don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Martedì, 29 Luglio 2025 05:36

18a Domenica T.O. (anno C)

XVIII Domenica del Tempo Ordinario (anno C)  [3 agosto 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Nel cuore delle vacanze la Parola di Dio ci provoca a dare senso vero alla vita.

 

*Prima Lettura dal libro di Qoèlet (1,2; 2,21-23)

 Quando si legge il libro del Qoelet (Qoelet indica colui che convoca o il maestro che parla davanti all’assemblea) detto anche l’Ecclesiaste, c’è il rischio di pensare che l’autore sia un filosofo; invece è un predicatore e si cela qui una delle personalità più affascinati e scomode della sapienza biblica. È vero che il suo libro è classificato tra i “libri sapienziali”, ma i libri biblici detti di sapienza non sono saggi filosofici alla maniera dei pagani o degli agnostici. Sono prima di tutto libri scritti da credenti per dei credenti, in un certo senso sono dei catechismi. “Vanità delle vanità, tutto è vanità”: ecco le prime parole del libro del Qoelet, e forse anche ciò che lo riassume meglio. “Vanità” tradotto letteralmente sarebbe: “soffio di soffi”, qualcosa di evanescente e chi può vantarsi di trattenere un soffio tra le dita? Un’altra espressione simile, molto cara all’autore, è “corsa dietro al vento”(1,14). In altri termini tutto ciò a cui dedichiamo pensieri, sogni, forze, attività, tempo, tutto è effimero, provvisorio, passeggero. Tutto, tranne una sola cosa. Quale? L’autore mantiene il mistero e solo alla fine del libro dirà che l’unica cosa importante al mondo è la ricerca di Dio. Si comprende alla fine che non si tratta di una meditazione filosofica disillusa, ma di una predicazione vigorosa in modo velato. Nel frattempo, descrive in mille modi le tante attività umane come sforzi inutili, un correre dietro al vento per afferrare un soffio tra le dita. Per meglio argomentare fa parlare il re Salomone in persona, come uomo di desideri, di potere, coronato di gloria, ma di una gloria che non ha avuto futuro. In effetti diverse fasi segnano la sua vita: prima di diventare re, non sappiamo nulla di lui se non la sua sete di potere e come re, all’inizio fu ammirevole per saggezza e umiltà, alla fine cadde nell’idolatria e fu schiavo dell’amore per la ricchezza. Qoelet fa parlare Salomone come se stesse facendo il bilancio del suo regno: regno di potere e ricchezza (Gesù dirà di lui: «Salomone in tutta la sua gloria»). Ebbe sapienza e ricercò le grandi opere che affascinano i potenti e i saggi del tempo; tutti i piaceri della vita, e alla fine il fallimento del suo regno. Con Roboamo, suo figlio, incapace di una politica saggia, il regno si divise, e, peggio ancora, l’idolatria riprese il sopravvento e in qualche anno la gloria di Salomone svanì. Quel che leggiamo oggi si riferisce a lui: “chi ha lavorato con sapienza, con scienza dovrà lasciare a un altro che per nulla vi ha faticato” (2,21). Roboamo, suo figlio e successore al trono di Gerusalemme, mancò gravemente di saggezza e da lì nacque lo scisma che divise per sempre il regno di Davide. Alla luce di questa esperienza Qoelet afferma: “Tutto è vanità”. Leggiamo la stessa cosa nel salmo 103: “L’uomo: i suoi giorni sono come l’erba, fiorisce come il fiore dei campi: basta un soffio di vento, e non esiste più (15-16).  In Qoelet c’è un vero linguaggio di fede: Dio solo conosce tutti i misteri e ogni ricerca della felicità fuori di Lui è vana perché solo Lui possiede le chiavi della vera sapienza, e in definitiva, anche se non comprendiamo tutti i misteri dell’esistenza, sappiamo che tutto è dono di Dio. Mai sarà deluso chi confida in Dio e la sapienza consiste nell’abbandono in Dio e l’osservanza dei suoi comandamenti è l’unica via verso la felicità: “Chi osserva il comandamento non conoscerà nulla di male.” (Qo 8,5).  Alla fine, la vera sapienza è l’umiltà della vita vissuta come dono di Dio: “Ogni uomo che mangia, beve e gode del benessere in tutto il suo lavoro: è un dono di Dio. (Qo 3,13). 

 

*Salmo responsoriale 89 /90 (3-4.5-6.12-13.14-17)

Il salmo ci conduce nel contesto di una cerimonia di richiesta di perdono al Tempio di Gerusalemme, dopo l’esilio babilonese: la preghiera “Ritorna, Signore, fino a quando? Abbi pietà dei tuoi servi” (v.13) è tipica di una liturgia penitenziale.  Questo salmo è dunque una preghiera per chiedere la conversione: «Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio” v.12). La conversione consiste nel vivere secondo la sapienza di Dio per conoscere  la vera misura dei nostri giorni. Non è un caso che questo salmo ci venga offerto in eco alla prima lettura, dal libro del Qoèlet, una meditazione sulla vera sapienza mentre il salmo propone una splendida definizione della sapienza che è la vera misura dei nostri giorni, una sana lucidità sulla nostra condizione di uomini. Nati senza sapere perché e destinati a morire senza poter nemmeno prevedere quando: ecco il nostro destino, e questo è il senso dei primi versetti che abbiamo letto: Tu fai ritornare l’uomo in polvere, quando dici: “Ritornate, figli dell’uomo!”(v.3), cioè ritornate alla terra da cui vi ho tratto. Ciò non crea tristezza ma serenità perché la nostra miseria poggia sulla grandezza e la stabilità di Dio: “mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte” (v.4). Dio ci da sicurezza perché Egli vuole solo il nostro bene. I guai però nascono quando perdiamo la lucidità sulla sulla nostra miseria, come ben illustrano i capitoli 2 e 3 della Genesi, che raccontano l’errore di Adamo, personaggio simbolico, il cui comportamento è considerato modello di ciò che non si deve fare. “Adamo ha fatto questo o quello” non descrive un ipotetico primo uomo, ma un tipo di comportamentoe ed in tale luce questo salmo è in sintonia con la prima lettura dove Qoèlet fa parlare Salomone re saggio all’inizio, ma sedotto poi dal lusso, dal potere, dalle donne che l’hanno reso idolatra. Nella seconda parte del regno, si è comportato come Adamo che si allontana dalla sapienza di Dio. Questo salmo invita a ritrovare la sapienza e l’umiltà del giovane Salomone perché vera sapienza è la coscienza della piccolezza dell’uomo mai umiliante: una piccolezza fiduciosa, filiale. Splendida la conclusione: “l’opera delle nostre mani rendi salda” (v.17) che mostra la cooperazione tra Dio e l’uomo: l’uomo lavora, Dio dà solidità e senso all’opera umana.

