don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Venerdì, 28 Febbraio 2025 04:35

Ma può partecipare al rito?

La Conversione, le cose proibite e il Medico degli opposti

(Lc 5,27-32)

 

Nell’epoca in cui Lc redige il suo Vangelo (subito dopo metà anni 80) la comunità di pagani convertiti a Cristo di Efeso era pervasa da vive tentazioni e segnata da defezioni.

In aggiunta, nel dibattito interno di chiesa sorge un interrogativo sul genere di partecipazione ammissibile alle riunioni, e lo Spezzare il Pane.

L’evangelista narra l’episodio di «Levi», evitando di chiamarlo semplicemente Matteo - quasi ad accentuare la sua derivazione, semitica e paradossalmente cultuale.

Così Lc vuole descrivere come Gesù stesso aveva affrontato il medesimo conflitto: senz’alcuna attenzione rituale o sacrale, se non all’uomo.

Insomma, secondo il Maestro, nel cammino di Fede il rapporto coi lontani, diversi, e i nostri stessi disagi o abissi reconditi, hanno qualcosa da dirci.

Il Padre è Presenza amica. La sua iniziativa di vita salvata è per tutti, anche per chi non sa far altro che badare ai suoi registri.

Ciò sminuisce e supera l’ossessione di peccato che le religioni ritenevano barriera insuperabile per la comunione con Dio - marchiando la vita.

La Lieta Notizia è che l’Eucaristia (v.29) non è un premio per i meriti (v.30). 

Mangiare insieme era segno di condivisione preziosa, anche sul piano religioso. Nei conviti, gli osservanti evitavano il contatto con i membri peccatori del loro stesso popolo.

Tutti invece sono chiamati e ciascuno può rinascere, addirittura superando i puri.

Quindi mettersi fra i peccatori non è una disfatta, bensì verità. E il peccato stesso non è più solo una deviazione da correggere.

Per questo la figura del nuovo Maestro toccava il cuore della gente: portava il segno della Grazia; la comunione ai perduti e colpevoli.

Ma con tali gesti il Figlio sembrava si mettesse al posto di Dio (v.30).

Infatti il Padre ci coglie senza steccati, nel punto in cui siamo: non bada alla condizione sociale e alla provenienza.

Fra i discepoli è probabile che ci fossero non pochi membri della resistenza palestinese [guerriglieri che lottavano contro gli occupanti romani].

Per contro, qui Gesù chiama un collaborazionista che si lasciava guidare dal vantaggio.

Come dire: la Comunità nuova dei figli e fratelli non coltiva privilegi, separazioni, oppressioni, odi.

Il Maestro si è sempre tenuto al di sopra degli urti politici, delle distinzioni ideologiche e delle dispute corrive del suo tempo.

Nella sua Chiesa c’è un segno forte di discontinuità.

Egli non invita alla sequela i migliori o i peggiori, ma gli opposti - anche della nostra personalità. Vuole disporci «a conversione» (v.32): farci cambiare punto di vista, mentalità, princìpi, modo di essere.

In tale avventura non siamo chiamati a forme di dissociazione: si parte da se stessi.

In tal guisa Gesù inaugura un nuovo tipo di relazioni, anche dentro di noi. Un’Alleanza Nuova, di feconde divergenze.

E Crea tutto la sola Parola «Segui Me» (v.27) [non altri].

Pertanto, in questa Quaresima possiamo mettere fra parentesi l’idea di appartenenza; per contare solo su Dio, rompere le barriere, e fare Festa.

 

Non è la ‘perfezione’ che ci fa amare l’Esodo.

 

 

[Sabato dopo le Ceneri, 8 marzo 2025]

Ma può partecipare al rito?

(Lc 5,27-32)

 

«Gesù non esclude nessuno dalla propria amicizia. Il buon annuncio del Vangelo consiste proprio in questo: nell’offerta della grazia di Dio al peccatore! Nella figura di Matteo, dunque, i Vangeli ci propongono un vero e proprio paradosso: chi è apparentemente più lontano dalla santità può diventare persino un modello di accoglienza della misericordia di Dio e lasciarne intravedere i meravigliosi effetti nella propria esistenza».

[Papa Benedetto, Udienza Generale 30 agosto 2006]

 

Nell’epoca in cui Lc redige il suo Vangelo (subito dopo metà anni 80) la comunità di pagani convertiti a Cristo di Efeso era pervasa da vive tentazioni e segnata da defezioni.

In aggiunta, nel dibattito interno di chiesa sorge un interrogativo sul genere di partecipazione ammissibile alle riunioni, e lo Spezzare il Pane.

L’evangelista narra l’episodio di «Levi», evitando di chiamarlo semplicemente Matteo - quasi ad accentuare la sua derivazione, semitica e paradossalmente cultuale.

Così Lc vuole descrivere come Gesù stesso aveva affrontato il medesimo conflitto: senz’alcuna attenzione rituale o sacrale, se non all’uomo.

Insomma, secondo il Maestro, nel cammino di Fede il rapporto coi lontani e diversi, e i nostri stessi disagi o abissi reconditi, hanno qualcosa da dirci.

Il Padre è Presenza amica. La sua iniziativa di vita salvata è per tutti, anche per chi non sa far altro che badare ai suoi registri.

Ciò sminuisce e supera l’ossessione di peccato che le religioni ritenevano barriera insuperabile per la comunione con Dio - marchiando la vita.

La Lieta Notizia di tale pericope è che la Comunione non è gratificazione, né un riconoscimento.

L’Eucaristia (v.29) non è un premio per i meriti (v.30), né un discrimine a favore di emarginazioni sacrali o adultoidi.

 

Mangiare insieme era segno di condivisione preziosa, anche sul piano religioso. Così, nei conviti gli osservanti evitavano il contatto con i membri ritenuti peccatori.

Tutti invece sono chiamati e ciascuno può rinascere, addirittura superando i puri.

Quindi mettersi fra i peccatori non è una disfatta, bensì verità. E il peccato stesso non è più solo una deviazione da correggere.

Per questo la figura del nuovo Maestro toccava il cuore della gente: portava il segno della Grazia; la comunione ai perduti e colpevoli.

Ma con tali gesti il Figlio sembrava si mettesse al posto di Dio (v.30).

Insomma, il Padre ci coglie senza steccati, nel punto in cui siamo: non bada alla condizione sociale e alla provenienza.

 

Fra i discepoli è probabile che ci fossero non pochi membri della resistenza palestinese, che avversavano gli occupanti romani.

Per contro, qui Gesù chiama un collaborazionista, e che si lasciava guidare dal vantaggio.

Come dire: la Comunità nuova dei figli e fratelli non coltiva privilegi, separazioni, oppressioni, odi.

Il Maestro si è sempre tenuto al di sopra degli urti politici, delle distinzioni ideologiche e delle dispute corrive del suo tempo.

Nella sua Chiesa c’è un segno forte di discontinuità con le religioni: la proibizione dev’essere sostituita dall’amicizia.

 

Gli stessi apostoli non furono chiamati alla medesima e rigorosa prassi di segregazione e divisione tipica delle credenze etnico-puriste, che vigeva attorno a loro [e si credeva rispecchiasse l’ordine stabilito da Dio sulla terra].

Ancora oggi il Signore non invita alla sequela i migliori o i peggiori, ma gli opposti. Principio che vale anche per la vita intima.

Il recupero di lati contrapposti anche della nostra personalità, ci dispone «a conversione» (v.32): non a riassestare il mondo del Tempio, ma a farci cambiare punto di vista, mentalità, princìpi, modo di essere.

Non è la perfezione religiosa che fa amare l’esodo.

Insomma, la proibizione dev’essere sostituita dall’amicizia. L’intransigenza va soppiantata dall’indulgenza; la durezza dalla condiscendenza.

 

In tale avventura non siamo chiamati a forme di dissociazione: si parte da se stessi.

Così giungiamo senza isterismi alle microrelazioni - e senza cariche ideologiche, alla mentalità corrente anche devota.

Mai più mète fasulle, obbiettivi superficiali, ossessioni e ragionamenti inutili, né abitudini meccaniche, antiche o altrui, mai rielaborate in sé.

Con a monte tale esperienza di scavo e immedesimazione interiore, donne e uomini di Fede devono condividere la vita con chiunque - persino coi noti trasgressori come il pubblicano, rivedendosi in loro.

E deponendo gli artifici: senza prima pretendere patente alcuna, né lunghe discipline dell’arcano o pie pratiche che celebrino distacchi [come le abluzioni che precedevano il pasto].

 

Nel testo parallelo di Mt 9,9-13 l’esattore è chiamato esplicitamente per nome: Matteo, a sottolineare i medesimi contenuti e l’identico richiamo verso le assemblee di credenti.

Matathiah significa «uomo di Dio», «dato da Dio»; precisamente «Dono di Dio» (Matath-Yah) [malgrado la rabbia delle autorità ufficiali].

Secondo l’insegnamento diretto dello stesso Gesù - persino nei confronti di uno degli apostoli - l’unica impurità è quella di non dare spazio a chi lo chiede perché non ne ha.

Il Signore vuole comunione integrale coi peccatori, e che li si tratti da fratelli - membri a pieno titolo della stessa Famiglia di Dio - non a motivo d’una banalità buonista: è l’invito a riconoscersi.

Non per sottometterci a qualche paternalismo umiliante, ma perché lasciarsi trasformare da poveri o ricchi in signori, è una risorsa.

 

«E Levi fece un gran banchetto per lui nella sua casa; e c’era molta folla di pubblicani e di altri che erano adagiati [a mensa] con loro» (Lc 5,29 testo greco).

«Erano adagiati»: secondo il modo di celebrare i banchetti solenni, da parte degli uomini liberi - ormai tutti liberi.

Che meraviglia, un ostensorio del genere! Un Corpo vivo di Cristo che profuma di concreta Unione, convivialità delle differenze - non di respingimenti artificiosi, per trasgressione!

È questa tutta empatica e regale la bella consapevolezza che spiana e rende credibile il contenuto dell’Annuncio (v.31) - sebbene urti la suscettibilità dei maestri ufficiali.

D’ora in poi, la ripartizione fra credenti o meno sarà assai più umanizzante che fra “rinati” e non, o puri e impuri.

Tutta un’altra caratura - principio di una vita da salvati che si dispiega e straripa oltre i vari club [all’antica o patinati che siano].

 

Cristo chiama, accoglie e redime anche il Levi in noi, ossia il lato più rubricista - o logoro - della nostra personalità.

Anche il nostro carattere insopportabile o giustamente odiato: quello rigido e quello - altrettanto nostro - da gabelliere.

Reintegrando i versanti opposti, li farà addirittura fiorire: diverranno aspetti inclusivi, irrinunciabili, alleati e intimamente vincenti della futura testimonianza, potenziata d’amore genuino.

