Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Cari fratelli e sorelle,
proseguendo nel tratteggiare le fisionomie dei vari Apostoli, come facciamo da alcune settimane, incontriamo oggi Filippo. Nelle liste dei Dodici, egli è sempre collocato al quinto posto (così in Mt 10,3; Mc 3,18; Lc 6,14; At 1,13), quindi sostanzialmente tra i primi. Benché Filippo fosse di origine ebraica, il suo nome è greco, come quello di Andrea, e questo è un piccolo segno di apertura culturale da non sottovalutare. Le notizie che abbiamo di lui ci vengono fornite dal Vangelo di Giovanni. Egli proveniva dallo stesso luogo d’origine di Pietro e di Andrea, cioè Betsaida (cfr Gv 1,44), una cittadina appartenente alla tetrarchìa di uno dei figli di Erode il Grande, anch’egli chiamato Filippo (cfr Lc 3,1).
Il Quarto Vangelo racconta che, dopo essere stato chiamato da Gesù, Filippo incontra Natanaele e gli dice: “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe, di Nazaret” (Gv 1,45). Alla risposta piuttosto scettica di Natanaele (“Da Nazaret può forse venire qualcosa di buono?”), Filippo non si arrende e controbatte con decisione: “Vieni e vedi!” (Gv 1,46). In questa risposta, asciutta ma chiara, Filippo manifesta le caratteristiche del vero testimone: non si accontenta di proporre l’annuncio, come una teoria, ma interpella direttamente l’interlocutore suggerendogli di fare lui stesso un’esperienza personale di quanto annunciato. I medesimi due verbi sono usati da Gesù stesso quando due discepoli di Giovanni Battista lo avvicinano per chiedergli dove abita. Gesù rispose: “Venite e vedrete” (cfr Gv 1,38-39).
Possiamo pensare che Filippo si rivolga pure a noi con quei due verbi che suppongono un personale coinvolgimento. Anche a noi dice quanto disse a Natanaele: “Vieni e vedi”. L’Apostolo ci impegna a conoscere Gesù da vicino. In effetti, l’amicizia, il vero conoscere l’altro, ha bisogno della vicinanza, anzi in parte vive di essa. Del resto, non bisogna dimenticare che, secondo quanto scrive Marco, Gesù scelse i Dodici con lo scopo primario che “stessero con lui” (Mc 3,14), cioè condividessero la sua vita e imparassero direttamente da lui non solo lo stile del suo comportamento, ma soprattutto chi davvero Lui fosse. Solo così infatti, partecipando alla sua vita, essi potevano conoscerlo e poi annunciarlo. Più tardi, nella Lettera di Paolo agli Efesini, si leggerà che l’importante è “imparare il Cristo” (4,20), quindi non solo e non tanto ascoltare i suoi insegnamenti, le sue parole, quanto ancor più conoscere Lui in persona, cioè la sua umanità e divinità, il suo mistero, la sua bellezza. Egli infatti non è solo un Maestro, ma un Amico, anzi un Fratello. Come potremmo conoscerlo a fondo restando lontani? L’intimità, la familiarità, la consuetudine ci fanno scoprire la vera identità di Gesù Cristo. Ecco: è proprio questo che ci ricorda l’apostolo Filippo. E così ci invita a “venire”, a “vedere”, cioè ad entrare in un contatto di ascolto, di risposta e di comunione di vita con Gesù giorno per giorno.
Egli, poi, in occasione della moltiplicazione dei pani, ricevette da Gesù una precisa richiesta, alquanto sorprendente: dove, cioè, fosse possibile comprare il pane per sfamare tutta la gente che lo seguiva (cfr Gv 6,5). Allora Filippo rispose con molto realismo: “Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno di loro possa riceverne anche solo un pezzo” (Gv 6,7). Si vedono qui la concretezza e il realismo dell’Apostolo, che sa giudicare gli effettivi risvolti di una situazione. Come poi siano andate le cose, lo sappiamo. Sappiamo che Gesù prese i pani e, dopo aver pregato, li distribuì. Così si realizzò la moltiplicazione dei pani. Ma è interessante che Gesù si sia rivolto proprio a Filippo per avere una prima indicazione su come risolvere il problema: segno evidente che egli faceva parte del gruppo ristretto che lo circondava. In un altro momento, molto importante per la storia futura, prima della Passione, alcuni Greci che si trovavano a Gerusalemme per la Pasqua “si avvicinarono a Filippo ... e gli chiesero: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù” (Gv 12,20-22). Ancora una volta, abbiamo l’indizio di un suo particolare prestigio all’interno del collegio apostolico. Soprattutto, in questo caso, egli fa da intermediario tra la richiesta di alcuni Greci – probabilmente parlava il greco e potè prestarsi come interprete – e Gesù; anche se egli si unisce ad Andrea, l’altro Apostolo con un nome greco, è comunque a lui che quegli estranei si rivolgono. Questo ci insegna ad essere anche noi sempre pronti, sia ad accogliere domande e invocazioni da qualunque parte giungano, sia a orientarle verso il Signore, l'unico che le può soddisfare in pienezza. E’ importante, infatti, sapere che non siamo noi i destinatari ultimi delle preghiere di chi ci avvicina, ma è il Signore: a lui dobbiamo indirizzare chiunque si trovi nella necessità. Ecco: ciascuno di noi dev'essere una strada aperta verso di lui!
C'è poi un'altra occasione tutta particolare, in cui entra in scena Filippo. Durante l’Ultima Cena, avendo Gesù affermato che conoscere Lui significava anche conoscere il Padre (cfr Gv 14,7), Filippo quasi ingenuamente gli chiese: “Signore, mostraci il Padre, e ci basta» (Gv 14,8). Gesù gli rispose con un tono di benevolo rimprovero: “Filippo, da tanto tempo sono con voi e ancora non mi conosci? Colui che vede me, vede il Padre! Come puoi tu dire: «Mostraci il Padre»? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? ... Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14,9-11). Queste parole sono tra le più alte del Vangelo di Giovanni. Esse contengono una rivelazione vera e propria. Al termine del Prologo del suo Vangelo, Giovanni afferma: “Dio nessuno lo ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18). Ebbene, quella dichiarazione, che è dell’evangelista, è ripresa e confermata da Gesù stesso. Ma con una nuova sfumatura. Infatti, mentre il Prologo giovanneo parla di un intervento esplicativo di Gesù mediante le parole del suo insegnamento, nella risposta a Filippo Gesù fa riferimento alla propria persona come tale, lasciando intendere che è possibile comprenderlo non solo mediante ciò che dice, ma ancora di più mediante ciò che egli semplicemente è. Per esprimerci secondo il paradosso dell’Incarnazione, possiamo ben dire che Dio si è dato un volto umano, quello di Gesù, e per conseguenza d’ora in poi, se davvero vogliamo conoscere il volto di Dio, non abbiamo che da contemplare il volto di Gesù! Nel suo volto vediamo realmente chi è Dio e come è Dio!
L’evangelista non ci dice se Filippo capì pienamente la frase di Gesù. Certo è che egli dedicò interamente a lui la propria vita. Secondo alcuni racconti posteriori (Atti di Filippo e altri), il nostro Apostolo avrebbe evangelizzato prima la Grecia e poi la Frigia e là avrebbe affrontato la morte, a Gerapoli, con un supplizio variamente descritto come crocifissione o lapidazione. Vogliamo concludere la nostra riflessione richiamando lo scopo cui deve tendere la nostra vita: incontrare Gesù come lo incontrò Filippo, cercando di vedere in lui Dio stesso, il Padre celeste. Se questo impegno mancasse, verremmo rimandati sempre solo a noi come in uno specchio, e saremmo sempre più soli! Filippo invece ci insegna a lasciarci conquistare da Gesù, a stare con lui, e a invitare anche altri a condividere questa indispensabile compagnia. E vedendo, trovando Dio, trovare la vera vita.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 6 settembre 2006]
«Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6)
Carissimi giovani!
Sono molto lieto di essere ancora una volta fra voi ad annunziare la celebrazione della IV Giornata Mondiale della Gioventù. Nel mio dialogo con voi, infatti, questa giornata occupa un posto privilegiato, perché mi offre la felice occasione di rivolgere la parola ai giovani non di un solo paese, ma di tutto il mondo, per dire a tutti e a ciascuno di voi che il Papa vi guarda con tanto amore e tanta speranza, che vi ascolta con molta attenzione e vuole rispondere alle vostre attese più profonde.
La Giornata Mondiale del 1989 avrà al suo centro Gesù Cristo, quale nostra via, verità e vita (cfr. Gv 18,6). Essa, pertanto, dovrà diventare per tutti voi la giornata di una nuova, più matura e più profonda scoperta di Cristo nella vostra vita.
Esser giovani costituisce già di per sé una singolare ricchezza, propria di ogni ragazzo e di ogni ragazza (cfr. «Epistula apostolica ad iuvenes internationali vertente anno iuventuti dicato», 3, die 31 mar. 1985: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VIII, 1 [1985] 760). Questa ricchezza consiste, fra l'altro, nel fatto che la vostra è un'età di molte importanti scoperte. Ciascuno e ciascuna di voi scopre se stesso, la propria personalità, il senso della propria esistenza, la realtà del bene e del male. Scoprite anche tutto il mondo che vi circonda - il mondo degli uomini e il mondo della natura. Ora, fra queste numerose scoperte non ne deve mancare una, che è di importanza fondamentale per ogni essere umano: la scoperta personale di Gesù Cristo. Scoprire Cristo sempre di nuovo e sempre meglio è l'avventura più meravigliosa della nostra vita. Perciò, in occasione della prossima Giornata della Gioventù, desidero porre a ciascuno e a ciascuna di voi alcune domande molto importanti ed indicarvi le risposte.
- Hai già scoperto Cristo, che è la via?
