Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
(Mt 25,31-46)
Il celebre brano del Giudizio presenta il Risorto ‘veniente’ (v.31) come «Figlio dell’uomo» ossia sviluppo autentico e completo del progetto divino sull’umanità: il suo genere di “verdetto” ne consegue.
Dio abbraccia la condizione di limite delle sue creature, quindi il comportamento che realizza la nostra vita non riguarda l’atteggiamento religioso in sé, ma quello che abbiamo avuto verso i nostri simili.
In tutte le credenze antiche l’anima del defunto veniva soppesata su base notarile e giudicata secondo il saldo positivo o negativo.
A parere dei rabbini, la misericordia divina interveniva a favore solo nel momento in cui le opere buone e cattive si bilanciavano.
Gesù non parla d’un tribunale che proclama sentenze negative immutabili sull’intera persona, ma dei suoi tratti umanizzanti.
«Vita dell’Eterno» (v.46 testo greco) allude a un genere di vita non biologico ma relazionale e di completezza di essere, che possiamo già sperimentare.
Si tratta di episodi in cui è affiorato il nostro DNA genuino, l’Oro che ci abita: quando abbiamo saputo corrispondere ai bisogni non di Dio, ma della vita stessa e dei nostri fratelli.
Sono i momenti in cui siamo stati ascoltatori profondi della natura, speranza e vocazione di tutti - sensibili alle necessità altrui. Opportunità che ci hanno consentito di avvicinare la condizione umana a quella celeste.
Comparando le ‘opere’ dichiarate “paradigma” con quelle degli elenchi di altre religioni - persino nell’antico Egitto - notiamo la differenza del v.36: «ero in prigione e siete venuti da me» (vv.39.43).
La differenza è notevole proprio sotto il criterio della Giustizia divina: essa sorvola le considerazioni forensi, perché crea giustizia dove non c’è.
Il Padre pone vita in ogni caso, perché non è buono [come si crede in tutte le persuasioni devote] ma esclusivamente buono.
I ‘giusti’ - poi - neppure si sono accorti di aver fatto chissà cosa: hanno corrisposto spontaneamente alla loro natura di figli (v.39).
Hanno avuto simpatia per la ‘carne’ nella sua realtà - valutandola famigliare. Hanno amato con e come Gesù, in Lui.
Gli altri invece, tutti presi da formalismi che a Dio non interessano, risultano sorpresi del fatto che il Padre non sia tutto lì dove lo avevano immaginato - stretto nelle sentenze della giustizia ordinaria: «Quando ti abbiamo visto [...] in prigione e non ti abbiamo servito?» (v.44).
La vocazione a venire incontro ci porta spontaneamente a trasgredire le divisioni: legaliste, di retribuzione, o pregiudizi e genere di culto.
Questa la Salvezza eminente, di peso - che si annida nell’aspetto diretto e genuino, non tanto nei propositi organizzati; né ha consistenza alcuna su base di opinioni.
Ci realizziamo nel corrispondere alla chiamata istintiva che sorge dalla nostra stessa impronta essenziale (altruista) anche minima, malconsiderata, o eccentrica e malferma - non straordinaria.
Senza condizioni troppo esteriori, essa si riconosce disseminata nell’anima e nella pienezza benefica divinizzante del «Figlio dell’uomo».
Insegnamento ultimo di Gesù: Giudizio insigne, globale e tutto umano; non responso a concetto e rendiconto.
Resta singolare l’identificazione di Gesù coi piccoli: la sua Persona ha un senso centrale, ‘senza distinzione’ fra amici e controlegge.
Qui l’uomo è un Soggetto diverso, ben più ricco - saldo in se stesso, ma che si dilata nel Tu divino e umano, anche indigente.
[Lunedì 1.a sett. Quaresima, 10 marzo 2025]
(Mt 25,31-46)
Il celebre brano del Giudizio presenta il Risorto veniente (v.31) come «Figlio dell’uomo» ossia sviluppo autentico e completo del progetto divino sull’umanità: il suo genere di “verdetto” ne consegue.
Dio abbraccia la condizione di limite delle sue creature, quindi il comportamento che realizza la nostra vita non riguarda l’atteggiamento religioso in sé, ma quello che abbiamo avuto verso i nostri simili.
È il richiamo evangelico della recente enciclica [ottobre 2020] sulla fraternità e l’amicizia sociale.
Consapevole della situazione, il Magistero si fa oggi pungolo d’ogni spiritualità di cerchia, ovvia e qualunquista; di qualsivoglia mistica da folklore, strapaesana... vuota, intimista, ancora seduta dentro armature da comodino.
In tutte le credenze antiche l’anima del defunto veniva soppesata su base notarile e giudicata secondo il saldo positivo o negativo.
Secondo i rabbini, la misericordia divina interveniva a favore, solo nel momento in cui le opere buone e cattive si bilanciavano.
Gesù non parla d’un tribunale che proclama sentenze negative immutabili sull’intera persona, ma dei tratti di esistenza completa che - essendo in sé indistruttibili perché umanizzanti - vengono salvati e assunti, introdotti nella esistenza definitiva.
«Vita dell’Eterno» (v.46 testo greco) allude a un genere di vita non biologico ma relazionale e di completezza di essere, che possiamo già sperimentare.
Si tratta di episodi in cui è affiorato il nostro DNA divino, l’Oro che ci abita: quando abbiamo saputo corrispondere ai bisogni non di Dio, ma della vita stessa e dei nostri fratelli.
Sono i momenti in cui siamo stati ascoltatori profondi della natura, della speranza e vocazione di tutti - sensibili alle necessità altrui.
Opportunità che ci hanno consentito di avvicinare la condizione umana a quella celeste.
Comparando le “opere” dichiarate “paradigma” con quelle degli elenchi del giudaismo classico (Is 58,6-7) e di altre religioni - persino dell’antico Egitto [Libro dei morti, c.125] - notiamo la differenza del v.36: «ero in prigione e siete venuti da me» (cf. vv.39.43).
La differenza è notevole proprio sotto il criterio della Giustizia divina: essa sorvola le considerazioni forensi, perché crea giustizia dove non c’è.
Il Padre pone vita in ogni caso, perché non è buono come si crede in tutte le persuasioni devote, bensì esclusivamente buono.
I “giusti” - poi - neppure si sono accorti di aver fatto chissà cosa: hanno corrisposto spontaneamente alla loro natura innata e trasparente di figli (v.39).
Hanno avuto simpatia per la “carne” nella realtà in cui si trova - e dove si trova - valutandola famigliare. Hanno amato con e come Gesù, in Lui.
Non hanno amato per Gesù - come se la condizione dell’altro potesse essere collocata fra parentesi, e sotto sotto considerata una seccatura sulla quale costruire una fiction, pur solidale.
Gli altri osservanti invece, tutti presi da formalismi di rito, dottrina e disciplina che a Dio non interessano, risultano sorpresi del fatto che il Padre non sia tutto lì dove lo avevano immaginato.
Ossia perbene ma vuoto e stagnante come loro, stretto nelle sentenze della giustizia ordinaria: «Quando ti abbiamo visto [...] in prigione e non ti abbiamo servito?» (v.44).
La vocazione a venire incontro ci porta spontaneamente a trasgredire le divisioni: legaliste, di retribuzione, o pregiudizi e genere di culto.
Questa la Salvezza eminente, di peso - che si annida nell’aspetto diretto e genuino. Non tanto nei propositi organizzati; né ha consistenza alcuna su base di opinioni.
Ci realizziamo nel corrispondere alla chiamata istintiva che sorge dalla nostra stessa impronta essenziale altruista: anche minima, malconsiderata, o eccentrica, malferma e poco adempiente - non straordinaria.
Senza condizioni troppo esteriori, essa si riconosce disseminata nell’anima e nella pienezza benefica, divinizzante, del «Figlio dell’uomo».
