don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Lunedì, 07 Aprile 2025 03:27

Profezia di Isaia, su ciascuno

In questi giorni di Quaresima abbiamo visto la persecuzione che ha subìto Gesù e come i dottori della Legge si sono accaniti contro di lui: è stato giudicato sotto accanimento, con accanimento, essendo innocente. Io vorrei pregare oggi per tutte le persone che soffrono una sentenza ingiusta per l’accanimento.

La profezia di Isaia che abbiamo ascoltato è una profezia sul Messia, sul Redentore, ma anche una profezia sul popolo di Israele, sul popolo di Dio: possiamo dire che può essere una profezia su ognuno di noi. In sostanza, la profezia sottolinea che il Signore ha eletto il suo servo dal seno materno: per due volte lo dice (cf. Is. 49,1). Dall’inizio il suo servo è stato eletto, dalla nascita o prima della nascita. Il popolo di Dio è stato eletto prima della nascita, anche ognuno di noi. Nessuno di noi è caduto nel mondo per casualità, per caso. Ognuno ha un destino, ha un destino libero, il destino dell’elezione di Dio. Io nasco con il destino di essere figlio di Dio, di essere servo di Dio, con il compito di servire, di costruire, di edificare. E questo, dal seno materno.

Il Servo di Jahvé, Gesù, servì fino alla morte: sembrava una sconfitta, ma era il modo di servire. E questo sottolinea il modo di servire che noi dobbiamo prendere nella nostra vita. Servire è darsi, darsi agli altri. Servire è non pretendere per ognuno di noi qualche beneficio che non sia il servire. È la gloria, servire; e la gloria di Cristo è servire fino ad annientare sé stesso, fino alla morte, morte di Croce (cf. Fil 2,8). Gesù è il servo di Israele. Il popolo di Dio è servo, e quando il popolo di Dio si allontana da questo atteggiamento di servire è un popolo apostata: si allontana dalla vocazione che Dio gli ha dato. E quando ognuno di noi si allontana da questa vocazione di servire, si allontana dall’amore di Dio. Ed edifica la sua vita su altri amori, tante volte idolatrici.

Il Signore ci ha eletti dal seno materno. Ci sono, nella vita, cadute: ognuno di noi è peccatore e può cadere ed è caduto. Soltanto la Madonna e Gesù [sono senza peccato]: tutti gli altri siamo caduti, siamo peccatori. Ma quello che importa è l’atteggiamento davanti al Dio che mi ha eletto, che mi ha unto come servo; è l’atteggiamento di un peccatore che è capace di chiedere perdono, come Pietro, che giura che “no, io mai ti rinnegherò, Signore, mai, mai, mai!”, poi, quando canta il gallo, piange. Si pente (cf. Mt. 26,75). Questa è la strada del servo: quando scivola, quando cade, chiedere perdono.

Invece, quando il servo non è capace di capire che è caduto, quando la passione lo prende in tal modo che lo porta all’idolatria, apre il cuore a satana, entra nella notte: è quello che è accaduto a Giuda (cf. Mt. 27, 3-10).

Pensiamo oggi a Gesù, il servo, fedele nel servizio. La sua vocazione è servire, fino alla morte e morte di Croce (cf. Fil. 2,5-11). Pensiamo a ognuno di noi, parte del popolo di Dio: siamo servi, la nostra vocazione è per servire, non per approfittare del nostro posto nella Chiesa. Servire. Sempre in servizio.

Chiediamo la grazia di perseverare nel servizio. A volte con scivolate, cadute, ma la grazia almeno di piangere come ha pianto Pietro.

[Papa Francesco, omelia s. Marta 7 aprile 2020]

Segno alleato. Cammino incantevole

(Gv 12,1-11)

 

Man mano che si avvicina alla sua ‘ora’, Cristo sembra perdere i suoi tratti ufficiali e si fa sentire sempre più intimo, alla nostra portata.

Il dialogo con gli uomini s’intesse più di gesti silenziosi che di parole.

Dopo la giornata pubblica di ieri, è in tal guisa che Gesù si fa presente nella comunità dei famigliari senza capi; di soli fratelli e sorelle.

Signore e Maestro senza turbine né trionfi; anzi, ricercato e costretto alla clandestinità.

Viene accolto in una Casa tranquilla, che lascia spazio alle emozioni, sebbene su di lui pendesse un mandato di cattura.

Chiesa dove si gode un’aria di pace, malgrado la mancanza di sicurezze - e frangenti contrari attorno.

Così vivevano le misere comunità giovannee dell’Asia Minore sotto Domiziano - indigenti e sottratte alla gloria esteriore, all’osanna delle folle. Ma in grado di curare sia le tensioni che le resistenze.

Erano piccole realtà «in ascolto», piene di voglia di comunione e rispettose.

Senza troppe pressioni, esse guidavano le energie verso direzioni più naturali. Come capita fra pochi amici.

Clima di conversazione e tu per tu, di vita meravigliosamente umana e quotidiana che vuole trovare posto in noi. Dove i minori e malfermi ancora ristorano il Maestro con delicati omaggi.

Nella condivisione e nella comprensione reciproca, le minuscole fraternità facevano trasalire di gioia quotidiana e ‘vita nuova’, trasmesse  a coloro che giungevano da tutte le contrade.

Vivevano in semplicità l’amore. Empatia che a chiunque faceva valicare difficoltà e timori.

Amicizia che smuoveva e trascinava per attrazione - nei gesti di tenera devozione, che sganciava ciascuno da atteggiamenti e comportamenti umilianti la propria spontaneità.

Ecco lo Spezzare il Pane: gesto senza prezzo, al di là delle convenzioni sociali; convincente, perché segno ‘alleato’ gratuito.

Esso non rifiutava la natura genuina di ciascuno. L’Eucaristia non era un fortino esclusivo.

 

Anche oggi possiamo - come Maria - senza troppo computare, «ungere i piedi» del Signore: celebrare il Dono di una Via.

I fedeli capivano che la loro parte migliore poteva riconoscersi non in un circolo-modello, ma [allo stato più puro] nelle persone dai piedi stanchi e nella Persona di quel primo Venuto sempre in procinto di partire - vivendoci dentro.

Significava servire e riconoscersi, assimilare e consacrare il proprio Cammino personale in quello complessivo del Figlio di Dio, fattosi umanissima e divina Presenza, che ricolma e convince.

Il lungo Viaggio del Cristo è traccia del nostro: dall’iniziativa del Padre alla capacità dei figli di accoglierlo, custodirlo, venerarlo, corrispondergli - semplicemente accostando le Radici - e non rifiutarlo, se “perdente”.

Ecco l’omaggio d’amicizia.

Solo questo riempie la Casa di Betania - ossia la Chiesa che vale la pena sperimentare - del profumo del Cristo totale e Vivo, e lo ‘rivela’.

Gesù difende il diritto dell’amore «da dentro» di esprimersi liberamente: dove tutto diventa possibile - anche lo spreco del Gratis che non soppesa.

Senza astuzie unilaterali, quindi non rovinando la vita autentica e ogni rinascita interiore.

 

 

[Lunedì Santo, 14 aprile 2025]

Segno alleato. Cammino incantevole

(Gv 12,1-11)

 

Man mano che si avvicina alla sua ora, Cristo sembra perdere i suoi tratti ufficiali e si fa sentire sempre più intimo, alla nostra portata.

Il dialogo con gli uomini s’intesse più di gesti silenziosi che di parole.

Dopo la giornata pubblica di ieri, è in tal guisa che Gesù si fa presente nella comunità dei famigliari senza capi; di soli fratelli e sorelle.

Signore e Maestro senza turbine né trionfi; anzi, ricercato e costretto alla clandestinità.

Viene accolto in una Casa tranquilla, la quale lascia spazio alle emozioni, sebbene su di lui pendesse un mandato di cattura.

Chiesa dove si gode un’aria di pace, pur nella mancanza di sicurezze - e frangenti contrari attorno.

Così vivevano le misere comunità giovannee dell’Asia Minore sotto Domiziano: indigenti e sottratte alla gloria esteriore, all’osanna delle folle.

Ma in grado di curare sia le tensioni che le resistenze.