Sì, Gesù è per noi una via che conduce al Padre - la via unica. Chi vuole raggiungere la salvezza, deve incamminarsi per questa via. Voi giovani molto spesso vi trovate al bivio, non sapendo quale strada scegliere, dove andare; ci sono tante strade sbagliate, tante proposte facili, tante ambiguità. In tali momenti non dimenticate che Cristo, col suo Vangelo, col suo esempio, con i suoi comandamenti, è sempre e solo la via più sicura, la via che sbocca in una piena e duratura felicità.
- Hai già scoperto Cristo, che è la verità?
La verità è l'esigenza più profonda dello spirito umano. Soprattutto i giovani sono affamati della verità intorno a Dio e all'uomo, alla vita ed al mondo. Nella mia prima enciclica «Redemptor Hominis» ho scritto: «L'uomo che vuole comprendere se stesso fino in fondo, - non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere - deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo» («Redemptor Hominis, 10). Cristo è la parola di verità, pronunciata da Dio stesso, come risposta a tutti gli interrogativi del cuore umano. E' colui che ci svela pienamente il mistero dell'uomo e del mondo.
- Hai già scoperto Cristo, che è la vita?
Ciascuno di voi desidera tanto vivere la vita nella sua pienezza. Vivete animati da grandi speranze, da tanti bei progetti per l'avvenire. Non dimenticate, però, che la vera pienezza della vita si trova solo in Cristo, morto e risorto per noi. Solo Cristo è capace di riempire fino in fondo lo spazio del cuore umano. Egli solo dà la forza e la gioia di vivere, e ciò nonostante ogni limite o impedimento esterno.
Sì, scoprire Cristo è la più bella avventura della vostra vita. Ma non basta scoprirlo una volta sola. Ogni scoperta, che si fa di lui, diventa un invito a cercarlo sempre di più, a conoscerlo ancora meglio mediante la preghiera, la partecipazione ai sacramenti, la meditazione della sua Parola, la catechesi, l'ascolto degli insegnamenti della Chiesa. E', questo, il nostro compito più importante, come aveva capito molto bene san Paolo, quando scriveva: «Per me, infatti, il vivere è Cristo» (Fil 1,21).
2. Dalla nuova scoperta di Cristo - quando è autentica - nasce sempre, come diretta conseguenza, il desiderio di portarlo agli altri, cioè un impegno apostolico. Questa è appunto la seconda linea-guida della prossima Giornata della Gioventù.
Tutta la Chiesa è destinataria del mandato di Cristo: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). Tutta la Chiesa, quindi, è missionaria ed evangelizzatrice, vivendo in continuo stato di missione (cfr. «Ad Gentes», 2). Essere cristiani significa essere missionari-apostoli (cfr. «Apostolicam Actuositatem», 2). Non basta scoprire Cristo - bisogna portarlo agli altri!
Il mondo di oggi è una grande terra di missione, perfino nei Paesi di antica tradizione cristiana. Dappertutto oggi il neopaganesimo ed il processo di secolarizzazione costituiscono una grande sfida al messaggio evangelico. Ma, al tempo stesso, si aprono anche ai nostri giorni nuove occasioni per l'annuncio del Vangelo; si nota, ad esempio, una crescente nostalgia del sacro, dei valori autentici, della preghiera. Perciò, il mondo di oggi ha bisogno di molti apostoli - soprattutto di apostoli giovani e coraggiosi. A voi giovani spetta in modo particolare il compito di testimoniare la fede oggi e l'impegno di portare il Vangelo di Cristo - via, verità e vita - nel terzo millennio cristiano, di costruire una nuova civiltà che sia civiltà di amore, di giustizia e di pace.
Per ogni nuova generazione sono necessari nuovi apostoli. E qui sorge una speciale missione per voi. Siete voi giovani i primi apostoli ed evangelizzatori del mondo giovanile, tormentato oggi da tante sfide e minacce (cfr. «Apostolicam Actuositatem», 12). Principalmente voi potete esserlo, e nessuno può sostituirvi nell'ambiente dello studio, del lavoro e dello svago. Sono tanti i vostri coetanei che non conoscono Cristo, o che non lo conoscono abbastanza. Perciò, non potete rimanere silenziosi e indifferenti! Dovete avere il coraggio di parlare di Cristo, di testimoniare la vostra fede mediante il vostro stile di vita ispirato al Vangelo. San Paolo scrive: «Guai a me, se non predicassi il Vangelo!» (1Cor 9,16). Davvero, la messe evangelica è grande e ci vogliono tanti operai. Cristo si fida di voi e conta sulla vostra collaborazione. In occasione della prossima Giornata della Gioventù, vi invito quindi a rinnovare il vostro impegno apostolico. Cristo ha bisogno di voi! Rispondete alla sua chiamata col coraggio e con lo slancio proprio della vostra età.
3. Il famoso Santuario a Santiago di Compostela, in Spagna, costituirà un punto di riferimento assai importante per la celebrazione di questa giornata nel 1989. Come vi ho già annunciato, dopo la celebrazione ordinaria della vostra festa - la Domenica delle Palme - nelle Chiese particolari, io vi dò appuntamento proprio in quel Santuario, dove mi recherò, pellegrino come voi, il 19 e 20 agosto 1989; sono certo che non mancherete al mio invito, così come non siete mancati all'indimenticabile incontro di Buenos Aires, nel 1987.
L'appuntamento di Santiago vedrà comunque la partecipazione di tutta la Chiesa universale, sarà un momento di comunione spirituale anche con quelli tra di voi che non potranno essere fisicamente presenti. A Santiago i giovani rappresenteranno, infatti, le Chiese particolari di tutto il mondo, e il «Cammino di Santiago» e la spinta evangelizzatrice saranno patrimonio di voi tutti.
Santiago di Compostela è un luogo che ha svolto un ruolo di grande importanza nella storia del cristianesimo e, perciò, già di per sé trasmette a tutti un messaggio spirituale molto eloquente. Questo luogo è stato nei secoli «punto di attrazione e di convergenza per l'Europa e per tutta la cristianità... L'intera Europa si è ritrovata attorno alla "memoria" di Giacomo in quegli stessi secoli, nei quali essa si costruiva come continente omogeneo e spiritualmente unito» (cfr. «Allocutio Compostelae, in cathedrali templo sancti Iacobi, ad quosdam Europae civiles Auctoritates et Episcopos conferentiarum praesides habita», 1, die 9 nov. 1982: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V, 3 [1982] 1258).
Presso la tomba di san Giacomo vogliamo imparare che la nostra fede è storicamente fondata, e quindi non è qualcosa di vago e di passeggero: nel mondo di oggi, contrassegnato da un grave relativismo e da una forte confusione di valori, dobbiamo sempre ricordare che, come cristiani, siamo realmente edificati sulle stabili fondamenta degli apostoli, avendo Cristo stesso come pietra angolare (cfr. Ef 2,20).
Presso la tomba dell'apostolo, vogliamo anche accogliere di nuovo il mandato di Cristo: «Mi sarete testimoni... fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). San Giacomo, che fu il primo a sigillare la sua testimonianza di fede col proprio sangue, è per tutti noi un esempio ed un maestro eccellente.
Santiago di Compostela non è solo un Santuario, ma è anche un cammino, cioè una fitta rete di itinerari di pellegrinaggio. Il «Cammino di Santiago» fu per secoli un cammino di conversione e di straordinaria testimonianza della fede. Lungo questo cammino sorgevano i monumenti visibili della fede dei pellegrini: le chiese e numerosi ospizi.
Il pellegrinaggio ha un significato spirituale molto profondo e può costituire già di per sé un'importante catechesi. Infatti - come ci ha ricordato il Concilio Vaticano II - la Chiesa è un Popolo di Dio in cammino, «alla ricerca della città futura e permanente» (cfr. «Lumen Gentium», 9). Oggi nel mondo la pratica del pellegrinaggio conosce un periodo di rinascita, soprattutto tra i giovani. Voi siete tra i più sensibili a rivivere, oggi, il pellegrinaggio come «cammino» di rinnovamento interiore, di approfondimento della fede, di rafforzamento del senso della comunione e della solidarietà con i fratelli, e come mezzo per scoprire le personali vocazioni. Sono certo che grazie al vostro entusiasmo giovanile il «Cammino di Santiago» riceverà quest'anno un nuovo e ricco sviluppo.
4. Il programma di questa giornata è molto impegnativo. Per raccoglierne i frutti, è perciò necessaria una specifica preparazione spirituale sotto la guida dei vostri pastori nelle diocesi, nelle parrocchie, associazioni e movimenti, sia per la Domenica delle Palme, sia per il pellegrinaggio a Santiago di Compostela nell'agosto 1989. All'inizio di questa fase preparatoria, mi rivolgo a tutti ed a ciascuno di voi con le parole dell'apostolo Paolo: «Camminate nella carità...; camminate da figli della luce» (Ef 5,2.8). Entrate in questo periodo di preparazione con tali disposizioni di spirito!
Camminate, dunque, io dico a tutti voi, giovani pellegrini del «Cammino di Santiago». Cercate di ritrovare, durante i giorni del pellegrinaggio, lo spirito degli antichi pellegrini, coraggiosi testimoni della fede cristiana. In questo cammino imparate a scoprire Gesù che è la nostra via, verità e vita.
Desidero, infine, rivolgere una speciale parola di incoraggiamento ai giovani della Spagna. Questa volta sarete voi ad offrire ospitalità ai vostri fratelli e sorelle, provenienti da tutto il mondo. Vi auguro che questo incontro a Santiago lasci tracce profonde nella vostra vita e sia per tutti voi un potente fermento di rinascita spirituale.
Carissimi giovani, carissime giovani, concludo questo messaggio con un abbraccio di pace che desidero inviare a tutti voi, dovunque vi troviate. Affido il cammino di preparazione e di celebrazione della Giornata Mondiale della Gioventù 1989 alla speciale protezione di Maria, Regina degli apostoli, e di san Giacomo, venerato nei secoli presso l'antico Santuario di Compostela. La mia benedizione apostolica vi accompagni, in segno di incoraggiamento e di augurio, lungo tutto l'itinerario.