Insegnamento ultimo di Gesù: Giudizio insigne, globale e tutto umano.
Non responso qualunquista o di contrabbando, a concetto e rendiconto.
Resta singolare l’identificazione di Gesù coi piccoli: «quanto avete fatto anche a uno solo di questi miei fratelli, quelli ultimi, avete fatto a me» (v.40).
Diversamente: «neppure a me avete fatto» (v.45).
La sua Persona ha un senso centrale, senza distinzione tra amici e controlegge, fra pii adempienti e non.
L’adesione a Cristo non si valuta sulla base di opere distanti dal Nucleo umanizzante.
Belle cose che possono essere compiute anche senza spirito di benevolenza [per dovere e cultura, o anche lustro e calcolo] - bensì sull’amore.
Dio non resta obbligato a premiare i meriti.
Le opere buone possono essere messe in mostra o adempiute anche contro il Padre: come per legargli le mani.
Un travisamento tipico delle religioni, che prevedono il premio ai devoti.
Fraintendimento estraneo all’esperienza di Fede, la cui unica sicurezza è nel rischio dell’esplorazione, nella crescita, nella qualità di relazioni - appunto, umanizzanti.
Vita e morte sono ben distinte [«destra e sinistra»: proverbialmente, fortuna e disgrazia] secondo le caratteristiche dell’autentica pietà verso Dio stesso... perché il suo onore si riflette nella promozione della donna e dell’uomo, colti nella loro situazione concreta.
Unico principio non negoziabile è il servizio al bene di ciascuna persona.
Le opere d’amore sono espressione di Comunione vera col Cristo - in tal guisa liberate da tare cerebrali e di maniera: da ogni genere di limiti o giudizio che condizioni il loro valore.
Insomma, non c’è da fare cose mirate e straordinarie, o meccaniche, ma lasciar agire Dio - rispettando e valorizzando il fratello per quello che è.
Anche fuori dell’ambito visibile del regno degli apostoli (o di una dottrina-disciplina) v’è un autentico “cristianesimo”: civiltà dei figli.
Insomma, nessuna predestinazione alla condanna dei lontani o erranti e imperfetti, salvo per mancanza di fraternità che recupera l’impossibile - persino “controlegge”.
Autentica Regalità del Cristo e dei suoi.
In Palestina, di sera i pastori erano soliti separare le pecore dai capri che avevano bisogno di essere riparati dal freddo.
Allo scopo di sottolinearne l’importanza, la questione sollevata dall’evangelista fa propri i coloriti moduli di predicazione rabbinica.
Il problema non è quello di chi si salva e chi no.
La domanda è semmai: in quali occasioni siamo volentieri all’aperto anche di “notte”, e umanizziamo - e in quali ci comportiamo in modo più belluino, chiuso, però senza diventare... agnelli?
In Cristo la vittoria sull’egoismo perde il suo significato di annientamento delle possibilità di crescita individuale - che non si ottiene ostinandosi.
Il suo potere è tutt’altro che stagnante e divisivo. Non nasconde le capacità che non vediamo, o ciò che non sappiamo.
Le situazioni opposte sono i momenti gloriosi di una medesima vittoria. Lo si nota nel prosieguo del brano, che proclama l’altro estremo dell’amore: «il Figlio dell’uomo è consegnato per essere crocifisso» (Mt 26,2).
Quindi lo scopo di Mt non è quello di descrivere la fine del mondo, ma fornire indicazioni su come vivere saggiamente [oggi] per formare Famiglia e non rimanere affascinati dall’immediato luccichio di falsi monili - anche ben allestiti.
Il Richiamo dei Vangeli insiste sulla contrapposizione con una spiritualità frivola: unico distinguo opportuno.
L’uomo di Dio non soddisfa le brame di carriera neppure ecclesiastica, e ogni capriccio.
Suggerisce il Tao Tê Ching (iii) rivolgendosi persino al sapiente sovrano: «Non esaltare i più capaci, fa’ sì che il popolo non contenda; non pregiare i beni che con difficoltà s’ottengono, fa’ sì che il popolo non diventi ladro; non ottenere ciò che può bramarsi, fa’ sì che il cuore del popolo non si turbi».
Commenta il maestro Wang Pi: «Quando si esaltano i più capaci, si dà lustro al loro nome; la gloria va oltre il loro ufficio, ed essi stanno sempre ad abbaruffarsi, paragonando le loro capacità. Quando si fa pregio dei beni oltre la loro utilità, gli avidi vi si precipitano sopra, accapigliandosi; forano mura, scassinano forzieri, si fanno ladri a rischio della vita».
E il maestro Ho-shang Kung aggiunge, circa «coloro che il mondo giudica eccellenti»: «Con il loro eloquio specioso si adattano alle circostanze allontanandosi dal Tao, si attengono alla forma respingendo la sostanza».
L’Appello del Signore ribadisce gli aspetti qualitativi, di Persona in relazione: Egli illustra come vale la pena scommettere la vita.
Ciò affinché tutti possano sperimentare pienezza di essere - che non è il risultato dell’opportunismo.
E neppure dell’appartenenza: ogni discriminazione fra “chiamati” nella Chiesa visibile e lontani da essa viene sospesa.
Le immagini forti del brano di Vangelo servono a farci riflettere, aprire gli occhi, spostare l’orizzonte, imprimere nella nostra coscienza quanto vale la pena mettere in campo: tutto, circa le scelte da fare.
L’amore autentico che muove il cielo e la terra è quello che riesce a fare giusto il malvagio - nel Dono gratuito, privo di condizioni e forme di amor proprio. Persino esente da valutazioni sacrali.
Intuisce il Tao (xxxiii): «Chi opera queste cose? Il Cielo e la Terra [...] Chi si dà al Tao s’immedesima col Tao».
Il genuino sorge e fiorisce dal modo disinteressato e spontaneo, senza sforzo alcuno, né fine artificioso.
Qui l’uomo è un Soggetto diverso, ben più ricco - saldo in se stesso, ma che si dilata nel Tu divino e umano, anche indigente.
«Nella pagina evangelica di oggi, Gesù si identifica non solo col re-pastore, ma anche con le pecore perdute. Potremmo parlare come di una “doppia identità”: il re-pastore, Gesù, si identifica anche con le pecore, cioè con i fratelli più piccoli e bisognosi. E indica così il criterio del giudizio: esso sarà preso in base all’amore concreto dato o negato a queste persone […] Dunque, il Signore, alla fine del mondo, passerà in rassegna il suo gregge, e lo farà non solo dalla parte del pastore, ma anche dalla parte delle pecore, con le quali Lui si è identificato. E ci chiederà: “Sei stato un po’ pastore come me?” […] E torniamo a casa soltanto con questa frase: “Io ero presente lì. Grazie!” oppure: “Ti sei scordato di me”».
(Papa Francesco)
Il Vangelo odierno insiste proprio sulla regalità universale di Cristo giudice, con la stupenda parabola del giudizio finale, che san Matteo ha collocato immediatamente prima del racconto della Passione (25,31-46). Le immagini sono semplici, il linguaggio è popolare, ma il messaggio è estremamente importante: è la verità sul nostro destino ultimo e sul criterio con cui saremo valutati. "Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto" (Mt 25,35) e così via. Chi non conosce questa pagina? Fa parte della nostra civiltà. Ha segnato la storia dei popoli di cultura cristiana: la gerarchia di valori, le istituzioni, le molteplici opere benefiche e sociali. In effetti, il regno di Cristo non è di questo mondo, ma porta a compimento tutto il bene che, grazie a Dio, esiste nell’uomo e nella storia. Se mettiamo in pratica l’amore per il nostro prossimo, secondo il messaggio evangelico, allora facciamo spazio alla signoria di Dio, e il suo regno si realizza in mezzo a noi. Se invece ciascuno pensa solo ai propri interessi, il mondo non può che andare in rovina.