Si godeva dell’atmosfera semplice, senza barricate, dei rapporti veri [non solo essenziali] in grado di risvegliare tendenze innate e sentimenti; opportuni a trasformare disagi e identificazioni.

I labirinti mentali dei timori e dei ruoli “adeguati”, avrebbero intrappolato l’energia vitale di sorelle e fratelli in un perimetro esterno, con eccesso di pensiero e di controllo.

Nessuna gabbia dunque che potesse chiudere la dimensione d’unicità nell’amore, e del Mistero, nel cerchio degli influssi che avrebbero svuotato i processi interni.

 

Le assemblee dei primordi erano piccole realtà in ascolto, piene di voglia di comunione, e rispettose.

Senza troppe pressioni, esse guidavano le energie verso direzioni più naturali. Come capita fra pochi amici.

Clima di conversazione e tu per tu, di vita meravigliosamente umana, quotidiana, che ancora vuole trovare posto in noi. Dove i minori e malfermi (ancora) ristorano il Maestro con delicati omaggi.

Nella condivisione e nella comprensione reciproca, le minuscole fraternità facevano trasalire di gioia quotidiana e vita nuova, nella capacità di coesistenza.

Realtà trasmesse a coloro che giungevano da tutte le contrade; senza prima le configurazioni.

Non era ancora... la chiesa degli eventi plausibili e di piazza, ostentati e di massa - che poi cerca ‘il pieno’ per affermarsi in modo eloquente, fare proselitismo, o arricchire come Giuda con risorse altrui.

Vivevano in semplicità l’amore. Empatia che a chiunque faceva valicare difficoltà e timori.

Amicizia che smuoveva e trascinava per attrazione - nei gesti di tenera devozione, che sganciava da atteggiamenti e comportamenti umilianti la spontaneità.

Ecco lo Spezzare il Pane, gesto senza prezzo, al di là delle convenzioni sociali; convincente perché segno alleato, gratuito.

Esso non rifiutava la natura genuina di ciascuno. L’Eucaristia non era un fortino esclusivo.

 

Anche oggi possiamo - come Maria - senza troppo computare, ungere i piedi del Signore: celebrare il Dono di una Via.

I fedeli capivano che la loro parte migliore poteva riconoscersi non in un circolo-modello.

Allo stato più puro, sorelle e fratelli trovavano corrispondenza nelle persone dai piedi stanchi, e nella Persona di quel primo Venuto sempre in procinto di partire - vivendoci dentro.

Significava servire e riconoscersi, assimilare e consacrare il proprio Cammino personale in quello complessivo del Figlio di Dio, fattosi umanissima e divina Presenza che ricolmava e convinceva.

 

Il lungo Viaggio del Cristo è traccia del nostro: dall’iniziativa del Padre alla capacità dei figli di accoglierlo, custodirlo, venerarlo, corrispondergli - semplicemente accostando le ‘radici’.

E non rifiutarlo, se “perdente”. Ecco l’omaggio d’intesa.

Solo questo riempie la Casa di Betania - ossia la Chiesa che vale la pena sperimentare - del profumo del Cristo totale e Vivo. E lo rivela.

In tali circostanze, Gesù difende il diritto dell’amore da dentro di esprimersi liberamente: dove tutto diventa possibile.

Viceversa, il convivente-habitué privo dello “spreco” del Gratis e di un Esodo ideale senza incanto, rimane stordito dal condizionamento delle false, troppo comuni guide spirituali.

Mestieranti opportunisti, che tutto soppesano in modo astuto, unilaterale - rovinando la vita autentica e ogni rinascita interiore.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quando mi comporto in modo da diffondere il profumo della gratuità?

La realtà in cui sono introdotto è una Betania ospitale? Aiuta o soffoca le sorprese ministeriali?

L’arrivo di un senza voce assume l’importanza di evento pasquale e mette tutti in festa, o nel sospetto?

Ti comprometti dall’intimo... o prima cerchi l’approvazione?

 

 

Immedesimazione e libertà. Florilegio

 

«Quindi conta soprattutto il valore interiore del dono. Nella Sacra Scrittura e secondo le categorie evangeliche, “elemosina” significa anzitutto dono interiore. Significa l’atteggiamento di apertura “verso l’altro”» [Giovanni Paolo II, Udienza Generale 28 marzo 1979]. 

«Pensiamo a quel momento quando Maria lava i piedi di Gesù con il nardo, tanto costoso: è un momento religioso, un momento di gratitudine, un momento di amore. E Giuda si distacca e fa la critica amara: “Ma questo potrebbe essere usato per i poveri!”. Questo è il primo riferimento che ho trovato io, nel Vangelo, della povertà come ideologia. L’ideologo non sa cosa sia l’amore, perché non sa darsi» [Papa Francesco, omelia s. Marta 14/05/2013]

«Lasciamolo entrare nella nostra casa. Lasciamo che la nostra vita sia invasa dall’irrefrenabile profumo del dono. L’amore immenso e gratuito di Dio si fa carne, si lascia contemplare sulla croce in tutta la sua sconvolgente e folle radicalità» [Papa Francesco].

 

«L’unguento che Maria spande è il simbolo della comunione nuziale con Gesù espresso dalla comunità cristiana. Celebriamo la chiamata delle nostre comunità cristiane, rappresentate da Maria di Betania, alla comunione totale con Gesù, datore di vita. È lui che trasforma quello che sarebbe dovuto essere il banchetto funebre in memoria di Lazzaro in un banchetto di gioia. È lui che tramuta il fetore insopportabile di un morto “quadriduano” nel profumo che inonda la casa di letizia. È lui che protesta contro tutti i Giuda della terra, i quali considerano sprecato l’unguento prezioso della intimità con Dio è oppongono i poveri al Signore. È lui che rifiuta la ‘praticità’ di tutti coloro che preferiscono l’efficienza del denaro a ogni estasi d’amore, e riducono malinconicamente in valuta monetaria anche ciò che non ha prezzo. È lui, insomma, che dobbiamo ricercare nella preghiera d’abbandono, nell’esperienza contemplativa e nella consuetudine di vita.

Il Signore ci preservi dall’errore di Giuda il quale, insensibile al profumo del nardo, avverte solo il tintinnare dei soldi, e, invece che percepire la lucentezza dell’olio, si lascia sedurre dallo scintillio dell’argento. Qual è questo profumo d’unguento di cui dobbiamo riempire la casa, e qual è questo buon profumo di Cristo che dobbiamo diffondere nel mondo? Il profumo che deve riempire la casa è la comunione. Naturalmente, come quello comprato da Maria di Betania, l’olio della comunione ha un prezzo carissimo. E noi dobbiamo pagarlo, senza sconti, con tanta preghiera, anche perché non è un prodotto commerciale in vendita nelle nostre profumerie, né è frutto dei nostri sforzi titanici. È un dono di Dio che dobbiamo implorare senza stancarci. Ma l’otterremo, ne sono certo; e il suo profumo riempirà tutta la nostra Chiesa» [don Tonino Bello, Lessico di comunione]

 

«C’è una povertà verticale che ci riguarda tutti, è nostra. Una volta riconosciuta, questa povertà si esprime in un gesto gratuito di adorazione, crea lo spazio “inutile” della liturgia, offre a Dio le primizie togliendosele di bocca. Nella vita di fede c’è uno spreco inevitabile e amabile, un esaltarsi nel puro nulla: uomini e donne che si sciupano consacrandosi a Dio, tempo perduto nella preghiera. L’adorazione è spreco. Che sarebbe la Chiesa, se la borsa di Iscariote fosse piena per i poveri e la casa di Betania vuota di profumo?» [V. Mannucci]

Domenica, 06 Aprile 2025 04:18

Gesto di devozione profonda

Il Vangelo poc’anzi proclamato ci conduce a Betania, dove, come annota l’Evangelista, Lazzaro, Marta e Maria offrirono una cena al Maestro (Gv 12,1). Questo banchetto in casa dei tre amici di Gesù è caratterizzato dai presentimenti della morte imminente: i sei giorni prima di Pasqua, il suggerimento del traditore Giuda, la risposta di Gesù che richiama uno degli atti pietosi della sepoltura anticipato da Maria, l’accenno che non sempre lo avrebbero avuto con loro, il proposito di eliminare Lazzaro in cui si riflette la volontà di uccidere Gesù. In questo racconto evangelico, c’è un gesto sul quale vorrei attirare l’attenzione: Maria di Betania “prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli” (12,3). Il gesto di Maria è l’espressione di fede e di amore grandi verso il Signore: per lei non è sufficiente lavare i piedi del Maestro con l’acqua, ma li cosparge con una grande quantità di profumo prezioso, che – come contesterà Giuda – si sarebbe potuto vendere per trecento denari; non unge, poi, il capo, come era usanza, ma i piedi: Maria offre a Gesù quanto ha di più prezioso e con un gesto di devozione profonda. L’amore non calcola, non misura, non bada a spese, non pone barriere, ma sa donare con gioia, cerca solo il bene dell’altro, vince la meschinità, la grettezza, i risentimenti, le chiusure che l’uomo porta a volte nel suo cuore.