 

*Seconda Lettura dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi (3,1-5.9-11)

Paolo fa anzitutto una distinzione tra “le cose di lassù” e “quelle della terra”, due modi diversi di vivere: i comportamenti ispirati dallo Spirito Santo e quelli che non lo sono. “Le cose di lassù” sono la benevolenza, l’umiltà, la dolcezza, la pazienza, il perdono reciproco, vivendo secondo lo Spirito ed è il comportamento dei battezzati. “Quelle della terra” sono dissolutezza, impurità, passione sfrenata, avidità, cupidigia, comportamenti non ispirati dallo Spirito. Paolo tabilisce il legame tra il battesimo e il modo di vivere: “se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù” (v.1). Dice “siete risorti”, però poi afferma “voi infatti siete morti” (v.2) e le parole per lui non hanno lo stesso significato che per noi. Per Paolo, dalla risurrezione di Cristo in poi, niente è più come prima. Essere dei risorti significa precisamente essere morti al mondo e nati a una vita secondo lo Spirito, ciò che lui chiama le realtà di lassù. Il cristiano, è un “trasformato, che vive alla maniera di Cristo” e Paolo lo chiama “l’uomo nuovo”. Non disprezza “le cose della terra”; al contrario, dirà poco dopo: “Qualunque cosa facciate, in parole e in opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù rendendo per mezzo di lui grazie a Dio (3,17). Non si tratta quindi di vivere un’altra vita rispetto a quella ordinaria, ma di viverla diversamente: non rifiutare questo mondo, ma viverlo già come seme del Regno, dove tutti gli uomini sono fratelli come spiega nella lettera ai Galati (3,26-28) e ripete alla fine del brano della lettera ai Colossesi di questa domenica: “Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto in tutti.” La comunità di Colosse probabilmente aveva gli stessi problemi dei Galati e in particolare, la grande questione che agitava le prime comunità cristiane e cioè se i non-ebrei diventati cristiani dovevano assumere le pratiche giudaiche: norme alimentari, abluzioni rituali, e soprattutto la circoncisione. C’erano cristiani circoncisi e altri non circoncisi e taluni ebrei imponevano la circoncisione. Identica risposta ai Galati e ai Colossesi: il battesimo fa di tutti dei fratelli e ogni forma di esclusione è superata: conta solo essere discepoli di Cristo. 

NOTA. Alcuni esegeti pensano che questa lettera attribuita a Paolo non sia stata effettivamente scritta da lui; Paolo, infatti, non è mai stato a Colosse: è stato Epafra, un suo discepolo, a fondare quella comunità. Secondo una prassi molto comune nel I secolo (chiamata pseudepigrafia), si ipotizza (ma è solo un’ipotesi) che un discepolo molto vicino al pensiero di Paolo si sia rivolto ai Colossesi sotto l’autorità del nome dell’apostolo, perché il momento era grave. Se questa ipotesi è corretta, non ci si stupisce di trovare in questo scritto frasi letteralmente prese da Paolo e altre che mostrano come la riflessione teologica continuasse a svilupparsi nelle comunità cristiane. Gesù aveva detto: “Lo Spirito vi guiderà alla verità tutta intera.” E nelle domeniche precedenti abbiamo già avuto modo di vedere sviluppi teologici che non si trovano ancora negli scritti di Paolo stesso.

 

*Dal Vangelo secondo Luca (12, 13 – 21)