Cari amici, il regno di Dio non è una questione di onori e di apparenze, ma, come scrive san Paolo, è "giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo" (Rm 14,17). Al Signore sta a cuore il nostro bene, cioè che ogni uomo abbia la vita, e che specialmente i suoi figli più "piccoli" possano accedere al banchetto che lui ha preparato per tutti. Perciò, non sa che farsene di quelle forme ipocrite di chi dice "Signore, Signore" e poi trascura i suoi comandamenti (cfr Mt 7,21). Nel suo regno eterno, Dio accoglie quanti si sforzano giorno per giorno di mettere in pratica la sua parola. Per questo la Vergine Maria, la più umile di tutte le creature, è la più grande ai suoi occhi e siede Regina alla destra di Cristo Re. Alla sua celeste intercessione vogliamo affidarci ancora una volta con fiducia filiale, per poter realizzare la nostra missione cristiana nel mondo.
[Papa Benedetto, Angelus 23 novembre 2008]
Il “cielo” come pienezza di intimità con Dio
Lettura: 1 Gv 3, 2-3
1. Quando sarà passata la figura di questo mondo, coloro che hanno accolto Dio nella loro vita e si sono sinceramente aperti al suo amore almeno al momento della morte, potranno godere di quella pienezza di comunione con Dio, che costituisce il traguardo dell’esistenza umana.
Come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, “questa vita perfetta, questa comunione di vita e di amore con la Santissima Trinità, con la Vergine Maria, gli angeli e tutti i beati è chiamata 'il cielo'. Il cielo è il fine ultimo dell’uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva” (n. 1024).
Vogliamo oggi cercare di cogliere il senso biblico del “cielo”, per poter comprendere meglio la realtà cui questa espressione rimanda.
2. Nel linguaggio biblico il “cielo” quando è unito alla “terra”, indica una parte dell’universo. A proposito della creazione, la Scrittura dice: “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gn 1, 1).
Sul piano metaforico il cielo è inteso come abitazione di Dio, che in questo si distingue dagli uomini (cfr Sal 104, 2s.; 115,16; Is 66, 1). Egli dall’alto dei cieli vede e giudica (cfr Sal 113, 4-9), e discende quando lo si invoca (cfr Sal 18,7.10; 144,5). Tuttavia la metafora biblica fa bene intendere che Dio né si identifica con il cielo né può essere racchiuso nel cielo (cfr 1 Re 8, 27); e ciò è vero, nonostante che in alcuni passi del primo libro dei Maccabei “il Cielo” sia semplicemente un nome di Dio (1 Mac 3, 18.19.50.60; 4, 24.55).
Alla raffigurazione del cielo, quale dimora trascendente del Dio vivo, si aggiunge quella di luogo a cui anche i credenti possono per grazia ascendere, come nell'Antico Testamento emerge dalle vicenda di Enoc (cfr Gn 5, 24) e di Elia (cfr 2 Re 2, 11). Il cielo diventa così figura della vita in Dio. In questo senso, Gesù parla di “ricompensa nei cieli” (Mt 5, 12) ed esorta ad “accumulare tesori nel cielo” (ivi 6, 20; cfr 19, 21).
3. Il Nuovo Testamento approfondisce l'idea del cielo anche in rapporto al mistero di Cristo. Per indicare che il sacrificio del Redentore assume valore perfetto e definitivo, la Lettera agli Ebrei afferma che Gesù “ha attraversato i cieli” (Eb 4, 14) e “non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso” (Ivi 9, 24). I credenti, poi, in quanto amati in modo speciale da parte del Padre, vengono risuscitati con Cristo e sono resi cittadini del cielo. Vale la pena di ascoltare quanto in proposito l’apostolo Paolo ci comunica in un testo di grande intensità: “Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù” (Ef 2, 4-7). La paternità di Dio, ricco di misericordia, viene sperimentata dalle creature attraverso l’amore del Figlio di Dio crocifisso e risorto, il quale come Signore siede nei cieli alla destra del Padre.
4. La partecipazione alla completa intimità con il Padre, dopo il percorso della nostra vita terrena, passa dunque attraverso l’inserimento nel mistero pasquale del Cristo. San Paolo sottolinea con vivida immagine spaziale questo nostro andare verso Cristo nei cieli alla fine dei tempi: “Quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro [i morti risuscitati] tra le nubi, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole” (1 Ts 4, 17-18).
Nel quadro della Rivelazione sappiamo che il “cielo” o la “beatitudine” nella quale ci troveremo non è un’astrazione, neppure un luogo fisico tra le nubi, ma un rapporto vivo e personale con la Trinità Santa. È l’incontro con il Padre che si realizza in Cristo Risorto grazie alla comunione dello Spirito Santo.
Occorre mantenere sempre una certa sobrietà nel descrivere queste ‘realtà ultime’, giacché la loro rappresentazione rimane sempre inadeguata. Oggi il linguaggio personalistico riesce a dire meno impropriamente la situazione di felicità e di pace in cui ci stabilirà la comunione definitiva con Dio.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica sintetizza l’insegnamento ecclesiale circa questa verità affermando che “con la sua morte e la sua risurrezione Gesù Cristo ci ha ‘aperto’ il cielo. La vita dei beati consiste nel pieno possesso dei frutti della Redenzione compiuta da Cristo, il quale associa alla sua glorificazione celeste coloro che hanno creduto in lui e che sono rimasti fedeli alla sua volontà. Il cielo è la beata comunità di tutti coloro che sono perfettamente incorporati in lui” (n. 1026).
5. Questa situazione finale può essere tuttavia anticipata in qualche modo oggi, sia nella vita sacramentale, di cui l’Eucaristia è il centro, sia nel dono di sé mediante la carità fraterna. Se sapremo godere ordinatamente dei beni che il Signore ci elargisce ogni giorno, sperimenteremo già quella gioia e quella pace di cui un giorno godremo pienamente. Sappiamo che in questa fase terrena tutto è sotto il segno del limite, tuttavia il pensiero delle realtà ‘ultime’ ci aiuta a vivere bene le realtà ‘penultime’. Siamo consapevoli che mentre camminiamo in questo mondo siamo chiamati a cercare “le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio” (Col 3, 1), per essere con lui nel compimento escatologico, quando nello Spirito egli riconcilierà totalmente con il Padre “le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli” (Col 1, 20).
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 21 luglio 1999]
Ma il paradosso cristiano è che il Giudice non riveste una regalità temibile, ma è un pastore pieno di mitezza e di misericordia.
Gesù, infatti, in questa parabola del giudizio finale, si serve dell’immagine del pastore. Prende le immagini dal profeta Ezechiele, che aveva parlato dell’intervento di Dio in favore del popolo, contro i cattivi pastori d’Israele (cfr 34,1-10). Questi erano stati crudeli, sfruttatori, preferendo pascere sé stessi piuttosto che il gregge; pertanto Dio stesso promette di prendersi cura personalmente del suo gregge, difendendolo dalle ingiustizie e dai soprusi. Questa promessa di Dio per il suo popolo si è realizzata pienamente in Gesù Cristo, il Pastore: proprio Lui è il Buon Pastore. Anche Lui stesso dice di sé: «Io sono il buon pastore» (Gv 10,11.14).
Nella pagina evangelica di oggi, Gesù si identifica non solo col re-pastore, ma anche con le pecore perdute. Potremmo parlare come di una “doppia identità”: il re-pastore, Gesù, si identifica anche con le pecore, cioè con i fratelli più piccoli e bisognosi. E indica così il criterio del giudizio: esso sarà preso in base all’amore concreto dato o negato a queste persone, perché Lui stesso, il giudice, è presente in ciascuna di esse. Lui è giudice, Lui è Dio-uomo, ma Lui è anche il povero, Lui è nascosto, è presente nella persona dei poveri che Lui menziona proprio lì. Dice Gesù: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto (o non avete fatto) a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete (o non l’avete) fatto a me» (vv. 40.45). Saremo giudicati sull’amore. Il giudizio sarà sull’amore. Non sul sentimento, no: saremo giudicati sulle opere, sulla compassione che si fa vicinanza e aiuto premuroso.