Maria si pone ai piedi di Gesù in umile atteggiamento di servizio, come farà lo stesso Maestro nell’Ultima Cena, quando – ci dice il quarto Vangelo – “si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli” (Gv 13,4-5), perché – disse – “anche voi facciate come io ho fatto a voi” (v. 15): la regola della comunità di Gesù è quella dell’amore che sa servire fino al dono della vita. E il profumo si spande: “tutta la casa – annota l’Evangelista – si riempì dell’aroma di quel profumo” (Gv 12,3). Il significato del gesto di Maria, che è risposta all’Amore infinito di Dio, si diffonde tra tutti i convitati; ogni gesto di carità e di devozione autentica a Cristo non rimane un fatto personale, non riguarda solo il rapporto tra l’individuo e il Signore, ma riguarda l’intero corpo della Chiesa, è contagioso: infonde amore, gioia, luce.

“Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto” (Gv 1,11): all’atto di Maria si contrappongono l’atteggiamento e le parole di Giuda, che, sotto il pretesto dell’aiuto da recare ai poveri, nasconde l’egoismo e la falsità dell’uomo chiuso in se stesso, incatenato dall’avidità del possesso, che non si lascia avvolgere dal buon profumo dell’amore divino. Giuda calcola là dove non si può calcolare, entra con animo meschino dove lo spazio è quello dell’amore, del dono, della dedizione totale. E Gesù, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, interviene a favore del gesto di Maria: “Lasciala fare, perché ella lo conservi per il giorno della mia sepoltura” (Gv 12,7). Gesù comprende che Maria ha intuito l’amore di Dio ed indica che ormai la sua ”ora” si avvicina, l’“ora” in cui l’Amore troverà la sua espressione suprema sul legno della Croce: il Figlio di Dio dona se stesso perché l’uomo abbia la vita, scende negli abissi della morte per portare l’uomo alle altezze di Dio, non ha paura di umiliarsi “facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2,8). Sant’Agostino, nel Sermone in cui commenta tale brano evangelico, rivolge a ciascuno di noi, con parole incalzanti, l’invito ad entrare in questo circuito d’amore, imitando il gesto di Maria e ponendosi concretamente alla sequela di Gesù. Scrive Agostino: “Ogni anima che voglia essere fedele, si unisce a Maria per ungere con prezioso profumo i piedi del Signore… Ungi i piedi di Gesù: segui le orme del Signore conducendo una vita degna. Asciugagli i piedi con i capelli: se hai del superfluo dallo ai poveri, e avrai asciugato i piedi del Signore” (In Ioh. evang., 50, 6).

[Papa Benedetto, omelia 29 marzo 2010]

Domenica, 06 Aprile 2025 04:14

Elemosina, dono interiore

1. “Paenitemini et date eleemosynam” (cf. Mc 1,15 e Lc 12,33).

La parola “elemosina” oggi non l’ascoltiamo volentieri. Sentiamo in essa qualcosa di umiliante. Questa parola sembra supporre un sistema sociale in cui regna l’ingiustizia, l’ineguale distribuzione dei beni, un sistema che dovrebbe essere cambiato con riforme adeguate. E se tali riforme non venissero compiute, si delineerebbe all’orizzonte della vita sociale la necessità di cambiamenti radicali, soprattutto nell’ambito dei rapporti tra gli uomini. La stessa convinzione troviamo nei testi dei Profeti dell’Antico Testamento, ai quali attinge spesso la Liturgia nel tempo di Quaresima. I Profeti considerano questo problema a livello religioso: non vi è vera conversione a Dio, non può esserci autentica “religione” senza riparare ingiurie e ingiustizie nei rapporti tra gli uomini, nella vita sociale. Eppure in tale contesto i Profeti esortano l’elemosina.

Non usano nemmeno la parola “elemosina” che del resto in ebraico è “sedaqah”, cioè proprio “giustizia”. Chiedono aiuto per quelli che subiscono ingiustizia e per i bisognosi: non tanto in virtù della misericordia, quanto piuttosto in virtù del dovere della carità operante. “Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: / sciogliere le catene inique, / togliere i legami del giogo, / rimandare liberi gli oppressi / e spezzare ogni giogo? / Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, / nell’indurre in casa i miseri, senza tetto, / nel vestire uno che vedi nudo, / senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne?” (Is 58,6-7).

La parola greca “eleemosyne” si trova nei tardivi libri della Bibbia e la pratica dell’elemosina è una verifica di una autentica religiosità. Gesù fa dell’elemosina una condizione dell’accesso al suo regno (cf. Lc 12,32-33) e della vera perfezione (Mc 10,21 e par.). D’altra parte, quando Giuda – di fronte alla donna che ungeva i piedi di Gesù – pronunciò la frase: “Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento danari, per poi darli ai poveri?” (Gv 12,5), Cristo difese la donna rispondendo: “I poveri... li avete sempre con voi, ma non sempre avete me” (Gv 12,8). L’una e l’altra frase offrono motivo di grande riflessione.

2. Che cosa significa la parola “elemosina”.

La parola greca “eleemosyne” proviene da “eleos” che vuol dire compassione e misericordia; inizialmente indicava l’atteggiamento dell’uomo misericordioso e, in seguito, tutte le opere di carità verso i bisognosi. Questa parola trasformata è rimasta quasi in tutte le lingue europee.

In francese: “aumône”; spagnolo: “limosna”; portoghese: “esmola”; tedesca: “Almosen”; inglese: “alms”. Perfino l’espressione polacca “jalmuzna” è la trasformazione della parola greca.

Dobbiamo qui differenziare il significato oggettivo di questo termine dal significato che gli diamo nella nostra coscienza sociale. Come risulta da ciò che abbiamo già detto in precedenza, al termine “elemosina” attribuiamo spesso, nella nostra coscienza sociale, un significato negativo. Diverse sono le circostanze che vi hanno contribuito e vi contribuiscono anche oggi. Invece, l’“elemosina” in se stessa, come aiuto a chi ne ha bisogno, come “il fare partecipare gli altri ai propri beni”, non suscita assolutamente simili associazioni negative. Possiamo non esser d’accordo con chi fa l’elemosina, per il modo in cui la fa. Possiamo anche non consentire con chi tende la mano chiedendo l’elemosina, in quanto non si sforza di guadagnarsi la vita da sé. Possiamo non approvare la società, il sistema sociale, in cui ci sia necessità di elemosina. Tuttavia il fatto stesso di prestare aiuto a chi ne ha bisogno, il fatto di condividere con gli altri i propri beni deve suscitare rispetto.

Vediamo quanto nell’intendere le espressioni verbali bisogna liberarsi dall’influsso delle varie circostanze accidentali: circostanze spesso improprie, che gravano sul loro significato ordinario. Queste circostanze sono del resto alle volte in se stesse positive (ad esempio, nel nostro caso: l’aspirazione ad una società giusta, in cui non vi sia necessità di elemosina, perché vi regni la giusta distribuzione dei beni).

Quando il Signore Gesù parla di elemosina, quando chiede di praticarla, lo fa sempre nel senso di portare aiuto a chi ne ha bisogno, di condividere i propri beni con i bisognosi, cioè nel senso semplice ed essenziale, che non ci permette di dubitare del valore dell’atto denominato con il termine “elemosina”, anzi ci sollecita ad approvarlo: come atto buono, come espressione di amore verso il prossimo e come atto salvifico.