Sembra brusca la risposta di Gesù: “O uomo chi mi ha costituito vostro giudice o mediatore di sopra di voi?” Tuttavia, buon pedagogo, Gesù coglie l’occasione per trarre una lezione che spiega bene con questa parabola. Un uomo arricchitosi con gli affari studia come meglio godersi la sua ricchezza; pensa a demolire i magazzini, costruirne di più grandi per ammassarvi tutto il grano e i suoi beni per poi dire a sé stesso: “Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni: ripòsati, mangia, bevi e divertiti” (v.19). Purtroppo ha dimenticato che la sua vita non dipende da lui e infatti la notte stessa muore. Si crede ricco, ma la vera ricchezza non è quella che lui immagina. Per meglio capire l’insegnamento di Gesù occorre ricordare quel che ha detto prima: “Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che possiede” (v.13) e, anche se non c’è nella lettura liturgica di questa domenica, egli alla fine tira le conclusioni: “Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete, né per il vostro corpo, di cosa vi vestirete. La vita infatti vale più del cibo e il corpo più del vestito.” (Lc 12,22-23). Insegnamento di Gesù non nuovo che riprende temi già noti nell’Antico Testamento. Ben Sira diceva che chi diventa ricco  non sa quanto tempo gli resta da vivere, poi lascerà i suoi beni ad altri e morirà (cf. Sir 11,18-19); e nella prima lettura di questa domenica, il Qoelet ha proposto riflessioni simili: “Quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole?” (Qo 2,22) ritornando più volte sullo stesso tema (cf.Qo 5,9…15). Molto incisivo il profeta Isaia che accusa il popolo di Gerusalemme di stordirsi nei piaceri, invece di ascoltare l’appello di Dio alla conversione (cf Is 22,13) e il libro di Giobbe ripete: ”Nudo sono uscito dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò” (Gb 1,21), frase ancor oggi recitata in Israele durante ogni funerale. Tutte queste frasi suonano come richiami alla realtà della vita. Gesù denuncia la condotta insensata: Stolto! Questa notte stessa ti sarà richiesta la vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” (v.20) e la parabola si chiude: “Così è di chi accumula tesori per sé, e non si arricchisce presso Dio”. Il che implica due cose: Non dimenticare mai che le ricchezze vengono da Dio e al lui appartengono perché ce le affida per metterle a servizio del Regno di Dio. La vita è breve, ma proprio per questo, affrettiamoci a metterla a frutto! Gesù risponde bruscamente al richiedente l’eredità: quell’uomo sbaglia priorità perché l’eredità più preziosa è la fede ricevuta dai nostri padri. E ogni volta che Gesù risponde in modo brusco (a sua madre a Cana (Gv 2,4) a Pietro a Cesarea (Mt 16,23), è perché in gioco c’è la sua missione.

+ Giovanni D’Ercole

Aprire i portoni blindati

(Lc 12,13-21)

 

«Certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili a vantaggio di una selezione che favorisce un settore umano degno di vivere senza limiti» [Fratelli Tutti n.18].

 

Basilio il Grande commentava: «Qui non si condanna chi rapina, ma chi non condivide il suo».

Insensatezza dell’accumulare.

 

Il Dono di Dio è completo, ma ciascuno è bisognoso. Perché? Per accentuare il «fecondo interscambio».

E lo stiamo sperimentando: solo la voglia di ‘nascere nella reciprocità’ può combattere l’«impoverimento di tutti» e la stessa «sclerosi culturale» [cf. FT 133-138].

Ogni gesto di generosità cela la fioritura d’una energia vivificante innata, che fa scorrere l’anima e i capitali fuori delle mura compaginate e oltre i bordi di magazzino.

Pungolo che non ripiega le persone sulla convenienza. Impulso che viceversa sposterà la nostra immaginazione verso ben altri orizzonti, credenze e desideri.

Insomma, fare comunione è questione di vita o morte, perché ricco e povero vivono o declinano insieme.

La crescita è dunque nel porgersi e accogliere.

 

Nell’insuperabile Omelia 6, il primo dei Padri cappadoci sottolineava che anche chi sovrabbonda di beni si tormenta sul da farsi, chiedendosi: «Che farò?».

«Si lamenta come i poveri. Non sono forse queste le parole di chi è oppresso dalla miseria? Che farò? [...] Che farò? La risposta era semplice: ‘Sazierò gli affamati, aprirò i granai e chiamerò tutti i poveri’ [...] Non alzare i prezzi. Non aspettare la carestia per aprire i granai [...] Non attendere che il popolo sia ridotto alla fame per accrescere il tuo oro, né la miseria generale per il tuo arricchimento. Non fare commercio sulle umane disgrazie [...] Non esacerbare le ferite inflitte dal flagello dell’avversità. Tu volgi lo sguardo al tuo oro e lo distogli dal tuo fratello, riconosci ogni moneta e sai distinguere quella falsa da quella vera, ma ignori completamente il fratello che si trova nel bisogno».

 

Il ricco della parabola sembra non avere braccianti o parenti, né una moglie, o figli e amici: li aveva, ma nella sua realtà ci sono - davvero - solamente lui e i beni.

«Imbecille!» - gli dice Dio (v.20).

La soluzione era semplicissima: aprire i cancelli, affinché l’alimento ammucchiato potesse traboccare per le necessità dei meno fortunati - invece di perdere tempo a sfasciare e ricostruire immobili.

Forse è morto d’infarto, ma era già defunto nell’anima.

L’imprenditore che scruta i bisogni altrui per tornaconto, perisce immediatamente dentro e fuori; subisce agitazione, insonnia, tormento, per lo stress del gestire quei miraggi esteriori.

Sono questi sogni strampalati che poi tolgono respiro e diventano incubi senza svolta, dissipando le migliori energie.

 

È viceversa in un clima di coesistenza e convivialità delle differenze che si annidano i migliori stimoli e consigli, anche per la scoperta di quanto ci corrisponde.

Basterebbe vincere l’avidità, la vanità e la mentalità comune, per stare meglio.

Abbandonando lo spirito di accaparramento, ci allontaneremo dalle manie del computo e dell’interesse immediato [volatile].

In tale dinamica, ecco l’esperienza aprirsi ai tanti volti della realtà e delle persone, vivendo di Amicizia.

Qui l’intensità dei legami cova lo sprone personale, le sfide, e la fioritura d’amore che spostano la nostra Visione.

 

Ecco la soglia dei nuovi Tesori che viceversa possono emergere: fidarsi della vita, delle nuove strade, delle azioni che non bloccano lo sviluppo di tutti, né minacciano il senso di Fraternità.

Tralasciando l’accaparramento, potremo cedere all’Esodo liberante.

Primo passo lungo la Via della nostra piena Felicità: investire i tanti beni che ancora abbiamo per creare Incontro e Relazione.

Questione di vita o morte (v.20).

