistenza davanti alle difficoltà, alle opposizioni e ai dubbi. La domanda conclusiva di Gesù, “Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?”, è un monito universale: la fede non va mai data per scontata, deve essere custodita, nutrita e protetta. Dal primo mattino della Risurrezione fino alla venuta definitiva del Figlio dell’uomo, la fede è una lotta di costanza e fiducia, anche quando il Regno sembra lontano. La vedova insegna come affrontare l’attesa: umili, ostinati, fiduciosi, consapevoli della propria debolezza ma certi della giustizia e della volontà salvifica di Dio che mi delude le attese di chi in lui confida totalmente. Luca sembra scrivere a una comunità minacciata dallo scoraggiamento, come suggerisce la frase finale: “Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?”. Questa frase, pur apparendo pessimistica, è in realtà un monito alla vigilanza: la fede va custodita e alimentata, non data per scontata. Il testo forma un’inclusione: la prima frase insegna cosa sia la fede — “Bisogna pregare sempre senza scoraggiarsi” — e la frase finale invita alla perseveranza. Tra le due, l’esempio della vedova ostinata, trattata ingiustamente ma che non si arrende, mostra concretamente come praticare questa fede. L’insegnamento complessivo è chiaro: la fede è un impegno costante, una resistenza attiva, che richiede ostinazione, umiltà e fiducia nella giustizia di Dio, anche di fronte alle difficoltà e all’apparente assenza di risposta.
+ Giovanni D’Ercole
Presenza e Venuta senza contese
(Lc 12,39-48)
Gesù tira le orecchie a quelli di Casa, non per autolesionismo: non è amore né libertà non poter capire in quale direzione andare, non avere una mèta che trasmetta senso al nostro pellegrinare in ricerca.
Già nelle comunità dei primi secoli era viva l’idea della fine del mondo e dell’immediatamente successivo «ritorno» del Risorto ad aggiustare le cose - come un qualsiasi Messia. Così qualcuno non s’impegnava più. Altri rimanevano col nasino all’insù, per scrutare il cielo.
Ma la Venuta del Cristo è sempre imminente, e il Giudizio sulle cose del mondo è già stato pronunciato sulla Croce.
Nel suo Spirito che fa nuove tutte le cose, e nei suoi intimi, il Signore non si è mai trasferito (altrove; o in alto) [cf. Mt 28,20].
La fase finale della storia inizia appunto da questo germe di Fede non alienata, di Persona non repressa, e di società alternativa; ma la storia da scrivere è compito della Chiesa.
Il nuovo cielo e la nuova terra della Presenza che divinizza è già palpitante. In tal guisa, Egli è accanto a noi quando lottiamo per la realizzazione e la vita piena di tutti.
Poi, in nessun passo dei Vangeli è scritto che Gesù «tornerà»: sebbene non percepibile ai sensi, non si è mai allontanato.
Gode di una Vita piena, non condizionata da coordinate spazio temporali come la nostra.
Egli è ‘il Veniente’ [testo greco, passim]: colui che Viene senza posa, e si fa compagno di viaggio - non solo in figura eccezionale.
L’attenzione delle persone impressionabili già negli anni 80 si spostava (purtroppo) sul Ritorno invece che sulla «Venuta incessante»: ossia, percezione della sua Amicizia nelle cose anche comuni, nell’Appello dei bisognosi; nel Richiamo delle intuizioni, della Parola, degli accompagnatori del nostro viaggio; nel genio del tempo, e persino nelle vicende di tutti i giorni.
«Venuta» è: nei traguardi che sorridono, ma persino e forse ancor più negli scogli da vivere - o aggirare, spostando lo sguardo; nelle delusioni, che ci guidano a cercare una gioia meno esteriore.
Così - secondo il desiderio del Signore - la buona guida della comunità cristiana si farà servitrice degli smarriti, non si approprierà dei beni della Chiesa, diverrà vigilante anche in favore altrui.
È fondamentale che i primi della classe non si lascino trascinare dal desiderio adolescenziale di autoaffermarsi, con avidità di privilegi e incetta di mansioni rilevanti.