Inoltre, in un momento di particolare importanza, Cristo pronuncia queste parole significative: “I poveri... li avete sempre con voi” (Gv 12,8). Con tali parole non intende dire che i cambiamenti delle strutture sociali ed economiche non valgano e che non si debba tentare diverse vie per eliminare l’ingiustizia, l’umiliazione, la miseria, la fame. Vuole soltanto dire che nell’uomo ci saranno sempre delle necessità, le quali non potranno essere altrimenti soddisfatte se non con l’aiuto al bisognoso e col far partecipare gli altri ai propri beni... Di quale aiuto si tratta? Di quale partecipazione? Forse soltanto di “elemosina”, intesa sotto forma di denaro, di soccorso materiale?

3. Certamente Cristo non toglie l’elemosina dal nostro campo visivo. Egli pensa anche all’elemosina pecuniaria, materiale, ma a modo suo. Più di ogni altro eloquente, a questo proposito, è l’esempio della vedova povera, che deponeva nel tesoro del tempio alcuni spiccioli: dal punto di vista materiale, un’offerta difficilmente paragonabile alle offerte che davano gli altri. Tuttavia Cristo disse: “Questa vedova... ha dato tutto quanto aveva per vivere” (Lc 21,3-4). Quindi conta soprattutto il valore interiore del dono: la disponibilità a condividere tutto, la prontezza a dare se stessi.

Ricordiamo qui San Paolo: “Se anche distribuissi tutte le mie sostanze... ma non avessi la carità, niente mi giova” (1Cor 13,3). Anche Sant’Agostino (S. Agostino, Enarrat. in Ps. 125, 5) scrive bene a questo proposito: “Se stendi la mano per donare, ma nel cuore non hai misericordia, non hai fatto nulla; se invece nel cuore hai misericordia, anche quando non avessi nulla da donare con la tua mano, Dio accetta la tua elemosina”.

Qui tocchiamo il nucleo centrale del problema. Nella Sacra Scrittura e secondo le categorie evangeliche, “elemosina” significa anzitutto dono interiore. Significa l’atteggiamento di apertura “verso l’altro”. Proprio tale atteggiamento è un fattore indispensabile della “metànoia”, cioè della conversione, così come sono anche indispensabili la preghiera e il digiuno. Infatti ben si esprime Sant’Agostino (S. Agostino, Enarrat. in Ps. 42, b): “Quanto celermente sono accolte le preghiere di chi opera il bene! E questa è la giustizia dell’uomo nella vita presente: il digiuno, l’elemosina, l’orazione”: la preghiera, quale apertura verso Dio; il digiuno, quale espressione del dominio di sé anche nel privarsi di qualcosa, nel dire “no” a se stessi; e infine l’elemosina, quale apertura “verso gli altri”. Tale quadro delinea chiaramente il Vangelo quando ci parla della penitenza, della “metànoia” Solo con un atteggiamento totale – nel rapporto con Dio, con se stesso e con il prossimo – l’uomo raggiunge la conversione e permane nello stato di conversione.

L’“elemosina” così intesa ha un significato in un certo senso decisivo per una tale conversione. Per convincersene, basta ricordare l’immagine del giudizio finale che Cristo ci ha dato: “Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,35-40). E i Padri della Chiesa diranno poi con San Pietro Crisologo (S. Pietro Crisologo, Sermo VIII, 4): “La mano del povero è il gazofilacio di Cristo, poiché tutto ciò che il povero riceve è Cristo che lo riceve”, e con San Gregorio di Nazianzo (S. Gregorio di Nazianzo, De pauperum amore, XI): “Il Signore di tutte le cose vuole la misericordia, non il sacrificio; e noi la diamo attraverso i poveri”.

Pertanto, questa apertura agli altri, che si esprime con l’“aiuto”, con il “dividere” il cibo, il bicchiere d’acqua, la buona parola, il conforto, la visita, il tempo prezioso, ecc., questo dono interiore offerto all’altro uomo giunge direttamente a Cristo, direttamente a Dio. Decide dell’incontro con lui. È la conversione.

Nel Vangelo, e anche in tutta la Sacra Scrittura, possiamo trovare molti testi che lo confermano. L’“elemosina” intesa secondo il Vangelo, secondo l’insegnamento di Cristo, ha nella nostra conversione a Dio un significato definitivo, decisivo. Se manca l’elemosina, la nostra vita non converge ancora pienamente verso Dio.

4. Nel ciclo delle nostre riflessioni quaresimali, occorrerà riprendere questo tema. Oggi, prima di concludere, fermiamoci ancora un momento sul vero significato dell’“elemosina”. È molto facile, infatti, falsificarne l’idea, come abbiamo già avvertito all’inizio. Gesù dava ammonimenti anche rispetto all’atteggiamento superficiale, “esteriore” dell’elemosina (cf. Mt 6,2-4; Lc 11,41). Questo problema è sempre vivo. Se ci rendiamo conto del significato essenziale che l’“elemosina” ha per la nostra conversione a Dio e per tutta la vita cristiana, dobbiamo evitare, ad ogni costo, tutto ciò che falsifica il senso dell’elemosina, della misericordia, delle opere di carità: tutto ciò che può deformarne l’immagine in noi stessi. In questo campo, è molto importante coltivare la sensibilità interiore verso i bisogni reali del prossimo, per sapere in che cosa dobbiamo aiutarlo, come agire per non ferirlo, e come comportarci, affinché ciò che diamo, che portiamo nella sua vita, sia un dono autentico, un dono non aggravato dal senso ordinario negativo della parola “elemosina”.

Vediamo dunque quale campo di lavoro – ampio e insieme profondo – si apre davanti a noi, se vogliamo mettere in pratica il richiamo: “Paenitemini et date eleemosynam” (cf. Mc 1,15; Lc 12,33). È un campo di lavoro non soltanto per la Quaresima, ma per ogni giorno. Per tutta la vita.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 28 marzo 1979]

Domenica, 06 Aprile 2025 04:02

L’ideologia non sa cos’è l’amore

Papa Francesco, questa mattina nell’omelia a Casa Santa Marta, ha detto che bisogna «vivere la vita come un dono, non come un tesoro da conservare». Ce lo ha insegnato, per primo, lo stesso Gesù, quando ha detto che «nessuno ha un amore più forte di questo: dare la sua vita». L’esatto contrario, ha sottolineato il pontefice, di quanto fatto da Giuda, «che aveva proprio l’atteggiamento contrario», e infatti «non mai ha capito cosa fosse un dono».

«Pensiamo a quel momento della Maddalena – ha spiegato papa Francesco -, quando lava i piedi di Gesù con il nardo, tanto costoso: è un momento religioso, un momento di gratitudine, un momento di amore. E lui, si distacca e fa la critica amara: “Ma questo potrebbe essere usato per i poveri!”. Questo è il primo riferimento che ho trovato io, nel Vangelo, della povertà come ideologia. L’ideologo non sa cosa sia l’amore, perché non sa darsi».
L’errore di Giuda era di essere impermeabile e distante dall’amore di Cristo: una solitudine che lo ha portato al tradimento. Chi ama, invece, «dà la vita come dono, dà la vita per amore, mai è solo: sempre è in comunità, è in famiglia». Del resto, ha avvertito il Pontefice, colui che «isola la sua coscienza nell’egoismo» alla fine «la perde».

[Papa Francesco, omelia s. Marta 14/05/2013: https://www.tempi.it/papa-francesco-vivete-la-vita-come-dono-satana-e-un-cattivo-pagatore-sempre-ci-truffa-sempre/]

Sabato, 05 Aprile 2025 06:55

Palme e somarello: instabili euforie

(Mt  21,1-11; Mc 11,1-10; Lc 19,28-40; Gv 12,12-16)

 

Nei Vangeli il Signore non si lascia identificare con l’Aquila di Gv, sebbene sia Lui che viene dall’alto - e ‘vede’ oltre l’immediato.

Non è un essere spirituale alato [come il simbolo di Mt] bensì pienamente incarnato, malgrado sia l’Angelo autentico, ossia Inviato del Padre per eccellenza.

Gesù non viene associato al ‘leone’ [Mc], re della foresta e delle bestie, benché sia l’unico uomo riuscito e maestosamente regale - la Persona vera e totalmente ‘presente’ secondo Dio.