Dal Vaticano, il 27 novembre dell'anno 1988.
[Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la IV GMG]
Pregare, celebrare, imitare Gesù: sono le tre “porte” — da aprire per trovare «la via, per andare alla verità e alla vita» — che Papa Francesco ha indicato stamane, venerdì 16 maggio, durante la messa nella cappella della casa Santa Marta. Secondo il Pontefice, infatti, Gesù non si lascia studiare a tavolino e chi prova a farlo rischia di scivolare nell’eresia. Al contrario occorre chiedersi continuamente come vanno nella nostra vita la preghiera, la celebrazione e l’imitazione di Cristo. «Pensiamo a queste tre porte e ci faranno bene a tutti» ha detto, suggerendo di iniziare con la lettura del libro del Vangelo, che troppo spesso rimane «pieno di polvere, perché mai si apre. Prendilo, aprilo — ha esortato — e troverai Gesù».
Dopo aver ricordato che la riflessione precedente era stata incentrata sul fatto che «la vita cristiana è sempre andare nella strada e non andare da soli», sempre «nella Chiesa, nel popolo di Dio», il vescovo di Roma ha fatto notare come nelle letture liturgiche del giorno — tratte dagli Atti degli apostoli (13, 26-33) e dal vangelo di Giovanni (14 1, 6) — sia lo stesso Gesù a dirci «che lui è la strada: Io sono la via, la verità e la vita. Tutto. Io ti do la vita, io mi manifesto come verità e se tu vieni con me, sono la via». Ecco allora che per conoscere colui che si presenta «come via, verità e vita» occorre mettersi in «cammino». Anzi, secondo Papa Francesco «la conoscenza di Gesù è il lavoro più importante della nostra vita». Anche perché conoscendo lui si arriva a conoscere il Padre.
Ma, si è domandato il Pontefice, «come possiamo conoscere Gesù?». Con quanti rispondono che «si deve studiare tanto» il vescovo di Roma si è detto d’accordo e ha invitato a «studiare il catechismo: un bel libro, il Catechismo della Chiesa cattolica, dobbiamo studiarlo». Ma, ha subito aggiunto, non ci si può limitare a «credere che conosceremo Gesù solo con lo studio». Qualcuno, infatti, ha «questa fantasia che le idee, solo le idee, ci porteranno alla conoscenza di Gesù». Anche «tra i primi cristiani» alcuni la pensavano in questo modo «e alla fine sono finiti un po’ ingarbugliati nei loro pensieri». Perché «le idee sole non danno vita» e, dunque, chi va per questa strada «finisce in un labirinto» da cui «non esce più». Proprio per tale motivo, sin dagli inizi, nella Chiesa «ci sono le eresie», le quali sono questo «cercare di capire soltanto con le nostre menti chi è Gesù». In proposito il Papa ha ricordato le parole di «un grande scrittore inglese», Gilbert Keith Chesterton, che definiva l’eresia un’idea diventata pazza. In effetti, ha detto il Papa, «è così: quando le idee sono sole, diventano pazze».
Da qui l’indicazione delle tre porte da aprire per «conoscere Gesù». Soffermandosi sulla prima — pregare — il Pontefice ha ribadito che «lo studio senza preghiera non serve. I grandi teologi fanno teologia in ginocchio». Se infatti «con lo studio ci avviciniamo un po’, senza preghiera mai conosceremo Gesù».
Quanto alla seconda — celebrare — il vescovo di Roma ha affermato che anche la preghiera da sola «non basta; è necessaria la gioia della celebrazione: celebrare Gesù nei suoi sacramenti, perché lì ci dà la vita, ci dà la forza, ci dà il pasto, ci dà il conforto, ci dà l’alleanza, ci dà la missione. Senza la celebrazione dei sacramenti non arriviamo a conoscere Gesù. E questo è proprio della Chiesa».
Infine, per aprire la terza porta, quella dell’imitatio Christi, la consegna è di prendere il vangelo per scoprirvi «cosa ha fatto lui, com’era la sua vita, cosa ci ha detto, cosa ci ha insegnato», in modo da «cercare di imitarlo». In conclusione il Papa ha spiegato che attraversare queste tre porte significa «entrare nel mistero di Gesù». Infatti noi «possiamo conoscerlo soltanto se siamo capaci di entrare nel suo mistero». E non bisogna avere paura di farlo.
Al termine dell’omelia Papa Francesco ha quindi invitato a pensare «durante la giornata, come va la porta della preghiera nella mia vita: ma — ha precisato — la preghiera del cuore» quella vera.
[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 17/05/2014]
Il semplice Mistero, Nuova Mistica. Vocazione da offrire al mondo
(Gv 6,1-15)
«L’uomo è l’essere-limite che non ha limite» (Fratelli Tutti n.150).
Nel cuore abbiamo un gran desiderio di appagamento e Felicità. Il Padre lo ha introdotto, Lui stesso lo soddisfa - ma ci vuole associati alla sua opera - dentro e fuori di noi.
Il Figlio riflette il disegno di Dio nella compassione per le folle bisognose di tutto e - malgrado la pletora di maestri ed esperti - prive di qualsiasi insegnamento autentico.
La sua ‘soluzione’ è diversissima da quella di tutte le guide spirituali, perché non ci sorvola con un paternalismo esterno, indiretto (vv.5-6) che asciughi le lacrime, rimargini le ferite, cancelli le umiliazioni.
Invita a utilizzare in prima persona ciò che siamo e abbiamo, sebbene possa apparire cosa ridicola (v.9).
Ma insegna in modo assolutamente netto che spostando le energie si realizzano risultati prodigiosi.
Così rispondiamo ai grandi problemi del mondo: recuperando la condizione dell’uomo ‘viator’ - essere di passaggio.
E condividendo i beni; non, lasciando che ciascuno si arrangi.
La nostra cruda nudità, le peripezie, e l’esperienza dei molti fratelli, diversi, sono risorse da non valutare con diffidenza «come concorrenti o nemici pericolosi» della nostra realizzazione [FT n.152].
Non solo quel poco che rechiamo con noi basterà a saziarci, ma avanzerà per altri e con identica Pienezza di verità, umana, epocale (vv.12-13).
Insomma, in Cristo ciascuno può inaugurare un Tempo nuovo, e la Salvezza è già a portata di mano, perché la gente si riunisce spontaneamente intorno a Lui, giungendo così com’è, col carico dei tanti bisogni differenti (v.2).
Il nuovo popolo di Dio non è una folla di gente scelta e pura.
Ognuno reca con sé problemi, che il Signore guarisce - ma curando non con provvedimenti per procura, come dal di sopra o dal di fuori.
In tal guisa un altro mondo è possibile, però attraverso lo «spezzare» il proprio anche misero ‘pane e companatico’.
Soluzione autentica, se la si fa emergere «da dentro» e stando «in mezzo» - non davanti, non a capo, non ‘in alto’.
Il luogo della Rivelazione doveva essere quello delle “saette”, su un ‘monte’ fumante come di fornace (Es 19,18). Ma infine persino lo zelo violento di Elia aveva dovuto ricredersi (1Re 19,12).
Anche a donne e uomini d’altra sponda (v.1) il Figlio rivela un Padre il quale non semplicemente cancella le infermità: ce le fa capire come luogo che sta preparando uno sviluppo personale, e quello della Comunità.
S’immaginava che nei tempi del Messia, tutti i bisognosi sarebbero scomparsi (Is 35,5ss.).
‘Età dell’oro’: tutto al vertice, nessun abisso.
In Gesù - Pane di povero orzo, ma distribuito - si manifesta una pienezza dei tempi inconsueta, apparentemente nebulosa e fragile (v.9) tuttavia reale e in grado di riavviare persone e relazioni.
L’Incarnazione ci ritesse il cuore in dignità e promozione.
Si dispiega realmente, perché non trascina via le povertà e gli ostacoli: poggia su di essi e non li cancella affatto.
Così li surclassa, ma trasmutandoli; su quei semi, creando nuova vita.
La vecchia pozzanghera esclusiva della religione che non osa il rischio dell’Esodo e della Fede (v.2) non ci avrebbe aiutato ad assimilare la proposta del Messia ‘inferiore’.
Egli è in noi che ne abbiamo abbracciato la proposta di vita: nella coesistenza e condivisione.
Signore-in-noi, risolve i problemi del mondo - senza fulmini immediati, né scorciatoie.
Iniziativa-Risposta del Padre, «sostegno nel Viaggio» alla ricerca della Speranza dei poveri - di tutti noi, indigenti in attesa.
[Venerdì 2.a sett. di Pasqua, 2 maggio 2025]
La soluzione diversissima. Moltiplicazione per Divisione, nell’itineranza
(Gv 6,1-15)
«Ora, lo seguiva molta folla, poiché vedevano i segni che faceva sugli infermi» (v.2).
«C’è un un ragazzetto che ha cinque pani di orzo e due pesci, ma che è questo per tanti?» (V.5).
«Gesù dunque sapendo che stavano per venire e rapirlo per farlo re, si ritirò di nuovo su il monte da solo» (v.15).
«L’uomo è l’essere-limite che non ha limite» (Fratelli Tutti n.150).
Nel cuore abbiamo un gran desiderio di appagamento e Felicità. Il Padre lo ha introdotto, Lui stesso lo soddisfa - ma ci vuole associati alla sua opera - dentro e fuori di noi.
Il Figlio riflette il disegno di Dio nella compassione per le folle bisognose di tutto e - malgrado la pletora di maestri ed esperti - prive di qualsiasi insegnamento autentico.
La sua soluzione è diversissima da quella di tutte le guide “spirituali”, perché non ci sorvola con un paternalismo indiretto (vv.5-6) che asciughi le lacrime, rimargini le ferite, cancelli le umiliazioni, dall’esterno.
Invita a utilizzare in prima persona ciò che siamo e abbiamo, sebbene possa apparire cosa ridicola. Ma insegna in modo assolutamente netto che spostando le energie si realizzano risultati prodigiosi.