Io mi avvicino a Gesù presente nella persona dei malati, dei poveri, dei sofferenti, dei carcerati, di coloro che hanno fame e sete di giustizia? Mi avvicino a Gesù presente lì? Questa è la domanda di oggi.
Dunque, il Signore, alla fine del mondo, passerà in rassegna il suo gregge, e lo farà non solo dalla parte del pastore, ma anche dalla parte delle pecore, con le quali Lui si è identificato. E ci chiederà: “Sei stato un po’ pastore come me?”. “Sei stato pastore di me che ero presente in questa gente che era nel bisogno, o sei stato indifferente?”. Fratelli e sorelle, guardiamoci dalla logica dell’indifferenza, di quello che ci viene in mente subito: guardare da un’altra parte quando vediamo un problema. Ricordiamo la parabola del Buon Samaritano. Quel povero uomo, ferito dai briganti, buttato per terra, fra la vita e la morte, era lì solo. Passò un sacerdote, vide, e se ne andò, guardò da un’altra parte. Passò un levita, vide e guardò da un’altra parte. Io, davanti ai miei fratelli e sorelle nel bisogno, sono indifferente come questo sacerdote, come questo levita, e guardo da un’altra parte? Sarò giudicato su questo: su come mi sono avvicinato, di come ho guardato Gesù presente nei bisognosi. Questa è la logica, e non lo dico io, lo dice Gesù: “Quello che avete fatto a questo, a questo, a questo, lo avete fatto a me. E quello che non avete fatto a questo, a questo, a questo, non lo avete fatto a me, perché io ero lì”. Che Gesù ci insegni questa logica, questa logica della prossimità, dell’avvicinarsi a Lui, con amore, nella persona dei più sofferenti.
Chiediamo alla Vergine Maria di insegnarci a regnare nel servire. La Madonna, assunta in Cielo, ha ricevuto dal suo Figlio la corona regale, perché lo ha seguito fedelmente – è la prima discepola - nella via dell’Amore. Impariamo da lei a entrare fin da ora nel Regno di Dio, attraverso la porta del servizio umile e generoso. E torniamo a casa soltanto con questa frase: “Io ero presente lì. Grazie!” oppure: “Ti sei scordato di me”.
[Papa Francesco, Angelus 22 novembre 2020]
Ma viene a noi ogni giorno
La pagina evangelica si apre con una visione grandiosa. Gesù, rivolgendosi ai suoi discepoli, dice: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria» (Mt 25,31). Si tratta dell’introduzione solenne del racconto del giudizio universale. Dopo aver vissuto l’esistenza terrena in umiltà e povertà, Gesù si presenta ora nella gloria divina che gli appartiene, circondato dalle schiere angeliche. L’umanità intera è convocata davanti a Lui ed Egli esercita la sua autorità separando gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre.
A quelli che ha posto alla sua destra dice: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (vv. 34-36). I giusti rimangono sorpresi, perché non ricordano di aver mai incontrato Gesù, e tanto meno di averlo aiutato in quel modo; ma Egli dichiara: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (v. 40). Questa parola non finisce mai di colpirci, perché ci rivela fino a che punto arriva l’amore di Dio: fino al punto di immedesimarsi con noi, ma non quando stiamo bene, quando siamo sani e felici, no, ma quando siamo nel bisogno. E in questo modo nascosto Lui si lascia incontrare, ci tende la mano come mendicante. Così Gesù rivela il criterio decisivo del suo giudizio, cioè l’amore concreto per il prossimo in difficoltà. E così si rivela il potere dell’amore, la regalità di Dio: solidale con chi soffre per suscitare dappertutto atteggiamenti e opere di misericordia.
La parabola del giudizio prosegue presentando il re che allontana da sé quelli che durante la loro vita non si sono preoccupati delle necessità dei fratelli. Anche in questo caso costoro rimangono sorpresi e chiedono: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?» (v. 44). Sottinteso: “Se ti avessimo visto, sicuramente ti avremmo aiutato!”. Ma il re risponderà: «Tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me» (v. 45). Alla fine della nostra vita saremo giudicati sull’amore, cioè sul nostro concreto impegno di amare e servire Gesù nei nostri fratelli più piccoli e bisognosi. Quel mendicante, quel bisognoso che tende la mano è Gesù; quell’ammalato che devo visitare è Gesù; quel carcerato è Gesù; quell’affamato è Gesù. Pensiamo a questo.
Gesù verrà alla fine dei tempi per giudicare tutte le nazioni, ma viene a noi ogni giorno, in tanti modi, e ci chiede di accoglierlo. La Vergine Maria ci aiuti a incontrarlo e riceverlo nella sua Parola e nell’Eucaristia, e nello stesso tempo nei fratelli e nelle sorelle che soffrono la fame, la malattia, l’oppressione, l’ingiustizia. Possano i nostri cuori accoglierlo nell’oggi della nostra vita, perché siamo da Lui accolti nell’eternità del suo Regno di luce e di pace.
[Papa Francesco, Angelus 26 novembre 2017]
Fede, Tentazioni: la nostra riuscita
(Mt 4,1-11; Mc 1,12-15; Lc 4,1-13)
Solo l’uomo di Dio è tentato.
Nella Bibbia la tentazione non è una sorta di pericolo o seduzione per la morte, ma un’opportunità per la vita. Anche più: un rilancio dai soliti lacci.
Quando l’esistenza fila via senza scossoni, ecco invece il ‘terremoto della lusinga’... cimento che ricolloca in bilico.
Spiritualità Quaresimale.
Nel disegno di Dio, la prova di Fede non viene per distruggere menti e vita, ma per disturbare la paludosa realtà degli obblighi contratti nella quiete del galateo conformista.
Infatti, nelle etichette non siamo noi stessi, ma un ruolo: qui è impossibile conformarci sul serio a Cristo.
Ogni periglio giunge per un salutare scossone anche d’immagine, e per smuoverci.
L’esodo stimola a fare un balzo in avanti; a non affossare l’esistenza nell’antologia dei meccanismi acritici sotto condizione.
Il passaggio è stretto e si fa pure obbligato; ferisce. Ma sperona affinché incontriamo di nuovo noi stessi, i fratelli e il mondo.
La Provvidenza incalza: ci sta educando a guardare in faccia sia ogni dettaglio che l’opzione fondamentale.
Per uscire da pericoli, ‘seduzioni’ o disturbi, siamo obbligati a guardare dentro e tirar fuori tutte le risorse, persino quelle ignote (o cui non abbiamo concesso credito).
La difficoltà e la crisi costringono a trovare soluzioni, dare spazio ai lati trascurati e in ombra; vedere bene, chiedere aiuto; informarsi, entrare in relazione qualitativa e confrontarci.
Di necessità, virtù: dopo l’attrazione e l’adescamento o la prova, il punto di vista rinnovato, ribadito da una nuova valutazione, interroga l’anima sul calibro delle scelte e sulle nostre stesse infermità.
Le situazioni malferme hanno qualcosa da dirci: vengono dagli strati profondi dell’essere, che dobbiamo incontrare - e si configurano come energie plasmabili, da investire.
Le chiamate a rivoluzionare le opinioni di sé e delle cose - le vocazioni a una ‘nuova nascita’ - non sono incitamenti al peggio, né umiliazioni spirituali.