Essere considerati forti, capaci di comandare, osservanti, eccellenti, incontaminati, magnifici, performanti, straordinari, gloriosi, indefettibili… danneggia le persone.

Ci mette una maschera, rende unilaterali; toglie la comprensione.

Fa galleggiare il personaggio in cui siamo seduti, al di sopra della realtà.

 

Per la crescita e fioritura di ciascuno, più importante di vincere sempre è imparare ad accogliere, cedere fino a capitolare; farsi considerare manchevoli, inadeguati.

Dice il Tao Tê Ching [XLV]: «La grande dirittura è come sinuosità, la grande abilità è come inettitudine, la grande eloquenza è come balbettio».

La norma artificiosa (purtroppo, talora anche la guida poco accorta) ci fa vivere in funzione del successo e della gloria esterna, ottenuta attraverso compartimenti.

Gesù inaugura un nuovo tipo di relazioni, e “patti” di feconde divergenze - un’Alleanza Nuova, anche dentro noi.

Qui Crea tutto la sola Parola «Segui Me» (v.14) [non “altri”].

Pertanto, in questa Quaresima possiamo mettere fra parentesi l’idea scontata di purità, e le appartenenze.

Tutto ciò per contare solo su Dio, rompere le barriere, metterci al banchetto degli emarginati (dall’ordine “adeguato” stabilito sulla terra).

E fare festa.

 

La Sapienza del Maestro e l’arte poliedrica della Natura [appena esemplificata nella saggezza cristallina del Tao] conducono tutti a essere incisivi e umani.

 

Non è la perfezione che ci fa amare l’esodo.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Qual è il tuo punto di forza spirituale e umana? Come si è generato?

Venerdì, 28 Febbraio 2025 04:26

Levi

Cari fratelli e sorelle,

proseguendo nella serie dei ritratti dei dodici Apostoli, che abbiamo cominciato alcune settimane fa, oggi ci soffermiamo su Matteo. Per la verità, delineare compiutamente la sua figura è quasi impossibile, perché le notizie che lo riguardano sono poche e frammentarie. Ciò che possiamo fare, però, è tratteggiare non tanto la sua biografia quanto piuttosto il profilo che ne trasmette il Vangelo.

Intanto, egli risulta sempre presente negli elenchi dei Dodici scelti da Gesù (cfr Mt 10,3; Mc 3,18; Lc 6,15; At 1,13). Il suo nome ebraico significa “dono di Dio”. Il primo Vangelo canonico, che va sotto il suo nome, ce lo presenta nell’elenco dei Dodici con una qualifica ben precisa: “il pubblicano” (Mt 10,3). In questo modo egli viene identificato con l’uomo seduto al banco delle imposte, che Gesù chiama alla propria sequela: “Andando via di là, Gesù vide un uomo seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi!». Ed egli si alzò e lo seguì” (Mt 9,9). Anche Marco (cfr 2,13-17) e Luca (cfr 5,27-30) raccontano la chiamata dell’uomo seduto al banco delle imposte, ma lo chiamano “Levi”. Per immaginare la scena descritta in Mt 9,9 è sufficiente ricordare la magnifica tela di Caravaggio, conservata qui a Roma nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Dai Vangeli emerge un ulteriore particolare biografico: nel passo che precede immediatamente il racconto della chiamata viene riferito un miracolo compiuto da Gesù a Cafarnao (cfr Mt 9,1-8; Mc 2,1-12) e si accenna alla prossimità del Mare di Galilea, cioè del Lago di Tiberiade (cfr Mc 2,13-14). Si può da ciò dedurre che Matteo esercitasse la funzione di esattore a Cafarnao, posta appunto “presso il mare” (Mt 4,13), dove Gesù era ospite fisso nella casa di Pietro.

Sulla base di queste semplici constatazioni che risultano dal Vangelo possiamo avanzare un paio di riflessioni. La prima è che Gesù accoglie nel gruppo dei suoi intimi un uomo che, secondo le concezioni in voga nell’Israele del tempo, era considerato un pubblico peccatore. Matteo, infatti, non solo maneggiava denaro ritenuto impuro a motivo della sua provenienza da gente estranea al popolo di Dio, ma collaborava anche con un’autorità straniera odiosamente avida, i cui tributi potevano essere determinati anche in modo arbitrario. Per questi motivi, più di una volta i Vangeli parlano unitariamente di “pubblicani e peccatori” (Mt 9,10; Lc 15,1), di “pubblicani e prostitute” (Mt 21,31). Inoltre essi vedono nei pubblicani un esempio di grettezza (cfr Mt 5,46: amano solo coloro che li amano) e menzionano uno di loro, Zaccheo, come “capo dei pubblicani e ricco” (Lc 19,2), mentre l'opinione popolare li associava a “ladri, ingiusti, adulteri” (Lc 18, 11). Un primo dato salta all’occhio sulla base di questi accenni: Gesù non esclude nessuno dalla propria amicizia. Anzi, proprio mentre si trova a tavola in casa di Matteo-Levi, in risposta a chi esprimeva scandalo per il fatto che egli frequentava compagnie poco raccomandabili, pronuncia l'importante dichiarazione: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati: non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Mc 2,17).

Il buon annuncio del Vangelo consiste proprio in questo: nell’offerta della grazia di Dio al peccatore! Altrove, con la celebre parabola del fariseo e del pubblicano saliti al Tempio per pregare, Gesù indica addirittura un anonimo pubblicano come esempio apprezzabile di umile fiducia nella misericordia divina: mentre il fariseo si vanta della propria perfezione morale, “il pubblicano ... non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore»”. E Gesù commenta: “Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato, ma chi si umilia sarà esaltato” (Lc 18,13-14). Nella figura di Matteo, dunque, i Vangeli ci propongono un vero e proprio paradosso: chi è apparentemente più lontano dalla santità può diventare persino un modello di accoglienza della misericordia di Dio e lasciarne intravedere i meravigliosi effetti nella propria esistenza. A questo proposito, san Giovanni Crisostomo fa un’annotazione significativa: egli osserva che solo nel racconto di alcune chiamate si accenna al lavoro che gli interessati stavano svolgendo. Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni sono chiamati mentre stanno pescando, Matteo appunto mentre riscuote il tributo. Si tratta di lavori di poco conto – commenta il Crisostomo -  “poiché non c'è nulla di più detestabile del gabelliere e nulla di più comune della pesca” (In Matth. Hom.: PL 57, 363). La chiamata di Gesù giunge dunque anche a persone di basso rango sociale, mentre attendono al loro lavoro ordinario.

Un’altra riflessione, che proviene dal racconto evangelico, è che alla chiamata di Gesù, Matteo risponde all'istante: “egli si alzò e lo seguì”. La stringatezza della frase mette chiaramente in evidenza la prontezza di Matteo nel rispondere alla chiamata. Ciò significava per lui l’abbandono di ogni cosa, soprattutto di ciò che gli garantiva un cespite di guadagno sicuro, anche se spesso ingiusto e disonorevole. Evidentemente Matteo capì che la familiarità con Gesù non gli consentiva di perseverare in attività disapprovate da Dio. Facilmente intuibile l’applicazione al presente: anche oggi non è ammissibile l’attaccamento a cose incompatibili con la sequela di Gesù, come è il caso delle ricchezze disoneste. Una volta Egli ebbe a dire senza mezzi termini: “Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel regno dei cieli; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21). E’ proprio ciò che fece Matteo: si alzò e lo seguì! In questo ‘alzarsi’ è legittimo leggere il distacco da una situazione di peccato ed insieme l'adesione consapevole a un’esistenza nuova, retta, nella comunione con Gesù.

Ricordiamo, infine, che la tradizione della Chiesa antica è concorde nell’attribuire a Matteo la paternità del primo Vangelo. Ciò avviene già a partire da Papia, Vescovo di Gerapoli in Frigia attorno all’anno 130. Egli scrive: “Matteo raccolse le parole (del Signore) in lingua ebraica, e ciascuno le interpretò come poteva” (in Eusebio di Cesarea, Hist. eccl. III,39,16). Lo storico Eusebio aggiunge questa notizia: “Matteo, che dapprima aveva predicato tra gli ebrei, quando decise di andare anche presso altri popoli scrisse nella sua lingua materna il Vangelo da lui annunciato; così cercò di sostituire con lo scritto, presso coloro dai quali si separava, quello che essi perdevano con la sua partenza” (ibid., III, 24,6). Non abbiamo più il Vangelo scritto da Matteo in ebraico o in aramaico, ma nel Vangelo greco che abbiamo continuiamo a udire ancora, in qualche modo, la voce persuasiva del pubblicano Matteo che, diventato Apostolo, séguita ad annunciarci la salvatrice misericordia di Dio e ascoltiamo questo messaggio di san Matteo, meditiamolo sempre di nuovo per imparare anche noi ad alzarci e a seguire Gesù con decisione.

[Papa Benedetto, Udienza Generale 30 agosto 2006]

Venerdì, 28 Febbraio 2025 04:21

Non abbiate paura!

5. Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!

Fratelli e Sorelle! Non abbiate paura di accogliere Cristo e di accettare la sua potestà!

Aiutate il Papa e tutti quanti vogliono servire Cristo e, con la potestà di Cristo, servire l’uomo e l’umanità intera!

Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!

Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui lo sa!

Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro, nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra. È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione. Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna.

[Papa Giovanni Paolo II, omelia inizio pontificato 22 ottobre 1978]

Venerdì, 28 Febbraio 2025 04:06

Gesù non ha il buonsenso per scegliere?

Con la sua misericordia Gesù sceglie gli apostoli anche «dal peggio», tra i peccatori e i corrotti. Ma sta a loro conservare «la memoria di questa misericordia», ricordando «da dove si è stati scelti», senza montarsi la testa o pensare a far carriera come funzionari, sistematori di piani pastorali e affaristi. È la testimonianza concreta della conversione di Matteo che Papa Francesco ha riproposto celebrando la messa a Santa Marta venerdì 21 settembre, nel giorno della festa dell’apostolo ed evangelista.

«Nell’orazione colletta abbiamo pregato il Signore e abbiamo detto che nel suo disegno di misericordia ha scelto Matteo, il pubblicano, per costituirlo apostolo» ha subito ricordato il Pontefice, che ha indicato come chiave di lettura «tre parole: disegno di misericordia, scelto-scegliere, costituire».

«Mentre andava via — ha spiegato Francesco riferendosi proprio al passo evangelico di Matteo (9, 9-13) — Gesù vide un uomo chiamato Matteo seduto al banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì. Era un pubblicano, cioè un corrotto, perché per i soldi tradiva la patria. Un traditore del suo popolo: il peggio».