 

 

[18.a Domenica T.O. (anno C), 3 agosto 2025]

Sabato, 26 Luglio 2025 04:57

Saggezza e stoltezza

Nel Vangelo dell’odierna domenica, l’insegnamento di Gesù riguarda proprio la vera saggezza ed è introdotto dalla domanda di uno della folla: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità» (Lc 12,13). Gesù, rispondendo, mette in guardia gli ascoltatori dalla brama dei beni terreni con la parabola del ricco stolto, il quale, avendo accumulato per sé un abbondante raccolto, smette di lavorare, consuma i suoi beni divertendosi e s’illude persino di poter allontanare la morte. «Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”» (Lc 13,20). L’uomo stolto nella Bibbia è colui che non vuole rendersi conto, dall’esperienza delle cose visibili, che nulla dura per sempre, ma tutto passa: la giovinezza come la forza fisica, le comodità come i ruoli di potere. Far dipendere la propria vita da realtà così passeggere è, dunque, stoltezza. L’uomo che confida nel Signore, invece, non teme le avversità della vita, neppure la realtà ineludibile della morte: è l’uomo che ha acquistato “un cuore saggio”, come i Santi.

[Papa Benedetto, Angelus 1 agosto 2010]

Sabato, 26 Luglio 2025 04:53

Vanità delle ricchezze

1. La nostra meditazione sul Salmo 48 sarà scandita in due tappe, proprio come fa la Liturgia dei Vespri, che ce lo propone in due tempi. Ne commenteremo ora in modo essenziale la prima parte, nella quale la riflessione prende lo spunto da una situazione di disagio, come nel Salmo 72. Il giusto deve affrontare «giorni tristi», perché lo «circonda la malizia dei perversi», i quali «si vantano della loro grande ricchezza» (cfr Sal 48,6-7).

La conclusione a cui il giusto arriva è formulata come una sorta di proverbio, che si ritroverà anche nella finale dell’intero Salmo. Essa sintetizza in modo limpido il messaggio dominante della composizione poetica: «L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono» (v. 13). In altri termini, la «grande ricchezza» non è un vantaggio, anzi! Meglio è essere povero e unito a Dio.

2. Nel proverbio sembra echeggiare la voce austera di un antico sapiente biblico, l’Ecclesiaste o Qoelet, quando descrive il destino apparentemente uguale di ogni creatura vivente, quello della morte, che rende del tutto vano l’aggrapparsi frenetico alle cose terrene: «Come è uscito nudo dal grembo di sua madre, così se ne andrà di nuovo come era venuto, e dalle sue fatiche non ricaverà nulla da portar con sé… Infatti la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono queste muoiono quelli... Tutti sono diretti verso la medesima dimora» (Qo 5,14; 3,19.20).

3. Un’ottusità profonda s’impadronisce dell’uomo quando s’illude di evitare la morte affannandosi ad accumulare beni materiali: non per nulla il Salmista parla di un «non comprendere» di impronta quasi bestiale.

Il tema sarà, comunque, esplorato da tutte le culture e da tutte le spiritualità e sarà espresso nella sua sostanza in modo definitivo da Gesù che dichiara: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni» (Lc 12,15). Egli narra poi la famosa parabola del ricco insipiente, che accumula beni a dismisura senza immaginare l’agguato che la morte gli sta tendendo (cfr Lc 12,16-21).

4. La prima parte del Salmo è tutta centrata proprio su questa illusione che conquista il cuore del ricco. Costui è convinto di riuscire a «comprarsi» anche la morte, tentando quasi di corromperla, un po’ come ha fatto per avere tutte le altre cose, ossia il successo, il trionfo sugli altri in ambito sociale e politico, la prevaricazione impunita, la sazietà, le comodità, i piaceri.

Ma il Salmista non esita a bollare come stolta questa pretesa. Egli fa ricorso a un vocabolo che ha un valore anche finanziario, «riscatto»: «Nessuno può riscattare se stesso, o dare a Dio il suo prezzo. Per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine, e non vedere la tomba» (Sal 48,8-10).

5. Il ricco, aggrappato alle sue immense fortune, è convinto di riuscire a dominare anche la morte, così come ha spadroneggiato su tutto e su tutti col denaro. Ma per quanto ingente sia la somma che è pronto ad offrire, il suo destino ultimo sarà inesorabile. Egli, infatti, come tutti gli uomini e le donne, ricchi o poveri, sapienti o stolti, dovrà avviarsi alla tomba, così come è accaduto anche ai potenti e dovrà lasciare sulla terra quell’oro tanto amato, quei beni materiali tanto idolatrati (cfr vv. 11-12).

Gesù insinuerà ai suoi ascoltatori questa domanda inquietante: «Che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima?» (Mt 16,26). Nessun cambio è possibile perché la vita è dono di Dio, che «ha in mano l’anima di ogni vivente e il soffio d’ogni carne umana» (Gb 12,10).

6. Tra i Padri che hanno commentato il Salmo 48 merita un’attenzione particolare sant’Ambrogio, che ne allarga il senso secondo una visione più ampia, proprio a partire dall’invito iniziale del Salmista: «Ascoltate, popoli tutti, porgete l’orecchio, abitanti del mondo».

L’antico Vescovo di Milano commenta: «Riconosciamo qui, proprio all’inizio, la voce del Signore salvatore che chiama i popoli alla Chiesa, perché rinuncino al peccato, diventino seguaci della verità e riconoscano il vantaggio della fede». Del resto, «tutti i cuori delle varie generazioni umane erano inquinati dal veleno del serpente e la coscienza umana, schiava del peccato, non era in grado di staccarsene». Per questo il Signore «di sua iniziativa promette il perdono nella generosità della sua misericordia, perché il colpevole non abbia più paura, ma, in piena consapevolezza, si rallegri di dover offrire ora i suoi uffici di servo al Signore buono, che ha saputo perdonare i peccati, premiare le virtù» (Commento a dodici Salmi, n. 1: SAEMO, VIII, Milano-Roma 1980, p. 253).