Così rispondiamo in Cristo ai grandi problemi del mondo: recuperando la condizione dell’uomo ‘viator’ - essere di passaggio, sua impronta essenziale - e condividendo i beni; non lasciando che ciascuno si arrangi.
La nostra cruda nudità, le peripezie e l’esperienza dei molti fratelli, diversi, sono risorse da non valutare con diffidenza, «come concorrenti o nemici pericolosi» della nostra realizzazione [FT n.152].
Non solo quel poco che rechiamo con noi basterà a saziarci, ma avanzerà per altri e con identica pienezza di verità, umana, epocale [vv.12-13: il passo particolare insiste sulla simbologia semitica del numero “dodici”; in Mc 8,8 e Mt 15,34-37 subentra quella del numero “sette”].
In Cristo, ciascuno può inaugurare un Tempo nuovo, e la Salvezza è già a portata di mano, perché la gente si riunisce spontaneamente intorno a Lui, giungendo così com’è, col carico dei tanti bisogni differenti (v.2).
Il nuovo popolo di Dio non è una folla di gente scelta e pura.
Ognuno reca con sé problemi, che il Signore guarisce - ma curando non con provvedimenti per procura (cf. Mt 14,16; Mc 6,37; Lc 9,13), come dal di sopra o dal di fuori.
Insomma: un altro mondo è possibile, però attraverso lo spezzare il proprio anche misero pane e companatico.
Soluzione autentica, se la si fa emergere da dentro, e stando in mezzo - non davanti, non a capo, non in alto.
La nota simbologia dei «cinque pani» e «due pesci» (v.9) - in prospettiva cristologica, significa:
Assumere la propria tradizione anche legalista che ha fatto da saggio nutrimento base (5 libri della Torah), quindi la propria storia e afflato sapienziale (Scritti: Kethubhiim) nonché profetico (Nevi’im: Profeti).
[Come diceva s. Agostino: «La Parola di Dio che ogni giorno viene a voi spiegata e in un certo senso “spezzata” è anch’essa Pane quotidiano» (Sermo 58, IV: PL 38,395). Alimento completo: cibo base e “companatico” - storico e ideale, in codice e in atto].
Il luogo della Rivelazione di Dio doveva essere quello delle “saette”, su un ‘monte’ fumante come di fornace (Es 19,18). Ma infine persino lo zelo violento di Elia aveva dovuto ricredersi (1Re 19,12).
Anche a donne e uomini d’altra sponda (v.1) il Figlio rivela un Padre il quale non semplicemente cancella le infermità: le fa capire come luogo che sta preparando uno sviluppo personale, e quello della Comunità.
S’immaginava infatti che nei tempi del Messia, tutti i bisognosi sarebbero scomparsi (Is 35,5ss.). Età dell’oro: tutto al vertice, nessun abisso.
In Gesù - Pane di povero orzo, ma distribuito - si manifesta una pienezza dei tempi inconsueta; apparentemente nebulosa e fragile (v.9) ma reale e in grado di riavviare tutti, e le relazioni.
Lo Spirito di Dio agisce non calandosi come un fulmine dall’alto, bensì attivando in noi capacità che appaiono impalpabili, eppure in grado di raggranellare il nostro essere disperso [classificato inconsistente - che coinvolge il sommario di tutti i giorni - e lo rivaluta].
L’Incarnazione ci ritessere il cuore, in dignità e promozione; si dispiega realmente, perché non solo trascina via gli ostacoli: poggia su di essi e non li cancella affatto.
Così li surclassa, ma trasmutando - ponendo nuova vita.
Linfa che trae succo e germoglia Fiori dall’unico terreno melmoso e fecondo, e li comunica.
Solidarietà cui sono invitati tutti, non solo quelli ritenuti in condizione di ‘perfezione’ e compattezza.
Le nostre carenze ci rendono attenti, e unici. Non vanno disprezzate, bensì assunte, poste nelle mani del Figlio e dinamizzate (vv.11-13).
Le stesse cadute possono essere un segnale prezioso; in Cristo, non sono più umiliazioni riduttive, bensì indicatori di percorso (v.2).
Forse non stiamo utilizzando e investendo al meglio le nostre risorse.
Così i crolli possono trasformarsi rapidamente in risalite - differenti, non confezionate. E ricerca di completamento totale nella Comunione.
In tal guisa, nell’ideale di realizzare la Vocazione, nonché intuire il tipo di contributo da porgere, nulla di meglio d’un ambiente vivo, che non tarpi le ali: fraternità vivace nello scambio delle qualità, e convivenza.
Non tanto per attutirci gli scossoni, ma perché siamo messi in grado di edificare magazzini sapienziali non tarati da nomenclature - cui tutti possono attingere, persino i diversi e lontani da noi.
Se poi anche qui verrà a trovarci una manchevolezza, sarà per insegnare a essere presenti al mondo secondo magari altre e ulteriori direzioni, o per far emergere la missione e una maturazione creativa - non per rimanere fissati su parzialità e minuzie.
Così, insieme, i “momenti no” divengono subito una molla per non stagnare nelle medesime situazioni di sempre; rigenerando, procedendo molto altrove.
Ed i fallimenti che mettono in bilico servono a farci accorgere di ciò che non avevamo notato, quindi a deviare da un destino conformista.
Essi costringono a cercare suggerimenti, differenti orizzonti e relazioni, un completamento che non avevamo immaginato.
Insomma, il nostro Cielo è intrecciato alla carne, alla terra e alla nostra polvere: un Sovrannaturale che sta dentro e in basso, anche nell’anima dei crollati a terra; non dietro le nuvole.
È il contatto diretto con il nostro humus colmo di succhi regali che ci rigenera e addirittura crea: come donne e uomini nuovi, appena ri-partoriti nella condivisione.
L’immagine del Regno nella gracile Eucaristia non elimina il difetto e la morte.
Li assume e trasfigura in punti di forza; creando incontro, dialogo, predilezione per le realtà minime - e Nuova Alleanza, francamente propulsiva.
Purtroppo, il target esagerato dei films sul Gesù che “moltiplica” l’abbondanza... porta completamente fuori strada.
Genera i devoti dell’accrescimento, i quali disdegnano la divisione (triplicatori di denari, proprietà, titoli, traguardi, rapporti che contano, e così via).
Viceversa, in Cristo che distribuisce ogni cosa diventiamo come un corpus attualizzato e propulsivo di testimoni [e Scritture viventi] sensibile.
Infanti nel Signore, nuotiamo in questa differente Acqua - a volte forse esteriormente velata, o melmosa e torbida. Infine fatta trasparente anche solo perché arrendevole, colma di compassione e benevola.
La vecchia pozzanghera esclusiva della religione che non osa il rischio dell’esodo e della Fede (v.2) non ci avrebbe aiutato ad assimilare la proposta del Messia inferiore, che risolve i problemi del mondo senza fulmini immediati, né scorciatoie.
Egli è in noi che ne abbiamo abbracciato la proposta di vita: Iniziativa-Risposta del Padre, sostegno nel poco etereo Viaggio alla ricerca della Speranza dei poveri - di tutti noi indigenti in attesa.
L’allusione ai ‘cinque’ o ‘sette’ «pani» (moltiplicati perché divisi) conforta le citazioni relative al magma plasmabile delle icone bibliche.
In tal caso, quelle di Mosè ed Elia: figure dei cinque Libri del Pentateuco [i primi Alimenti], più le due sezioni di Profeti e Scritti.
Tutti insieme: Pienezza di cibo e saggezza per l’anima, chiamata a procedere oltre le siepi circonvicine, rompendo gli argini della mentalità asservita; ormai solo di contorno.
Nutrimento-base dello spirito umano-divino, cui si aggiunge un alimento che ci coinvolge.
[Come diceva appunto s. Agostino: «La Parola di Dio che ogni giorno viene a voi spiegata e in un certo senso “spezzata” è anch’essa Pane quotidiano» (Sermo 58, IV: PL 38,395)].
Alimento completo: cibo base e companatico - storico e ideale, in codice e in atto.
Diventiamo nel Cristo come un corpus attualizzato e propulsivo di testimoni e Scritture sensibile; certo ridotto, non ancora affermato e privo di eroici fenomeni, ma accentuatamente sapienziale e pratico.
Annunciatori, condivisori senza clamorosi proclami di autosufficienza.
Mai rinchiusi entro steccati arcaici - sempre in fieri - perciò in grado di percepire binari sconosciuti.
E «spezzare il Pane»... ossia attivarsi, procedere oltre, dividere il poco - per alimentare, straripare - moltiplicando l’ascolto e l’azione di Dio; e far riconquistare stima anche ai disperati.
Siamo figli.
Come pochi e piccoli che non sguazzano in competizioni che rendono tossica la vita - anzi: chiamati in prima persona a scrivere una singolare, empatica e sacra, Parola-evento.
Infanti nel Signore, nuotiamo in questa differente Acqua.
A volte forse esteriormente velata o melmosa e torbida; infine fatta trasparente anche solo perché arrendevole, compassionevole e benevola.
La vecchia pozzanghera esclusiva della religione che non osa il rischio della Fede (v.2) non ci avrebbe aiutato ad assimilare la proposta del Gesù Messia, Figlio di Dio, Salvatore - noto acrostico del termine greco «Ichtys» [pesce].
Egli è l’Iniziativa-Risposta del Padre, sostegno nel poco etereo viaggio alla ricerca della Speranza dei poveri - di tutti noi indigenti in attesa.
La Fede operante ha dunque per emblema l’Eucaristia, rivoluzione della sacralità. Sembra strano, per noi che ci abbiamo fatto il callo.
Infatti scopo dell’evangelizzazione è partecipare ed emancipare l’essere integrale da tutto ciò che lo minaccia, non solo nel limite estremo: anche nella sua azione di ogni giorno - fino a cercare la comunione dei beni.