In realtà, ha fatto presente il Papa, qualcuno potrebbe obiettare che «Gesù non ha buon senso per scegliere la gente»: «perché ha scelto fra tanti altri» questa persona «dal peggio, proprio dal niente, dal posto più disprezzato»? Del resto, ha spiegato il Pontefice, nello stesso modo il Signore «ha scelto la samaritana per andare ad annunciare che lui era il messia: una donna scartata dal popolo perché non era proprio una santa; e ha scelto tanti altri peccatori e li ha costituiti apostoli». E poi, ha aggiunto, «nella vita della Chiesa, tanti cristiani, tanti santi che sono stati scelti dal più basso».

Francesco ha ricordato che «questa coscienza che noi cristiani dovremmo avere — da dove sono stato scelto, da dove sono stata scelta per essere cristiano — deve permanere per tutta la vita, rimanere lì e avere la memoria dei nostri peccati, la memoria che il Signore ha avuto misericordia dei miei peccati e mi ha scelto per essere cristiano, per essere apostolo».

Dunque «il Signore sceglie». L’orazione colletta è chiara: «Signore, che hai scelto il pubblicano Matteo e lo hai costituito apostolo»: cioè, ha insistito, «dal peggio al posto più alto». In risposta a questa chiamata, ha fatto notare il Papa, «cosa ha fatto Matteo? Si vestì di lusso? Incominciò a dire “io sono il principe degli apostoli, con voi”, con gli apostoli? Qui comando io? No! Ha lavorato tutta la vita per il Vangelo, con quanta pazienza ha scritto il Vangelo in aramaico». Matteo, ha spiegato il Pontefice, «ha sempre avuto in mente da dove era stato scelto: dal più basso».

Il fatto è, ha rilanciato il Papa, che «quando l’apostolo dimentica le sue origini e incomincia a fare carriera, si allontana dal Signore e diventa un funzionario; che fa tanto bene, forse, ma non è apostolo». E così «sarà incapace di trasmettere Gesù; sarà un sistematore di piani pastorali, di tante cose; ma alla fine, un affarista, un affarista del regno di Dio, perché ha dimenticato da dove era stato scelto».

Per questo, ha affermato Francesco, è importante avere «la memoria, sempre, delle nostre origini, del posto nel quale il Signore mi ha guardato; quel fascino dello sguardo del Signore che mi ha chiamato a essere cristiano, a essere apostolo. Questa memoria deve accompagnare la vita dell’apostolo e di ogni cristiano».

«Noi infatti siamo abituati sempre a guardare i peccati altrui: guarda questo, guarda quello, guarda quell’altro», ha proseguito il Papa. Invece «Gesù ci ha detto: “per favore, non guardare la pagliuzza negli occhi altrui; guarda cosa hai tu nel tuo cuore”». Ma, ha insistito il Pontefice, «è più divertente sparlare degli altri: è una cosa bellissima, sembra». Tanto che «sparlare degli altri» appare un po’ «come le caramelle al miele, che sono buonissime: tu prendi una, è buona; prendi due, è buona; tre... prendi mezzo chilo e ti fa male lo stomaco e stai male».

Invece, ha suggerito Francesco, «parla male di te stesso, accusa te stesso, ricordando i tuoi peccati, ricordando da dove il Signore ti ha scelto. Sei stato scelto, sei stata scelta. Ti ha preso per mano e ti ha portato qui. Quando il Signore ti ha scelto non ha fatto le cosa a metà: ti sceglie per qualcosa di grande, sempre».

«Essere cristiano — ha affermato — è una cosa grande, bella. Siamo noi ad allontanarci e a voler rimanere a metà cammino, perché quello è molto difficile; e a negoziare con il Signore» dicendo: «Signore, no, soltanto fino a qui». Ma «il Signore è paziente, il Signore sa tollerare le cose: è paziente, ci aspetta. Ma a noi manca generosità: a lui no. Lui sempre ti prende dal più basso al più alto. Così ha fatto con Matteo e ha fatto con tutti noi e continuerà a fare».

In riferimento all’apostolo, il Pontefice ha spiegato come lui abbia «sentito qualcosa di forte, tanto forte, al punto di lasciare sul tavolo l’amore della sua vita: i soldi». Matteo «lasciò la corruzione del suo cuore, per seguire Gesù. Lo sguardo di Gesù, forte: “Seguimi!”. E lui lasciò», nonostante fosse «così attaccato» ai soldi. «E sicuramente — non c’era telefono, a quel tempo — avrà inviato qualcuno a dire ai suoi amici, a quelli della cricca, del gruppo dei pubblicani: “venite a pranzo con me, perché farò festa per il maestro”».

Dunque, come racconta il brano del Vangelo, «erano a tavola tutti, questi: il peggio del peggio della società di quel tempo. E Gesù con loro. Gesù non è andato a pranzo con i giusti, con quelli che si sentivano giusti, con i dottori della legge, in quel momento. Una volta, due volte è andato anche con quest’ultimi, ma in quel momento è andato con loro, con quel sindacato di pubblicani».

Ed ecco che, ha proseguito Francesco, «i dottori della legge si sono scandalizzati. Chiamarono i discepoli e dissero: “come mai il tuo maestro fa questo, con questa gente? Diventa impuro!”: mangiare con un impuro ti contagia, non sei più puro». Udito questo, è Gesù stesso che «dice questa terza parola: “Andate a imparare cosa vuol dire: ‘misericordia io voglio e non sacrifici’”». Perché «la misericordia di Dio cerca tutti, perdona tutti. Soltanto, ti chiede di dire: “Sì, aiutami”. Soltanto quello».

«Quando gli apostoli andavano tra i peccatori, pensiamo a Paolo, nella comunità di Corinto, alcuni si scandalizzavano» ha spiegato il Papa. Essi dicevano: «Ma perché va da quella gente che è gente pagana, è gente peccatrice, perché ci va?». La risposta di Gesù è chiara: «Perché non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati: “Misericordia voglio e non sacrifici”».

«Matteo scelto! Sceglie sempre Gesù» ha rilanciato il Pontefice. Il Signore sceglie «tramite persone, tramite situazioni o direttamente». Matteo è «costituito apostolo: chi costituisce nella Chiesa e dà la missione è Gesù. L’apostolo Matteo e tanti altri ricordavano le loro origini: peccatori, corrotti. E questo perché? Per la misericordia. Per il disegno di misericordia».

Francesco ha riconosciuto che «capire la misericordia del Signore è un mistero; ma il mistero più grande, più bello, è il cuore di Dio. Se tu vuoi arrivare proprio al cuore di Dio, prendi la strada della misericordia e lasciati trattare con misericordia». È esattamente la storia di «Matteo, scelto dal banco del cambiavalute dove si pagavano le tasse. Scelto dal basso. Costituito nel posto più alto. Perché? Per misericordia». In questa prospettiva, ha concluso il Papa, «impariamo noi cosa vuol dire “misericordia voglio, e non sacrifici”».

[Papa Francesco, a s. Marta, Osservatore Romano del 22.09.2018]

VIII Domenica del Tempo Ordinario (anno C)  2 Marzo 2025

 Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!

 

*Prima Lettura dal Libro del Siracide (27, 4-7)

 Si tratta di un libro della Bibbia che ha avuto un percorso piuttosto movimentato. Per iniziare, porta tre nomi: Ben Sira il Saggio, Siracide, l’Ecclesiastico. Siracide o Ben Sira sono due nomi simili, entrambi legati al suo nome di famiglia. “Ben” significa “figlio di”, quindi l’autore è figlio di Sira. Alla fine del libro, si firma “Gesù, figlio di Sira”, il che offre un’indicazione ulteriore, dato che Gesù è un nome tipicamente ebraico. Si tratta dunque di un ebreo di Gerusalemme che scrive in ebraico e il titolo “il Saggio” fa capire che non si tratta di un libro storico né profetico, ma di uno di quei libri chiamati “sapienziali”. Si dice Ecclesiastico perché nei primi secoli del Cristianesimo, la Chiesa faceva leggere questo libro ai nuovi battezzati per completare la loro formazione morale. Il libro fu scritto da Ben Sira a Gerusalemme in ebraico verso il 180 a.C., tradotto in greco circa cinquant’anni dopo, intorno al 130 a.C. dal suo stesso nipote ad Alessandria d’Egitto. Nella Bibbia, il Siracide occupa un posto particolare: appartiene ai libri chiamati “deuterocanonici”. Infatti, quando alla fine del primo secolo d.C. i dottori della legge fissarono in modo definitivo la lista ufficiale degli scritti considerati parte della Bibbia, non furono inclusi tutti i libri che circolavano in Israele. Alcuni testi erano riconosciuti da tutti da quasi sempre come Parola di Dio – per esempio, il Libro della Genesi o dell’Esodo. Ma per alcuni testi più recenti, la questione rimaneva aperta. Il Siracide rientrava tra questi e alla fine fu escluso perché per entrare nel canone ufficiale della Bibbia ebraica, un libro doveva essere scritto in ebraico e redatto nella terra di Israele. Ma all’epoca della fissazione del canone (fine del I secolo d.C.), l’originale ebraico del Siracide era perduto e circolava solo la traduzione greca ad Alessandria. Per questo, il libro non venne accettato dalle comunità ebraiche della terra d’Israele. Tuttavia, nelle comunità ebraiche della diaspora (soprattutto ad Alessandria), era già considerato parte della Bibbia, quindi continuò a essere riconosciuto.

La Comunità cristiana invece lo ricevette in eredità attraverso le comunità di lingua greca, e così il Siracide entrò a far parte del canone biblico cristiano.  L’autore, Ben Sira, forse aveva fondato una scuola di saggezza a Gerusalemme e lo si deduce dagli ultimi capitoli del libro, che sembrano una raccolta di insegnamenti per giovani studenti ebrei, apprendisti filosofi, a Gerusalemme intorno al 180 a.C.  

Gerusalemme in quel tempo era sotto il dominio greco, ma l’occupazione era relativamente liberale e pacifica dato che le persecuzioni ebbero inizio più tardi, sotto Antioco Epifane, verso il 165 a.C. Tuttavia, sebbene il potere greco rispettasse la religione ebraica, il contatto tra le due culture metteva in pericolo la purezza della fede.

Questa eccessiva apertura culturale poteva portare a un sincretismo pericoloso, un problema simile a quello del nostro tempo: viviamo infatti in un’epoca di tolleranza che può facilmente trasformarsi in indifferenza religiosa. Non è forse vero che oggi siamo come in un supermercato delle idee e dei valori, dove ognuno prende ciò che preferisce e questo sembra persino logico e da accettare come la migliore scelta?  Uno degli obiettivi di Ben Sira era di trasmettere la fede ebraica nella sua integrità, in particolare l’amore per la Legge di Dio (Torah). Secondo lui, la vera saggezza risiedeva nella Legge d’Israele. Israele doveva preservare la propria identità e la propria fede per mantenere vivo l’insegnamento dei Padri nella fede e la purezza dei costumi e si ritenevano questi i principi fondamentali per la sopravvivenza del popolo eletto. 