La fedeltà è atteggiamento richiesto specialmente a coloro che nelle assemblee hanno un compito particolare e preciso, di guida: vietato abusarne!
L’unica smania da cui devono sentirsi presi è quella di affrettare l’ora della Comunione e introdurre un’energia rigeneratrice, anche nei ruoli.
Pietro è però condizionato dal falso insegnamento tradizionale, del tutto antitetico, e non riesce a concepirlo.
Secondo il Maestro, invece, capi e responsabili di comunità non sono dei privilegiati o eletti esclusivi, bensì coloro cui è chiesto di fare più e meglio.
Gente libera.
Unico obbiettivo plausibile del cammino particolare nella potenza del Risorto è di carattere materno e universale: «partorire un mondo nuovo, dove tutti siamo fratelli» [FT n.278].
[Mercoledì 29.a sett. T.O. 22 Ottobre 2025]
(Lc 12,39-48)
«Anche voi siate pronti perché, nell’ora che non credete il Figlio dell’uomo viene» (Lc 12,40).
Gesù tira le orecchie a quelli di Casa, non per autolesionismo: non è amore né libertà non poter capire in quale direzione andare, non avere una mèta che trasmetta senso al nostro pellegrinare in ricerca.
Già nelle comunità dei primi secoli era viva l’idea della fine del mondo e dell’immediatamente successivo «ritorno» del Risorto ad aggiustare le cose - come un qualsiasi Messia.
Così qualcuno non si impegnava più. Altri rimanevano col nasino all’insù, per scrutare il cielo.
Ma la Venuta del Cristo è sempre imminente, e il Giudizio sulle cose del mondo è già stato pronunciato sulla Croce.
Nel suo Spirito che fa nuove tutte le cose, e nei suoi intimi, il Signore non si è mai trasferito (altrove; o in alto) [cf. Mt 28,20].
La fase finale della storia inizia appunto da questo germe di Fede non alienata, di Persona non repressa, e di società alternativa; ma la storia da scrivere è compito della Chiesa.
Il nuovo cielo e la nuova terra della Presenza che divinizza è già palpitante. In tal guisa, Egli è accanto a noi quando lottiamo per la realizzazione e la vita piena di tutti.
Per tale motivo, in epigrafe all’enciclica Fratelli Tutti, ecco stagliarsi la figura pratica ed eloquente di s. Francesco «che si sentiva fratello del sole, del mare e del vento, sapeva di essere ancora più unito a quelli che erano della sua stessa carne. Dappertutto seminò pace e camminò accanto ai poveri, agli abbandonati, ai malati, agli scartati, agli ultimi» [n.2].
I Vangeli e il Magistero recente - non più neutrale - intonano il de profundis alla spiritualità periferica, intimista e vuota che ha segnato il cattolicesimo di massa in Occidente.
Chiaro il motivo per cui in nessun passo dei Vangeli è scritto che Gesù «tornerà»: sebbene non percepibile ai sensi, non si è mai allontanato.
Gode di una Vita piena, non condizionata da coordinate spazio temporali.
Egli è ‘il Veniente’ [testo greco, passim]: colui che Viene senza posa, e si fa compagno di viaggio - non solo nelle figure eccezionali come il Santo d’Assisi.
Tuttavia già negli anni 80 del primo secolo l’attenzione delle persone impressionabili si stava spostando (purtroppo) sul Ritorno invece che sulla Venuta provvidente - perno della Fede positiva nella vita stessa, che rivela il Volto del Dio-Con.
«Venuta incessante»: è percezione della sua Amicizia nelle cose, anche comuni, nell’Appello dei bisognosi; nel Richiamo delle intuizioni, della Parola, e degli accompagnatori del nostro viaggio.
«Venuta» è: nei traguardi che sorridono, ma persino e forse ancor più negli scogli da vivere - o aggirare, spostando lo sguardo; nelle delusioni, che ci guidano a cercare una gioia meno esteriore.
È «Avvento» del Cristo: l’istinto vocazionale che ci attiva, il senso della fraternità vitale, l’amicizia sensibile di tutti coloro che sanno comprendere, introdurre e coordinare - nonché la predilezione per le relazioni di qualità; la Fiducia nel genio del tempo, persino nelle vicende di tutti i giorni.
