Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!
Prima Domenica di Quaresima (anno C) 9 Marzo 2025
*Prima Lettura dal Libro del Deuteronomio (26, 4 – 10)
Mosè ordina un gesto di offerta, come avviene in tutte le religioni, ma per Israele si tratta di una reale professione di fede: “Prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole”. Segue poi un intero discorso sull’opera di Dio a favore del suo popolo, che si potrebbe riassumere in una semplice frase: tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che siamo, è dono di Dio. Questa è la grande novità di tutta la Bibbia specialmente del libro del Deuteronomio. Se nelle religioni il rito dell’offerta è un gesto di richiesta alle divinità di benefici che loro possiedono, per Israele avviene il ribaltamento del senso del rito perché quest’offerta è un atto di gratitudine. Offrire i doni non significa concedere a Dio qualcosa che ci appartiene, ma riconoscere che tutto è suo dono e non ci presentiamo a lui con le mani piene di ricchezze nostre; anzi riconosciamo che senza di Lui le nostre mani resterebbero vuote. In questo spirito, portare le proprie offerte diventa un gesto di memoria. Il libro del Deuteronomio insiste su questa pratica forse perché il popolo sembrava aver in parte dimenticato Dio e i suoi benefici. Nel deserto Israele aveva ben compreso che la sua sopravvivenza dipendeva da Dio e solo da Lui. Giunto però nella terra promessa (la terra di Canaan, l’Israele di oggi) correva il rischio di dimenticare il vero Dio essendovi diffusi culti delle popolazioni locali adoranti Baal e il serio rischio della contaminazione da parte dell’idolatria costituiva una minaccia alla vera fede. I profeti hanno sempre cercato di mantenere la fedeltà all’Alleanza del Sinai (cf Es 20,2), ripetendo che c’è un solo Dio, il Dio di Mosè, che ha liberato il suo popolo dalla mano degli Egiziani, lo ha accompagnato lungo tutta la sua storia e, infine, gli ha donato la terra promessa. Sembra proprio che la preoccupazione del nostro testo sia quella di conservare la memoria di quanto Dio ha compiuto e, in realtà, il libro del Deuteronomio potrebbe essere definito il libro della memoria. Il rito dell’offerta delle primizie è pertanto soprattutto un gesto di memoria, accompagnato dall’enumerazione delle opere compiute da Dio a favore del suo popolo. Nella parola “primizie” è contenuta l’idea di “primo”, i primi frutti del nuovo raccolto, i primi covoni di grano, i primi grappoli d’uva, il primo nato della nuova cucciolata. Tutto questo costituisce l’inizio e la promessa: pesando il primo covone, il primo grappolo, si poteva capire se il raccolto sarebbe stato abbondante e il rito di offerta esisteva già ai tempi di Caino e Abele per ottenere le benedizioni della divinità. Mosè ne aveva trasformato il significato: da quel momento in poi, tutto veniva vissuto in funzione dell’Alleanza e per questo si capisce il discorso che accompagna l’offerta. Non si domandano a Dio benefici per il futuro, ma si riconoscono quelli avuti sin dalla chiamata di Abramo e il rito diventa una professione di fede che costituisce un riassunto della storia di Israele: «Mio padre era un Arameo errante…». Tutto iniziò con Abramo, l’Arameo scelto da Dio per diventare il padre del popolo dell’Alleanza: un nomade “errante” nel senso che, prima della sua chiamata da parte di Dio, non aveva ancora scoperto l’unico Dio, errante quindi in senso spirituale. La frase che segue «Mio padre era un Arameo errante, che scese in Egitto», non si riferisce più ad Abramo, il capostipite, ma al suo discendente Giacobbe: lui e i suoi figli si stabilirono in Egitto. Segue tutta la storia, fino all’ingresso nella terra promessa. A questo punto, il gesto dell’offerta assume il suo pieno significato: offrendo il primo covone, il primo grappolo, è come se si presentasse a Dio tutto il raccolto. L’ offertorio nella Messa ha lo stesso significato: riconoscere che tutto è dono di Dio: «Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questi doni: a ben vedere prepariamo e offriamo doni a Dio che non sono nostri ma suoi.