7. In queste parole del Salmo si sente riecheggiare l’invito evangelico: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi» (Mt 11,28). Ambrogio continua: «Come uno che verrà a visitare gli ammalati, come un medico che verrà a curare le nostre piaghe dolorose, così egli ci prospetta la cura, perché gli uomini lo sentano bene e tutti corrano con fiduciosa sollecitudine a ricevere il rimedio della guarigione… Chiama tutti i popoli alla sorgente della sapienza e della conoscenza, promette a tutti la redenzione, perché nessuno viva nell’angoscia, nessuno viva nella disperazione» (n. 2: ibid., pp. 253.255).

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 20 ottobre 2004]

Sabato, 26 Luglio 2025 04:47

Sicurezze che passano

Il Vangelo di oggi (cfr Lc 12, 13-21) si apre con la scena di un tale che si alza tra la folla e chiede a Gesù di dirimere una questione giuridica circa l’eredità di famiglia. Ma Egli nella risposta non affronta la questione, ed esorta a rimanere lontano dalla cupidigia, cioè dall’avidità di possedere. Per distogliere i suoi ascoltatori da questa ricerca affannosa della ricchezza, Gesù racconta la parabola del ricco stolto, che crede di essere felice perché ha avuto la fortuna di una annata eccezionale e si sente sicuro per i beni accumulati. Sarà bello che oggi voi la leggiate; è nel capitolo dodicesimo di San Luca, versetto 13. È una bella parabola che ci insegna tanto. Il racconto entra nel vivo quando emerge la contrapposizione tra quanto il ricco progetta per se stesso e quanto invece Dio gli prospetta.

Il ricco mette davanti alla sua anima, cioè a se stesso, tre considerazioni: i molti beni ammassati, i molti anni che questi beni sembrano assicurargli e terzo, la tranquillità e il benessere sfrenato (cfr v.19). Ma la parola che Dio gli rivolge annulla questi suoi progetti. Invece dei «molti anni», Dio indica l’immediatezza di «questa notte; stanotte morirai»; al posto del «godimento della vita» Gli presenta il «rendere la vita; renderai la vita a Dio», con il conseguente giudizio. Per quanto riguarda la realtà dei molti beni accumulati su cui il ricco doveva fondare tutto, essa viene ricoperta dal sarcasmo della domanda: «E quello che ha preparato, di chi sarà?» (v.20). Pensiamo alle lotte per le eredità; tante lotte di famiglia. E tanta gente, tutti sappiamo qualche storia, che all’ora della morte incomincia a venire: i nipoti, i nipotini vengono a vedere: “Ma cosa tocca a me?”, e portano via tutto. È in questa contrapposizione che si giustifica l’appellativo di «stolto» - perché pensa a cose che lui crede essere concrete ma sono una fantasia - con cui Dio si rivolge a quest’uomo. Egli è stolto perché nella prassi ha rinnegato Dio, non ha fatto i conti con Lui.

La conclusione della parabola, formulata dall’evangelista, è di singolare efficacia: «Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio» (v.21). È un ammonimento che rivela l’orizzonte verso cui tutti noi siamo chiamati a guardare. I beni materiali sono necessari – sono beni! -, ma sono un mezzo per vivere onestamente e nella condivisone con i più bisognosi. Gesù oggi ci invita a considerare che le ricchezze possono incatenare il cuore e distoglierlo dal vero tesoro che è nei cieli. Ce lo ricorda anche San Paolo nell’odierna seconda lettura. Dice così: «Cercate le cose di lassù. … rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3, 1-2).

Questo – si capisce - non vuol dire estraniarsi dalla realtà, ma cercare le cose che hanno un vero valore: la giustizia, la solidarietà, l’accoglienza, la fraternità, la pace, tutte cose che costituiscono la vera dignità dell’uomo. Si tratta di tendere ad una vita realizzata non secondo lo stile mondano, bensì secondo lo stile evangelico: amare Dio con tutto il nostro essere, e amare il prossimo come lo ha amato Gesù, cioè nel servizio e nel dono di sé. La cupidigia dei beni, la voglia di avere beni, non sazia il cuore, anzi provoca di più fame! La cupidigia è come quelle buone caramelle: tu ne prendi una e dice: “Ah! Che buona”, e poi prendi l’altra; e una tira l’altra. Così è la cupidigia: non si sazia mai. State attenti! L’amore così inteso e vissuto è la fonte della vera felicità, mentre la ricerca smisurata dei beni materiali e delle ricchezze è spesso sorgente di inquietudine, di avversità, di prevaricazioni, di guerre. Tante guerre incominciano per la cupidigia.

La Vergine Maria ci aiuti a non lasciarci affascinare dalle sicurezze che passano, ma ad essere ogni giorno credibili testimoni dei valori eterni del Vangelo.

[Papa Francesco, Angelus 4 agosto 2019]

Venerdì, 25 Luglio 2025 04:56

La lotta per la Liberazione dai corrotti

Profezia, Rivelazione

(Mt 14,1-12)

 

Chi è ammantato di lustro e potere diventa ambizioso, sfrontato e disposto ad ogni violenza per un falso punto d’onore.

Il coraggioso che denuncia soprusi viene stroncato, ma la voce del suo martirio non tacerà più. Per questo l’episodio non induce Gesù a maggiore prudenza.

I tiranni si fanno beffe dell’isolato, scomodo e indifeso, ma capi e potenti sono anche vigliacchi: non intendono alienarsi la fama popolare.

Oltre che smidollato, qui Erode Antipa appare superstizioso, addirittura influenzato da credenze ellenistiche sulla riapparizione dei morti.

In aggiunta, egli pensava gli uomini di Dio come facitori di miracoli - termine ambiguo, che la nuova traduzione CEI evita (cf. v.2).