In Mc 6 il prodigio è collocato dopo la tirata d’orecchi verso gli apostoli, chiamati «in disparte» per una verifica della loro predicazione incerta [Gesù annunciato come Messia glorioso].
In Mc 8 [similmente] dopo l’apertura dei “sensi” del [medesimo discepolo preso «in disparte»] sordo e balbuziente (Mc 7,31-37).
Gv 6 segue gli episodi del ritorno in Galilea, la guarigione del figlio del funzionario, la guarigione del paralitico alla piscina di Betzata, e l’Apologia dello stesso Gesù.
Insomma, il Segno Fonte e Culmine della comunità dei figli è un gesto creativo che impone uno spostamento di visione, un occhio assolutamente nuovo.
Di fronte all’indigenza di molti causata dall’avidità di pochi, l’atteggiamento della Chiesa autentica non si compiace di emblemi e fervorini, né di parziali chiamate a distinguersi nell’elemosina.
Lo spezzare del Pane subentra alla Manna calata dall’alto nel deserto (cf. Mc 8,4; Gv 6,2) e comporta la sua distribuzione - non solo in situazioni particolari.
Non c’è da accontentarsi, nel moltiplicare vita per tutti.
Questa l’attitudine del Corpo vivente del Cristo [taumaturgico, non il facitore di miracoli] che si sente chiamato ad attivarsi in ogni circostanza.
L’adesione grata deve condurci al dono e alla condivisione del «pane».
Se la partecipazione eucaristica non suscita solo elemosina puntuale, pietismo esterno e assistenzialismo di maniera, ecco il Risultato:
Donne e uomini mangeranno, rimarranno sazi, e avanzerà alimento per altri. Non tutti i convitati da Dio previsti sono ancora presenti.
Notiamo che ad alcuni discepoli non era neanche passato per la testa che la soluzione potesse venire dalla gente stessa (v.7) e dal loro spirito - non dal patentato dei capi o da qualche singolo benefattore.
Accordo inatteso: la questione dell’alimento si risolve non dall’alto, ma a partire dall’interno delle persone e grazie ai pochi pani portati con sé (v.9).
Non c’è risoluzione alcuna col verbo “moltiplicare” - ossia “incrementare” [relazioni che contano, accrescere proprietà, ammucchiare astuzie].
Unica terapia è la convivenza dello «spezzare», «dare», «porgere», «distribuire» (v.11 testo greco).
E tutti sono coinvolti, nessuno privilegiato.
A quel tempo la competitività e la mentalità di classe caratterizzava la società piramidale dell’impero - e iniziava a infiltrarsi già nella piccola comunità, appena agli inizi.
Come se il Signore e il Dio del tornaconto potessero convivere uno a fianco all’altro.
È la comunione dei bisognosi che viceversa sale in cattedra nella Chiesa non artefatta; capace di far convivere gli opposti.
La condivisione reale fa da professore degli onnipresenti veterani, smaliziati e pretenziosi, unici a doversi convertire.
Il germe della loro “durata” dovrebbe essere non la posizione in quota e il ruolo, bensì l’amore.
Tale l’unico senso dei gesti sacri, non altri progetti venati da prevaricazioni, o dall’apparire.
Gli “appartenenti” sbalordiscono.
Per il Signore i lontani, ancora in bilico nelle scelte, sono pienamente partecipi del banchetto messianico - senza preclusioni, né discipline dell’arcano con attese snervanti.
Viceversa, quella Mensa urge in favore di altri che devono essere chiamati. Per una sorta di ristabilimento dell’Unità originale.
Insomma, la Redenzione non appartiene alle élites preoccupate della stabilità del loro dominio - che sono addirittura i deboli a dover sostenere.
La vita da salvati viene a noi per Incorporazione.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Hai mai spezzato il tuo pane, trasmesso felicità e compiuto recuperi che rinnovano i rapporti, rimettendo in piedi le persone che neppure hanno stima di sé? O hai privilegiato disinteresse, catene, cordate, atteggiamenti di élite?
Quest’oggi la liturgia prevede come pagina evangelica l’inizio del capitolo VI di Giovanni, che contiene dapprima il miracolo dei pani – quando Gesù diede da mangiare a migliaia di persone con solo cinque pani e due pesci –; quindi l’altro prodigio del Signore che cammina sulle acque del lago in tempesta; e infine il discorso in cui Egli si rivela come “il pane della vita”. Narrando il “segno” dei pani, l’Evangelista sottolinea che Cristo, prima di distribuirli, li benedisse con una preghiera di ringraziamento (cfr v. 11). Il verbo è eucharistein, e rimanda direttamente al racconto dell’Ultima Cena, nel quale, in effetti, Giovanni non riferisce l’istituzione dell’Eucaristia, bensì la lavanda dei piedi. L’Eucaristia è qui come anticipata nel grande segno del pane della vita […] Come non ricordare che specialmente noi sacerdoti possiamo rispecchiarci in questo testo giovanneo, immedesimandoci negli Apostoli, là dove dicono: Dove potremo trovare il pane per tutta questa gente? E leggendo di quell’anonimo ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci, anche a noi viene spontaneo dire: Ma che cos’è questo per una tale moltitudine? In altre parole: che sono io? Come posso, con i miei limiti, aiutare Gesù nella sua missione? E la risposta la dà il Signore: proprio mettendo nelle sue mani “sante e venerabili” il poco che essi sono, noi sacerdoti diventiamo strumenti di salvezza per tanti, per tutti!
[Papa Benedetto, Angelus 26 luglio 2009]
“Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”.
Dinanzi alla folla, che lo ha seguito dalle rive del mare di Galilea fin verso la montagna per ascoltare la sua parola, Gesù dà inizio, con questa domanda, al miracolo della moltiplicazione dei pani, che costituisce il significativo preludio al lungo discorso, nel quale si rivela al mondo come il vero pane della vita disceso dal cielo (cf. Gv 6,41).
1. Abbiamo ascoltato il racconto evangelico: con cinque pani d’orzo e con due pesci, messi a disposizione da un ragazzo, Gesù sfama circa cinquemila uomini. Ma questi, non comprendendo la profondità del “segno” in cui sono stati coinvolti, sono convinti di aver trovato finalmente il Re-Messia, che risolverà i problemi politici ed economici della loro Nazione. Di fronte a tale ottuso fraintendimento della sua missione, Gesù si ritira, tutto solo, sulla montagna.
Anche noi, Sorelle e Fratelli carissimi, abbiamo seguito Gesù e continuiamo a seguirlo. Ma possiamo e dobbiamo chiederci: con quale atteggiamento interiore?Con quello autentico della fede, che Gesù attendeva dagli Apostoli e dalla folla sfamata, oppure con un atteggiamento di incomprensione? Gesù si presentava in quella occasione come, anzi più di Mosè, che nel deserto aveva sfamato il popolo israelita durante l’esodo; si presentava come, anzi più di Eliseo, che con venti pani d’orzo e di farro aveva dato da mangiare a cento persone. Gesù si manifestava, e si manifesta oggi a noi, come Colui che è capace di saziare per sempre la fame del nostro cuore: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete” (Gv 6,33).
E l’uomo, specialmente quello contemporaneo, ha tanta fame: fame di verità, di giustizia, di amore, di pace, di bellezza; ma, soprattutto, fame di Dio. “Noi dobbiamo essere affamati di Dio!” esclama Sant’Agostino (“famelici Dei esse debemus” (S. Agostino, Enarrat. in Ps. 146, 17: PL 37,1895ss.). È lui, il Padre celeste, che ci dona il vero pane!
2. Questo pane, di cui abbiamo bisogno, è anzitutto il Cristo, il quale si dona a noi nei segni sacramentali dell’Eucaristia, e ci fa sentire, in ogni Messa, le parole dell’ultima Cena: “Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”. Col sacramento del pane eucaristico – afferma il Concilio Vaticano II – “viene rappresentata e prodotta l’unità dei fedeli, che costituiscono un solo Corpo in Cristo (cf. 1Cor 10,17). Tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo che è luce del mondo; da lui veniamo, per lui viviamo, a lui siamo diretti” (Lumen Gentium, 3).
Il pane di cui abbiamo bisogno è, inoltre, la parola di Dio, perché “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio” (Mt 4,4; cf. Dt 8,3). Indubbiamente, anche gli uomini possono esprimere e pronunciare parole di alto valore. Ma la storia ci mostra come le parole degli uomini siano talvolta insufficienti, ambigue, deludenti, tendenziose; mentre la Parola di Dio è piena di verità (cf. 2Sam 7,28;1Cor 15,26); è retta (Sal 33,4); è stabile e rimane in eterno (cf. Sal 119,89;1Pt 1,25).
Dobbiamo metterci continuamente in religioso ascolto di tale Parola; assumerla come criterio del nostro modo di pensare e di agire; conoscerla, mediante l’assidua lettura e la personale meditazione; ma, specialmente, dobbiamo farla nostra, realizzarla, giorno dopo giorno, in ogni nostro comportamento.
Il pane, infine, di cui abbiamo bisogno, è la grazia; e dobbiamo invocarla, chiederla con sincera umiltà e con instancabile costanza, ben sapendo che essa è quanto di più prezioso possiamo possedere.
3. Il cammino della nostra vita, tracciatoci dall’amore provvidenziale di Dio, è misterioso, talvolta umanamente incomprensibile, e quasi sempre duro e difficile. Ma il Padre ci dona il “pane del cielo” (cf. Gv 6,32), per essere rinfrancati nel nostro pellegrinaggio sulla terra.
Mi piace concludere con un passo di Sant’Agostino, che sintetizza mirabilmente quanto abbiamo meditato: “Si comprende molto bene... come la tua Eucaristia sia il cibo quotidiano. Sanno infatti i fedeli che cosa essi ricevono ed è bene che essi ricevano il pane quotidiano necessario per questo tempo. Pregano per loro stessi, per diventare buoni, per essere perseveranti nella bontà, nella fede, e nella vita buona... la parola di Dio, che ogni giorno viene a voi spiegata e, in un certo senso, spezzata, è anch’essa pane quotidiano” (S. Agostino, Sermo 58, IV: PL 38,395).