Venendo al contenuto, il libro è come una raccolta di massime e proverbi interessanti ma non sempre immediatamente comprensibili per noi, perché utilizzano immagini e modi di dire appartenenti a un’altra cultura. Nel testo di oggi Ben Sira usa tre immagini che all’epoca erano molto comuni. Se l’oro viene passato al setaccio appaiono evidenti le scorie; quando un vaso viene cotto nel forno, si vede subito se è stato ben lavorato e un albero sano produce frutti buoni. Ecco allora che come il setaccio separa l’oro dalle impurità, il fuoco del forno rivela le qualità del vaso e dai frutti si riconosce se l’albero è sano o malato, così le nostre parole rivelano la vera natura del nostro cuore perché solo un cuore buono dirà parole buone. Circa duecento anni dopo, Gesù insegna la stessa cosa come leggiamo nel vangelo di questa domenica: “L'uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l'uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda” (Lc 6,45). Le nostre parole sono lo specchio del nostro cuore.

 

*Salmo responsoriale (91 (92), 2-3. 13-14. 15-16)

Israele ha accusato Dio di inganno nel deserto del Sinai quando la disidratazione minacciava uomini e animali: è il celebre episodio di Massa e Meriba (Es 17,1-7).  Dio però si è dimostrato più grande dell’ira del suo popolo: ha fatto scaturire acqua da una roccia. Da allora, Dio è stato chiamato la nostra roccia per ricordare la sua fedeltà, più salda di tutti i sospetti del popolo. Da questa roccia Israele ha attinto l’acqua della sua sopravvivenza… ma soprattutto, nei secoli, è diventata la sorgente della sua fede e della sua fiducia. Questo concetto è espresso alla fine del salmo: “per annunciare quanto è retto il Signore, mia roccia”. Il riferimento alla roccia richiama l’esperienza del deserto e la fedeltà di Dio, più forte di ogni ribellione. Anche l’espressione “il tuo amore e la tua fedeltà” (v 3) richiama l’esperienza del deserto: sono le parole che Dio stesso ha usato per rivelarsi al suo popolo: “Il Signore Dio misericordioso e benevolo, lento all’ira, ricco di fedeltà e lealtà…” espressione ripresa molte volte nella Bibbia, soprattutto nei salmi, come segno dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo: “Dio d’amore e di fedeltà, lento all’ira e ricco di misericordia” (Es 34,6).  L’episodio di Massa e Meriba – la prova nel deserto, il sospetto del popolo, l’intervento di Dio – si è ripetuto così spesso che Israele ha finito per capire che si tratta di un rischio costante: l’uomo è sempre tentato di sospettare di Dio quando le cose non vanno come si desidera. Il racconto del Giardino dell’Eden aiuta a comprendere quest’importante insegnamento: l’astuto serpente riesce a convincere i progenitori che è Dio a ingannarli. Infatti travisa il pensiero di Dio affermando che vieta loro i frutti migliori con la scusa di proteggerli quando in realtà è l’opposto e Adamo ed Eva si lasciano ingannare. Purtroppo è una storia che si ripete nel corso della storia e come è possibile evitare l’inganno demoniaco? Questo salmo ci aiuta suggerendosi di avere fiducia: “é bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome, o Altissimo, annunciare al mattino il tuo amore, la tua fedeltà lungo la notte”. E’ infatti un bene per noi lodare il Signore e cantare al suo nome e Israele ha compreso che lodare, cantare per Dio fa bene soprattutto all’uomo stesso. Sant’Agostino lo dirà chiaramente: “Tutto ciò che l’uomo fa per Dio, giova all’uomo e non a Dio.” Cantare per Dio, aprire gli occhi sul suo amore e sulla sua fedeltà, di giorno e di notte, ci protegge dalle astuzie del serpente. In questo salmo, l’espressione “è bello” corrisponde al termine ebraico “tôv”, lo stesso usato per dire “buono da mangiare”, però per saperlo, occorre averne fatto esperienza e per questo il salmo aggiunge nel versetto 7 (che oggi non leggiamo): “L’uomo insensato non li conosce e lo stolto non capisce”, ma il credente sa bene “quanto è retto il Signore, mia roccia: in lui non c’è malvagità”.  Soltanto una fiducia incrollabile nell’amore di Dio può illuminare la vita dell’uomo in ogni circostanza mentre la diffidenza e il sospetto distorcono completamente la nostra visione della realtà. Sospettare di Dio è un tranello mortale. Chi si affida a Dio è come un albero sempre verde, che mantiene sempre la sua linfa e la sua freschezza (cf salmo1). Gesù parlerà di “acqua viva” riprendendo un’immagine familiare alla gente di allora. Non solo è un bene per noi stessi lodare e cantare l’amore di Dio, ma diventa un bene anche per gli altri ascoltarlo da noi. Per tale scopo il salmo ripete all’inizio e alla fine: “È bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome, o Altissimo, e annunciare al il tuo amore”. “Annunciare” significa proclamare agli altri, ai non credenti:  ancora una volta, Israele ricorda la sua missione di testimone dell’amore di Dio per tutti gli uomini. Per concludere annoto che questo salmo porta un’intestazione: “Salmo per il giorno di sabato”, il giorno per eccellenza in cui si canta l’amore e la fedeltà di Dio. Si potrebbe fare di questo salmo il salmo della domenica, pefrchè per noi la domenica è la celebrazione dell’amore e della fedeltà di Dio che in Gesù Cristo si sono manifestati in modo definitivo 

 

*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo Apostolo ai Corinti (15,54-58)

 Da diverse settimane leggiamo il capitolo 15 della prima lettera di Paolo ai Corinzi, che è una lunga riflessione sulla Risurrezione. Oggi Paolo conclude la sua meditazione con un grido di trionfo: «Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (v 57). E’ la vittoria della Risurrezione perché, come egli scrive, ciò che è corruttibile in noi diventerà incorruttibile, ciò che è mortale rivestirà l’immortalità (v 53): l’immortalità, l’incorruttibilità sono prerogative di Dio. Solo così diventeremo a immagine e somiglianza di Dio, secondo il progetto originario annunciato e realizzato durante l’intero itinerario della Bibbia, con i molteplici fallimenti dell’umanità e i continui interventi di Dio per salvare il suo disegno d’amore. E’ il disegno della salvezza: Dio cioè ci salva per essere veramente felici e lo compie attraverso varie tappe che la lettera agli Efesini riassume così: “facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi: ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra”. (Ef 1, 9-10). Nel creare l’umanità il Signore aveva il progetto di renderla felice, unita, colma dello Spirito di Dio, ammessa a condividere la vita della Trinità. Progetto che mai è venuto meno e sussiste per sempre poiché i disegni del cuore di Dio durano di generazione in generazione (cf sal 32/33). Lo annota il profeti Isaia: ”Il mio progetto sussisterà e tutto ciò che mi piace lo compirò “(Is 46, 1) e anche Geremia: «Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore – progetti di prosperità e non di sventura: vi darò un futuro e una speranza» (Ger 29, 11). La storia dell’umanità ha dunque senso, significato e direzione. Sappiamo cioè dove andiamo e gli anni non si susseguono tutti uguali, perché Dio ha un progetto, un piano ben preciso. Siamo orientati verso il futuro e aspettiamo che questo disegno giunga a compimento pregando con il Padre nostro, che venga il suo regno e si compia la sua volontà come in cielo così in terra. Tuttavia la storia testimonia che l’umanità è in rovina rispetto a questo progetto e gli uomini non sembrano collaborare. Dio rispetta la nostra libertà e noi spesso sembriamo per nulla disposti ad ascoltare la voce di Dio perché è un progetto che supera le nostre prospettive razionali. Ma perché meravigliarsi? San Paolo afferma che questo progetto – lo chiama mistero della volontà di Dio - ci supera ed è impensabile per noi. L’umanità ha però due scelte: accettare il progetto e impegnarsi per farlo avanzare, oppure rifiutarlo e cercare altrove la propria felicità. Adamo è l’esempio di chi rifiuta e prende un’altra direzione, a suo danno. Dio però resta paziente e salverà il suo progetto non lasciandosi scoraggiare dalla cattiva volontà dell’uomo perché  nessuno e nulla potranno spegnere il fuoco dell’amore di Dio per noi. Leggiamo nel Cantico dei Cantici che «Le grandi acque non potrebbero spegnere l’Amore e i fiumi non lo sommergerebbero» (Ct 8, 6-7a). Sta proprio qui la nostra speranza che Paolo proclama con vigore: “Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?". Non è certamente la morte biologica a separarci da lui e dai nostri fratelli, poiché risusciteremo, ma la morte spirituale, conseguenza del peccato. Tuttavia pure il peccato è sconfitto da Gesù Cristo: d’ora in poi, innestati in Cristo risorto, possiamo vivere come lui e con lui vincere la partita dell’amore. Anzi Paolo afferma che la vittoria è già acquisita: contrariamente a quanto sembra, la morte e il peccato sono i grandi sconfitti e il progetto di Dio è salvo: Gesù con il perdono dato a tutti, ci libera dalle nostre colpe e, se vogliamo, la porta è aperta allo Spirito Santo. Possiamo allora vivere l’amore e la fraternità per cui siamo creati. Risuona in noi il grido di trionfo di san Paolo: “Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo” Non ci resta che proseguire nell’impegno della lotta con Cristo: “Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore”. 