Le “croci” e persino gli abbagli sono un territorio di doglie che guida al contatto intimo con la nostra Sorgente, che volta a volta ci ri-suscita.
L’uomo che sta sempre in ascolto del proprio Centro e permane fedele alla singolare dignità e unicità di Missione, deve però sostenere le pressioni di un genere di male che istiga solo morte.
Mt e Lc descrivono tali allettamenti (‘apparentemente amicali’, per il successo) in tre quadri simbolici:
il rapporto con le cose [pietre in pane]; con gli altri [tentazione dei regni]; con Dio [Fiducia nell’Azione del Padre].
Nelle Sacre Scritture emerge un dato curioso: le persone spiritualmente fiacche non sono mai tentate! E vale anche il viceversa.
È il modo di vivere e interiorizzare il fulmine o il tempo della Tentazione ciò che distingue la Fede dalla banalità della devozione qualsiasi.
[1.a Domenica di Quaresima, 9 marzo 2025]
Fede, Tentazioni: la nostra riuscita
(Mt 4,1-11; Mc 1,12-15; Lc 4,1-13)
Solo l’uomo di Dio è tentato.
Nella Bibbia la tentazione non è una sorta di pericolo o seduzione per la morte, ma un’opportunità per la vita. Anche più: un rilancio dai soliti lacci.
Ottica di Spiritualità Quaresimale:
Ogni giorno verifichiamo che un’insidia rilevante per l’esperienza della Fede sembra proprio “la fortuna”. Essa ci lega al buon fine immediato delle situazioni individuali.
Il viceversa invece fa routine: ecco il benessere, lo scampare da fallimenti e vicende infelici, la stasi dell’uguale-a-prima.
Una persona devota può perfino utilizzare la religione per sacralizzare il proprio mondo coartato, legato d’abitudini (considerate stabili).
Quindi - secondo circostanza - inserirsi anche volentieri nella pratica dei Sacramenti, purché restino parentesi che non significhino granché.
Quando l’esistenza fila via senza scossoni, ecco invece il terremoto della lusinga... cimento che ricolloca in bilico.
Nel disegno di Dio, la prova di Fede non viene per distruggere menti ed esistenza, ma per disturbare la paludosa realtà degli obblighi contratti nella quiete del galateo conformista.
Infatti, nelle etichette non siamo noi stessi, ma un ruolo: qui è impossibile conformarci sul serio a Cristo.
Ogni periglio giunge per un salutare scossone anche d’immagine, e per smuoverci.
L’Esodo stimola a fare un balzo in avanti - a non affossare l’esistenza nell’antologia dei meccanismi acritici sotto condizione, e sottoporsi ad influsso di cordate riconosciute; “utili”, ma che ci deviano la naturalezza.
Il passaggio è stretto e si fa pure obbligato; ferisce. Ma sperona affinché incontriamo di nuovo noi stessi, i fratelli, e il mondo.
La Provvidenza incalza: ci sta educando a guardare in faccia sia ogni dettaglio che l’opzione fondamentale.
Non cresciamo né maturiamo assestando l’anima sulle opinioni di tutti e mettendoci seduti in situazioni maggioritarie, abitudinarie, “perbene”, supposte veraci. Eppure poco spontanee, prive di trasparenza e di reciprocità col nostro Eros fondante.
Neppure diventiamo adulti abbracciando atletismi ascetici, o più facili scorciatoie di massa, di ceto, di cricche, o branco - che rendono esterni.
Per uscire da pericoli, seduzioni, disturbi, siamo obbligati a guardare dentro e tirar fuori tutte le risorse, persino quelle ignote o cui non abbiamo concesso credito.
La difficoltà e la crisi costringono a trovare soluzioni, dare spazio ai lati trascurati, in ombra; vedere bene e chiedere aiuto; informarsi, entrare in relazione qualitativa, e confrontarci a partire da dentro.
Di necessità, virtù: dopo l’attrazione e l’adescamento o la prova, il punto di vista rinnovato e ribadito da una nuova valutazione interroga l’anima sul calibro delle scelte - sulle nostre stesse infermità.
Esse stesse hanno qualcosa da dirci: vengono dagli strati profondi dell’essere, che dobbiamo incontrare - per non rimanere dissociati. E si configurano come energie plasmabili, poi da investire.
Le chiamate a rivoluzionare le opinioni di sé e delle cose - le vocazioni a una nuova nascita - non sono incitamenti ad annientare il proprio mondo di rapporti, o stimoli al peggio, né umiliazioni spirituali.
Le “croci” e persino gli abbagli sono un territorio di doglie che guida al contatto intimo con la nostra Sorgente - che volta a volta ci ri-suscita con nuove genesi, con differenti nascite.
L’uomo che sta sempre in ascolto del proprio centro e permane fedele alla singolare dignità e unicità di Missione, deve però sostenere le pressioni di una fattispecie di male che istiga solo morte.
Mt e Lc descrivono tali allettamenti apparentemente amicali, ovvero per il successo, in tre quadri simbolici:
Ecco il rapporto con le cose [pietre in pane]; con gli altri [tentazione dei regni]; con Dio [sulla Fiducia nell’Azione del Padre].
Le pietre in pane: la vita del Signore stesso ci dice che è meglio venire sconfitti che star bene per averla sfangata.
È sotto accusa il modo elusivo - anche pio, inerte, senza presa diretta - di porsi in relazione con le realtà materiali.
La persona anche religiosa ma vuota, si limita a dare o recepire indicazioni, o allettare con effetti speciali.
Fa uso del prestigio e delle proprie qualità e titoli, quasi per sfuggire le difficoltà che possono infastidirlo, coinvolgerlo in radice.
La persona di Fede è invece non solo empatica e solidale nella forma, bensì fraterna e autentica.
Non si mantiene a sicura distanza dai problemi, né da ciò che non sa; fa Esodo sul serio. Pagandolo.
Sente l'impulso a percorrere il duro cammino fianco a fianco di se stesso (in verità profonda) e con gli altri, senza calcolo o privilegi.
Né mette in campo risorse unicamente in proprio favore - staccandosi e ripiegandosi, o arrangiandosi; barcamenandosi, adeguandosi al club dei conformisti da zona relax e finte sicurezze.
Tentazione dei regni. La [nostra] controparte non sta esagerando (Mt 4,9; Lc 4,6): la logica che governa il regno idolatrico non ha nulla a che vedere con Dio.
Prendere, salire, comandare; arraffare, apparire, soggiogare: sono i modi peggiori di rapportarsi con gli altri, che sembra stiano lì solo per utilità, e fare da sgabelli, o seccarci.
La brama del potere è così irrefrenabile, tanto capace di sedurre, da sembrare attributo specifico della condizione divina: stare in alto.
Sebbene potesse fare carriera, Gesù non ha voluto confonderci dirigendo, ma accorciando le distanze.
Nella storia, purtroppo, diversi ecclesiastici non hanno avuto idee chiare. Scambiando volentieri il grembiule del servizio e l’asciugatoio dei nostri piedi con la poltrona strappata e una carica agognata.
Idoli fantoccio cui non bisognava rendere culto.
La tentazione finale - l’apice della “garanzia di protezione” del Tempio - sembra come le altre un banale consiglio a nostro favore. Anche per la “riuscita” nella relazione con Dio - dopo quella con le cose e la gente.
Ma qui è in gioco la piena Fiducia nell’Azione del Padre. Egli trasmette vita, senza posa rafforza e dilata il nostro essere.
Anche nelle opportunità che paiono meno appetibili, il Creatore incessantemente genera occasioni di completezza e realizzazione più genuina, che rielaborate senza isterismi accentuano l’onda vitale.
Egli preme in modo crescente, affinché i canoni vengano valicati. E l’essere creaturale traspaia. Lì c’è un segreto, un Mistero, una destinazione che si annidano.