In tal guisa e secondo il desiderio del Signore, la buona guida della comunità cristiana si farà servitrice degli smarriti, non si approprierà dei beni della Chiesa, e diverrà vigilante anche in favore altrui.
È fondamentale che i primi della classe non si lascino trascinare dal desiderio adolescenziale di autoaffermarsi, con avidità di privilegi e incetta di mansioni rilevanti.
La fedeltà è atteggiamento richiesto specialmente a coloro che nelle assemblee hanno un compito particolare e preciso, di guida: vietato abusarne!
L’unica smania da cui devono sentirsi presi è quella di affrettare l’ora della Comunione e introdurre un’energia rigeneratrice, anche nei ruoli.
Pietro è però condizionato dal falso insegnamento tradizionale, del tutto antitetico; e non riesce a concepirlo.
Secondo il Maestro, invece, i capi e responsabili di comunità non sono dei privilegiati o eletti esclusivi, bensì coloro cui è chiesto di fare più e meglio - non in favore loro!
Il mondo e la Chiesa hanno bisogno di meno finti padroni - piuttosto, di servitori diligenti e convinti, che attirino per testimonianza diretta. Non per prestigio di titoli e ruoli.
Gente libera.
Unico obbiettivo plausibile del cammino particolare nella potenza del Risorto è di carattere materno e universale: «partorire un mondo nuovo, dove tutti siamo fratelli» [FT n.278].
Dice il Tao (LXVI): «La ragione per cui fiumi e mari possono essere sovrani di cento valli è che ben se ne tengono al disotto: perciò possono essere sovrani di cento valli. Così chi vuol stare disopra al popolo con i detti se ne pone al disotto, chi vuol stare davanti al popolo con la persona ad esso si pospone».
E il maestro Ho shang-Kung commenta: «Il mondo non si sazia del santo, perché costui non contende con gli altri per il primo o l’ultimo posto».
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Nella tua comunità hai incontrato servitori o padroni?
Le guide ti aiutano a cercare il balzo, la realizzazione autentica, la gioia interiore?
La prima caratteristica, che il Signore richiede dal servo, è la fedeltà. Gli è stato affidato un grande bene, che non gli appartiene. La Chiesa non è la Chiesa nostra, ma la sua Chiesa, la Chiesa di Dio. Il servo deve rendere conto di come ha gestito il bene che gli è stato affidato. Non leghiamo gli uomini a noi; non cerchiamo potere, prestigio, stima per noi stessi. Conduciamo gli uomini verso Gesù Cristo e così verso il Dio vivente. Con ciò li introduciamo nella verità e nella libertà, che deriva dalla verità. La fedeltà è altruismo, e proprio così è liberatrice per il ministro stesso e per quanti gli sono affidati. Sappiamo come le cose nella società civile e, non di rado, anche nella Chiesa soffrono per il fatto che molti di coloro, ai quali è stata conferita una responsabilità, lavorano per se stessi e non per la comunità, per il bene comune. Il Signore traccia con poche linee un'immagine del servo malvagio, il quale si mette a gozzovigliare e a percuotere i dipendenti, tradendo così l'essenza del suo incarico. In greco, la parola che indica "fedeltà" coincide con quella che indica "fede". La fedeltà del servo di Gesù Cristo consiste proprio anche nel fatto che egli non cerca di adeguare la fede alle mode del tempo. Solo Cristo ha parole di vita eterna, e queste parole dobbiamo portare alla gente. Esse sono il bene più prezioso che ci è stato affidato. Una tale fedeltà non ha niente di sterile e di statico; è creativa. Il padrone rimprovera il servo, che aveva nascosto sottoterra il bene consegnatogli per evitare ogni rischio. Con questa apparente fedeltà il servo ha in realtà accantonato il bene del padrone, per potersi dedicare esclusivamente ai propri affari. Fedeltà non è paura, ma è ispirata dall'amore e dal suo dinamismo. Il padrone loda il servo, che ha fatto fruttificare i suoi beni. La fede richiede di essere trasmessa: non ci è stata consegnata soltanto per noi stessi, per la personale salvezza della nostra anima, ma per gli altri, per questo mondo e per il nostro tempo. Dobbiamo collocarla in questo mondo, affinché diventi in esso una forza vivente; per far aumentare in esso la presenza di Dio.