Che Cristo Gesù moltiplichi sempre, anche per noi, il suo pane!
Così sia!
[Papa Giovanni Paolo II, omelia 29 luglio 1979]
Il Vangelo di oggi (cfr Gv 6,1-15) presenta il racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Vedendo la grande folla che lo aveva seguito nei pressi del lago di Tiberiade, Gesù si rivolge all’apostolo Filippo e domanda: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?» (v. 5). I pochi denari che Gesù e gli apostoli possiedono, infatti, non bastano per sfamare quella moltitudine. Ed ecco che Andrea, un altro dei Dodici, conduce da Gesù un ragazzo che mette a disposizione tutto quello che ha: cinque pani e due pesci; ma certo – dice Andrea – sono niente per quella folla (cfr v. 9). Bravo questo ragazzo! Coraggioso. Anche lui vedeva la folla, e vedeva i suoi cinque pani. Dice: “Io ho questo: se serve, sono a disposizione”. Questo ragazzo ci fa pensare… Quel coraggio… I giovani sono così, hanno coraggio. Dobbiamo aiutarli a portare avanti questo coraggio. Eppure Gesù ordina ai discepoli di far sedere la gente, poi prende quei pani e quei pesci, rende grazie al Padre e li distribuisce (cfr v. 11), e tutti possono avere cibo a sazietà. Tutti hanno mangiato quello che volevano.
Con questa pagina evangelica, la liturgia ci induce a non distogliere lo sguardo da quel Gesù che domenica scorsa, nel Vangelo di Marco, vedendo «una grande folla, ebbe compassione di loro» (6,34). Anche quel ragazzo dei cinque pani ha capito questa compassione, e dice: “Povera gente! Io ho questo…”. La compassione lo ha portato a offrire quello che aveva. Oggi infatti Giovanni ci mostra nuovamente Gesù attento ai bisogni primari delle persone. L’episodio scaturisce da un fatto concreto: la gente ha fame e Gesù coinvolge i suoi discepoli perché questa fame venga saziata. Questo è il fatto concreto. Alle folle, Gesù non si è limitato a donare questo – ha offerto la sua Parola, la sua consolazione, la sua salvezza, infine la sua vita –, ma certamente ha fatto anche questo: ha avuto cura del cibo per il corpo. E noi, suoi discepoli, non possiamo far finta di niente. Soltanto ascoltando le più semplici richieste della gente e ponendosi accanto alle loro concrete situazioni esistenziali si potrà essere ascoltati quando si parla di valori superiori.
L’amore di Dio per l’umanità affamata di pane, di libertà, di giustizia, di pace, e soprattutto della sua grazia divina, non viene mai meno. Gesù continua anche oggi a sfamare, a rendersi presenza viva e consolante, e lo fa attraverso di noi. Pertanto, il Vangelo ci invita ad essere disponibili e operosi, come quel ragazzo che si accorge di avere cinque pani e dice: “Io dò questo, poi tu vedrai…”. Di fronte al grido di fame – ogni sorta di “fame” – di tanti fratelli e sorelle in ogni parte del mondo, non possiamo restare spettatori distaccati e tranquilli. L’annuncio di Cristo, pane di vita eterna, richiede un generoso impegno di solidarietà per i poveri, i deboli, gli ultimi, gli indifesi. Questa azione di prossimità e di carità è la migliore verifica della qualità della nostra fede, tanto a livello personale, quanto a livello comunitario.
Poi, alla fine del racconto, Gesù, quando tutti furono saziati, Gesù disse ai discepoli di raccogliere i pezzi avanzati, perché nulla andasse perduto. E io vorrei proporvi questa frase di Gesù: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto» (v. 12). Penso alla gente che ha fame e a quanto cibo avanzato noi buttiamo… Ognuno di noi pensi: il cibo che avanza a pranzo, a cena, dove va? A casa mia, cosa si fa con il cibo avanzato? Si butta? No. Se tu hai questa abitudine, ti dò un consiglio: parla con i tuoi nonni che hanno vissuto il dopoguerra, e chiedi loro che cosa facevano col cibo avanzato. Non buttare mai il cibo avanzato. Si rifà o si dà a chi possa mangiarlo, a chi ha bisogno. Mai buttare il cibo avanzato. Questo è un consiglio e anche un esame di coscienza: cosa si fa a casa col cibo che avanza?
Preghiamo la Vergine Maria, perché nel mondo prevalgano i programmi dedicati allo sviluppo, all’alimentazione, alla solidarietà, e non quelli dell’odio, degli armamenti e della guerra.
[Papa Francesco, Angelus 29 luglio 2018]
Seconda Domenica di Pasqua [27 Aprile 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. In questi giorni mentre preghiamo per il nostro papa Francesco partito per la casa del Padre, invochiamo insistentemente la luce dello Spirito Santo sulla Chiesa e in particolare sui cardinali che dovranno eleggere colui che il Signore ha scelto a guida della sua Chiesa dopo papa Francesco.
*Prima Lettura Dagli Atti degli Apostoli (5,12-16)
Ecco una presentazione della prima comunità cristiana che sembra quasi troppo bella per essere vera (Negli Atti degli Apostoli ci sono quattro riassunti della vita ai primordi della Chiesa At 2,42-47 il più noto e dettagliato; At 4,32-35 sottolinea la comunione dei beni; At 5,12-16 mette in luce i miracoli e la crescita; At 6, 7 sommario breve della diffusione del vangelo). Non dobbiamo però dedurne che tutto era perfetto perché nelle prossime domeniche vedremo ogni sorta di difficoltà: i primi cristiani erano uomini, non superuomini. Perché allora san Luca presenta questo quadro ideale? Perché intende incoraggiare anche noi a camminare nella stessa direzione: una comunità fraterna è condizione indispensabile per l’annuncio e la testimonianza del vangelo. Poiché gli apostoli seguivano il comando di Cristo, Il contagio del vangelo è stato irresistibile: “Sarete miei testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, e fino agli estremi confini della terra” (At 1,8) e niente è riuscito a impedire alla Chiesa nascente di svilupparsi. Nota san Luca che “tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone”. Siamo ancora a Gerusalemme, dato che la risurrezione di Cristo è vicina nel tempo, esattamente nel Tempio di Gerusalemme sotto il portico di Salomone (tutto il muro orientale del Tempio era in realtà un colonnato che costeggiava un largo corridoio coperto, luogo di passaggio e di incontro, accessibile a tutti non facendo parte della zona riservata ai soli Giudei). Dopo la morte e risurrezione di Gesù, gli apostoli, essendo e restando giudei, continuavano a frequentare il Tempio. Anzi, la loro fede giudaica si era rafforzata avendo visto negli eventi pasquali realizzate le promesse dell’Antico Testamento. Solamente dopo e progressivamente avverrà la divisione tra cristiani e i giudei che non riconoscevano Gesù come il Messia, anche se già in questo testo se ne avverte un primo segnale: “nessuno degli altri osava associarsi a loro”, il che ci dice che i cristiani già formavano un gruppo distinto all’interno del popolo giudeo. Luca traccia qui un parallelo con gli inizi della predicazione di Gesù: “Anche la folla dalle città vicine a Gerusalemme accorreva portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti” ; nel vangelo aveva scritto la stessa cosa di Gesù: “Al calar del sole, tutti quelli che avevano malati affetti da varie infermità li conducevano a lui…. anche i demoni uscivano da molti” (Lc 4,40-41). Se insiste sulle guarigioni di Pietro e degli apostoli chiaro è il messaggio: continua l’opera del Messia attraverso gli apostoli e dice alla sua comunità: tocca a voi prendere il testimone degli apostoli perché il Cristo conta su di voi. Ed è interessante costatare che, grazie alla testimonianza degli apostoli, le folle non si univano agli apostoli, ma attraverso gli apostoli, al Signore: “Sempre più, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di di uomini e donne”. Si tratta di un dettaglio importante perché le conversioni non sono opera degli apostoli, ma di Cristo che agisce quando la comunità è formata di persone con “un cuore solo” e “da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). San Pietro e gli altri apostoli non si presentavano come superuomini, anzi Pietro dirà a Cornelio, che si era inginocchiato davanti a lui: “Alzati. Anche io sono un uomo.” (At 10,26). Se nelle nostre comunità mancano segni e miracoli non sarà forse un invito a vivere sinceramente nell’amore di Cristo?