La Sua è una spinta ben altro che piantata sullo spettacolo-miracolo, o sull’assicurazione sacrale [che poi scantona da approfondimenti sgraditi e rischi azzardati].
Nelle Sacre Scritture emerge un dato curioso: le persone spiritualmente fiacche non sono mai tentate! E vale anche il viceversa.
È il modo di vivere e interiorizzare il fulmine o il tempo della Tentazione ciò che distingue la Fede dalla banalità della devozione qualsiasi.
Cari fratelli e sorelle!
Mercoledì scorso, con il rito penitenziale delle Ceneri, abbiamo iniziato la Quaresima, tempo di rinnovamento spirituale che prepara alla celebrazione annuale della Pasqua. Ma che cosa significa entrare nell’itinerario quaresimale? Ce lo illustra il Vangelo di questa prima domenica, con il racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto. Narra l’Evangelista san Luca che Gesù, dopo aver ricevuto il battesimo di Giovanni, “pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito Santo nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo” (Lc 4,1-2). È evidente l’insistenza sul fatto che le tentazioni non furono un incidente di percorso, ma la conseguenza della scelta di Gesù di seguire la missione affidatagli dal Padre, di vivere fino in fondo la sua realtà di Figlio amato, che confida totalmente in Lui. Cristo è venuto nel mondo per liberarci dal peccato e dal fascino ambiguo di progettare la nostra vita a prescindere da Dio. Egli l’ha fatto non con proclami altisonanti, ma lottando in prima persona contro il Tentatore, fino alla Croce. Questo esempio vale per tutti: il mondo si migliora incominciando da se stessi, cambiando, con la grazia di Dio, ciò che non va nella propria vita.
Delle tre tentazioni cui Satana sottopone Gesù, la prima prende origine dalla fame, cioè dal bisogno materiale: “Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane”. Ma Gesù risponde con la Sacra Scrittura: “Non di solo pane vivrà l’uomo” (Lc 4,3-4; cfr Dt 8,3). Poi, il diavolo mostra a Gesù tutti i regni della terra e dice: tutto sarà tuo se, prostrandoti, mi adorerai. È l’inganno del potere, e Gesù smaschera questo tentativo e lo respinge: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto” (cfr Lc 4,5-8; Dt 6,13). Non adorazione del potere, ma solo di Dio, della verità e dell’amore. Infine, il Tentatore propone a Gesù di compiere un miracolo spettacolare: gettarsi dalle alte mura del Tempio e farsi salvare dagli angeli, così che tutti avrebbero creduto in Lui. Ma Gesù risponde che Dio non va mai messo alla prova (cfr Dt 6,16). Non possiamo “fare un esperimento” nel quale Dio deve rispondere e mostrarsi Dio: dobbiamo credere in Lui! Non dobbiamo fare di Dio “materiale” del “nostro esperimento”! Riferendosi sempre alla Sacra Scrittura, Gesù antepone ai criteri umani l’unico criterio autentico: l’obbedienza, la conformità con la volontà di Dio, che è il fondamento del nostro essere. Anche questo è un insegnamento fondamentale per noi: se portiamo nella mente e nel cuore la Parola di Dio, se questa entra nella nostra vita, se abbiamo fiducia in Dio, possiamo respingere ogni genere di inganno del Tentatore. Inoltre, da tutto il racconto emerge chiaramente l’immagine di Cristo come nuovo Adamo, Figlio di Dio umile e obbediente al Padre, a differenza di Adamo ed Eva, che nel giardino dell’Eden avevano ceduto alle seduzioni dello spirito del male, di essere immortali senza Dio.
La Quaresima è come un lungo “ritiro”, durante il quale rientrare in se stessi e ascoltare la voce di Dio, per vincere le tentazioni del Maligno e trovare la verità del nostro essere. Un tempo, possiamo dire, di “agonismo” spirituale da vivere insieme con Gesù, non con orgoglio e presunzione, ma usando le armi della fede, cioè la preghiera, l’ascolto della Parola di Dio e la penitenza. In questo modo potremo giungere a celebrare la Pasqua in verità, pronti a rinnovare le promesse del nostro Battesimo. Ci aiuti la Vergine Maria affinché, guidati dallo Spirito Santo, viviamo con gioia e con frutto questo tempo di grazia.
[Papa Benedetto, Angelus 21 febbraio 2010]
Io sarò con voi fino alla fine dei tempi (cfr Mt 28,20)
Fratelli e Sorelle!
1. La celebrazione della Quaresima, tempo di conversione e di riconciliazione, assume in questo anno un carattere del tutto particolare, perché si iscrive nel Grande Giubileo del 2000. Il tempo quaresimale rappresenta infatti il punto culminante di quel cammino di conversione e di riconciliazione che il Giubileo, anno di grazia del Signore, propone a tutti i credenti per rinnovare la propria adesione a Cristo ed annunciare con rinnovato ardore il suo mistero di salvezza nel nuovo millennio. La Quaresima aiuta i cristiani a penetrare più profondamente questo "mistero nascosto da secoli" (Ef 3, 9): li porta a confrontarsi con la Parola del Dio vivente e chiede loro di rinunciare al proprio egoismo per accogliere l'azione salvifica dello Spirito Santo.
2. Eravamo morti per il peccato (cfr Ef 2, 5): così san Paolo descrive la situazione dell'uomo senza Cristo. Ecco perché il Figlio di Dio ha voluto unirsi alla natura umana riscattandola dalla schiavitù del peccato e della morte.
E’ una schiavitù che l’uomo sperimenta quotidianamente, avvertendone le radici profonde nel suo stesso cuore (cfr Mt 7,11). Talora essa si manifesta in forme drammatiche ed inusitate, come è avvenuto nel corso delle grandi tragedie del secolo XX, che hanno profondamente inciso nella vita di tante comunità e persone, vittime di crudele violenza. Deportazioni forzate, eliminazione sistematica di popoli, disprezzo dei diritti fondamentali della persona sono le tragedie che ancora oggi purtroppo umiliano l'umanità. Anche nella vita quotidiana, si manifestano svariate forme di prevaricazione, di odio, di annichilamento dell'altro, di menzogna di cui l'uomo è vittima ed autore. L'umanità è segnata dal peccato. La sua drammatica condizione richiama alla mente il grido allarmato dell’Apostolo delle genti: "Non c'è nessun giusto, nemmeno uno" (Rm 3, 10; cfr Sal 13,3).
3. Di fronte all'oscurità del peccato ed all'impossibilità per l'uomo di liberarsi da solo, appare in tutto il suo splendore l'opera salvifica di Cristo: "Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia" (Rm 3, 25). Cristo è l'Agnello che ha preso su di sé il peccato del mondo (cfr Gv 1, 29). Egli ha condiviso l'umana esistenza "fino alla morte e alla morte di croce" (Fil 2,8), per riscattare l'uomo dalla schiavitù del male e reintegrarlo nella sua originaria dignità di figlio di Dio. Ecco il mistero pasquale nel quale siamo rinati! Qui, come ricorda la Sequenza pasquale, "Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello". I Padri della Chiesa affermano che, in Gesù Cristo, il demonio attacca tutta l'umanità e la insidia con la morte, dalla quale però essa viene liberata grazie alla forza vittoriosa della risurrezione. Nel Signore risorto si spezza il potere della morte e all'uomo è offerta la possibilità, mediante la fede, di accedere alla comunione con Dio. A chi crede viene data la vita stessa di Dio, mediante l’azione dello Spirito Santo, "primo dono ai credenti" (Preghiera Eucaristica IV). La redenzione realizzata sulla croce rinnova così l'universo ed attua la riconciliazione tra Dio e l'uomo e degli uomini tra loro.