* Salmo Responsoriale 90 (91), 1-2, 10-11, 12-13, 14-15
Il salmo si presenta come un dialogo a tre voci. Israele dice: “Chi abita al riparo dell’Altissimo passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente. Io dico al Signore: «Mio rifugio mia fortezza, mio Dio in cui confido”. I sacerdoti all’ingresso del Tempio proclamano: “Non ti potrà colpire la sventura, nessun colpo cadrà sulla tua tenda”. Infine interviene Dio stesso: “Lo libererò, perché a me si è legato, lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome.”. Nei primi versetti, se si fa attenzione, vengono dati quattro nomi diversi a Dio: l’Altissimo (Elyôn), l’Onnipotente (El Shaddai), il Signore (YHWH) e infine Dio (Elohim). Le divinità degli altri popoli utilizzano tre di questi nomi: l’Altissimo, l’Onnipotente ed Elohim. Israele riprende questi termini comuni per designare il proprio Dio, ma è l’unico popolo al mondo a poterlo chiamare con il quarto, il famoso Nome rivelato a Mosè nel roveto ardente: YHWH. Come dice Dio stesso nel libro dell’Esodo: «Mi sono rivelato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe come Dio Onnipotente (El Shaddai), ma con il mio nome, YHWH, non mi sono fatto conoscere da loro» (Es 6,3). Questi primi versetti sviluppano il tema della sicurezza del credente con l’abbraccio dell’Altissimo all’ombra dell’Onnipotente. Nel linguaggio dei salmi, l’abbraccio dell’Altissimo richiama il Tempio di Gerusalemme e l’ombra è quella delle ali delle statue dei cherubini che sovrastano l’arca dell’Alleanza. C’è però anche un’allusione alla presenza protettrice di Dio lungo tutto l’Esodo. Come annotano gli esegeti le «ali» richiamano quelle dell’aquila che incoraggia i primi voli dei suoi piccoli (Dt 32,10-11; cf. Es 19,4). E l’angelo Gabriele dirà alla Vergine di Nazaret: “Su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo” (Lc 1,35). I termini “mio rifugio, mia fortezza, mio Dio in cui confido” esprimono una professione di fede e indicano una risoluzione contro l’idolatria che esige sempre l’impegno a non abbandonare l’abbraccio dell’Altissimo. Gesù è colui che non smette mai di rifugiarsi in Dio, come vediamo oggi nel vangelo delle tentazioni di Gesù. Insomma la lotta contro l’idolatria è un tema che attraversa tutta la Bibbia ed è un punto centrale della predicazione dei profeti. Anche in questo nostro tempo c’è da riflettere perché l’idolatria assume volti diversi e sempre nuovi. Nel salmo seguono due strofe che sono una sorta di catechesi rivolta dai sacerdoti a ogni pellegrino nel Tempio di Gerusalemme: “non ti potrà colpire la sventura, nessun colpo cadrà sulla tua tenda” se tu resti sotto l’ombra dell’Altissimo perché Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutte le tue vie. Calpesterai leoni e vipere, schiaccerai leoncelli e draghi. Duplice è il messaggio: certa è la vittoria - calpesterai leoni e draghi - e a garantirla è Dio che non cesserà mai di proteggere il suo popolo che darà ordine agli angeli di custodire tutti i passi del pellegrino, anzi lo porteranno con le loro mani, perché il suo piede non inciampi nelle pietre. Alla fine, nell’ultima strofa parla Dio: “Lo libererò, perché a me si è legato, lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome. Mi invocherà e io gli darò risposta” Da notare il versetto finale “nell’angoscia io sarò con lui, lo libererò e lo renderò glorioso” che mostra come Israele abbia compreso che Dio non elimina ogni prova con un colpo magico, ma è «con» noi nella difficoltà e nella prova. Nell’angoscia” sarò con lui” è esattamente il significato del nome «Emmanuele», che vuol dire Dio-con-noi. Proposto all’inizio della Quaresima, questo salmo c’invita a trovare rifugio nell’abbraccio dell’Altissimo, frequentando la liturgia nelle nostre chiese dove non c’è più l’arca dell’Alleanza, né le due statue dei cherubini – quegli esseri alati con testa d’uomo e corpo di leone, le cui ali unite formavano un trono per Dio -, ma qualcosa di molto più grande: la Presenza della Santissima Trinità
*Seconda lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (10,8-13)