Gesù non ha mai frequentato la nuova capitale erodiana, Tiberiade, la città dei palazzi di corte, costruita in diplomatico omaggio all’imperatore romano - dopo Sefforis, dove anche Gesù ha lavorato.

 

La religiosità generica e confusionaria può adattarsi a ogni stagione ed esser fatta propria anche da chi pensa che la vita altrui non valga nulla, ma un Profeta non si assesta al capriccio di sistemi corrotti.

Nei villaggi palestinesi la vita della gente era vessata da balzelli e abusi di latifondisti [che neppure risiedevano in loco] e controllata dal perfetto connubio d’interessi fra potere civile e religioso.

I leaders della fede popolare, ortodossa, subalterna e confacente, erano a guinzaglio delle autorità sul territorio, le quali si consideravano definitive e trovavano forza nella coalizione.

Sembrava assurdo che in quella società qualcuno osasse infrangere il muro omertoso che garantiva ai facinorosi - alle guide, ai prepotenti persino d’infimo livello - di considerarsi intoccabili.

Di fronte al ricatto (senza troppi complimenti) dei privilegiati che avevano il controllo d’ogni ceto sociale e culturale, pareva impossibile iniziare un nuovo cammino, o dire e fare qualsiasi cosa non allineata.

 

La domanda su «Gesù, Chi è?» cresce lungo tutti i Vangeli.

Il bilancio delle opinioni della gente (es: Mt 14,1-2; Mc 6,14-16; Lc 9,7-9) lascia intendere che anche attorno alle prime assemblee di credenti si tentava di capire Cristo a partire da quanto si sapeva già [dai criteri delle Scritture e della tradizione, dalle credenze e suggestioni antiche - persino superstiziose].

Ma l’uomo di Dio non è semplice purificatore del Tempio, né un rabberciatore della religiosità conformista. Egli capovolge le speranze popolaresche, emotive o standard.

In tal guisa, ogni Profeta inquieta tutti i personaggi “di rango”, che detengono l’esclusiva.

 

Giovanni e Gesù sfidano e attraggono su di sé le vendette di coloro che tentano di perpetuare le prerogative del cosmo antiquato, e le rabbie di quanti vengono smascherati nelle loro ipocrisie.

È la difficoltà reale che incontra l’Annuncio del nuovo Regno nel mondo. 

Il suo rifiuto sprezzante e ogni tentativo di omicidio saranno una cartina al tornasole della nostra singolare e rinnovata testimonianza, la cui rivelazione correrà parallela ai Due.

 

 

[Sabato 17.a sett. T.O.   2 agosto 2025]

Noi vediamo questa grande figura, questa forza nella passione, nella resistenza contro i potenti. Domandiamo: da dove nasce questa vita, questa interiorità così forte, così retta, così coerente, spesa in modo così totale per Dio e preparare la strada a Gesù? La risposta è semplice: dal rapporto con Dio, dalla preghiera, che è il filo conduttore di tutta la sua esistenza. Giovanni è il dono divino lungamente invocato dai suoi genitori, Zaccaria ed Elisabetta (cfr Lc 1,13); un dono grande, umanamente insperabile, perché entrambi erano avanti negli anni ed Elisabetta era sterile (cfr Lc 1,7); ma nulla è impossibile a Dio (cfr Lc 1,36). L’annuncio di questa nascita avviene proprio nel luogo della preghiera, al tempio di Gerusalemme, anzi avviene quando a Zaccaria tocca il grande privilegio di entrare nel luogo più sacro del tempio per fare l’offerta dell’incenso al Signore (cfr Lc 1,8-20). Anche la nascita del Battista è segnata dalla preghiera: il canto di gioia, di lode e di ringraziamento che Zaccaria eleva al Signore e che recitiamo ogni mattina nelle Lodi, il «Benedictus», esalta l’azione di Dio nella storia e indica profeticamente la missione del figlio Giovanni: precedere il Figlio di Dio fattosi carne per preparargli le strade (cfr Lc 1,67-79). L’esistenza intera del Precursore di Gesù è alimentata dal rapporto con Dio, in particolare il periodo trascorso in regioni deserte (cfr Lc 1,80); le regioni deserte che sono luogo della tentazione, ma anche luogo in cui l’uomo sente la propria povertà perché privo di appoggi e sicurezze materiali, e comprende come l’unico punto di riferimento solido rimane Dio stesso. Ma Giovanni Battista non è solo uomo di preghiera, del contatto permanente con Dio, ma anche una guida a questo rapporto. L’Evangelista Luca riportando la preghiera che Gesù insegna ai discepoli, il «Padre nostro», annota che la richiesta viene formulata dai discepoli con queste parole: «Signore insegnaci a pregare, come Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli» (cfr Lc 11,1).

Cari fratelli e sorelle, celebrare il martirio di san Giovanni Battista ricorda anche a noi, cristiani di questo nostro tempo, che non si può scendere a compromessi con l’amore a Cristo, alla sua Parola, alla Verità. La Verità è Verità, non ci sono compromessi. La vita cristiana esige, per così dire, il «martirio» della fedeltà quotidiana al Vangelo, il coraggio cioè di lasciare che Cristo cresca in noi e sia Cristo ad orientare il nostro pensiero e le nostre azioni. Ma questo può avvenire nella nostra vita solo se è solido il rapporto con Dio. La preghiera non è tempo perso, non è rubare spazio alle attività, anche a quelle apostoliche, ma è esattamente il contrario: solo se se siamo capaci di avere una vita di preghiera fedele, costante, fiduciosa, sarà Dio stesso a darci capacità e forza per vivere in modo felice e sereno, superare le difficoltà e testimoniarlo con coraggio. San Giovanni Battista interceda per noi, affinché sappiamo conservare sempre il primato di Dio nella nostra vita.