 

*Dal Vangelo secondo san Luca (6, 39-45)

 Troviamo qui diverse istruzioni di Gesù che sono come avvertimenti che concernono le relazioni all’interno della comunità cristiana, raccomandazioni presenti anche nei vangeli di Matteo e di Giovanni pur in ordine sparso e proclamate in contesti diversi. San Luca le ha riunite qui perché probabilmente vedeva un legame tra di esse ed è proprio tale legame che cerchiamo insieme di capire. Per meglio procedere dividiamo il testo in due parti: la prima è una riflessione sullo sguardo, mentre la seconda è la metafora dell’albero e dei frutti. Nella prima parte Gesù sviluppa il tema dello sguardo e comincia con una constatazione: un cieco non può guidare un altro cieco ed è chiaro il messaggio: occorre fare bene attenzione perché quando ci si pone come guide, non bisogna dimenticare che siamo ciechi dalla nascita. Va in tale direzione l’apologo della pagliuzza e della trave giacché con una trave nell’occhio, si è davvero ciechi e non è possibile pretendere di curare la cecità degli altri. Tra queste due osservazioni, Luca inserisce una frase che a prima vista sembra enigmatica: “Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro”. La preparazione di cui parla Gesù è, in un certo senso, la guarigione di noi che siamo ciechi. È sempre lo stesso Luca a notare che i discepoli di Emmaus hanno iniziato a vedere chiaramente solo quando «Gesù aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture» (Lc 24,45). Poiché Gesù è venuto nel mondo per aprire gli occhi ai ciechi, anche i suoi discepoli, guariti da lui dalla loro cecità, hanno la missione di portare al mondo la luce della rivelazione. Ciò che il profeta Isaia diceva del servo di Dio, nei cosiddetti canti del servo, è vero per Gesù Cristo, ma anche per i suoi discepoli: «Io ti ho destinato a essere luce delle nazioni, per aprire gli occhi ai ciechi, per liberare dal carcere il prigioniero e dalla prigione coloro che abitano nelle tenebre» (Is 42,6-7). Una missione quanto mai interessante, alla quale possiamo far fronte solo restando sempre sotto la luce del Maestro e lasciando che sia lui a guarire la nostra cecità. L’evangelista passa poi senza transizione alla metafora dell’albero e dei frutti, il che suggerisce che il tema sia ancora lo stesso: il vero discepolo, che si lascia illuminare da Gesù Cristo, porta buoni frutti, ma chi al contrario non lascia che sia Gesù Cristo ad illuminarlo, rimane nella sua cecità e produce frutti cattivi. Occorre adesso capire di quali frutti si tratta. Tenendo conto che il testo è dopo un intero discorso di Gesù sull’amore reciproco, possiamo capire che i frutti sono legati al nostro comportamento. La norma guida è “Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso” (lc 6,36).  Per i contemporanei di Gesù non era difficile capire questo linguaggio: sapevano infatti che il Padre aspetta da noi frutti di giustizia e di misericordia, che possono essere sia azioni che parole perché “la bocca parla dalla pienezza del cuore” (Lc 6,45). Nella prima lettura abbiamo letto che il frutto manifesta la qualità dell’albero; allo stesso modo la parola rivela i sentimenti e non bisogna lodare nessuno prima che abbia parlato, perché è proprio la sua parola che permette di giudicarlo. E’ davvero straordinario come in poche parole Luca abbia sviluppato l’intero mistero cristiano: quando ci lasciamo formare da Cristo veniamo trasformati in tutto il nostro essere: nello sguardo, nel comportamento e nel linguaggio. Insegnamento che torna spesso nel Nuovo Testamento come, ad esempio, nella Lettera ai Filippesi: «Voi risplendete come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita» (Fil 2,15-16), oppure nella Lettera agli Efesini: “Un tempo eravate tenebre, ora siete luce nel Signore. Vivete come figli della luce. Il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità” (Ef 5,8). Il primo passo consiste nell’imparare a guardare gli altri come Dio li guarda: con uno sguardo che non giudica, non condanna, che non si compiace nel rimarcare una pagliuzza nell’occhio dell’altro, cioè nel notare qualcosa di veramente minuscolo. Come la paglia è spazzata via dal vento e quindi senza spessore e  importanza, allo stesso modo vanno calcolati i difetti degli altri. Se Gesù non da ad essi importanza, Il discepolo ben formato alla sua scuola sarà come il suo maestro. A questa frase segue tutto il discorso sulla misericordia di Dio e sulla nostra vocazione a somigliargli, un programma di vita molto ambizioso: amate i vostri nemici, siate misericordiosi, non giudicate, non condannate perché il Padre vostro è misericordioso e noi siamo chiamati a essere la sua immagine nel mondo. Gesù conclude così: la bocca del discepolo esprime ciò che dal cuore sovrabbonda. Per diventare immagine di Dio il segreto è immergerci nella sua Parola.

+Giovanni D’Ercole

 

 

Commento Breve:

*Prima Lettura dal Libro del Siracide (27, 4-7)

 Si tratta di un libro della Bibbia che ha avuto un percorso piuttosto movimentato. Per iniziare, porta tre nomi: Ben Sira il Saggio, Siracide, l’Ecclesiastico. Siracide o Ben Sira sono due nomi simili, entrambi legati al suo nome di famiglia. “Ben” significa “figlio di”, quindi l’autore è figlio di Sira. Alla fine del libro, si firma “Gesù, figlio di Sira”, il che offre un’indicazione ulteriore, dato che Gesù è un nome tipicamente ebraico. Si tratta dunque di un ebreo di Gerusalemme che scrive in ebraico e il titolo “il Saggio” fa capire che non si tratta di un libro storico né profetico, ma di uno di quei libri chiamati “sapienziali”. Si dice Ecclesiastico perché nei primi secoli del Cristianesimo, la Chiesa faceva leggere questo libro ai nuovi battezzati per completare la loro formazione morale. Il libro fu scritto da Ben Sira a Gerusalemme in ebraico verso il 180 a.C., tradotto in greco circa cinquant’anni dopo, intorno al 130 a.C. dal suo stesso nipote ad Alessandria d’Egitto. Nella Bibbia, il Siracide occupa un posto particolare: appartiene ai libri chiamati “deuterocanonici”. Infatti, quando alla fine del primo secolo d.C. i dottori della legge fissarono in modo definitivo la lista ufficiale degli scritti considerati parte della Bibbia, non furono inclusi tutti i libri che circolavano in Israele. Alcuni testi erano riconosciuti da tutti da quasi sempre come Parola di Dio – per esempio, il Libro della Genesi o dell’Esodo. Ma per alcuni testi più recenti, la questione rimaneva aperta. Il Siracide rientrava tra questi e alla fine fu escluso perché per entrare nel canone ufficiale della Bibbia ebraica, un libro doveva essere scritto in ebraico e redatto nella terra di Israele. Ma all’epoca della fissazione del canone (fine del I secolo d.C.), l’originale ebraico del Siracide era perduto e circolava solo la traduzione greca ad Alessandria. Per questo, il libro non venne accettato dalle comunità ebraiche della terra d’Israele. Tuttavia, nelle comunità ebraiche della diaspora (soprattutto ad Alessandria), era già considerato parte della Bibbia, quindi continuò a essere riconosciuto. La Comunità cristiana invece lo ricevette in eredità attraverso le comunità di lingua greca, e così il Siracide entrò a far parte del canone biblico cristiano. 

Venendo al contenuto, il libro è come una raccolta di massime e proverbi utilizzando immagini e modi di dire appartenenti a un’altra cultura. Nel testo di oggi Ben Sira usa tre immagini che all’epoca erano molto comuni. Se l’oro viene passato al setaccio appaiono evidenti le scorie; quando un vaso viene cotto nel forno, si vede subito se è stato ben lavorato e un albero sano produce frutti buoni. Ecco allora che come il setaccio separa l’oro dalle impurità, il fuoco del forno rivela le qualità del vaso e dai frutti si riconosce se l’albero è sano o malato, così le nostre parole rivelano la vera natura del nostro cuore perché solo un cuore buono dirà parole buone. Gesù insegna la stessa cosa come leggiamo nel vangelo di questa domenica: “L'uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l'uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda” (Lc 6,45). Le nostre parole sono lo specchio del nostro cuore.

 

*Salmo responsoriale (91 (92), 2-3. 13-14. 15-16)

Israele ha accusato Dio di inganno nel deserto del Sinai quando la disidratazione minacciava uomini e animali: è il celebre episodio di Massa e Meriba (Es 17,1-7).  Dio però si è dimostrato più grande dell’ira del suo popolo: ha fatto scaturire acqua da una roccia. Da allora, Dio è stato chiamato la nostra roccia per ricordare la sua fedeltà, più salda di tutti i sospetti del popolo. Da questa roccia Israele ha attinto l’acqua della sua sopravvivenza… ma soprattutto, nei secoli, è diventata la sorgente della sua fede e della sua fiducia. Questo concetto è espresso alla fine del salmo: “per annunciare quanto è retto il Signore, mia roccia”. Il racconto del Giardino dell’Eden l’astuto serpente riesce a convincere i progenitori che è Dio a ingannarli. Infatti travisa il pensiero di Dio affermando che vieta loro i frutti migliori con la scusa di proteggerli quando in realtà è l’opposto e Adamo ed Eva si lasciano ingannare. Purtroppo è una storia che si ripete nel corso della storia e come è possibile evitare l’inganno demoniaco? Questo salmo ci aiuta suggerendosi di avere fiducia: “é bello rendere grazie al Signore e cantare al tuo nome, o Altissimo, annunciare al mattino il tuo amore, la tua fedeltà lungo la notte”. Cantare per Dio fa bene soprattutto all’uomo e  sant’Agostino lo dirà chiaramente: “Tutto ciò che l’uomo fa per Dio, giova all’uomo e non a Dio.” Cantare per Dio, aprire gli occhi sul suo amore e sulla sua fedeltà, di giorno e di notte, ci protegge dalle astuzie del serpente. Soltanto una fiducia incrollabile nell’amore di Dio può illuminare la vita dell’uomo in ogni circostanza mentre la diffidenza e il sospetto distorcono completamente la nostra visione della realtà. Sospettare di Dio è un tranello mortale. Chi si affida a Dio è come un albero sempre verde, che mantiene sempre la sua linfa e la sua freschezza (cf salmo1). Per concludere annoto che questo salmo porta un’intestazione: “Salmo per il giorno di sabato”, il giorno per eccellenza in cui si canta l’amore e la fedeltà di Dio. Si potrebbe fare di questo salmo il salmo della domenica, perché per noi la domenica è la celebrazione dell’amore e della fedeltà di Dio che in Gesù Cristo si sono manifestati in modo definitivo  

 

*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo Apostolo ai Corinti (15,54-58)