San Paolo afferma una cosa importante: che siate giudei o pagani non c’è alcuna differenza perché ciò che vi accomuna è l’essere cristiani e invocate tutti lo stesso Signore, generoso verso coloro che lo cercano. Il problema esisteva a Roma come altrove e ci si chiedeva se occorreva trattare allo stesso modo giudei e pagani. Anche se Paolo desiderava che tutti i giudei accogliessero Gesù come il Messia, tuttavia soltanto una minoranza del popolo ebraico aderì a Gesù Cristo, mentre furono i pagani a costituire la parte più numerosa delle comunità cristiane. Si capisce allora che la convivenza tra cristiani di origini così diverse, ebraiche o pagane, poneva non poche difficoltà e nascevano interminabili discussioni su questioni come la Legge, la circoncisione e le norme alimentari. Il problema era più profondo dato che alcuni giudei convertiti al cristianesimo accettavano a malincuore l’ingresso di quelli che chiamavano «gli incirconcisi», essendo Israele il popolo eletto da cui sarebbe nato il Messia. La domanda era la seguente: accogliere i non giudei non è forse tradire l’Alleanza e l’elezione del popolo ebraico? Per Paolo impedire ai pagani di ricevere il battesimo, voleva dire che Gesù salva solo i giudei, mentre nell’ Antico Testamento già il profeta Gioele aveva affermato del Messia: “Effonderò il mio Spirito su ogni uomo. I vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. Anche sui servi e sulle serve, in quei giorni, effonderò il mio Spirito… Allora chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato.» (Gl 3,1-5). Inoltre i contemporanei di Paolo trovavano strano che per essere salvati bastasse invocare il nome di Gesù mentre ritenevano si doveva essere circoncisi e osservare scrupolosamente la Legge. L’Apostolo risponde che, poiché Gesù Cristo è Signore (Dio), d’ora in poi chiunque lo invoca è salvato come lo stesso Cristo disse a Nicodemo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”, precisando proprio chiunque: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.» (Gv 3,16-17) e il termine «mondo» significa chiaramente «tutta l’umanità». L’Apostolo non esita a ripetere: ”se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza”. Nell’Antico Testamento, «ottenere la giustizia» e «essere salvati» significavano la stessa cosa. Inoltre il verbo «credere» non ha qui il senso di un’opinione personale e il parallelo tra «bocca» e «cuore» su cui insiste indica che la fede è un impegno profondo e totale della persona. Così, secondo Paolo, si compie quanto si legge nel libro del Deuteronomio: “Questa parola è molto vicina a te: è nella tua bocca e nel tuo cuore.» Mentre nel Deuteronomio si parla della Legge da osservare, ora questa parola è il messaggio della fede in Gesù Cristo e Paolo ricorda a coloro che hanno ricevuto il battesimo: la salvezza ci è donata gratuitamente da Dio senza alcun nostro merito,; dobbiamo solo accoglierla con fede e libertà: «Se con la tua bocca proclami che Gesù è Signore e se con il tuo cuore credi che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore si crede per ottenere la giustizia, con la bocca si fa professione di fede per avere la salvezza
* Dal Vangelo secondo san Luca (4, 1 – 13)
Se leggiamo questa pagina evangelica alla luce dell’odierno salmo responsoriale, riconosciamo l’attitudine interiore con cui Gesù inizia la sua missione pubblica: “Chi abita al riparo dell’Altissimo passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente. Io dico al Signore: Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio in cui confido”. Gesù si pone all’ombra dell’Altissimo, mentre la tentazione lo spinge a lasciare questo rifugio, a dubitare della sua sicurezza e a cercare altrove ripari e sicurezze: sono proprio queste le tre tentazioni che hanno segnato sempre la storia di Israele e anche la nostra vita. Il diavolo - in greco «diabolos» cioè colui che divide – lo tenta insinuando il dubbio e la sfiducia. Se veramente tu sei il Figlio di Dio, tu puoi fare tutto quello che vuoi e sei in grado da solo di provvedere alla tua felicità. Dì a questa pietra che diventi pane e così sazi subito la tua fame dopo un così lungo digiuno (prima tentazione); adorami e sicuramente potrai realizzare tutti i tuoi disegni e progetti (seconda tentazione). Infine “se tu sei Figlio di Dio, gettati giù di qui; sta scritto infatti: "Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano"; e “ ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra (terza tentazione). Gesù però non cede alle lusinghe sataniche perché è certo che solamente Dio sazia la fame vera dell’uomo e ha scelto di fidarsi, in altri termini, di abitare al riparo dell’Altissimo, come dice il salmo. Più in dettaglio nella prima tentazione, quando il Tentatore lo provoca Gesù risponde: “Sta scritto: "Non di solo pane vivrà l’uomo”, una espressione nota a tutto il