[Papa Benedetto, Udienza Generale 29 agosto 2012]

1. […] la tradizione cristiana fa memoria del martirio di San Giovanni Battista, "il più grande fra i nati di donna", secondo l’elogio del Messia stesso (cfr Lc 7, 28). Egli rese a Dio la suprema testimonianza del sangue immolando la sua esistenza per la verità e la giustizia; fu infatti decapitato per ordine di Erode, al quale aveva osato dire che non gli era lecito tenere la moglie di suo fratello (cfr Mt 6, 17 – 29).

2. Nell’Enciclica Veritatis splendor, ricordando il sacrificio di Giovanni Battista (cfr n.91), notavo che il martirio è "un segno preclaro della santità della Chiesa" (n.93). Esso infatti "rappresenta il vertice della testimonianza alla verità morale" (ibid.). Se relativamente pochi sono chiamati al sacrificio supremo, vi è però "una coerente testimonianza che tutti i cristiani devono esser pronti a dare ogni giorno anche a costo di sofferenze e di gravi sacrifici" (ibid.). Ci vuole davvero un impegno talvolta eroico per non cedere, anche nella vita quotidiana, alle difficoltà che spingono al compromesso e per vivere il Vangelo "sine glossa".

3. L’eroico esempio di Giovanni Battista fa pensare ai martiri della fede che lungo i secoli hanno seguito coraggiosamente le sue orme. In modo speciale, mi tornano alla mente i numerosi cristiani, che nel secolo scorso sono stati vittime dell’odio religioso in diverse nazioni d’Europa. Anche oggi, in alcune parti del mondo, i credenti continuano ad essere sottoposti a dure prove per la loro adesione a Cristo e alla sua Chiesa.

Sentano questi nostri fratelli e sorelle la piena solidarietà dell’intera comunità ecclesiale! Li affidiamo alla Vergine Santa, Regina dei martiri, che ora insieme invochiamo.

[Papa Giovanni Paolo II, Angelus 29 agosto 2004]

Venerdì, 25 Luglio 2025 04:37

Strade parallele

Un uomo, Giovanni, e una strada, che è quella di Gesù, indicata dal Battista, ma è anche la nostra, nella quale tutti siamo chiamati al momento della prova.

Parte dalla figura di Giovanni, «il grande Giovanni: al dire di Gesù “l’uomo più grande nato da donna”» la riflessione di Papa Francesco nella messa celebrata a Santa Marta venerdì 6 febbraio. Il vangelo di Marco (6, 14-29) racconta della prigionia e del martirio di quest’«uomo fedele alla sua missione; l’uomo che ha sofferto tante tentazioni» e che «mai, mai ha tradito la sua vocazione». Un uomo «fedele» e «di grande autorità, rispettato da tutti: il grande di quel tempo».

Papa Francesco si è soffermato ad analizzare la sua figura: «Quello che gli usciva dalla bocca era giusto. Il suo cuore era giusto». Era tanto grande che «Gesù dirà anche di lui che “è Elia che è tornato, per pulire la casa, per preparare il cammino”». E Giovanni «era cosciente che il suo dovere era soltanto annunziare: annunziare la prossimità del Messia. Lui era cosciente, come ci fa riflettere sant’Agostino, che lui era la voce soltanto, la Parola era un altro». Anche quando «è stato tentato di “rapinare” questa verità, lui è rimasto giusto: “Io non sono, dietro di me viene, ma io non sono: io sono il servo; io sono il servitore; io sono quello che apre le porte, perché lui venga».

A questo punto il Pontefice ha introdotto il concetto di strada, perché, ha ricordato: «Giovanni è il precursore: precursore non solo della entrata del Signore nella vita pubblica, ma di tutta la vita del Signore». Il Battista «va avanti nel cammino del Signore; dà testimonianza del Signore non soltanto mostrandolo — “È questo!”— ma anche portando la vita fino alla fine come l’ha portata il Signore». E finendo la vita «col martirio» è stato «precursore della vita e della morte di Gesù Cristo».

Il Papa ha continuato a riflettere su queste strade parallele lungo le quali «il grande» soffre «tante prove e diventa piccolo, piccolo, piccolo, piccolo fino al disprezzo». Giovanni, come Gesù, «si annienta, conosce la strada dell’annientamento. Giovanni con tutta quella autorità, pensando alla sua vita, comparandola con quella di Gesù, dice alla gente chi è lui, come sarà la sua vita: “Conviene che lui cresca, io invece debbo diminuire”». È questa, ha sottolineato il Papa, «la vita di Giovanni: diminuire davanti a Cristo, perché Cristo cresca». È «la vita del servo che fa posto, fa strada perché venga il Signore».

La vita di Giovanni «non è stata facile»: infatti, «quando Gesù ha incominciato la sua vita pubblica», egli era «vicino agli Esseni, cioè agli osservanti della legge, ma anche delle preghiere, delle penitenze». Così, a un certo punto, nel periodo in cui era in carcere, «ha sofferto la prova del buio, della notte nella sua anima». E quella scena, ha commentato Francesco, «commuove: il grande, il più grande manda da Gesù due discepoli per domandargli: “Ma Giovanni ti domanda: sei tu o ho sbagliato e dobbiamo aspettare un altro?”». Lungo la strada di Giovanni si è affacciato quindi «il buio dello sbaglio, il buio di una vita bruciata nell’errore. E questa per lui è stata una croce».

Alla domanda di Giovanni «Gesù risponde con le parole di Isaia»: il Battista «capisce, ma il suo cuore rimane nel buio». Ciò nonostante si presta alle richieste del re, «al quale piaceva sentirlo, al quale piaceva portare avanti una vita adultera», e «quasi diventava un predicatore di corte, di questo re perplesso». Ma «lui si umiliava» perché «pensava di convertire quest’uomo».