4. Il Giubileo è il tempo di grazia in cui siamo invitati ad aprirci in maniera particolare alla misericordia del Padre, che nel Figlio si è chinato sull'uomo, ed alla riconciliazione, grande dono di Cristo. Quest’anno, pertanto, deve diventare per i cristiani, ma anche per ogni uomo di buona volontà, un momento prezioso per sperimentare la forza rinnovatrice dell'amore di Dio che perdona e riconcilia. Dio offre la sua misericordia a chiunque la voglia accogliere, anche se lontano e dubbioso. All'uomo di oggi, stanco di mediocrità e di false illusioni, è offerta così la possibilità di intraprendere la via di una vita in pienezza. In tale contesto, la Quaresima dell'Anno Santo 2000 costituisce per eccellenza "il momento favorevole, il giorno della salvezza" (2 Cor 6, 2), l'occasione particolarmente propizia per "lasciarsi riconciliare con Dio" (2 Cor 5, 20).
Durante l'Anno Santo la Chiesa offre varie opportunità di riconciliazione personale e comunitaria. Ogni Diocesi ha indicato dei luoghi speciali, ove i credenti possono recarsi per sperimentare una particolare presenza di Dio riconoscendo alla sua luce il proprio peccato e per intraprendere, grazie al sacramento della Riconciliazione, un nuovo cammino di vita. Un significato particolare riveste il pellegrinaggio in Terra Santa e a Roma, luoghi privilegiati dell'incontro con Dio, per il loro singolare ruolo nella storia della salvezza. Come non incamminarsi, almeno spiritualmente, verso la Terra che, duemila anni or sono, ha visto il passaggio del Signore? Là "il Verbo si è fatto carne" (Gv 1, 14) ed è "cresciuto" in "sapienza, età e grazia" (Lc 2, 52); là "percorreva tutte le città e i villaggi,… predicando il vangelo del Regno e curando ogni malattia e infermità" (Mt 9, 35); là ha portato a compimento la missione affidatagli dal Padre (cfr Gv 19,30) ed ha effuso lo Spirito Santo sulla Chiesa nascente (cfr Gv 20, 22).
Anch'io mi riprometto, proprio nella Quaresima del 2000, di farmi pellegrino nella terra del Signore, alle sorgenti della nostra fede, per celebrarvi il Giubileo bimillenario dell’Incarnazione. Invito ogni cristiano ad accompagnarmi con la preghiera mentre, nelle varie tappe del pellegrinaggio, invocherò il perdono e la riconciliazione per i figli della Chiesa e per l'umanità intera.
5. L'itinerario della conversione conduce a riconciliarsi con Dio e a vivere in pienezza la vita nuova in Cristo. Vita di fede, di speranza e di carità. Queste tre virtù, dette "teologali" perché si riferiscono direttamente a Dio nel suo mistero, sono state oggetto di speciale approfondimento nel triennio di preparazione al Grande Giubileo. La celebrazione dell’Anno Santo richiede ora ad ogni cristiano di vivere e di testimoniare tali virtù in maniera più piena e consapevole.
La grazia del Giubileo spinge innanzitutto a rinnovare la fede personale. Essa consiste nell'adesione all'annuncio del mistero pasquale, attraverso cui il credente riconosce che in Cristo morto e risorto gli è data la salvezza; rimette a lui quotidianamente la propria vita; accoglie quanto il Signore dispone per lui, nella certezza che Dio lo ama. La fede è il "sì" dell'uomo a Dio, il suo "Amen".
Figura esemplare del credente per Ebrei, Cristiani e Musulmani è Abramo: fiducioso nella promessa, egli segue la voce di Dio che lo chiama per sentieri sconosciuti. La fede aiuta a scoprire i segni della presenza amorosa di Dio nella creazione, nelle persone, negli eventi della storia e, soprattutto, nell'opera e nel messaggio di Cristo, spingendo l'uomo a guardare oltre se stesso, oltre le apparenze verso quella trascendenza dove si dischiude il mistero dell'amore di Dio per ogni creatura.
Con la grazia del Giubileo il Signore ci invita, altresì, a ridestare la nostra speranza. In Cristo, infatti, il tempo stesso è redento e si apre ad una prospettiva di gioia senza fine e di comunione piena con Dio. Il tempo del cristiano è segnato dall'attesa delle nozze eterne, anticipate quotidianamente nel banchetto eucaristico. Con lo sguardo rivolto ad esse, "lo Spirito e la sposa dicono: Vieni!" (Ap 22, 17), alimentando la speranza che sottrae il tempo alla pura ripetitività e gli conferisce il suo senso autentico. Con la virtù della speranza, il cristiano testimonia che, al di là di ogni male e di ogni limite, la storia reca in sé un germe di bene che il Signore farà germogliare in pienezza. Egli guarda, pertanto, al nuovo millennio senza paura, ma affronta le sfide e le attese del futuro con la fiduciosa certezza che nasce dalla fede nella promessa del Signore.
Con il Giubileo il Signore ci chiede, infine, di riaccendere la nostra carità. Il Regno, che Cristo manifesterà nel suo pieno splendore alla fine dei tempi, è già presente là dove gli uomini vivono secondo la volontà di Dio. La Chiesa è chiamata a testimoniare la comunione, la pace e la carità che lo contraddistinguono. In questa missione, la comunità cristiana sa che la fede senza le opere è morta (cfr Gc 2, 17). Così, mediante la carità, il cristiano rende visibile l'amore di Dio per gli uomini rivelato in Cristo e rende manifesta la sua presenza nel mondo "fino alla fine dei tempi". La carità per il cristiano non è soltanto un gesto, o un ideale, ma è, per così dire, il prolungamento della presenza di Cristo che dona se stesso.
In occasione della Quaresima, tutti - ricchi o poveri - sono invitati a rendere presente l'amore di Cristo con generose opere di carità. In quest'anno giubilare la nostra carità è chiamata, in modo particolare, a manifestare l'amore di Cristo ai fratelli che mancano del necessario per vivere, a quanti sono vittime della fame, della violenza e dell'ingiustizia. E' questo il modo per attualizzare le istanze di liberazione e di fraternità già presenti nella Sacra Scrittura, che la celebrazione dell'Anno Santo ripropone. L'antico giubileo ebraico, infatti, esigeva di liberare gli schiavi, di rimettere i debiti, di soccorrere i poveri. Oggi nuove schiavitù e più drammatiche povertà colpiscono moltitudini di persone, specie in Paesi del cosiddetto Terzo Mondo. E' un grido di dolore e di disperazione che deve trovare attenti e disponibili quanti intraprendono il cammino giubilare. Come possiamo chiedere la grazia del Giubileo se siamo insensibili alle necessità dei poveri, se non ci impegniamo a garantire a tutti i mezzi necessari per vivere dignitosamente?
Possa il millennio che inizia essere un'epoca nella quale finalmente l’appello di tanti uomini, nostri fratelli, che non possiedono il minimo per vivere, trovi ascolto e fraterna accoglienza. Auspico che i cristiani, ai diversi livelli, si facciano promotori di iniziative concrete per assicurare un’equa distribuzione dei beni e la promozione umana integrale per ciascun individuo.
6. "Io sarò con voi fino alla fine dei tempi". Queste parole di Gesù ci assicurano che nell'annunciare e vivere il vangelo della carità non siamo soli. Anche in questa Quaresima dell'Anno 2000 Egli ci invita a tornare al Padre, che ci aspetta con le braccia aperte, per trasformarci in segni viventi ed efficaci del suo amore misericordioso.
A Maria, Madre di ogni sofferente e Madre della divina Misericordia, affidiamo le nostre intenzioni ed i nostri propositi. Sia Lei la stella luminosa del nostro cammino nel nuovo millennio.
Con tali auspici, invoco su tutti la benedizione di Dio, Uno e Trino, principio e fine di tutte le cose, al quale "fino alla fine dei tempi" si eleva l'inno di benedizione e di lode: "Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a Te, Dio Padre onnipotente, nell'unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen".