popolo ebraico perché è contenuta nel capitolo 8 del Deuteronomio, come una meditazione sull’esperienza d’Israele durante l’esodo sotto la guida di Mosè: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto…ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito con la manna che né tu né i tuoi padri conoscevate, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma di tutto ciò che esce dalla bocca del Signore.” (Dt 8,2-3). Il popolo sa per esperienza cosa significa la beatitudine della povertà: Beati coloro che hanno fame, perché confidano solo in Dio per essere saziati e il Deuteronomio prosegue: «Riconosci dunque nel tuo cuore che il Signore tuo Dio ti educava come un uomo educa suo figlio.» (Dt 8,5). In questo modo Il Figlio di Dio, che ora comincia a guidare il suo popolo, rivive nella sua carne l’esperienza di Israele nel deserto. In altre parole, quando il Tentatore sfida Gesù dicendo: «Se sei Figlio di Dio, dimostralo!», la sua risposta è chiara: Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere le sue opere, come dirà ai discepoli nell’incontro con la Samaritana (cf Gv 4,32-34). Nella seconda tentazione, al Tentatore che gli promette tutti i regni della terra, Gesù risponde: "Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”, citando questo testo fra i più conosciuti dell’Antico Testamento, che segue lo Shema Israel, la professione di fede ebraica (Dt 6,10-13). Nella terza tentazione il diavolo provoca Gesù a gettarsi giù essendo il Figlio di Dio, poiché sta scritto che verranno gli angeli a custodirlo portandolo sulle mani, ma risponde: “È stato detto: "Non metterai alla prova il Signore Dio tuo (Dt 6,16). Il Cristo sa di essere sempre al riparo dell’Altissimo, qualunque cosa accada. Di fronte alle provocazioni del Tentatore Gesù trae dalla parola di Dio la forza per resistere a chi vuole separarlo dal Padre; non discute mai con lui e le tre risposte sono esclusivamente citazioni della Scrittura. In questo si mostra erede autentico del suo popolo e a lui si applica la frase del Deuteronomio, ripresa da san Paolo nella Lettera ai Romani (vedi la seconda lettura): «La Parola è vicino a te, è sulla tua bocca e nel tuo cuore.» (Dt 30,14). Le tre le risposte si richiamano al libro del Deuteronomio, scritto proprio per ricordare agli Israeliti che Dio è loro Padre. Gesù, nella sua vita, ripercorre l’esperienza del suo popolo nel deserto, dal Battesimo, in cui viene rivelato come il Figlio fino al Getsemani dove il Tentatore tornerà per l’ultimo attacco. Leggiamo alla fine del nostro testo: «Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento opportuno, ma Gesù rimarrà sempre sotto l’ombra dell’Altissimo e, con questo episodio, Luca mostra che è Gesù l’unico vero modello da seguire.
+Giovanni D’Ercole
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.
Ecco il commento per le letture di Mercoledì delle Ceneri
5 Marzo 2025 (anno C)
La liturgia del mercoledì delle Ceneri, che apre la Quaresima, era segnata un tempo dall’inizio della penitenza pubblica che si svolgeva quest’oggi e dall’avvio dell’ultimo tratto della formazione dei catecumeni, che si preparavano a ricevere il battesimo nella Veglia Pasquale. A simboleggiare l’invito alla preghiera e alla conversione del cuore, che proclamano i testi della Sacra Scrittura, c’è il rito della cenere, segno di penitenza e di conversione. Si tratta di un “simbolo austero” con cui iniziamo il cammino spirituale della Quaresima riconoscendo che il nostro corpo, formato dalla polvere, ritornerà tale e per questo siamo invitati a rendere la nostra esistenza un sacrificio Dio in unione con la morte di Cristo Gesù. Ciò che illumina il mercoledì delle Ceneri e l’intera Quaresima è l’evento della Risurrezione di Gesù, che celebreremo con rinnovata speranza in quest’anno giubilare. il mercoledì delle ceneri è giorno di penitenza, di digiuno e di elemosina che va intesa come condivisione di ciò che siamo e di ciò che possediamo con i nostri fratellil a gloria di Dio. Questo richiede il coraggio di rinunciare a qualcosa che ci costa per vivere la Quaresima come tempo di vera purificazione interiore
*Prima Lettura dal Libero del profeta Gioele (Gl 2,12-18)