Tanto meno lo accostiamo al ‘bue’ [Lc], icona dell’antica devozione tradizionalmente sacrificale.

Su base evangelica non è possibile neanche immaginare la figura e la proposta del Maestro con il tipico “bestiario” d’omaggio e rispettosità con cui nell’Oriente antico venivano idealizzati sovrani e dignitari, tutti i potenti e gli eletti anche della casta religiosa ufficiale.

 

I Vangeli non riconoscono Gesù quale ‘rapace’ maestoso: fanno coincidere la stabilità, la qualità e l’azione del suo Spirito nell’icona della «colomba».

Poi con una figura che fa proprio ridere i polli: la ‘gallina’, la quale si duole delle scelte rovinose della sua nidiata (Mt 23,37).

In luogo della potenza del ‘leone’ [di Babilonia o della tribù di Giuda] ecco: mansuetudine d’Agnello che dona tutto di sé, pelle compresa.

In luogo delle rinunce ascetiche, o d’animali destinati all’offertorio necessario a placare gli dei, un «uomo dal cuore di carne e non di belva» con ideale di Comunione; vita strappata al preumano.

 

Come dire: è una trama d’essere (se stessi, anche piccoli) e di relazioni qualitative, che soppianta e sublima le arcaiche pratiche sacrificali [sacrum-facere] con cui anticamente si cercava il contatto e un rapporto di reciprocità con la Vita celeste.

Ora essa s’identifica con la pienezza umana.

 

Invece della strafottenza focosa d’un destriero che incalza e si rende protagonista di grandi imprese, collaborando appieno a rendere illustre il suo condottiero, vediamo un simbolo di laboriosità instancabile, calato nella vita comune di tutti: il ‘somarello’!

Quella dell’«asinello» è una fragorosa proposta di vita dimessa, su misura per discepoli ancora distratti, imbambolati da sogni di solennità, prestigio, gloria mondana, e smanie competitive.

Vuol dire: dentro ciascuno di noi c’è una «profezia di servizio» incessante che dev’essere “slegata”.

Come se nell’intimo dimorasse un essere sorgivo inespresso che può e vuol venire «sciolto» dai molti legacci delle aspettative di successo facile, di grandezza, di consenso.

Speranze prima indifferenti o sdegnate - per aver dato credito a un Messia dimesso.

 

Tale il livello della Fede che surclassa il comune senso religioso.

Per questo lo stesso popolo che acclama acclama, attendendosi una celebrazione trionfale, sublimi riconoscimenti e facili scorciatoie - poi si accoda al rifiuto di Cristo.

 

 

[Domenica delle Palme]

Sabato, 05 Aprile 2025 06:46

Passione d’Amore secondo Lc

(Lc 22,14-23,56)

 

Gesù introduce nel mondo una novità totale, principio di vita: l’amore senza condizioni.

I fatti narrati nei racconti di Passione sono fondamentalmente gli stessi, ma ogni autore sottolinea temi di catechesi ritenuti urgenti per la sua comunità.

Sebbene collocata in una tensione di anticipazione ecclesiale (Regno), dal tono della narrazione di Lc è evidente che la Cena abbia avuto un qualche carattere di continuazione dei pasti che Gesù consumava coi suoi.

Qui Egli già trasmette la totalità di se stesso: «Questo sono io». Unica Via che unisce al Padre è la sua Persona e la sua vicenda storica, che condensano il mistero dell’alleanza.

Altre strade come ad es. quelle tracciate dai Patti d’Israele non riescono più a contenere la sua proposta d’Amore e Vita piena.

 

Mt Mc Lc situano l’istituzione dell’Eucaristia all’interno della cena pasquale giudaica. Una rielaborazione teologica per affermare (nella Fede) il senso dell’autentica Pasqua di Liberazione in Cristo.

Rispetto ai primi tre, il quarto Vangelo è più aderente al senso del Pane Spezzato come fonte di Vita per tutti.

Gv “anticipa” la morte del Signore al momento in cui i sacerdoti sgozzavano gli agnelli destinati alla cena di Pasqua, sulla spianata del Tempio.

Quindi il sacrificio della Croce - contemporaneo a quest’ultimo evento - è giustamente collocato da Gv nelle ore precedenti la cena “pasquale” dei Sinottici.

In effetti, la Cena del Signore che celebriamo non ha avuto origine dalla celebrazione popolare dell’Esodo (del Primo Testamento) nell’aprile dell’anno 30 (Gesù aveva 37 anni).

L’Eucaristia infatti non ha mai avuto a che fare con gl’ingredienti tipici della mensa di Pasqua ebraica, quali spezie o salse, erbe dolci e amare, differenti calici di vino e così via.

Il senso originale del gesto rituale del Maestro coi suoi - che introduce il racconto della Passione - è quella gioiosa dello Zebah-Todah (Lv 7,11ss: unico culto votivo che poteva essere celebrato fuori del Tempio di Gerusalemme, in casa, con amici e famigliari).

Da ciò il doppio termine (comune) con cui si designa ancora il segno efficace che Cristo ci ha lasciato: Comunione (Zebah) ed Eucaristia (Ringraziamento: Todah).

Todah era un sacrificio di grande lode, uno dei vari generi specifici del sacrificio di Comunione. Ne rinveniamo diverse tracce nella Preghiera Eucaristica prima.

L’azione cerimoniale del Ringraziamento era inteso in senso molto forte, perché celebrava la Vita ritrovata, dopo una grave malattia o uno scampato pericolo di morte.

Buona parte dei Salmi - forse più di un terzo - in diversi punti esprimono la medesima gioia finale (scongiurata minaccia mortale, e l’esperienza di ritrovarsi salvati insieme ai propri cari, per Dono divino).

Il senso di quest’inneggiare nel quotidiano era infatti inizialmente anche per la Chiesa Cattolica (per quasi tutto il primo millennio, al pari della Chiesa Ortodossa) celebrato con pane lievitato (Lv 7,13), per indicarne il valore domestico e reale.

Esso ricalca i toni propri di tale antico culto di rendimento di grazie in focolare - purtroppo, difficile da tradurre nel senso delle formule proprie, percepibili solo ad un orecchio specialmente allenato (o nel testo originale in lingua ebraica).

L’atmosfera lieta e famigliare con cui si celebrava il rito di Comunione e Ringraziamento sembra qui intaccata dal dramma dell’infedeltà. È un forte richiamo alla vigilanza per tutti noi.

 

Gesù si porge ai suoi in forma di eredità e di tesoro. «Fate questo in mia memoria»: fra gli evangelisti solo Lc riferisce tali parole.

Il senso non riguarda le ripetizioni liturgiche. Il segno del Pane spezzato è riassuntivo - e un invito a fare nostra la sua proposta di esistenza, segnata dalla fedeltà a se stesso, alla vocazione, ai malfermi.

Il gesto del Signore c’introduce nel senso della libertà personale e nel servizio; in una forma di comunità a criteri rovesciati.

Il trattenere viene soppiantato dal dare, il salire diviene libertà di scendere, il comandare viene sostituito dal dialogo e dall’aiuto reciproco; la smania di apparire svanisce.

Coloro che signoreggiano pretendono persino di essere chiamati «Benefattori»? «Fra voi non così» (vv.25-26).

Chi ha ricevuto in dono la pienezza dimostra attitudine al superamento delle brame di precedenza e riconoscimenti.

Proprio durante la Cena Lc inserisce la discussione su quale discepolo fosse il più grande, perché Cristo la ritiene questione centrale.

L’evangelista la colloca nel momento del testamento di Gesù: è richiesta inviolabile.

Dove - malgrado le grandi apparenze - persiste la voglia di vincere e accapigliarsi non c’è nulla del mistero aperto sognato da Gesù.

La Chiesa caratterizzata da un tessuto di opposizioni, poteri, interessi, predominio di cerchie e lotta costante non manifesta nulla di divino.

 

«Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione, e alla morte» - ovviamente per finta (come mostra la negazione di Pietro stesso) e comunque per vincere.

Nel momento decisivo il “capo” non c’è, e se c’è fa mille piroette.

È vero pure che la vita della Chiesa e il senso della Passione si tengono su un piano misterioso, ma le persone cercano testimoni, non direttori.