[Papa Benedetto, omelia per l’ordinazione episcopale 12 settembre 2009]
3. - “...come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire” (Mt 20,28).
Gesù è davvero il modello perfetto del “servo” di cui parla la Scrittura. Egli è colui che s’è spogliato radicalmente di sé per assumere “la condizione di servo” (Fil 2,7), e dedicarsi totalmente alle cose del Padre (cfr Lc 2,49), quale Figlio prediletto in cui il Padre si compiace (cfr Mt 17,5). Gesù non è venuto per esser servito, “ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (Mt 20,28); ha lavato i piedi dei suoi discepoli e ha obbedito al progetto del Padre fino alla morte e alla morte di cro- ce (cfr Fil 2,8). Per questo il Padre stesso lo ha esaltato dandogli un no- me nuovo e facendolo Signore del cielo e della terra (cfr Fil 2,9-11).
Come non leggere nella vicenda del “servo Gesù” la storia d’ogni vocazione, quella storia pensata dal Creatore per ogni essere umano, storia che inevitabilmente passa attraverso la chiamata a servire e culmina nella scoperta del nome nuovo, pensato da Dio per ciascuno? In tale “nome” ciascuno può cogliere la propria identità, orientandosi verso una realizzazione di se stesso che lo renderà libero e felice. Come non leggere, in particolare, nella parabola del Figlio, Servo e Signore, la storia vocazionale di chi è da Lui chiamato a seguirlo più da vicino, ad esser cioè servo nel ministero sacerdotale o nella consacrazione religiosa? In effetti, la vocazione sacerdotale o religiosa è sempre, per natura sua, vocazione al servizio generoso a Dio e al prossimo.
Il servizio diventa allora via e mediazione preziosa per giungere a meglio comprendere la propria vocazione. La diakonia è vero e proprio itinerario pastorale vocazionale (cfr Nuove vocazioni per una nuova Europa, 27c).
[Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la XL Giornata Mondiale per le Vocazioni, 11 maggio 2003]
Nell’odierna pagina del Vangelo (Lc 12,32-48), Gesù parla ai suoi discepoli dell’atteggiamento da assumere in vista dell’incontro finale con Lui, e spiega come l’attesa di questo incontro deve spingere ad una vita ricca di opere buone. Tra l’altro dice: «Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma» (v. 33). E’ un invito a dare valore all’elemosina come opera di misericordia, a non riporre la fiducia nei beni effimeri, a usare le cose senza attaccamento ed egoismo, ma secondo la logica di Dio, la logica dell’attenzione agli altri, la logica dell’amore. Noi possiamo, essere tanto attaccati al denaro, avere tante cose, ma alla fine non possiamo portarle con noi. Ricordatevi che “il sudario non ha tasche”.
L’insegnamento di Gesù prosegue con tre brevi parabole sul tema della vigilanza. Questo è importante: la vigilanza, essere attenti, essere vigilanti nella vita. La prima è la parabola dei servi che aspettano nella notte il ritorno del padrone. «Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli» (v. 37): è la beatitudine dell’attendere con fede il Signore, del tenersi pronti, in atteggiamento di servizio. Egli si fa presente ogni giorno, bussa alla porta del nostro cuore. E sarà beato chi gli aprirà, perché avrà una grande ricompensa: infatti il Signore stesso si farà servo dei suoi servi - è una bella ricompensa - nel grande banchetto del suo Regno passerà Lui stesso a servirli. Con questa parabola, ambientata di notte, Gesù prospetta la vita come una veglia di attesa operosa, che prelude al giorno luminoso dell’eternità. Per potervi accedere bisogna essere pronti, svegli e impegnati al servizio degli altri, nella consolante prospettiva che, “di là”, non saremo più noi a servire Dio, ma Lui stesso ci accoglierà alla sua mensa. A pensarci bene, questo accade già ogni volta che incontriamo il Signore nella preghiera, oppure nel servire i poveri, e soprattutto nell’Eucaristia, dove Egli prepara un banchetto per nutrirci della sua Parola e del suo Corpo.