Ritornate al Signore con tutto il cuore! Ecco l’invito che oggi ci lancia il profeta Gioele. Il suo libro è molto breve (contiene in totale settantatré versetti suddivisi in quattro capitoli) ed è collocato intorno all’anno 600 a.C., cioè poco prima dell’esilio a Babilonia. Ci sono tre temi che si intrecciano costantemente: la prospettiva di terribili flagelli, appelli accorati al digiuno e alla conversione, e l’annuncio della salvezza di Dio. Oggi è il secondo tema che la liturgia ci propone all’inizio della Quaresima. Il solenne appello alla conversione spinge a prendere sul serio ciò che segue, cioè l’invito: “Ritornate a me”, e il popolo risponde e supplica: “Perdona, Signore, al tuo popolo e non esporre la tua eredità al ludibrio e alla derisione delle genti”. I profeti insegnano sempre a non accontentarsi di manifestazioni esteriori e anche Gioele non manca di sottolinearlo: “Laceratevi il cuore e non le vesti e ritornate al Signore, vostro Dio, perché egli è misericordioso”. Questo afferma Isaia: “Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto: le vostre mani sono piene di sangue. Lavatevi, purificatevi. Allontanate dai miei occhi le vostre azioni malvagie cessate di fare il male. Imparate a fare il bene, ricercate la giustizia…” (Is 1,14-17). E il Salmo 50/51 commenta “Il sacrificio che piace a Dio è uno spirito contrito; un cuore affranto e umiliato, o Dio, tu non lo disprezzi”. Il profeta Ezechiele ci aiuta a comprendere cosa vuol dire il salmista: bisogna cioè spezzare i nostri cuori di pietra affinché possa emergere il cuore di carne e il profeta Gioele segue questa linea quando invita a lacerare i cuori e non le vesti per sfuggire a un castigo meritato. Scrive infatti: “chi sa che Dio non cambi e si ravveda e lasci dietro a sé una benedizione?” E conclude annunciando che il perdono è già stato concesso. La traduzione liturgica dice: “Il Signore si mostra geloso per la sua terra” avendo avuto pietà del suo popol, ma la misericordia di Dio è destinata a tutti gli uomini, ed è proprio questo il messaggio che troviamo nel libro di Giona molto affine a quello di Gioele. Giona infatti narra la conversione di Ninive, la città pagana che aveva percorso un giorno di cammino proclamando: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta”, e gli abitanti credettero subito in Dio. Proclamarono un digiuno e si vestirono di sacco, grandi e piccoli. Persino il re di Ninive depose il manto regale, si coprì di sacco e si sedette sulla cenere e quindi proclamò lo stato d’allerta e fece annunciare che tutti in Ninive si dovevano coprire di sacco e invocare Dio con forza. Dio vide la loro conversione e revocò il castigo che aveva minacciato di infliggere (Gn 3,4-10). Il segreto è che Dio trabocca di zelo e di amore, come ricorda Gioele, per tutti gli uomini, e san Paolo dirà: “Dio dimostra il suo amore per noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8).
*Salmo responsoriale (50 (51). Perdonaci, Signore: abbiamo peccato
Uniamoci anche noi al popolo d’Israele riunito nel Tempio di Gerusalemme per una grande celebrazione penitenziale. Sa di essere pieno di peccati, ma conosce per esperienza che la misericordia di Dio è inesauribile e allora chiede perdono con la certezza di essere esaudito. Fu proprio questa la scoperta del re Davide dopo aver peccato con Betsabea, sposa di un ufficiale, Uria, che in quel momento era in guerra. Betsabea fece sapere a Davide di essere incinta di lui e Davide organizzò la morte in battaglia del marito tradito, così da poter prendere definitivamente per sé la donna e il bambino che portava in grembo. Il profeta Natan non cercò subito di far ammettere a Davide il suo peccato, ma gli ricordò anzitutto i molti doni di Dio e gli annunciò il perdono prima ancora che Davide avesse il tempo di confessare la sua colpa (cf 2 Samuele 12). Oltre tutti i doni e privilegi che Dio gli aveva concesso, aggiunse pure che il Signore era pronto ad accordargli tutto ciò che desiderava. Nel corso della storia, Israele ha avuto occasione di registrare che Dio è davvero “il Signore misericordioso e benevolo, lento all’ira, ricco di fedeltà e di lealtà”, come aveva rivelato a Mosè nel deserto (Es 34,6). Anche i profeti hanno ribadito questo messaggio, e i versetti del Salmo 50/51 ne sono pieni. Isaia, ad esempio, dice: “Io, io solo cancello le tue colpe per amore di me stesso e non ricordo più i tuoi peccati” (Is 43,25). L’annuncio del perdono gratuito di Dio ci sorprende sempre: ci sembra quasi troppo bello per essere vero. Per alcuni, addirittura, può sembrare ingiusto: se tutto è perdonabile, perché sforzarsi di vivere bene? Ma questo significa dimenticare che tutti, senza eccezione, abbiamo bisogno della misericordia di Dio e lui ci sorprende, poiché, come