Certo, i responsabili di comunità che abbandonano non vengono a loro volta respinti ed emarginati dal Signore, purché prima o poi si mettano in testa di «pascere i Suoi agnelli» (Gv 21,16), ossia nutrirli come si deve, con cibo sano.

Ma il rinnegato può diventare il prototipo di tutti i leaders che conoscono i propri limiti.

Bisogna capire la debolezza. Gesù non sottolinea l’errore del discepolo che tradisce. L’imputazione scosta da ogni cammino. Chi non si sente accolto finisce per ripiegarsi su di sé.

Quindi è opportuno non aggredire, e non solo rimediare ai guai. Prendersi cura (v.51) aiuta a crescere e liberare dalle schiavitù.

Lo sguardo rivolto a Pietro coglie l’intimo (v.61: en-blepein) del discepolo rinnegato: dietro le parole vili e i gesti codardi Gesù vede il bene - malgrado in alcuni momenti possiamo allontanarci.

 

Il Vangelo di Lc dipende molto da Mc, eppure nel racconto della Passione notiamo più punti di contatto con il quarto Vangelo.

Come Gv, infatti, Lc presenta la Passione d’amore di Cristo al pari d’uno scontro - già annunciato a termine delle tentazioni nel deserto (4,13).

Agonia è un termine che compare solo nel terzo Vangelo, a indicare la competizione, il combattimento interiore di colui che dev’essere fedele alla propria Chiamata.

Il sudore di sangue (v.44) esprime il tremito di chi si concentra nella lotta intima.

Quando le cose si prendono sul serio, ecco affacciarsi le notti di vero terrore - che possono essere anche nostre.

«Entrato in agonia, pregava più intensamente» (v.44). Cristo non si prepara recitando formule. Si mette in ascolto del Padre per cogliere e fare propri i suoi progetti.

Se - sopraffatto - Gesù fosse fuggito, le autorità lo avrebbero lasciato andare.

La figura dell’Angelo (Dio che si comunica a noi) è la rivelazione interiore che fa comprendere il valore della scelta di permanere.

 

«Alla destra della potenza di Dio» (v.69): aspetto sorprendente del paradosso cristiano è appunto scoprire nella propria esperienza il potere della vita che si riattualizza.

Ma la vita divina di qualità indistruttibile ha specie contraria... totalmente imprevedibile nelle sue dinamiche di principio... sia a paragone delle condanne sentenziose, che dei giudizi da tribunale religioso.

 

Insuperabile è la narrazione dell’incontro con Erode (23,6-11).

Il tetrarca della Galilea era a Gerusalemme in occasione della Pasqua, e poiché Pilato voleva sbarazzarsi del problema manda Gesù al suo re.

Il figlio di Erode il Grande desiderava incontrare Gesù da tempo. La sua prima reazione - nota Lc - è stata quella di una grande gioia, perché si aspettava d’incontrare un mago, un indovino, un esperto di arti occulte. Magari di fronte a lui il Nazareno si sarebbe finalmente convinto a compiere qualche gesto straordinario (una di quelle guarigioni di cui aveva sentito parlare).

L’evangelista nota che Gesù non lo degnò di risposta.

Di contro il sovrano «lo annientò» (23,11), ossia lo considerò un niente...

Non poteva avere maggiore delusione che quella di non vedere compiere alcun miracolo.

Il Messaggio è chiaro: meglio non cercare Gesù come facitore di prodigi: non riceveremo risposta.

Qua e là forse troveremo ciò che si cerca di norma nella religione, ma il Signore non si presta.

Cristianesimo è il luogo dell’ascolto della Parola della vita: una proposta per costruire secondo Dio; non il mercato dei miracoli portato avanti da opportunisti.

Per questo il Figlio è crocifisso tra criminali. Per il potere politico e religioso, lui era un pericolo assai peggiore.

Secondo Lc solo uno lo oltraggiava; l’altro chiama Gesù per nome e gli si affida (v.42).

 

All’inizio del Vangelo la venuta del Signore è collocata fra gli ultimi della terra.

Egli sin dall’inizio si manifesta al mondo tra gente impura e persone disprezzate [addirittura sicure di dover essere fatte fuori dal Messia giudice, e che quindi ne avevano timore] non fra i giusti e santi del Tempio.

Poi tutta la sua vita si svolge in mezzo a pubblicani e peccatori, perché venuto per loro.

Infatti: chi riporta in casa del Padre? Uno qualunque, che rappresenta tutti noi - un malfattore che aveva compiuto omicidi - perché tutti i peccati consistono nel togliere vita e gioia di vivere a qualcuno.

Così quell’assassino ci rappresenta. E il Cristo inizia a edificare Famiglia proprio con un criminale accanto, che siamo noi: peccatori recuperati dal suo amore senza condizioni.

 

Le «figlie di Gerusalemme» piangono perché il popolo rimane solo, interdetto fra i sogni violenti di Barabba e il realismo politico di Roma. Accettando la proposta di Cristo, la città santa poteva spezzare le catene dell’azione e reazione, dell’offesa-e-ritorsione, dello spirito di vendetta che pende sul mondo.

Ma sul Golgota si rivela il potere definitivo della Grazia - fondamento della vita - sulle vecchie linee del mondo morto:

«Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (23,34): le ultime parole di Gesù, anch’esse riferite solo da Lc.

Il discepolo di Cristo non conosce il linguaggio dell’imprecazione, della maledizione, di chi invoca castighi.

Anche nei momenti più drammatici d’ingiustizia e vessazione siamo chiamati a pronunciare solo amore: cedere, fonte di energie nuove e recuperi inspiegabili.

Piattaforma dell’esistenza nuova della Chiesa.

Sabato, 05 Aprile 2025 06:39

Palme e somarello: instabili euforie

(Mt  21,1-11; Mc 11,1-10; Lc 19,28-40; Gv 12,12-16)

 

A scuola i ragazzi avevano sempre difficoltà a distinguere due artisti senesi, Simone Martini e il suo maestro Duccio - meno cortigiano e più inquietante - sino a quando il catechista non fece notare un particolare dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme sulla Maestà di Siena; primo grande polittico della storia.

Duccio di Buoninsegna aveva arricchito la scena con simboli pasquali come l’albero dietro il capo di Cristo che allude al patibolo vitale, nonché la cupola di colore chiarissimo che svetta ancor sopra [icona del corpo del Risorto come “tempio ricostruito”].

Ma ciò che faceva riflettere era il netto contrasto fra le due porte del lato destro del pannello - anch’esse sul medesimo asse compositivo - a sottolineare la divergenza di situazioni.

Nel dipinto l’accesso grande della città sovrasta nobilmente una folla che acclama, mentre la porticina in primo piano in basso allude all’ingresso nell’orto del Getsemani.

Uscio inferiore e recinto delimitano un terreno desertico. Elementi che s’incuneano in modo spigoloso e quasi maldestro nell’armonia della bella (ma paradossale) composizione.

È vivo il contrasto fra l’ampio varco gremito di moltitudine assiepata in festa, e la soglia con quello spazio rimasti disattesi; icone del senso di abbandono, mestizia e solitudine di chi accede e l’attraversa.

Raffigurazione stridente, se comparata con l’inneggiare delle calche cittadine - malgrado, tutto il settore dei notabili rimanga a osservare perplesso.

Insomma, l’idea comune d’un ingresso messianico nella città santa reso scorrevole e trionfante sull’onda del momento vantaggioso, è incrinata e disturbata da dettagli incongrui.

Ingredienti-spia, che invitano a un genere di riflessioni ancora purtroppo assenti nell’immaginario popolare, inchiodato su luoghi comuni più scenografici e direttamente piacevoli della festa delle Palme.

 

Un approfondimento biblico indusse la comunità parrocchiale a scrutare le tematiche inedite che via via sorgevano da una lettura attenta dei testi.

Anche i ragazzi si accorsero: l’atmosfera naturale, il ripetersi scandito che crea abitudine, e l’allestimento del culto, potevano fare brutti scherzi, veicolando significati persino a vanvera - alcuni addirittura opposti al richiamo dei Vangeli.

Man mano ci si rendeva conto del motivo per cui dopo la proclamazione dell’Ingresso e la festante processione condita di Osanna e graziosi rametti in mano - la Liturgia della Parola imponesse il momento faticoso discorde, della proclamazione del Passio.