*Salmo responsoriale (117 (118), 2-4, 22-24, 25-27a)
Torna il salmo 117 (118) cantato già nella Veglia pasquale e il giorno di Pasqua, e lo troviamo ogni domenica del tempo ordinario nell’Ufficio delle Lodi (Liturgia delle Ore). Per gli ebrei, questo salmo riguarda il Messia; noi cristiani vi riconosciamo il Messia atteso da tutto l’Antico Testamento, il vero re, il vincitore della morte. Come altri salmi anche questo va meditato in un duplice livello: nella prospettiva dell’attesa ebraica del Messia, e alla luce della fede dei convertiti in Cristo risorto. Per gli Ebrei è un salmo di lode che comincia con Alleluia, il cui significato è “lodate Dio” e che dà il tono all’insieme. Si tratta di ventinove versetti dove torna più di trenta volte la parola Signore (le famose quattro lettere del Nome di Dio in ebraico YHWH), o almeno Yah, che ne è la prima sillaba e sono tutte frasi, una vera litania, di lode per la grandezza, l’amore e l’opera di Dio verso il suo popolo. il salmo cantato accompagna un sacrificio di ringraziamento durante la festa delle Capanne, che dura otto giorni in autunno. Il rito più visibile per gli stranieri di questa festa avviene fuori dal Tempio. Durante l’intera settimana tutti abitano in capanne di frasche, le Capanne o Tabernacoli (Sukkot è il nome della festa), facendo memoria delle tende del deserto e dell’ombra protettrice di Dio nell’Esodo. Dentro il Tempio ci sono celebrazioni il cui punto comune è il rinnovamento dell’Alleanza (e durante le quali i pellegrini agitano dei rami anzi un mazzetto, il lulav, composto da una palma, un ramo di mirto, un ramo di salice e un cedro. Si svolge infine una grande processione attorno all’altare con in mano questi mazzi di lulav cantando salmi intervallati da Hosanna, che significa sia «Dio salva» o «Dio, salvaci». Ci sono riti di libagione d’acqua versata presso l’altare (cf Gv 7,37) e nelle sere precedenti l’ultimo giorno una grande illuminazione del cortile delle Donne nel Tempio con quattro candelabri dorati, alimentati con olio e stoppini ricavati da abiti sacerdotali dismessi e la luce così prodotta era così intensa che illuminava tutta Gerusalemme. E’ dunque una festa di fervore e gioia, che anticipa la venuta del Messia: si rende grazie per la salvezza già compiuta e si accoglie la salvezza che porterà il Messia che non tarderà a venire: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”). Quando Gesù si proclama vera “luce del mondo” (Gv8,2) lo fa probabilmente dopo la conclusione della festa con la memoria viva di quel rito luminoso. Nei versetti scelti per l’odierna liturgia mancano tutti gli elementi della festa delle Capanne, ma non la gioia nei cuori dei credenti: “Questo è il giorno che ha fatto il Signore:, rallegriamoci in esso ed esultiamo …Dica Israele: Il suo amore è per sempre” . Per narrare la bontà del Signore lungo tutta la storia d’Israele, il salmo narra di un re che dopo una guerra spietata ha vinto e ringrazia Dio per averlo sostenuto: “Mi hanno spinto, mi hanno urtato per farmi cadere, ma il Signore è stato il mio aiuto” (v.13), “Tutte le nazioni mi hanno circondato: nel nome del Signorele ho distrutte” (v.10), e ancora: “Non morirò, ma vivrò e annuncerò le opere del Signore” (v.17). In realtà, nella storia di questo re è narrata quella Israele che lungo la sua storia ha sfiorato l’annientamento ma il Signore l’ha risollevato, e ora canta nella festa delle Capanne: “Non morirò, ma vivrò e annuncerò le opere del Signore”. Israele sa di dover testimoniare le opere del Signore e da questa consapevolezza ha attinto la forza per sopravvivere a tutte le sue prove. La festa ebraica delle Capanne per noi cristiani trova un’eco nell’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, la domenica delle Palme, ma soprattutto l’esultanza di questo salmo si addice al Risorto che gli evangelisti, ciascuno a suo modo, hanno presentato come il vero re (Matteo nella visita dei Magi, Giovanni, nel racconto della Passione). Meditando il mistero del Messia rifiutato e crocifisso, gli apostoli hanno scoperto un nuovo senso in questo salmo: Gesù è veramente “colui che viene nel nome del Signore”, pietra scartata dai costruttori, rifiutato dal suo popolo, Cristo è la pietra angolare di fondazione del nuovo Israele. Questo salmo era cantato a Gerusalemme in occasione di un sacrificio di ringraziamento e Gesù ha appena compiuto il sacrificio di ringraziamento per eccellenza: Egli è il nuovo Israele che rende grazie al Padre in un’eterna azione di grazie, iinaugurando tra Dio e l’umanità la nuova Alleanza in cui l’umanità è risposta d’amore all’amore del Padre.
Nota La pietra angolare: su questa espressione, vedi il commento al salmo 117 (118) per la domenica di Pasqua.
*Seconda Lettura Dal Libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (1, 9-11a.12-13.17-19)
Per sei domeniche consecutive leggeremo come seconda lettura brani dell’Apocalisse, una grande opportunità per familiarizzare con uno dei libri più affascinanti del Nuovo Testamento, apparentemente difficile e bisognoso d’un certo sforzo. “Apocalisse” significa rivelazione, svelamento nel senso di togliere un velo e Giovanni rivela il mistero della storia nascosto ai nostri occhi e poiché deve mostrarci ciò che non vediamo, il libro ci parla con delle visioni («vedere» o «guardare» è usato cinque volte solo nel brano di oggi). Nel comune sentire Apocalisse è sinonimo di catastrofe, pessimo fraintendimento, perché l’Apocalisse come l’intera Bibbia è una Buona Notizia. Nel loro genere letterario, le apocalissi, come l’intera Bibbia, comunicano l’amore di Dio e la vittoria definitiva dell’amore su ogni male. Per noi, che viviamo in un contesto culturale diverso, ci resta quasi impossibile percepire perché questo linguaggio simbolico e capire a chi l’autore si rivolge. In realtà egli usa il linguaggio delle visioni perché tutti i libri dello stesso genere sono nati in un periodo di forte persecuzione dei cristiani (tra il II secolo a.C. e il II secolo d.C. sono state scritte diverse apocalisse da autori diversi). Lo fa capire san Giovanni: “Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù”. A Patmos era in esilio, non in vacanza ed essendo in piena persecuzione, questo testo circolava di nascosto per confortare le comunità. Tema principale è la vittoria finale di coloro che erano oppressi: vi perseguitano e i vostri persecutori prosperano, ma non perdete coraggio perché Cristo ha vinto il mondo. Le forze del male non possono nulla contro di voi essendo già sconfitte e il vero re è Cristo. Giovanni l’afferma all’inizio: “Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù”. Per evitare che i persecutori capiscano si raccontano storie di altri tempi usando visioni fantasiose in modo da scoraggiare la lettura da parte dei non iniziati. Ad esempio, san Giovanni presenta malissimo Babilonia, che definisce la grande prostituta, ma si capisce che parla di Roma. Insomma, il messaggio di ogni Apocalisse è che le forze del male non prevarranno mai. Nell’odierna lettura la vittoria di Cristo è mostrata in questa visione grandiosa: è domenica, giorno del Signore, rapito dallo Spirito Giovanni sente una voce potente come una tromba, e fra sette candelabri d’oro gli appare un essere di luce, un “figlio d’uomo”. Figlio dell’uomo è nel Nuovo Testamento un’espressione usata per indicare il Messia, il Cristo. Lui cade ai suoi piedi mentre lo ascolta: “Non temere! Io sono (cioè il nome stesso di Dio YHWH) il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo… e ho le chiavi della morte e degli inferi.”. Si tratta di una visione che è per il servizio dei fratelli: “Scrivi le cose che hai visto”, cioè incoraggiali e sappi che passato, presente e futuro mi appartengono. Percepiamo qui la promessa di Cristo: “Chi crede in me, anche se muore, vivrà (Gv 11,25).
Nota: Gli esegeti concordano nel ritenere Giovanni l’autore dell’Apocalisse scritta sotto il regno dell’imperatore Domiziano (81-96) anche se quest’imperatore non ha organizzato una persecuzione sistematica dei cristiani. La comunità di Giovanni vive però in un clima di insicurezza: egli stesso è esiliato e, nel corso del libro, si fa menzione di martiri. I cristiani si confrontano con le esigenze del culto imperiale promosso da Domiziano, e sembra che alcuni governatori locali abbiano mostrato particolare zelo. Inoltre, i cristiani incontrano l’opposizione dei Giudei rimasti ostili al cristianesimo. Questo sembra emergere anche dalle lettere alle sette Chiese. Ci sono inoltre altri esempi di Apocalissi. Nell’Antico Testamento, il libro di Daniele contiene un messaggio apocalittico scritto intorno al 165 a.C. da Daniele per incoraggiare i suoi fratelli perseguitati dal re greco Antioco Epifane. Anche lui non attacca direttamente il problema, ma narra le gesta eroiche di alcuni ebrei fedeli durante la persecuzione di Nabucodonosor, quattro secoli prima (VI secolo a.C.). Solo in apparenza è una lezione di storia ma per chi sa leggere tra le righe il messaggio è chiaro. Ecco infine un esempio di Apocalisse nella storia recente: al tempo del dominio russo sulla Cecoslovacchia, una giovane attrice ceca compose e rappresentò più volte nel suo Paese un dramma su Giovanna d’Arco: evidentemente, la storia di Giovanna che caccia gli Inglesi dalla Francia nel XV secolo non era la prima preoccupazione dei Cechi; e se lo scenario fosse finito nelle mani del potere occupante, non avrebbe compromesso nessuno. Ma per chi sapeva leggere tra le righe, il messaggio era evidente: quello che ha saputo fare una giovane ragazza di diciannove anni, con l’aiuto di Dio, possiamo farlo anche noi.