dice Isaia, i pensieri di Dio non sono i nostri pensieri. E proprio nel perdono Dio ci sorprende di più. Pensiamo alla parabola evangelica degli operai dell’ultima ora: «Non posso fare delle mie cose quello che voglio? O sei invidioso perché io sono buono?» (cf Mt 20,15), a quella del figliol prodigo (Lc 15): quando il figlio ingrato ritorna dal padre, animato da motivazioni tutt’altro che nobili, Gesù mette sulle sue labbra una frase del Salmo 50: “Contro di te, contro te solo ho peccato”. E con questa sola frase, il legame spezzato viene riallacciato. Davanti all’annuncio sempre nuovo della misericordia di Dio, il popolo d’Israele, che nei Salmi parla a nome di tutti noi, si riconosce peccatore. Il suo pentimento non è dettagliato, non lo è mai nei Salmi penitenziali, ma esprime tutto in una semplice supplica: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro”. E Dio, che è tutta misericordia, attratto dalla miseria dell’uomo, non aspetta altro che questa umile confessione della nostra povertà. Ed è utile ricordare che “pietà” ha la stessa radice di “elemosina” e questo ci ricorda che siamo mendicanti di amore e di perdono davanti a Dio. Cosa fare allora: ringraziare e perdonare. Ringraziare per il perdono che Dio ci offre continuamente. In ogni celebrazione penitenziale, la preghiera più importante è il riconoscimento dei doni e del perdono di Dio. Prima di tutto, dobbiamo contemplare Dio stesso, e solo dopo possiamo riconoscerci peccatori. Il rito della Riconciliazione afferma chiaramente che confessiamo l’amore di Dio insieme al nostro peccato e la lode scaturirà spontanea dalle nostre labbra: “Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclamerà la tua lode” (questa è la frase che apre la Liturgia delle Ore, ogni mattina ed è tratta proprio dal Salmo 50/51) in cui viene ricordato che la lode e la gratitudine nascono in noi solo se Dio apre il nostro cuore e le nostre labbra. E il secondo passo che Dio si aspetta da noi e costituisce il programma ascetico di tutta la vita è l’impegno a perdonare a nostra volta, senza indugi né condizioni.
*Seconda Lettura dalla Seconda Lettera di san Paolo ai Corinti (5,20-6,2)
“Lasciatevi riconciliare con Dio”! Paolo parla di riconciliazione ben consapevole della rottura dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Nell’Antico Testamento il popolo sapeva che Dio non è in contrasto con gli uomini, come il Salmo 102/103 esprime chiaramente:”Il Signore non è sempre in lite, non conserva per sempre il suo sdegno; non ci tratta secondo i nostri peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe… Quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe… Egli sa di che siamo plasmati, ricorda che siamo polvere”. Ugualmente leggiamo in Isaia: “L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore, che avrà misericordia di lui, al nostro Dio, che largamente perdona” (Is 55,7), nel Libro della Sapienza: “Hai compassione di tutti, perché tutto puoi, e chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento… La tua sovranità su tutti ti rende indulgente verso tutti” (Sap 11,23; 12,16). Davide fece questa esperienza quando uccise Uria, marito di Betsabea e Dio gli inviò il profeta Natan che in sostanza questo gli comunicò: Tutto ciò che hai, te l’ho dato io; e se non fosse ancora abbastanza, sarei pronto a darti ancora tutto ciò che desideri. Dio non ignorava neppure che Salomone aveva ottenuto il trono eliminando i suoi rivali, eppure ascoltò la sua preghiera a Gabaon ed esaudì le sue richieste ben oltre ciò che il giovane re aveva osato domandare (1 Re 3). Ma c’è di più: il Nome stesso di Dio, “Misericordioso”, significa che ci ama tanto più quanto più siamo miseri. Dunque, Dio non è in lite con l’uomo. Eppure Paolo parla di riconciliazione, perché fin dall’inizio del mondo (Paolo dice «da Adamo», ma è la stessa cosa), è l’uomo che è in conflitto con Dio. Il racconto della Genesi (Gn 2-3) attribuisce al serpente l’origine di questa accusa contro Dio perché è geloso dell’uomo e non vuole il suo bene.: “Dio sa che quando ne mangerete, i vostri occhi si apriranno e sarete come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gn 3,4) La Bibbia lascia intendere che questo sospetto non è naturale nell’uomo—è la voce del serpente, e dunque può essere curato. È proprio questo afferma san Paolo: “Fratelli, noi, in nome di Cristo, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio”. E che cosa ha fatto Dio per rimuovere dal nostro