Infine, ha detto il Papa, «dopo questa purificazione, dopo questo calare continuo nell’annientamento, facendo strada all’annientamento di Gesù, finisce la sua vita». Quel re da perplesso «diventa capace di una decisione, ma non perché il suo cuore sia stato convertito»; piuttosto «perché il vino gli dà coraggio».

E così Giovanni finisce la sua vita «sotto l’autorità di un re mediocre, ubriaco e corrotto, per il capriccio di una ballerina e per l’odio vendicativo di un’adultera». Così «finisce il grande, l’uomo più grande nato da donna», ha commentato Francesco che ha confessato: «Quando io leggo questo brano, mi commuovo». E ha aggiunto una considerazione utile alla vita spirituale di ogni cristiano: «Penso a due cose: primo, penso ai nostri martiri, ai martiri dei nostri giorni, quegli uomini, donne, bambini che sono perseguitati, odiati, cacciati via dalle case, torturati, massacrati». E questa, ha sottolineato, «non è una cosa del passato: oggi succede questo. I nostri martiri, che finiscono la loro vita sotto l’autorità corrotta di gente che odia Gesù Cristo». Perciò «ci farà bene pensare ai nostri martiri. Oggi pensiamo a Paolo Miki, ma quello è successo nel 1600. Pensiamo a quelli di oggi, del 2015».

Il Pontefice ha proseguito aggiungendo che questo brano lo spinge anche a riflettere su se stesso: «Anche io finirò. Tutti noi finiremo. Nessuno ha la vita “comprata”. Anche noi, volendo o non volendo, andiamo sulla strada dell’annientamento esistenziale della vita». E ciò, ha detto, lo spinge «a pregare che questo annientamento assomigli il più possibile a Gesù Cristo, al suo annientamento».

Si chiude così il cerchio della meditazione di Francesco: «Giovanni, il grande, che diminuisce continuamente fino al nulla; i martiri, che diminuiscono oggi, nella nostra Chiesa di oggi, fino al nulla; e noi, che siamo su questa strada e andiamo verso la terra, dove tutti finiremo». In questo senso la preghiera finale del Papa: «Che il Signore ci illumini, ci faccia capire questa strada di Giovanni, il precursore della strada di Gesù; e la strada di Gesù, che ci insegna come deve essere la nostra».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 07.02.2015]

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The fool in the Bible, the one who does not want to learn from the experience of visible things, that nothing lasts for ever but that all things pass away, youth and physical strength, amenities and important roles. Making one's life depend on such an ephemeral reality is therefore foolishness (Pope Benedict)
L’uomo stolto nella Bibbia è colui che non vuole rendersi conto, dall’esperienza delle cose visibili, che nulla dura per sempre, ma tutto passa: la giovinezza come la forza fisica, le comodità come i ruoli di potere. Far dipendere la propria vita da realtà così passeggere è, dunque, stoltezza (Papa Benedetto)
We see this great figure, this force in the Passion, in resistance to the powerful. We wonder: what gave birth to this life, to this interiority so strong, so upright, so consistent, spent so totally for God in preparing the way for Jesus? The answer is simple: it was born from the relationship with God (Pope Benedict)
Noi vediamo questa grande figura, questa forza nella passione, nella resistenza contro i potenti. Domandiamo: da dove nasce questa vita, questa interiorità così forte, così retta, così coerente, spesa in modo così totale per Dio e preparare la strada a Gesù? La risposta è semplice: dal rapporto con Dio (Papa Benedetto)
Christians are a priestly people for the world. Christians should make the living God visible to the world, they should bear witness to him and lead people towards him (Pope Benedict)
I cristiani sono popolo sacerdotale per il mondo. I cristiani dovrebbero rendere visibile al mondo il Dio vivente, testimoniarLo e condurre a Lui (Papa Benedetto)
The discovery of the Kingdom of God can happen suddenly like the farmer who, ploughing, finds an unexpected treasure; or after a long search, like the pearl merchant who eventually finds the most precious pearl, so long dreamt of (Pope Francis)
La scoperta del Regno di Dio può avvenire improvvisamente come per il contadino che arando, trova il tesoro insperato; oppure dopo lunga ricerca, come per il mercante di perle, che finalmente trova la perla preziosissima da tempo sognata (Papa Francesco)
Christ is not resigned to the tombs that we have built for ourselves (Pope Francis)
Cristo non si rassegna ai sepolcri che ci siamo costruiti (Papa Francesco)
We must not fear the humility of taking little steps, but trust in the leaven that penetrates the dough and slowly causes it to rise (cf. Mt 13:33) [Pope Benedict]
Occorre non temere l’umiltà dei piccoli passi e confidare nel lievito che penetra nella pasta e lentamente la fa crescere (cfr Mt 13,33) [Papa Benedetto]
The disciples, already know how to pray by reciting the formulas of the Jewish tradition, but they too wish to experience the same “quality” of Jesus’ prayer (Pope Francis)
I discepoli, sanno già pregare, recitando le formule della tradizione ebraica, ma desiderano poter vivere anche loro la stessa “qualità” della preghiera di Gesù (Papa Francesco)
Saint John Chrysostom affirms that all of the apostles were imperfect, whether it was the two who wished to lift themselves above the other ten, or whether it was the ten who were jealous of them (“Commentary on Matthew”, 65, 4: PG 58, 619-622) [Pope Benedict]
San Giovanni Crisostomo afferma che tutti gli apostoli erano ancora imperfetti, sia i due che vogliono innalzarsi sopra i dieci, sia gli altri che hanno invidia di loro (cfr Commento a Matteo, 65, 4: PG 58, 622) [Papa Benedetto]

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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