La seconda parabola ha come immagine la venuta imprevedibile del ladro. Questo fatto esige una vigilanza; infatti Gesù esorta: «Tenetevi pronti, perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (v. 40). Il discepolo è colui che attende il Signore e il suo Regno. Il Vangelo chiarisce questa prospettiva con la terza parabola: l’amministratore di una casa dopo la partenza del padrone. Nel primo quadro, l’amministratore esegue fedelmente i suoi compiti e riceve la ricompensa. Nel secondo quadro, l’amministratore abusa della sua autorità e percuote i servi, per cui, al ritorno improvviso del padrone, verrà punito. Questa scena descrive una situazione frequente anche ai nostri giorni: tante ingiustizie, violenze e cattiverie quotidiane nascono dall’idea di comportarci come padroni della vita degli altri. Abbiamo un solo padrone a cui non piace farsi chiamarsi “padrone” ma “Padre”. Noi tutti siamo servi, peccatori e figli: Lui è l’unico Padre.
Gesù oggi ci ricorda che l’attesa della beatitudine eterna non ci dispensa dall’impegno di rendere più giusto e più abitabile il mondo. Anzi, proprio questa nostra speranza di possedere il Regno nell’eternità ci spinge a operare per migliorare le condizioni della vita terrena, specialmente dei fratelli più deboli. La Vergine Maria ci aiuti ad essere persone e comunità non appiattite sul presente, o, peggio, nostalgiche del passato, ma protese verso il futuro di Dio, verso l’incontro con Lui, nostra vita e nostra speranza.
[Papa Francesco, Angelus 7 agosto 2016]
Lampade accese, partire subito
(Lc 12,35-38)
Per far comprendere cosa significa essere preparati per partire immediatamente, Gesù sollecita il nostro accorgersi, le capacità di percezione.
Egli non spegne l’attitudine al giudizio inedito, e guadagna stupore.
Perché i ruoli s’invertono d’improvviso - quindi bisogna essere aperti alla fiducia: chi pare piccolo diventa “grande” in modo repentino.
La religione antica trascina i problemi, e fa ammalare, inculcando lo spirito di sottomissione e fatica, a salario. E lo schiavo resta tale.
Servitore e padrone sono viceversa in relazione di reciprocità e invertono incessantemente i ruoli.
Come dice Lc, il Signore stesso «si cingerà e li farà adagiare [posizione dei signori del tempo durante i banchetti solenni] e passando li servirà» come fosse un «diacono» (v.37 testo greco).
Ciò attiva una vigilanza totale, pronta a smuovere l’intera persona, i territori (Fratelli Tutti, n.1: «al di là del luogo del mondo»), le gerarchie.
Chi si sentiva “impiegato” diventa “direttore” e protagonista: acquisisce attitudine alla pienezza.
Nel Regno di Dio le forme di vita cambiano.
Nelle religioni senza il passo della Fede - viceversa - si consolidano le nomenclature.
Nella Chiesa non si tesoreggia, perché il nostro cuore non vive di mondanità e competizioni: i beni vengono trasformati in relazione e possibilità d’incontro.
Cristo ha mostrato la Via dell’autentico arricchimento. Così ci ha trasformati in esseri forse inquieti, ma alacri.
Non riusciamo neppure a riposare in modo tranquillo: abbiamo un passo che sorvola.
Infatti sembra stranissimo che questo Padrone non giunga all’orario previsto. Invece Cristo vuol essere reinterpretato.
Tale condizione è per noi fonte di crescita: accentua la vigilanza sugli accadimenti, le pieghe della storia; sul senso degli incontri, i moti dell'anima; così via.
Quindi la vita nello Spirito sfida e arricchisce il lato esuberante della personalità, accentuando le più singolari occasioni d’inedito.
Il «maggiordomo» posto a servizio della Casa di Dio e dei fratelli ha il compito di aiutare il discernimento dinamico, e il dovere di sostenerlo.