cuore questa diffidenza? Continua l’apostolo: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore” (2 Cor 5,21). Gesù non ha conosciuto il peccato anzi, come leggiamo nella lettera ai Filippesi, Gesù si fece obbediente (Fil 2,8), e rimase sempre fiducioso, anche nella sofferenza e nella morte. Per questo insegna agli uomini questa fiducia e rivela che Di è tutto amore e perdono: è Misericordia. Per un paradosso incredibile Gesù per questa rivelazione fu considerato un bestemmiatore, trattato da peccatore e giustiziato come un maledetto (cf Dt 21,23). L’odio e la cecità degli uomini si abbatterono su di lui e il Padre lasciò fare, perché questo era l’unico modo per farci toccare con mano fin dove “il Signore si mostra geloso per la sua terra e si muove a compassione del suo popolo” come afferma il profeta Gioele. Gesù ha affrontato il peccato degli uomini, la violenza, l’odio, il rifiuto di un Dio che è Amore e sulla croce appare fin dove arriva l’orrore del peccato umano e fin dove arrivano la dolcezza e il perdono di Dio. Ed è proprio da questa contemplazione che può nascere la nostra conversione, quella che Paolo chiama “giustificazione”. “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”, leggiamo nel libro del profeta Zaccaria (Zc 12,10), ripreso da Giovanni (Gv 19,37). In Gesù morente che perdona i suoi carnefici scopriamo il volto stesso di Dio («Chi ha visto me ha visto il Padre» Gv 14,9) e, grazie a lui, siamo riconciliati da Dio. Compito dei battezzati è annunciare e testimoniare quest’amore, alla scuola di Paolo che grida: “Noi siamo ambasciatori di Cristo”, missione che coinvolge ognuno di noi. Chiude questo breve testo una citazione del profeta Isaia “Al momento favorevole ti ho esaudito
e nel giorno della salvezza ti ho soccorso” che parlava agli esuli a Babilonia, annunciando loro che l’ora della salvezza era giunta. Mentre Israele doveva annunciare la liberazione, perché le false immagini di Dio imprigionano il cuore degli uomini, Gesù Cristo ha affidato alla sua Chiesa la missione di annunciare al mondo la remissione dei peccati.
*Dal Vangelo secondo Matteo (6, 1-6. 16-18)
Il vangelo oggi riporta due brevi tratti del Discorso della Montagna, che occupa i capitoli 5-7 del Vangelo di Matteo. Tutto il discorso ruota attorno a un nucleo centrale che è il Padre Nostro (Mt 6,9-13), la preghiera che dà senso a tutto il resto. Questo indica che le esortazioni, qui riportate, non sono semplici consigli morali, bensì conducono al cuore della fede e il messaggio è il seguente: tutte le nostre azioni devono radicarsi nella scoperta che Dio è Padre. Preghiera, elemosina e digiuno non sono quindi solo pratiche religiose, ma strade per avvicinarci al Dio-Padre: Digiunare significa imparare a spostare il centro da noi stessi e con la preghiera centriamo la nostra vita su Dio mentre l’elemosina apre il nostro cuore ai fratelli. Per tre volte Gesù usa espressioni che invitano a non essere come coloro che amano mettersi in mostra. Avevano certamente grande importanza le pratiche religiose nella società ebraica dell’epoca e il rischio era quello di dare troppo valore alle manifestazioni esteriori come taluni facevano. Matteo ricorda i rimproveri di Gesù a coloro che badavano più alla lunghezza delle loro frange che alla misericordia e alla fedeltà (Mt 23,5ss). Qui, Gesù invita i suoi discepoli a un’autentica purificazione interiore perché per essere veramente giusti bisogna evitate di agire davanti agli uomini per essere ammirati da loro. La giustizia era un tema fondamentale per i credenti e nelle Beatitudinine Gesù ne parla due volte: “Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati.” (Mt 5,6) “Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il Regno dei cieli.” (Mt 5,10) Ma nel linguaggio biblico, la vera giustizia non consiste nell’accumulare pratiche religiose, per quanto possano essere nobili. Vera giustizia è essere in armonia con il progetto di Dio come già leggiamo nella Genesi: “Abramo credette al Signore, e per questo il Signore lo considerò giusto.” (Gen 15,6). Non quindi una giustizia che è moralismo, bensì una sintonia e un accordo profondo con Dio. Preghiera, digiuno, elemosina diventano tre vie per vivere la giustizia: Nella preghiera, lasciamo che Dio ci plasmi secondo il suo progetto:“Sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà.”E proprio per questo, Gesù raccomanda: “Quando pregate, non sprecate parole come fanno i pagani; il Padre vostro sa