Anche il Vangelo d’esordio della Liturgia venne reinterpretato dal parroco in un modo che sbalordì la comunità vivacemente riunita.

Il sacerdote chiese ai giovani increduli quali fossero gli “animali” preferiti dalla sacra Scrittura per descrivere Gesù e la sua proposta.

Iniziò allora una provocazione, che però fece riflettere circa le abitudini pittoresche e alcune frasi fatte; nonché, ponderare gli stereotipi troppo concordisti e armonici.

 

Insomma, ancora oggi, nel “villaggio” delle tradizioni antiche bisogna che i discepoli recuperino e liberino la profezia della sua Persona dimessa. È l’unica cosa di cui il Signore ha bisogno.

Egli viene per proporre un diverso Volto di Dio, non dominatore violento - e una differente relazione del popolo dei figli che vogliono crescere, rispetto a quanto ci si attendeva: potere e tranquillità.

Nessuna regalità mondana, né guerre da fare - questo il senso del gesto di deporre il mantello sulla cavalcatura modesta.

In tal guisa, i discepoli autentici sono d’accordo con il profilo basso del Messia di pace.

Ma l’adesione non è condivisa. Gran parte degli astanti si umiliano a stendere i mantelli sulla strada [a quel tempo segno di subordinazione]: essi preferiscono la soggezione a un Re glorioso.

E purtroppo, nei secoli non pochi credenti hanno anteposto la sottomissione all’amore, rischiosa gestione della propria libertà di essere e fare.

I rami tagliati? Alludono alla festa delle Capanne, durante la quale avrebbe dovuto apparire il Messia... immaginato Grande, vendicatore, propugnatore d’un facile benessere a spese di altri popoli.

Così Gesù si trova costretto e come preso in ostaggio fra due ali di folla: un gruppo che dirige, per indicargli la strada del potere - e uno che lo pressa, come per non lasciarselo scappare, né fargli fare di testa sua.

Troppo pericoloso.

Purtroppo l’equivoco è durato fino a oggi, ed è ancora assai tenace da estirpare. L’immaginario di tale Domenica particolare confonde il senso della scenografia festosa.

Anche noi rischiamo di scambiare ancora il Figlio dell’uomo immagine del Padre col figlio di Davide - l’abile condottiero che mille anni prima aveva riunito militarmente le tribù e dato lustro imperiale alla nazione.

 

Nei Vangeli il Signore non si lascia identificare con l’aquila di Gv, sebbene sia Lui che viene dall’alto e vede oltre l’immediato.

Non è un essere spirituale alato [simbolo di Mt] bensì pienamente incarnato, malgrado sia l’Angelo autentico, ossia l’Inviato del Padre per eccellenza.

Gesù non viene associato al leone [Mc], re della foresta e delle bestie, benché sia l’unico uomo riuscito e maestosamente regale - Persona vera e totalmente ‘presente’ secondo Dio.

Tanto meno lo accostiamo al bue [Lc] icona dell’antica devozione tradizionalmente sacrificale.

Su base evangelica non è possibile neanche immaginare la figura e la proposta del Maestro con il tipico bestiario d’omaggio e rispettosità con cui nell’Oriente antico venivano idealizzati sovrani e dignitari, tutti i potenti e gli eletti, anche della casta religiosa ufficiale.

 

I Vangeli non riconoscono Gesù quale rapace maestoso: fanno coincidere la stabilità, la qualità e l’azione del suo Spirito nell’icona della ‘colomba’.

Ancora, con una figura che fa proprio ridere i polli: la ‘gallina’, la quale si duole delle scelte rovinose della sua nidiata (Mt 23,37).

In luogo della potenza del leone [di Babilonia o della tribù di Giuda] ecco: mansuetudine d’Agnello che dona tutto di sé, pelle compresa.

Invece delle rinunce ascetiche, o d’animali destinati all’offertorio necessario a placare gli dei: un uomo dal cuore di carne e non di belva, con ideale di Comunione. Vita di coesistenza, strappata al preumano.

Come dire: è una trama d’essere (se stessi, anche piccoli) e di relazioni qualitative, che soppianta e sublima le arcaiche pratiche sacrificali [sacrum-facere] con cui anticamente si cercava il contatto e un rapporto di reciprocità con la vita celeste.

Ora essa s’identifica con la pienezza umana.

 

In alternativa eloquente alla strafottenza focosa d’un destriero che incalza e si rende protagonista di grandi imprese, collaborando appieno a rendere illustre il suo condottiero, ecco il simbolo della laboriosità instancabile, calato nella vita comune e di tutti: il ‘somarello’!

Questa dell’asinello è una fragorosa proposta di vita dimessa, su misura per discepoli ancora distratti, imbambolati nei sogni di solennità, prestigio, gloria mondana, smanie competitive [sembrava un’ovvietà del cuore].

Vuol dire: dentro ciascuno di noi c’è una profezia di servizio incessante che dev’essere “slegata”.

Come se nell’intimo dimorasse un essere sorgivo inespresso che può e vuol venire sciolto dai molti legacci delle aspettative di successo facile, di grandezza, di consenso.

Speranze prima indifferenti o sdegnate, per aver dato credito a un Messia dimesso.

Tale il livello della Fede che surclassa il comune senso religioso. 

Facilmente esso volge l’entusiasmo in tristezza e l’adesione in abbandono, coprendo a monte le potenze oscure dei nostri blocchi.

 

Per questo [ed è storia ancora contemporanea, di sequela e tradimento] lo stesso popolo che acclama acclama, attendendosi una celebrazione trionfale, sublimi riconoscimenti e facili scorciatoie - poi si accoda al rifiuto di Cristo. 

 

 

Gocce di commozione, Preghiera ed Energia vitale

 

Il pianto sulla città eterna, con lacrime di padre, di madre, di figlio

(Lc 19,41-44)

 

Ci piace essere sulla scia della moda o dell’opportunismo, ma respingere la Chiamata del Signore è grande responsabilità.

Bisogna riconoscere la Sua Visita, in Presenza, nell’ispirazione che emerge.

E scrutare i segni, cogliere i momenti di grazia invece di chiudersi ostilmente; non voltare le spalle.

Tutto questo cambia la vita in radice - guida al cuore della storia.

Gesù vuole espugnare le porte chiuse di ogni cittadella; anzitutto dell’osso più duro: Gerusalemme, la città santa.

Il territorio “eterno” è meno capace di accogliere le proposte del Signore - anche quelle sbandierate agli altri ma vissute in proprio con comportamenti qua e là aberranti (che costringono a ripetuti appelli).

Lì, gli estremisti del tornaconto antico o supermoderno restano tutti protesi a presidiare e coprire interessi, privilegi, abitudini, comodità.

Situazione che trascina i problemi stessi - i quali via via diventano cronici.

Non di rado i responsabili astuti rimangono seduti e chiusi nella difesa del mondo che vede solo se stesso, nella perfetta cupidità di ogni cosa vana.

Altro che fermento di conversione, motore della società, germe di vita nuova!

Risultato: la Verità tanto sbandierata rimane spesso ostaggio delle ingiustizie più bieche, che nel quotidiano consumano allegramente i peggiori tradimenti.

 

Anche Gesù si accorgeva della medesima situazione, immarcescibile, la quale produceva degrado e disumanizzazione.

Talora infatti ricerca del divino e tensione umana sono rese vane, a causa di un mondo ufficiale esclusivo, snob o settario - quello del sacro - che sembra sotto il segno di tutt’altra divinità.

Da parte dei direttori, la scelta di una ideologia di potere pasce d’illusioni.

Guida al proselitismo duro, ma conduce al disastro l’intero popolo - vessato, disprezzato, emarginato.

Offuscando lo sguardo, ciò non consente di liberarsi degli idoli più insidiosi che deturpano l’esistenza e la mente.

In tal guisa, l’ottica dirigista, superficiale e violente, confonde e travia il cammino verso lo Shalôm.

Impossibile rendersi conto della Visita di Dio, nella città perenne della religiosità antica o dell’ideologia élitaria, disincarnata.

Un tempo, ecco trincee, uccisioni e distruzione delle mura e delle case da parte di Nabucodonosor, poi quella romana del 70 cui allude più direttamente il testo.