 Da diverse settimane leggiamo il capitolo 15 della prima lettera di Paolo ai Corinzi, che è una lunga riflessione sulla Risurrezione. Oggi Paolo conclude la sua meditazione con un grido di trionfo: «Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (v 57). E’ la vittoria della Risurrezione perché, come egli scrive, ciò che è corruttibile in noi diventerà incorruttibile, ciò che è mortale rivestirà l’immortalità (v 53): l’immortalità, l’incorruttibilità sono prerogative di Dio. Solo così diventeremo a immagine e somiglianza di Dio, secondo il progetto originario annunciato e realizzato durante l’intero itinerario della Bibbia, con i molteplici fallimenti dell’umanità e i continui interventi di Dio per salvare il suo disegno d’amore. Nel creare l’umanità il Signore aveva il progetto di renderla felice, unita, colma dello Spirito di Dio, ammessa a condividere la vita della Trinità. Progetto che mai è venuto meno e sussiste per sempre poiché i disegni del cuore di Dio durano di generazione in generazione (cf sal 32/33). La storia dell’umanità ha dunque senso, significato e direzione. Sappiamo cioè dove andiamo e gli anni non si susseguono tutti uguali, perché Dio ha un progetto, un piano ben preciso. Siamo orientati verso il futuro e aspettiamo che questo disegno giunga a compimento pregando con il Padre nostro, che venga il suo regno e si compia la sua volontà come in cielo così in terra. Tuttavia la storia testimonia che l’umanità è in rovina rispetto a questo progetto e gli uomini non sembrano collaborare. Dio rispetta la nostra libertà e noi spesso sembriamo per nulla disposti ad ascoltare la voce di Dio perché è un progetto che supera le nostre prospettive razionali. Ma perché meravigliarsi? San Paolo afferma che questo progetto – lo chiama mistero della volontà di Dio - ci supera ed è impensabile per noi. L’umanità ha però due scelte: accettare il progetto e impegnarsi per farlo avanzare, oppure rifiutarlo e cercare altrove la propria felicità. Adamo è l’esempio di chi rifiuta e prende un’altra direzione, a suo danno. Dio però resta paziente e salverà il suo progetto non lasciandosi scoraggiare dalla cattiva volontà dell’uomo perché nessuno e nulla potranno spegnere il fuoco dell’amore di Dio per noi. Non è certamente la morte biologica a separarci da lui e dai nostri fratelli, poiché risusciteremo, ma la morte spirituale, conseguenza del peccato. Tuttavia pure il peccato è sconfitto da Gesù Cristo: d’ora in poi, innestati in Cristo risorto, possiamo vivere come lui e con lui vincere la partita dell’amore. Anzi Paolo afferma che la vittoria è già acquisita: contrariamente a quanto sembra, la morte e il peccato sono i grandi sconfitti e il progetto di Dio è salvo: Gesù con il perdono dato a tutti, ci libera dalle nostre colpe e, se vogliamo, la porta è aperta allo Spirito Santo. Possiamo allora vivere l’amore e la fraternità per cui siamo creati.

 

*Dal Vangelo secondo san Luca (6, 39-45)

 Troviamo qui diverse istruzioni di Gesù che sono come avvertimenti che concernono le relazioni all’interno della comunità cristiana, raccomandazioni presenti anche nei vangeli di Matteo e di Giovanni pur in ordine sparso e proclamate in contesti diversi. San Luca le ha riunite qui perché probabilmente vedeva un legame tra di esse ed è proprio tale legame che cerchiamo insieme di capire. Per meglio procedere dividiamo il testo in due parti: la prima è una riflessione sullo sguardo, mentre la seconda è la metafora dell’albero e dei frutti. Nella prima parte Gesù sviluppa il tema dello sguardo e comincia con una constatazione: un cieco non può guidare un altro cieco ed è chiaro il messaggio: occorre fare bene attenzione perché quando ci si pone come guide, non bisogna dimenticare che siamo ciechi dalla nascita. Va in tale direzione l’apologo della pagliuzza e della trave giacché con una trave nell’occhio, si è davvero ciechi e non è possibile pretendere di curare la cecità degli altri. Tra queste due osservazioni, Luca inserisce una frase che a prima vista sembra enigmatica: “Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro”. La preparazione di cui parla Gesù è, in un certo senso, la guarigione di noi che siamo ciechi. È sempre lo stesso Luca a notare che i discepoli di Emmaus hanno iniziato a vedere chiaramente solo quando «Gesù aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture» (Lc 24,45). Poiché Gesù è venuto nel mondo per aprire gli occhi ai ciechi, anche i suoi discepoli, guariti da lui dalla loro cecità, hanno la missione di portare al mondo la luce della rivelazione. Una missione quanto mai interessante, alla quale possiamo far fronte solo restando sempre sotto la luce del Maestro e lasciando che sia lui a guarire la nostra cecità. L’evangelista passa poi senza transizione alla metafora dell’albero e dei frutti, il che suggerisce che il tema sia ancora lo stesso: il vero discepolo, che si lascia illuminare da Gesù Cristo, porta buoni frutti, ma chi al contrario non lascia che sia Gesù Cristo ad illuminarlo, rimane nella sua cecità e produce frutti cattivi. Occorre adesso capire di quali frutti si tratta. Tenendo conto che il testo è dopo un intero discorso di Gesù sull’amore reciproco, possiamo capire che i frutti sono legati al nostro comportamento. La norma guida è “Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso” (lc 6,36).  Nella prima lettura abbiamo letto che il frutto manifesta la qualità dell’albero; allo stesso modo la parola rivela i sentimenti e non bisogna lodare nessuno prima che abbia parlato, perché è proprio la sua parola che permette di giudicarlo. E’ davvero straordinario come in poche parole Luca abbia sviluppato l’intero mistero cristiano: quando ci lasciamo formare da Cristo veniamo trasformati in tutto il nostro essere: nello sguardo, nel comportamento e nel linguaggio. Il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità” (Ef 5,8). Il primo passo consiste nell’imparare a guardare gli altri come Dio li guarda: con uno sguardo che non giudica, non condanna, che non si compiace nel rimarcare una pagliuzza nell’occhio dell’altro, cioè nel notare qualcosa di veramente minuscolo. Come la paglia è spazzata via dal vento e quindi senza spessore e importanza, allo stesso modo vanno calcolati i difetti degli altri. Se Gesù non da ad essi importanza, Il discepolo ben formato alla sua scuola sarà come il suo maestro. Gesù conclude così: la bocca del discepolo esprime ciò che dal cuore sovrabbonda. Per diventare immagine di Dio il segreto è immergerci nella sua Parola.

+Giovanni D’Ercole

Il Signore ci benedica e la Vergine ci protegga!

VII Domenica del tempo Ordinario anno C (23 febbraio 2025)

 

Lettura dal Primo Libro di Samuele (26,2.7-9.12-13.22-23)

Saul fu il primo re del popolo d’Israele, intorno al 1040 a.C. I testi dicono che «nessun figlio d’Israele era più bello di lui, e superava dalla spalla in su chiunque altro del popolo» (1 Sam 9,2). Era un contadino, originario di una famiglia semplice della  tribù di Beniamino, scelto da Dio e consacrato re dal profeta Samuele che inizialmente esitò  perché diffidava della monarchia in generale, ma dovette obbedire a Dio. Saul fu consacrato con l’unzione dell’olio e portava il titolo di “messia”.  Dopo un buon inizio, Saul purtroppo diede ragione ai peggiori timori di Samuele: il suo piacere personale, l’amore per il potere e per la guerra prevalsero sulla fedeltà all’Alleanza. Fu così grave che, senza attendere la fine del suo regno, Samuele, su ordine di Dio, si mise a cercare il suo successore e scelse Davide, il piccolo pastore di Betlemme, l’ottavo figlio di Iesse. Davide fu accolto alla corte di Saul e divenne pian piano un abile capo di guerra, i cui successi erano sulla bocca di tutti. Un giorno, Saul  udì il canto popolare che circolava ovunque: «Saul ha ucciso i suoi mille, e Davide i suoi diecimila» (1 Sam 18,7) e fu preso dalla gelosia che  divenne così feroce nei confronti di Davide da farlo impazzire. Davide dovette fuggire più volte per salvarsi, ma contrariamente ai sospetti di Saul, Davide non venne mai meno alla sua lealtà verso il re. Nell’episodio che ci viene qui narrato è Saul a prendere l’iniziativa: i tremila uomini di cui si parla furono radunati da lui con il solo scopo di soddisfare il suo odio per Davide. “Saul scese nel deserto di Zif con tremila uomini scelti d’Israele per cercare Davide” (v 2) e chiara era la sua intenzione: eliminarlo appena possibile. Ma la situazione si ribalta a favore di Davide: durante la notte Davide entra nel campo di Saul e trova tutti addormentati e quindi l’occasione favorevole per ucciderlo. Abisai, la guardia del corpo di Davide, non ha dubbi e si offre di ucciderlo: “Oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico. Lascia dunque che io l’inchiodi a terra con la lancia in un sol colpo e non aggiungerò il secondo” (v 8). Davide sorprende tutti, incluso Saul, che stenterà a credere ai suoi occhi quando vedrà la prova che Davide lo ha risparmiato. Si pongono due domande: perché Davide ha risparmiato colui che voleva la sua morte? L’unica ragione è il rispetto per la scelta di Dio: “Non ho voluto stendere la mano contro il messia del Signore” (v.11).  Perché la Bibbia racconta questo episodio? Ci sono certamente diversi motivi. Anzitutto, l’autore sacro vuole delineare il ritratto di Davide: rispettoso della volontà di Dio e magnanimo, che  rifiuta la vendetta e comprende che la Provvidenza non si manifesta mai attraverso la semplice consegna del nemico nelle proprie mani. In secondo luogo, perché il re regnante è intoccabile e non va dimenticato che questo racconto fu scritto alla corte di Salomone, il quale aveva tutto l’interesse a far passare questo insegnamento. Infine, questo testo rappresenta una tappa nella storia biblica, un momento nella pedagogia di Dio: prima di imparare ad amare tutti gli uomini, bisogna iniziare a trovare qualche buona ragione per amarne alcuni. Davide risparmia un nemico pericoloso perché questi è stato, a suo tempo, l’eletto di Dio. L’ultima tappa sarà comprendere che ogni uomo va rispettato ovunque perché in lui è segnata l’immagine di Dio. Siamo tutti creati a immagine e somiglianza di Dio.