di cosa avete bisogno prima ancora che glielo chiediate.” (Mt 6,7-8) Il digiuno è sulla stessa linea: ci libera dall’illusione di ciò che crediamo essenziale per essere felici, ma che spesso finisce per imprigionarci. Gesù stesso, digiunando nel deserto, risponde a satana:“Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio.” (Mt 4,4) L’elemosina è il frutto del nostro cammino di giustizia, perché ci rende misericordiosi.Non a caso, il termine greco per elemosina deriva dalla stessa radice di eleison («abbi pietà») e fare elemosina significa aprire il cuore alla compassione. Poiché Dio ama tutti i suoi figli non ci può essere vera giustizia senza giustizia sociale. E questo lo vediamo chiaramente nel giudizio finale: “Venite, benedetti del Padre mio… Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare…”E alla fine:“I giusti andranno alla vita eterna.” (Mt 25,31-46). In definitiva coloro che ostentano sono in contrasto con la vera giustizia perché mostrano una forma sottile di egoismo spirituale, un modo per rimanere centrati su sé stessi. E il vero dramma è che questo atteggiamento ci chiude il cuore all’azione santificatrice dello Spirito.
+Giovanni D’Ercole
The liturgy interprets for us the language of Jesus’ heart, which tells us above all that God is the shepherd (Pope Benedict)
La liturgia interpreta per noi il linguaggio del cuore di Gesù, che parla soprattutto di Dio quale pastore (Papa Benedetto)
In the heart of every man there is the desire for a house [...] My friends, this brings about a question: “How do we build this house?” (Pope Benedict)
Nel cuore di ogni uomo c'è il desiderio di una casa [...] Amici miei, una domanda si impone: "Come costruire questa casa?" (Papa Benedetto)
Try to understand the guise such false prophets can assume. They can appear as “snake charmers”, who manipulate human emotions in order to enslave others and lead them where they would have them go (Pope Francis)
Chiediamoci: quali forme assumono i falsi profeti? Essi sono come “incantatori di serpenti”, ossia approfittano delle emozioni umane per rendere schiave le persone e portarle dove vogliono loro (Papa Francesco)
Every time we open ourselves to God's call, we prepare, like John, the way of the Lord among men (John Paul II)
Tutte le volte che ci apriamo alla chiamata di Dio, prepariamo, come Giovanni, la via del Signore tra gli uomini (Giovanni Paolo II)
Paolo VI stated that the world today is suffering above all from a lack of brotherhood: “Human society is sorely ill. The cause is not so much the depletion of natural resources, nor their monopolistic control by a privileged few; it is rather the weakening of brotherly ties between individuals and nations” (Pope Benedict)
Paolo VI affermava che il mondo soffre oggi soprattutto di una mancanza di fraternità: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (Papa Benedetto)
Dear friends, this is the perpetual and living heritage that Jesus has bequeathed to us in the Sacrament of his Body and his Blood. It is an inheritance that demands to be constantly rethought and relived so that, as venerable Pope Paul VI said, its "inexhaustible effectiveness may be impressed upon all the days of our mortal life" (Pope Benedict)
Questa, cari amici, è la perpetua e vivente eredità che Gesù ci ha lasciato nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Eredità che domanda di essere costantemente ripensata, rivissuta, affinché, come ebbe a dire il venerato Papa Paolo VI, possa “imprimere la sua inesauribile efficacia su tutti i giorni della nostra vita mortale” (Papa Benedetto)
The road that Jesus points out can seem a little unrealistic with respect to the common mindset and to problems due to the economic crisis; but, if we think about it, this road leads us back to the right scale of values (Pope Francis)
La strada che Gesù indica può sembrare poco realistica rispetto alla mentalità comune e ai problemi della crisi economica; ma, se ci si pensa bene, ci riporta alla giusta scala di valori (Papa Francesco)
Our commitment does not consist exclusively of activities or programmes of promotion and assistance; what the Holy Spirit mobilizes is not an unruly activism, but above all an attentiveness that considers the other in a certain sense as one with ourselves (Pope Francis)
Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione (Papa Francesco)
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
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