Ma la previsione lugubre si estende, e forse l’immagine del mucchio di rovine ci riguarda. Fondo storico, meditazione ecclesiale e pastorale.

 

Non di rado l’autorità competente ha continuato purtroppo a condannare Gesù-Pace come un malfattore da espellere.

Ma in filigrana il Cristo oggi si staglia nella posizione di Re, che a malincuore pronuncia una sentenza definitiva.

Forse lo fa persino sui suoi intimi, quando si lasciano andare al compromesso, al degrado ideale, alla corruzione venale (all’adorazione degli idoli).

Dove la salvezza è preparata, offerta e riproposta in modo così intenso ma invano, il rifiuto diventa più doloroso - così per noi e per questo Figlio appassionato, commovente, quasi affranto.

Eppure il ceto degli eletti ed esclusivisti sceglie ugualmente di cadere e rovinare, in tal guisa autodistruggendo la propria gente.

Ricevendo in cambio solo il becchime mondano d’un titolo da appuntarsi.

E nello stesso “spirito di permanenza”, rigettando il Messia servitore.

Misconoscendo anche nel tempo l’opera di Bene dei suoi testimoni autentici.

Pertanto, la Città delle città - il grande centro religioso - continuerà a perdere il suo speciale carattere di segno salvatore.

 

Ci sarà un compimento comunque, ma l’anticipazione si realizza ora.

Dunque: siamo col Redentore [resistenza all’oppressione e attività profetica senza acquiescenze] o con Gerusalemme [deviazioni coperte da docilità, amicizia del sovrano, notorietà, premi in denaro]?

Anche oggi è tempo di Visita del Maestro, che bussa e chiede il permesso di entrare, per aprire i sigilli dei grandi interrogativi della storia e della vita.

Il monito è globale, comunitario e personale; di nuovo con lacrime di padre, di madre e di figlio.

Appello tuttora in fieri - per l’attuale tendenza culturale al nulla, alla resa e all’effimero.

 

L’enciclica Fratelli Tutti denuncia appunto il regresso di un mondo stravagante che - con un senso del qui e ora rattrappito - sembra aver imparato poco dalle tragedie del Novecento, sino a riaccendere conflitti anacronistici (nn.11.13).

 

Il Padre ha riservato alla Chiesa un Regno alternativo, e dove essa cerca di occupare il posto di altri, finisce solo per vivere di elemosine da rotocalco, e far stare i suoi figli più stretti.

Meglio non rovinare l’amore. Il farsi valere è maschera di nanerottoli, non virtù dei forti - né di famigliari.

Ma accorgendoci anche dei luoghi di rottura, e recuperando il passo sociale, è con nuovo acume evangelico che potremo rendere il Dio-per-tutti davvero operante e vivo, invece che affranto su di noi.

Ciò con migliore profitto a partire dal suo Popolo: dall’anima delle sue Fraternità di silenziosi agnelli, impegnati non a gestire posizioni, bensì nell’artigianato sine glossa della vita reale.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa ritieni sia nascosto ai tuoi occhi, ma precedentemente annunziato - e che piange amaro?

Con quale orientamento sei disposto a vivere nell’artigianato della Pace, anche famigliare o sociale, mettendo da parte le inimicizie e l’effimero [cf. Fratelli Tutti nn. 57. 100. 127. 176. 192. 197. 216-217. 225-236. 240-243. 254-262. 271-272. 278-285]?

 

 

Pace, nella Verità

 

11. Dinanzi ai rischi che l'umanità vive in questa nostra epoca, è compito di tutti i cattolici intensificare, in ogni parte del mondo, l'annuncio e la testimonianza del « Vangelo della pace », proclamando che il riconoscimento della piena verità di Dio è condizione previa e indispensabile per il consolidamento della verità della pace. Dio è Amore che salva, Padre amorevole che desidera vedere i suoi figli riconoscersi tra loro come fratelli, responsabilmente protesi a mettere i differenti talenti a servizio del bene comune della famiglia umana. Dio è inesauribile sorgente della speranza che dà senso alla vita personale e collettiva. Dio, solo Dio, rende efficace ogni opera di bene e di pace. La storia ha ampiamente dimostrato che fare guerra a Dio per estirparlo dal cuore degli uomini porta l'umanità, impaurita e impoverita, verso scelte che non hanno futuro. Ciò deve spronare i credenti in Cristo a farsi testimoni convincenti del Dio che è inseparabilmente verità e amore, mettendosi al servizio della pace, in un'ampia collaborazione ecumenica e con le altre religioni, come pure con tutti gli uomini di buona volontà.

[Papa Benedetto, Messaggio per la XXXIX Giornata Mondiale per la Pace, 2006]

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Praying, celebrating, imitating Jesus: these are the three "doors" - to be opened to find «the way, to go to truth and to life» (Pope Francis)
Pregare, celebrare, imitare Gesù: sono le tre “porte” — da aprire per trovare «la via, per andare alla verità e alla vita» (Papa Francesco)
In recounting the "sign" of bread, the Evangelist emphasizes that Christ, before distributing the food, blessed it with a prayer of thanksgiving (cf. v. 11). The Greek term used is eucharistein and it refers directly to the Last Supper, though, in fact, John refers here not to the institution of the Eucharist but to the washing of the feet. The Eucharist is mentioned here in anticipation of the great symbol of the Bread of Life [Pope Benedict]
Narrando il “segno” dei pani, l’Evangelista sottolinea che Cristo, prima di distribuirli, li benedisse con una preghiera di ringraziamento (cfr v. 11). Il verbo è eucharistein, e rimanda direttamente al racconto dell’Ultima Cena, nel quale, in effetti, Giovanni non riferisce l’istituzione dell’Eucaristia, bensì la lavanda dei piedi. L’Eucaristia è qui come anticipata nel grande segno del pane della vita [Papa Benedetto]
Work is part of God’s loving plan, we are called to cultivate and care for all the goods of creation and in this way share in the work of creation! Work is fundamental to the dignity of a person. Work, to use a metaphor, “anoints” us with dignity, fills us with dignity, makes us similar to God, who has worked and still works, who always acts (cf. Jn 5:17); it gives one the ability to maintain oneself, one’s family, to contribute to the growth of one’s own nation [Pope Francis]
Il lavoro fa parte del piano di amore di Dio; noi siamo chiamati a coltivare e custodire tutti i beni della creazione e in questo modo partecipiamo all’opera della creazione! Il lavoro è un elemento fondamentale per la dignità di una persona. Il lavoro, per usare un’immagine, ci “unge” di dignità, ci riempie di dignità; ci rende simili a Dio, che ha lavorato e lavora, agisce sempre (cfr Gv 5,17); dà la capacità di mantenere se stessi, la propria famiglia, di contribuire alla crescita della propria Nazione [Papa Francesco]
God loves the world and will love it to the end. The Heart of the Son of God pierced on the Cross and opened is a profound and definitive witness to God’s love. Saint Bonaventure writes: “It was a divine decree that permitted one of the soldiers to open his sacred wide with a lance… The blood and water which poured out at that moment was the price of our salvation” (John Paul II)
Il mondo è amato da Dio e sarà amato fino alla fine. Il Cuore del Figlio di Dio trafitto sulla croce e aperto, testimonia in modo profondo e definitivo l’amore di Dio. Scriverà San Bonaventura: “Per divina disposizione è stato permesso che un soldato trafiggesse e aprisse quel sacro costato. Ne uscì sangue ed acqua, prezzo della nostra salvezza” (Giovanni Paolo II))
[Nicodemus] felt the fascination of this Rabbi, so different from the others, but could not manage to rid himself of the conditioning of his environment that was hostile to Jesus, and stood irresolute on the threshold of faith (Pope Benedict)
[Nicodemo] avverte il fascino di questo Rabbì così diverso dagli altri, ma non riesce a sottrarsi ai condizionamenti dell’ambiente contrario a Gesù e resta titubante sulla soglia della fede (Papa Benedetto)
Those wounds that, in the beginning were an obstacle for Thomas’s faith, being a sign of Jesus’ apparent failure, those same wounds have become in his encounter with the Risen One, signs of a victorious love. These wounds that Christ has received for love of us help us to understand who God is and to repeat: “My Lord and my God!” (Pope Benedict)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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