 

*Salmo 102 (103), 1-2, 3-4, 8. 10. 12-13

Questo salmo s’incontra più volte nei tre anni liturgici e possiamo ammirare il parallelismo dei versetti, una sorta di alternanza dei versi che si rispondono l’un l’altro. Sarebbe bene recitarlo o cantarlo a due voci, riga per riga o a due cori alternati. Primo coro: “Benedici il Signore, anima mia”… Secondo coro: “quanto è in me benedica  il suo santo nome santo”… Primo coro: “Egli perdona tutte le tue colpe … Secondo coro: “Non ci tratta secondo i nostri peccati”. E così via. Un’altra caratteristica è la tonalità gioiosa del rendimento di grazie. L’espressione “Benedici il Signore, anima mia” si ripete come inclusione nel primo e nell’ultimo versetto del salmo. Tra tutti i benefici, i versetti scelti per questa domenica insistono sul perdono di Dio: “Egli perdona tutte le tue colpe… Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore; non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe. Quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe.” Più volte lo abbiamo notato: una delle grandi scoperte della Bibbia è che Dio è solo amore e perdono. Ed è proprio per questo che è così diverso da noi e costantemente ci sorprende. Quando il profeta Isaia afferma: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, dice Dio; le vostre vie non sono le mie vie” (55,6-8), invita a cercare il Signore mentre si fa trovare, a invocarlo mentre è vicino. Invita l’empio ad abbandonare la sua via e l’uomo perverso i suoi pensieri, e aggiunge: “Ritorni al Signore che avrà misericordia di lui, al nostro Dio che largamente perdona” - e aggiunge - ”perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri”. Proprio la congiunzione “perché” dà il senso a tutta la frase: è proprio la sua misericordia inesauribile a fare la differenza tra Dio e noi. Circa cinquecento anni prima di Cristo, si era già compreso che il perdono di Dio è incondizionato e che precede tutte le nostre preghiere o pentimenti. Il perdono di Dio non è un atto puntuale, un evento, ma è la sua essenza stessa. Tuttavia, siamo solo noi a poter compiere liberamente il gesto di andare a ricevere questo perdono di Dio e rinnovare l’Alleanza; Egli non ci forzerà mai e allora andiamo da lui con fiducia, compiamo il passo indispensabile per entrare nel perdono di Dio che è già acquisito. A ben vedere si tratta di una scoperta che risale a tempi molto antichi. Quando Natan annunciò al re Davide, che si era appena sbarazzato del marito della sua amante, Betsabea, il perdono di Dio, Davide in verità non aveva ancora avuto il tempo di esprimere il minimo pentimento.  Dopo avergli ricordato tutti i benefici con cui Dio lo aveva colmato, il profeta aggiunse: “E se questo fosse poco, aggiungerei ancora di più” (2 Sam 12,8). Ecco il significato della parola perdono, formata da due sillabe che è bene separare “per – dono” a indicare il dono perfetto, dono al di là dell’offesa e al di là dell’ingratitudine; è l’alleanza sempre offerta nonostante l’infedeltà. Perdonare chi ci ha fatto del male significa continuare, nonostante tutto, a offrirgli un’alleanza, una relazione di amore o di amicizia; significa accettare di rivedere quella persona, tendergli la mano, accoglierla comunque alla nostra tavola o nella nostra casa; significa rischiare un sorriso; significa rifiutare di odiare e di vendicarsi. Tuttavia, questo non significa dimenticare. Spesso si sente dire: posso perdonare ma non dimenticherò mai. In realtà, si tratta di due cose completamente diverse. Il perdono non è un colpo di spugna, non è né dimenticanza né cancellazione di quanto è successo perché nulla lo cancellerà, sia che si tratti di un bene o di un male. Ci sono offese che non si potranno mai dimenticare, perché è successo l’irreparabile. È proprio questo che conferisce grandezza e gravità alle nostre vite umane: se un colpo di spugna potesse cancellare tutto, che senso avrebbe agire bene? Potremmo fare qualsiasi cosa. Il perdono quindi non cancella il passato, ma apre al futuro. Spezza le catene della colpa, porta la liberazione interiore e ci permette di ripartire. Quando Davide fece uccidere il marito di Betsabea, nulla poté riparare il male commesso. Ma Davide, perdonato, poté rialzare la testa e cercare di non fare più il male. Quando i genitori perdonano l’assassino di un loro figlio non significa che dimenticano il crimine commesso ma proprio nel loro dolore trovano la forza necessaria per perdonare e il perdono diventa un atto profondamente liberatore per loro stessi. Chi viene perdonato non sarà mai più un innocente, ma può rialzare la testa. Senza arrivare a crimini così gravi, la vita di ogni giorno è segnata da gesti più o meno gravi che seminano ingiustizia o dolore. Perdonando e ricevendo il perdono si smette di guardare al passato e si volge lo sguardo verso il futuro. Avviene così nel nostro rapporto con Dio dato che nessuno può dirsi innocente, ma tutti siamo peccatori perdonati.

 

*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,45-49)

Continua la meditazione di san Paolo sulla resurrezione di Cristo e sulla nostra e si rivolge a cristiani di origine greca che vorrebbero avere una risposta chiara e precisa sulla resurrezione della carne, sul quando e sul come avverrà. Paolo ha già spiegato domenica scorsa  che la resurrezione è un articolo di fede per cui non credere nella resurrezione dei morti, significa non credere nemmeno nella resurrezione di Cristo. Adesso affronta la domanda: Come risorgono i morti e con quale corpo ritornano? In verità riconosce di non sapere come saranno i risorti, ma ciò che può affermare con certezza è che il nostro corpo risorto sarà completamente diverso da quello terreno. Se pensiamo che Gesù apparso dopo la risurrezione non veniva subito riconosciuto dai suoi discepoli e Maria Maddalena lo ha scambiato per il giardiniere, ciò dimostra che era lo stesso e, allo stesso tempo, completamente diverso. Paolo distingue un corpo animale da un corpo spirituale e l’espressione corpo spirituale ha sorpreso i suoi ascoltatori che conoscevano la distinzione greca tra corpo e anima. Egli però, essendo ebreo, sa che il pensiero ebraico non contrappone mai il corpo e l’anima e la sua formazione giudaica lo ha condotto invece a contrapporre due tipi di comportamento: quello dell’uomo terreno e quello dell’uomo spirituale, inaugurato dal Messia. In ogni uomo, Dio ha insufflato un soffio di vita che lo rende capace di vita spirituale, ma rimane ancora un uomo terreno. Solo nel Messia abita pienamente lo Spirito stesso di Dio, che guida ogni sua azione. Paolo per argomentare fa riferimento alla Genesi, nella quale legge la vocazione dell’umanità, ma non la interpreta in modo storico. Per lui Adamo è un tipo di uomo o, meglio, un tipo di comportamento. Questa lettura può sembrarci insolita, ma dobbiamo abituarci a leggere i testi della creazione nella Genesi non come un resoconto degli eventi, bensì come racconti di vocazione. Creando l’umanità (Adamo è un nome collettivo), Dio la chiama a un destino straordinario. Adamo, l’essere terrestre, è chiamato a diventare il tempio dello Spirito di Dio. E va ricordato che nella Bibbia la Creazione non è considerata un evento del passato perché la Bibbia parla molto di più di Dio Creatore che della Creazione; parla del nostro rapporto con Dio: siamo stati creati da Lui, dipendiamo da Lui, siamo sospesi al suo soffio e non si tratta del passato, bensì del futuro. L’atto creativo ci viene presentato come un progetto ancora in corso: nei due racconti della creazione, l’uomo ha un ruolo da svolgere. “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela” nel primo racconto (Gn 1,28). “Il SIGNORE Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse” nel secondo racconto (Gn 2,15). E questo compito riguarda tutti noi, poiché Adamo è un nome collettivo che rappresenta tutta l’umanità. La nostra vocazione, dice ancora la Genesi, è essere l’immagine di Dio, cioè abitati dallo Spirito stesso di Dio. “Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza… Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò.” (Gn 1,26-27). Adamo è anche il tipo di uomo che non risponde alla sua vocazione; si è lasciato influenzare dal serpente, che gli ha instillato, come un veleno, la sfiducia verso Dio. Questo è ciò che Paolo chiama un comportamento terreno, come il serpente che striscia rasoterra. Gesù Cristo, il nuovo Adamo, invece, si lascia guidare solo dallo Spirito di Dio. In questo modo, egli realizza la vocazione di ogni uomo, cioè di Adamo; è questo il senso della frase di Paolo: “Fratelli, il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente ma l’ultimo Adamo  ( cioè il Cristo) divenne  spirito datore di vita.”

Chiaro il messaggio: il comportamento di Adamo conduce alla morte, quello di Cristo conduce alla vita. Noi però siamo costantemente combattuti tra questi due comportamenti, tra cielo e terra e possiamo fare nostra l’espressione di Paolo quando grida: “Infelice uomo che sono! Non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio.” (Rm 7,24.19). In altri termini la storia individuale e quella collettiva di tutta l’umanità è un lungo cammino per lasciarci abitare sempre di più dallo Spirito di Dio.  Scrive Paolo: “Il primo uomo tratto dalla terra è fatto di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli della terra e come è l’uomo celeste, così anche i celesti”. E san Giovanni osserva: “Carissimi, fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si manifesterà, saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.» (1 Gv 3,2). L’immagine perfetta di Dio in Gesù Cristo, gli apostoli l’hanno vista sul volto di Cristo durante la Trasfigurazione.

Nota: il serpente strisciante per terra tenta l’umanità (Adamo – adam uomo collegato a adamah terra, non è il nome di una persona ma indica l’umanità intera  fatta di terra Gn1,26-27)  e il nome del serpente è nahash parola che può significare sia serpente che il dragone dell’Apocalisse: Gn3,15; Ap 12)

 

*Dal Vangelo secondo Luca (6, 27-38)

“Siate misericordiosi come il vostro Padre è misericordioso” e sarete allora figli dell’Altissimo, perché lui è buono con gli ingrati e i cattivi.  Questo è il programma di ogni cristiano, è la nostra vocazione. L’intera Bibbia appare come il racconto della conversione dell’uomo, che impara gradualmente a dominare la propria violenza. Non è certo un processo facile, ma Dio è paziente, perché, come dice san Pietro , un giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno (cf 2 Pt 3,8) ed educa il suo popolo con tanta pazienza, come leggiamo nel Deuteronomio: “Come un uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te” (Dt 8,5). Questa lenta estirpazione della violenza dal cuore dell’uomo è espressa in modo figurato fin dal libro della Genesi: la violenza viene presentata come una forma di animalità. Riprendiamo il racconto del giardino dell’Eden: Dio aveva invitato Adamo a dare un nome agli animali, a simboleggiare la sua superiorità su tutte le creature. Dio aveva infatti concepito Adamo come il re della creazione: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza. Domini sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra» (Gn 1,26). E lo stesso Adamo si era riconosciuto diverso, superiore: «L’uomo diede un nome a tutti gli animali, agli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche; ma per l’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse» (Gn 2,20). L’uomo non trovò il suo pari. Ma due capitoli dopo, troviamo la storia di Caino e Abele. Nel momento in cui Caino è preso da una folle voglia di uccidere, Dio gli dice: «Il peccato è accovacciato (come una bestia) alla tua porta. È in agguato, ma tu devi dominarlo» (Gn 4,7). E a partire da questo primo omicidio, il testo biblico mostra la proliferazione della vendetta (Gn 4,1-26). Fin dai primi capitoli della Bibbia, la violenza è dunque riconosciuta: esiste, ma viene smascherata e paragonata a un animale. L’uomo non merita più di essere chiamato uomo quando è violento. I testi biblici intraprendono quindi l’arduo cammino della conversione del cuore dell’uomo. In questo percorso possiamo distinguere delle tappe. Fermiamoci sulla prima: «Occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,24). In risposta al terribile vanto di Lamech (Gn 4,23), pronipote di Caino, che si glorificava di uccidere uomini e bambini per vendicare semplici graffi, la Legge introduce un primo limite: un solo dente per un dente, e non tutta la mascella; una sola vita per una vita, e non un intero villaggio in rappresaglia. La legge del taglione rappresentava dunque già un progresso significativo, anche se oggi ci appare ancora insufficiente. La pedagogia dei profeti affronta costantemente il problema della violenza, ma si scontra con una grande difficoltà psicologica: l’uomo che accetta di non vendicarsi teme di perdere il proprio onore. I testi biblici allora mostrano all’uomo che il suo vero onore è altrove: consiste proprio nell’assomigliare a Dio, che è «buono con gli ingrati e i malvagi». Il discorso di Gesù, che leggiamo questa domenica, rappresenta l’ultima tappa di questa educazione: dalla legge del taglione siamo passati all’invito alla dolcezza, al disinteresse, alla gratuità perfetta. Egli insiste: per due volte, all’inizio e alla fine, dice «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano»… «Amate i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperare nulla in cambio». E così il finale ci sorprende un po’: fino a questo punto, sebbene non fosse facile, almeno era logico. Dio è misericordioso e ci invita a imitarlo. Ma ecco che le ultime righe sembrano cambiare tono: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati. Perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio» (Lc 6,37-38). Siamo forse tornati a una logica del “do ut des”? Ovviamente no! Gesù qui ci sta semplicemente indicando un cammino molto rassicurante: per non temere di essere giudicati, basta non giudicare né condannare gli altri. Giudicate le azioni, ma mai le persone. Instaurate un clima di benevolenza. In questo modo, le relazioni fraterne non verranno mai spezzate. Quanto alla frase: «La vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo», essa esprime la meraviglia che sperimentano coloro che si conformano all’ideale cristiano della mitezza e del perdono. È la profonda trasformazione che avviene in loro: perché hanno aperto la porta allo Spirito di Dio, e lui abita in loro e li ispira sempre di più. A poco a poco vedono compiersi in loro la promessa formulata dal profeta Ezechiele: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne.» (Ez 36,26).