Da Castel Gandolfo, 21 settembre 1999.
[Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la Quaresima 2000]
Il Vangelo di questa prima domenica di Quaresima (cfr Lc 4,1-13) narra l’esperienza delle tentazioni di Gesù nel deserto. Dopo aver digiunato per quaranta giorni, Gesù è tentato tre volte dal diavolo. Costui prima lo invita a trasformare una pietra in pane (v. 3); poi gli mostra dall’alto i regni della terra e gli prospetta di diventare un messia potente e glorioso (vv. 5-6); infine lo conduce sul punto più alto del tempio di Gerusalemme e lo invita a buttarsi giù, per manifestare in maniera spettacolare la sua potenza divina (vv. 9-11). Le tre tentazioni indicano tre strade che il mondo sempre propone promettendo grandi successi, tre strade per ingannarci: l’avidità di possesso – avere, avere, avere –, la gloria umana e la strumentalizzazione di Dio. Sono tre strade che ci porteranno alla rovina.
La prima, la strada dell’avidità di possesso. È sempre questa la logica insidiosa del diavolo. Egli parte dal naturale e legittimo bisogno di nutrirsi, di vivere, di realizzarsi, di essere felici, per spingerci a credere che tutto ciò è possibile senza Dio, anzi, persino contro di Lui. Ma Gesù si oppone dicendo: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”» (v. 4). Ricordando il lungo cammino del popolo eletto attraverso il deserto, Gesù afferma di volersi abbandonare con piena fiducia alla provvidenza del Padre, che sempre si prende cura dei suoi figli.
La seconda tentazione: la strada della gloria umana. Il diavolo dice: «Se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo» (v. 7). Si può perdere ogni dignità personale, ci si lascia corrompere dagli idoli del denaro, del successo e del potere, pur di raggiungere la propria autoaffermazione. E si gusta l’ebbrezza di una gioia vuota che ben presto svanisce. E questo ci porta anche a fare “i pavoni”, la vanità, ma questo svanisce. Per questo Gesù risponde: «Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai» (v. 8).
E poi la terza tentazione: strumentalizzare Dio a proprio vantaggio. Al diavolo che, citando le Scritture, lo invita a cercare da Dio un miracolo eclatante, Gesù oppone di nuovo la ferma decisione di rimanere umile, rimanere fiducioso di fronte al Padre: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore tuo Dio”» (v. 12). E così respinge la tentazione forse più sottile: quella di voler “tirare Dio dalla nostra parte”, chiedendogli grazie che in realtà servono e serviranno a soddisfare il nostro orgoglio.
Sono queste le strade che ci vengono messe davanti, con l’illusione di poter così ottenere il successo e la felicità. Ma, in realtà, esse sono del tutto estranee al modo di agire di Dio; anzi, di fatto ci separano da Dio, perché sono opera di Satana. Gesù, affrontando in prima persona queste prove, vince per tre volte la tentazione per aderire pienamente al progetto del Padre. E ci indica i rimedi: la vita interiore, la fede in Dio, la certezza del suo amore, la certezza che Dio ci ama, che è Padre, e con questa certezza vinceremo ogni tentazione.
Ma c’è una cosa, su cui vorrei attirare l’attenzione, una cosa interessante. Gesù nel rispondere al tentatore non entra in dialogo, ma risponde alle tre sfide soltanto con la Parola di Dio. Questo ci insegna che con il diavolo non si dialoga, non si deve dialogare, soltanto gli si risponde con la Parola di Dio.
Approfittiamo dunque della Quaresima, come di un tempo privilegiato per purificarci, per sperimentare la consolante presenza di Dio nella nostra vita.
La materna intercessione della Vergine Maria, icona di fedeltà a Dio, ci sostenga nel nostro cammino, aiutandoci a rigettare sempre il male e ad accogliere il bene.
[Papa Francesco, Angelus 10 marzo 2019]
In addition to physical hunger man carries within him another hunger — all of us have this hunger — a more important hunger, which cannot be satisfied with ordinary food. It is a hunger for life, a hunger for eternity which He alone can satisfy, as he is «the bread of life» (Pope Francis)
Oltre alla fame fisica l’uomo porta in sé un’altra fame – tutti noi abbiamo questa fame – una fame più importante, che non può essere saziata con un cibo ordinario. Si tratta di fame di vita, di fame di eternità che Lui solo può appagare, in quanto è «il pane della vita» (Papa Francesco)
The Eucharist draws us into Jesus' act of self-oblation. More than just statically receiving the incarnate Logos, we enter into the very dynamic of his self-giving [Pope Benedict]
L'Eucaristia ci attira nell'atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione [Papa Benedetto]
Jesus, the true bread of life that satisfies our hunger for meaning and for truth, cannot be “earned” with human work; he comes to us only as a gift of God’s love, as a work of God (Pope Benedict)
Gesù, vero pane di vita che sazia la nostra fame di senso, di verità, non si può «guadagnare» con il lavoro umano; viene a noi soltanto come dono dell’amore di Dio, come opera di Dio (Papa Benedetto)
Jesus, who shared his quality as a "stone" in Simon, also communicates to him his mission as a "shepherd". It is a communication that implies an intimate communion, which also transpires from the formulation of Jesus: "Feed my lambs... my sheep"; as he had already said: "On this rock I will build my Church" (Mt 16:18). The Church is property of Christ, not of Peter. Lambs and sheep belong to Christ, and to no one else (Pope John Paul II)
Gesù, che ha partecipato a Simone la sua qualità di “pietra”, gli comunica anche la sua missione di “pastore”. È una comunicazione che implica una comunione intima, che traspare anche dalla formulazione di Gesù: “Pasci i miei agnelli… le mie pecorelle”; come aveva già detto: “Su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18). La Chiesa è proprietà di Cristo, non di Pietro. Agnelli e pecorelle appartengono a Cristo, e a nessun altro (Papa Giovanni Paolo II)
Praying, celebrating, imitating Jesus: these are the three "doors" - to be opened to find «the way, to go to truth and to life» (Pope Francis)
Pregare, celebrare, imitare Gesù: sono le tre “porte” — da aprire per trovare «la via, per andare alla verità e alla vita» (Papa Francesco)
In recounting the "sign" of bread, the Evangelist emphasizes that Christ, before distributing the food, blessed it with a prayer of thanksgiving (cf. v. 11). The Greek term used is eucharistein and it refers directly to the Last Supper, though, in fact, John refers here not to the institution of the Eucharist but to the washing of the feet. The Eucharist is mentioned here in anticipation of the great symbol of the Bread of Life [Pope Benedict]
Narrando il “segno” dei pani, l’Evangelista sottolinea che Cristo, prima di distribuirli, li benedisse con una preghiera di ringraziamento (cfr v. 11). Il verbo è eucharistein, e rimanda direttamente al racconto dell’Ultima Cena, nel quale, in effetti, Giovanni non riferisce l’istituzione dell’Eucaristia, bensì la lavanda dei piedi. L’Eucaristia è qui come anticipata nel grande segno del pane della vita [Papa Benedetto]
Work is part of God’s loving plan, we are called to cultivate and care for all the goods of creation and in this way share in the work of creation! Work is fundamental to the dignity of a person [Pope Francis]
don Giuseppe Nespeca
Tel. 333-1329741
Disclaimer
Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge N°62 del 07/03/2001.
Le immagini sono tratte da internet, ma se il loro uso violasse diritti d'autore, lo si comunichi all'autore del blog che provvederà alla loro pronta rimozione.
L'autore dichiara di non essere responsabile dei commenti lasciati nei post. Eventuali commenti dei lettori, lesivi dell'immagine o dell'onorabilità di persone terze, il cui contenuto fosse ritenuto non idoneo alla pubblicazione verranno insindacabilmente rimossi.