*Dal Vangelo secondo Giovanni (20,19-31)
“Shalom, pace a voi!” Questa è la prima parola che pronuncia Gesù risorto. I discepoli ricordavano l’ultima sua frase sulla croce: “Tutto è compiuto”, che chiude il racconto della Passione nel quarto vangelo (Gv 19,30). L’evangelista in quel momento comprese che il progetto di Dio era del tutto compiuto e con questa evidenza ci narra ora questa prima apparizione. Gerusalemme, nel nome stesso Yerushalaïm, porta la parola ebraica shalom e proprio qui Gesù annuncia e dona, cioè rende efficace, la sua pace: Shalom! Li saluta così per ben due volte e, ormai riconosciuto con Dio, questa parola non è un augurio, ma dono già realizzato: dicendo pace la dona e la compie. È sempre urgente credere che Cristo risorgendo ci ha portato la pace anche se le situazioni concrete mostrano un mondo segnato da odio, violenza e guerre. Questo perché la pace c’è già ma non arriva con un colpo di bacchetta magica: deve nascere anzitutto nel cuore dei credenti e poi diffondersi attraverso la gioia che ebbero i discepoli “al vedere il Signore”. Gesù risorto appare sempre “il primo giorno della settimana” tanto che per i cristiani, questo giorno è diventato il primo giorno dei tempi nuovi. La settimana di sette giorni ricordava ai Giudei i sette giorni della creazione, mentre la nuova settimana legata alla risurrezione di Cristo è l’inizio della nuova creazione. Per questo, quando l’evangelista parla del primo giorno della settimana non fornisce solo una precisione cronologica, ma invita a capire che la domenica, dal latino dies dominicus, è giorno consacrato a Dio, giorno della nuova creazione nel quale il progetto della salvezza è compiuto. Proprio nel primo giorno della settimana, come aveva annunciato il profeta Ezechiele: “Metterò in voi il mio stesso Spirito”, Gesù “soffiò” sui discepoli e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”. Giovanni riprende volutamente il termine che troviamo in Genesi ( 2,7): (Dio insufflò nelle narici dell’uomo plasmato con polvere “un alito di vita”(nėšāmāh legato a rûah; in greco pnoē) e divenne essere vivente) e inaugura la nuova creazione insufflando sugli apostoli il suo Spirito (pneûma hágion), “il primo dono fatto ai credenti”, come ricorda la quarta preghiera eucaristica. Nella Bibbia lo Spirito è sempre dato per una missione e anche Gesù manda i discepoli ad annunciare al mondo l’unica indispensabile verità: Dio è Misericordia. Missione urgente perché l’uomo muore se non conosce la verità, come dice Gesù: “chi commette il peccato è schiavo del peccato” (Gv 8,34) perché non conosce l’amore di Dio. Non c’è altra missione che riconciliare gli uomini con Dio: tutto il resto deriva da questo. “A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati”, potremmo tradurlo così: annunciate che i peccati sono perdonati e siate ambasciatori della riconciliazione universale. La missione che il Padre vi affida è urgente e indispensabile e se non andate, la novità della riconciliazione non sarà annunciata. In questo contesto la frase: “a coloro a cui non perdonerete non saranno perdonati”, potrebbe comprendersi in questo senso: se voi non portate i vostri fratelli a conoscere l’amore di Dio (se non perdonerete) loro vivranno fuori del suo amore (non saranno perdonati). Quanta fiducia e quale responsabilità! Il progetto di Dio sarà definitivamente compiuto solo quando noi, a nostra volta, avremo compiuto la nostra missione: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Il primo peccato, che è alla radice di tutti gli altri, è non credere all’amore di Dio: perciò, vi mando, muovetevi senza indugio per annunciare a tutti l’amore di Dio’.
Nota “Quel giorno, il primo giorno della settimana”: nella lettura ebraica del racconto della Creazione, questo primo giorno era chiamato «Giorno UNO» nel senso di «primo giorno» ma anche «giorno unico», perché in un certo senso racchiudeva tutti gli altri, come la prima spiga del raccolto annuncia tutta la mietitura… E il popolo ebraico attende ancora il Giorno Nuovo che sarà il giorno di Dio, quando rinnoverà la prima Creazione.
Oggi, Domenica della Divina Misericordia, vi propongo una preghiera che prendo dal libro del Santuario Santissima Trinità Misericordia di Maccio (Como). La Santissima Trinità è Misericordia infinita
“Santissima Trinità, Misericordia infinita, Misericordia, Luce imperscrutabile del Padre che crea; Misericordia, Volto e Parola del Figlio che si dona; Misericordia, Fuoco penetrante nello Spirito che dà vita; Santissima Trinità, Misericordia che salva nel dono unico del Trino suo essere, io confido e spero in te! Tu, che ti sei donata a noi, fa’ che noi ci doniamo tutti a te! Rendici testimoni del tuo Amore in Cristo nostro Redentore, fratello e nostro Re! Santissima Trinità, io confido in te!”
+Giovanni D’Ercole
Divino nell’Umano: gesti forti, dignitosi e fraterni, non di repertorio
(Mt 13,54-58)
Il Divino nell’Umano si rende Presente nelle relazioni intense, accoglienti, che aprono a recuperi inspiegabili; quindi trapela nei gesti forti, dignitosi e fraterni - non di repertorio.
Nel passo di Vangelo di oggi c’è una differenza rilevante con la traduzione CEI (‘74) precedente (vv.54.58).
Il Signore ci aiuta a crescere con veri «prodigi», non con “miracoli”[eventi puntuali] bensì operando nell’intimo, modificando il cuore rattrappito e migliorandoci col suo Amore.
Il «profetico» non ha a che fare col clamoroso che s’impone.
Solo così non ci si stancherà del buono che non è brillante; né si disprezzerà l’esistenza della gente normale, perché senza prestigio e titoli.
Le opere potenti di Gesù si dispiegano nel tempo - educando, non impressionando e assoggettando.
I suoi ‘segni’, quei recuperi inspiegabili che compie, sono calibro e frutto d’un Incontro-per-Via che cresce.
Opera d’Arte (assai meglio di scorciatoie accidentali) è che il profittatore diventi giusto, il dubbioso più sicuro, l’infelice riprenda a sperare.
Ci vuole tempo, anche se lo stupore può essere immediato.
Il Mistero della potenza del nuovo Dio annunciato da Cristo si cela in ‘Qualcuno dentro qualcosa’.
È la trama ove si annidano i Segni d’una Realtà grande, cui malgrado le difficoltà abbiamo accesso e siamo partecipi.
Tale anche il vero artigianato di Giuseppe. La Persona e la Famiglia di Gesù narrano di un Padre il quale non teme che la sua santità sia messa in pericolo dal contatto col mondo.
Il Mistero sovreminente è già nell’uomo comune.
Quindi il conflitto non è coi forestieri, bensì con i soliti ostinati “vicini” colmi di pregiudizio - abitudinari e assuefatti, i quali già sanno come va a finire... Ma non inaugurano nulla.
Invece il Figlio non è più un bambinone del posto: un programma quieto del «villaggio», il prodotto d’idee arcaiche normali o di propositi già trasmessi, che nessun Incontro potrà destare e smuovere.
In patria il Maestro non sbalordisce come altrove: incontra una diffidenza che logora di giorni tutti contati quella sporgenza del credere che colmerebbe le indigenze.
Anche Giuseppe fabbricante comprende ciò che taglia il Sogno impossibile della Novità, nella Fede: il nostro vanto non è da condizione sociale, né da genere stabilito.
Essa coglie un suo peso specifico non nei balocchi del folklore, bensì appunto nel rigenerare - per l’incessante riattivarsi dell’interesse intrinseco.
In tal guisa, la Fede non è retorica. Con Gesù e Maria a fianco Giuseppe intuisce che lo stato di dubbio è più fecondo delle convinzioni.
Come si diventa dunque, un non-popolo?
Le sicurezze non lasciano respiro all’inventiva del fare inusuale, né al sentimento o alla crescita della Vita forte, non sfigurata dal repertorio di compimenti attesi.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come la tua esistenza ordinaria riscatta le vicende della gente malferma?
Come vivi il di più della Fede sulle abitudini e luoghi comuni?
[s. Giuseppe Lavoratore, 1 maggio]
Dear friends, this is the perpetual and living heritage that Jesus has bequeathed to us in the Sacrament of his Body and his Blood. It is an inheritance that demands to be constantly rethought and relived so that, as venerable Pope Paul VI said, its "inexhaustible effectiveness may be impressed upon all the days of our mortal life" (Pope Benedict)
Questa, cari amici, è la perpetua e vivente eredità che Gesù ci ha lasciato nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Eredità che domanda di essere costantemente ripensata, rivissuta, affinché, come ebbe a dire il venerato Papa Paolo VI, possa “imprimere la sua inesauribile efficacia su tutti i giorni della nostra vita mortale” (Papa Benedetto)
The road that Jesus points out can seem a little unrealistic with respect to the common mindset and to problems due to the economic crisis; but, if we think about it, this road leads us back to the right scale of values (Pope Francis)
La strada che Gesù indica può sembrare poco realistica rispetto alla mentalità comune e ai problemi della crisi economica; ma, se ci si pensa bene, ci riporta alla giusta scala di valori (Papa Francesco)
Our commitment does not consist exclusively of activities or programmes of promotion and assistance; what the Holy Spirit mobilizes is not an unruly activism, but above all an attentiveness that considers the other in a certain sense as one with ourselves (Pope Francis)
Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro considerandolo come un’unica cosa con se stesso (Papa Francesco)
The drama of prayer is fully revealed to us in the Word who became flesh and dwells among us. To seek to understand his prayer through what his witnesses proclaim to us in the Gospel is to approach the holy Lord Jesus as Moses approached the burning bush: first to contemplate him in prayer, then to hear how he teaches us to pray, in order to know how he hears our prayer (Catechism of the Catholic Church n.2598)
L’evento della preghiera ci viene pienamente rivelato nel Verbo che si è fatto carne e dimora in mezzo a noi. Cercare di comprendere la sua preghiera, attraverso ciò che i suoi testimoni ci dicono di essa nel Vangelo, è avvicinarci al santo Signore Gesù come al roveto ardente: dapprima contemplarlo mentre prega, poi ascoltare come ci insegna a pregare, infine conoscere come egli esaudisce la nostra preghiera (Catechismo della Chiesa Cattolica n.2598)
If penance today moves from the material to the spiritual side, let's say, from the body to the soul, from the outside to the inside, it is no less necessary and less feasible (Pope Paul VI)
Se la penitenza si sposta oggi dalla parte, diciamo, materiale a quella spirituale, dal corpo all’anima, dall’esterno all’interno, non è meno necessaria e meno attuabile (Papa Paolo VI)
“Love is an excellent thing”, we read in the book the Imitation of Christ. “It makes every difficulty easy, and bears all wrongs with equanimity…. Love tends upward; it will not be held down by anything low… love is born of God and cannot rest except in God” (III, V, 3) [Pope Benedict]
«Grande cosa è l’amore – leggiamo nel libro dell’Imitazione di Cristo –, un bene che rende leggera ogni cosa pesante e sopporta tranquillamente ogni cosa difficile. L’amore aspira a salire in alto, senza essere trattenuto da alcunché di terreno. Nasce da Dio e soltanto in Dio può trovare riposo» (III, V, 3) [Papa Benedetto]
don Giuseppe Nespeca
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