Il suo servizio in favore altrui sarà a tutto tondo, perché ciascuno possa corrispondere alla Chiamata e procedere sulle proprie gambe.
‘Beati’ allora saremo (v.38) senza condizione, ma con la cintura ai fianchi, ossia con l’atteggiamento di chi lascia una terra di schiavitù.
«Era ben consapevole di ciò la primitiva comunità cristiana che si considerava quaggiù "forestiera" e chiamava i suoi nuclei residenti nelle città "parrocchie", che significa appunto colonie di stranieri [in greco pàroikoi] (cfr 1Pt 2, 11). In questo modo i primi cristiani esprimevano la caratteristica più importante della Chiesa, che è appunto la tensione verso il cielo» [Papa Benedetto, Angelus 12 agosto 2007]
[Martedì 29.a sett. T.O. 21 Ottobre 2025]
Christianity cannot be, cannot be exempt from the cross; the Christian life cannot even suppose itself without the strong and great weight of duty [Pope Paul VI]
Il Cristianesimo non può essere, non può essere esonerato dalla croce; la vita cristiana non può nemmeno supporsi senza il peso forte e grande del dovere [Papa Paolo VI]
The horizon of friendship to which Jesus introduces us is the whole of humanity [Pope Benedict]
L’orizzonte dell’amicizia in cui Gesù ci introduce è l’umanità intera [Papa Benedetto]
However, the equality brought by justice is limited to the realm of objective and extrinsic goods, while love and mercy bring it about that people meet one another in that value which is man himself, with the dignity that is proper to him (Dives in Misericordia n.14)
L'eguaglianza introdotta mediante la giustizia si limita però all’ambito dei beni oggettivi ed estrinseci, mentre l'amore e la misericordia fanno si che gli uomini s'incontrino tra loro in quel valore che è l'uomo stesso, con la dignità che gli è propria (Dives in Misericordia n.14)
The Church invites believers to regard the mystery of death not as the "last word" of human destiny but rather as a passage to eternal life (Pope John Paul II)
La Chiesa invita i credenti a guardare al mistero della morte non come all'ultima parola sulla sorte umana, ma come al passaggio verso la vita eterna (Papa Giovanni Paolo II)
The saints: they are our precursors, they are our brothers, they are our friends, they are our examples, they are our lawyers. Let us honour them, let us invoke them and try to imitate them a little (Pope Paul VI)
I santi: sono i precursori nostri, sono i fratelli, sono gli amici, sono gli esempi, sono gli avvocati nostri. Onoriamoli, invochiamoli e cerchiamo di imitarli un po’ (Papa Paolo VI)
Man rightly fears falling victim to an oppression that will deprive him of his interior freedom, of the possibility of expressing the truth of which he is convinced, of the faith that he professes, of the ability to obey the voice of conscience that tells him the right path to follow [Dives in Misericordia, n.11]
L'uomo ha giustamente paura di restar vittima di una oppressione che lo privi della libertà interiore, della possibilità di esternare la verità di cui è convinto, della fede che professa, della facoltà di obbedire alla voce della coscienza che gli indica la retta via da seguire [Dives in Misericordia, n.11]
We find ourselves, so to speak, roped to Jesus Christ together with him on the ascent towards God's heights (Pope Benedict)
Ci troviamo, per così dire, in una cordata con Gesù Cristo – insieme con Lui nella salita verso le altezze di Dio (Papa Benedetto)
Church is a «sign». That is, those who looks at it with a clear eye, those who observes it, those who studies it realise that it represents a fact, a singular phenomenon; they see that it has a «meaning» (Pope Paul VI)
La Chiesa è un «segno». Cioè chi la guarda con occhio limpido, chi la osserva, chi la studia si accorge ch’essa rappresenta un fatto, un fenomeno singolare; vede ch’essa ha un «significato» (Papa Paolo VI)
Let us look at them together, not only because they are always placed next to each other in the lists of the Twelve (cf. Mt 10: 3, 4; Mk 3: 18; Lk 6: 15; Acts 1: 13), but also because there is very little information about them, apart from the fact that the New Testament Canon preserves one Letter attributed to Jude Thaddaeus [Pope Benedict]
don Giuseppe Nespeca
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