+Giovanni D’Ercole

 

 

Sintesi su richiesta: Commento breve.

 

Lettura dal Primo Libro di Samuele (26,2.7-9.12-13.22-23)

Saul fu il primo re del popolo d’Israele, intorno al 1040 a.C. Era un contadino, originario di una famiglia semplice della  tribù di Beniamino, scelto da Dio e consacrato re dal profeta Samuele che inizialmente esitò  perché diffidava della monarchia in generale, ma dovette obbedire a Dio. Dopo un buon inizio, Saul purtroppo diede ragione ai peggiori timori di Samuele: il suo piacere personale, l’amore per il potere e per la guerra prevalsero sulla fedeltà all’Alleanza. Fu così grave che, senza attendere la fine del suo regno, Samuele, su ordine di Dio, si mise a cercare il suo successore e scelse Davide, il piccolo pastore di Betlemme, l’ottavo figlio di Iesse. Davide fu accolto alla corte di Saul e divenne pian piano un abile capo di guerra, i cui successi erano sulla bocca di tutti. Un giorno, Saul  udì il canto popolare che circolava ovunque: «Saul ha ucciso i suoi mille, e Davide i suoi diecimila» (1 Sam 18,7) e fu preso dalla gelosia che  divenne così feroce nei confronti di Davide da farlo impazzire. Davide dovette fuggire più volte per salvarsi, ma contrariamente ai sospetti di Saul, Davide non venne mai meno alla sua lealtà verso il re. Nell’episodio che ci viene qui narrato è Saul a prendere l’iniziativa: i tremila uomini di cui si parla furono radunati da lui con il solo scopo di soddisfare il suo odio per Davide. “Saul scese nel deserto di Zif con tremila uomini scelti d’Israele per cercare Davide” (v 2) e chiara era la sua intenzione: eliminarlo appena possibile. Ma la situazione si ribalta a favore di Davide: durante la notte Davide entra nel campo di Saul e trova tutti addormentati e quindi l’occasione favorevole per ucciderlo. Abisai, la guardia del corpo di Davide, non ha dubbi e si offre di ucciderlo: “Oggi Dio ti ha messo nelle mani il tuo nemico. Lascia dunque che io l’inchiodi a terra con la lancia in un sol colpo e non aggiungerò il secondo” (v 8). Davide sorprende tutti, incluso Saul, che stenterà a credere ai suoi occhi quando vedrà la prova che Davide lo ha risparmiato. Si pongono due domande: perché Davide ha risparmiato colui che voleva la sua morte? L’unica ragione è il rispetto per la scelta di Dio: “Non ho voluto stendere la mano contro il messia del Signore” (v.11).  L’autore sacro vuole delineare il ritratto di Davide: rispettoso della volontà di Dio e magnanimo, che  rifiuta la vendetta e comprende che la Provvidenza non si manifesta mai attraverso la semplice consegna del nemico nelle proprie mani. In secondo luogo, perché il re regnante è intoccabile e non va dimenticato che questo racconto fu scritto alla corte di Salomone, il quale aveva tutto l’interesse a far passare questo insegnamento. Infine, questo testo rappresenta una tappa nella storia biblica, un momento nella pedagogia di Dio: prima di imparare ad amare tutti gli uomini, bisogna iniziare a trovare qualche buona ragione per amarne alcuni e Davide risparmia un nemico pericoloso perché come re è l’eletto di Dio. L’ultima tappa sarà comprendere che ogni uomo va rispettato perché siamo tutti creati a immagine e somiglianza di Dio.

 

*Salmo 102 (103), 1-2, 3-4, 8. 10. 12-13

Questo salmo sarebbe bene recitarlo o cantarlo a due voci, a due cori alternati. Primo coro: “Benedici il Signore, anima mia”… Secondo coro: “quanto è in me benedica  il suo santo nome santo”… Primo coro: “Egli perdona tutte le tue colpe … Secondo coro: “Non ci tratta secondo i nostri peccati”. E così via. Un’altra caratteristica è la tonalità gioiosa del rendimento di grazie. L’espressione “Benedici il Signore, anima mia” si ripete come inclusione nel primo e nell’ultimo versetto del salmo. Tra tutti i benefici, i versetti scelti per questa domenica insistono sul perdono di Dio: “Perché Egli perdona tutte le tue colpe… Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore; non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe …”perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri”. Proprio la congiunzione “perché” dà il senso a tutta la frase: è proprio la sua misericordia inesauribile a fare la differenza tra Dio e noi. Circa cinquecento anni prima di Cristo, si era già compreso che il perdono di Dio è incondizionato e che precede tutte le nostre preghiere o pentimenti. Il perdono di Dio non è un atto puntuale, un evento, ma è la sua essenza stessa. Tuttavia, siamo solo noi a poter compiere liberamente il gesto di andare a ricevere questo perdono di Dio e rinnovare l’Alleanza; Egli non ci forzerà mai e allora andiamo da lui con fiducia, compiamo il passo indispensabile per entrare nel perdono di Dio che è già acquisito. A ben vedere si tratta di una scoperta che risale a tempi molto antichi. Quando Natan annunciò al re Davide, che si era appena sbarazzato del marito della sua amante, Betsabea, il perdono di Dio, Davide in verità non aveva ancora avuto il tempo di esprimere il minimo pentimento.  Dopo avergli ricordato tutti i benefici con cui Dio lo aveva colmato, il profeta aggiunse: “E se questo fosse poco, aggiungerei ancora di più” (2 Sam 12,8). Ecco il significato della parola perdono, formata da due sillabe che è bene separare “per – dono” a indicare il dono perfetto, dono al di là dell’offesa e al di là dell’ingratitudine; è l’alleanza sempre offerta nonostante l’infedeltà. Perdonare chi ci ha fatto del male significa continuare, nonostante tutto, a offrirgli un’alleanza, una relazione di amore o di amicizia; significa rifiutare di odiare e di vendicarsi. Tuttavia, questo non significa dimenticare. Spesso si sente dire: posso perdonare ma non dimenticherò mai. In realtà, si tratta di due cose completamente diverse. Il perdono non è un colpo di spugna. Ci sono offese che non si potranno mai dimenticare, perché è successo l’irreparabile. È proprio questo che conferisce grandezza e gravità alle nostre vite umane: se un colpo di spugna potesse cancellare tutto, che senso avrebbe agire bene? Potremmo fare qualsiasi cosa. Il perdono quindi non cancella il passato, ma apre al futuro. Spezza le catene della colpa, porta la liberazione interiore e ci permette di ripartire. Quando Davide fece uccidere il marito di Betsabea, nulla poté riparare il male commesso. Ma Davide, perdonato, poté rialzare la testa e cercare di non fare più il male. Quando i genitori perdonano l’assassino di un loro figlio non significa che dimenticano il crimine commesso ma proprio nel loro dolore trovano la forza necessaria per perdonare e il perdono diventa un atto profondamente liberatore per loro stessi. Chi viene perdonato non sarà mai più un innocente, ma può rialzare la testa. Senza arrivare a crimini così gravi, la vita di ogni giorno è segnata da gesti più o meno gravi che seminano ingiustizia o dolore. Perdonando e ricevendo il perdono si smette di guardare al passato e si volge lo sguardo verso il futuro. Avviene così nel nostro rapporto con Dio dato che nessuno può dirsi innocente, ma tutti siamo peccatori perdonati.

 

*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,45-49)

Continua la meditazione di san Paolo sulla resurrezione di Cristo e sulla nostra e si rivolge a cristiani di origine greca che vorrebbero avere una risposta chiara e precisa sulla resurrezione della carne, sul quando e sul come avverrà. Paolo ha già spiegato domenica scorsa  che la resurrezione è un articolo di fede per cui non credere nella resurrezione dei morti, significa non credere nemmeno nella resurrezione di Cristo. Adesso affronta la domanda: Come risorgono i morti e con quale corpo ritornano? In verità riconosce di non sapere come saranno i risorti, ma ciò che può affermare con certezza è che il nostro corpo risorto sarà completamente diverso da quello terreno. Se pensiamo che Gesù apparso dopo la risurrezione non veniva subito riconosciuto dai suoi discepoli e Maria Maddalena lo ha scambiato per il giardiniere, ciò dimostra che era lo stesso e, allo stesso tempo, completamente diverso. Paolo distingue un corpo animale da un corpo spirituale e l’espressione corpo spirituale ha sorpreso i suoi ascoltatori che conoscevano la distinzione greca tra corpo e anima. Egli però, essendo ebreo, sa che il pensiero ebraico non contrappone mai il corpo e l’anima e la sua formazione giudaica lo ha condotto invece a contrapporre due tipi di comportamento: quello dell’uomo terreno e quello dell’uomo spirituale, inaugurato dal Messia. In ogni uomo, Dio ha insufflato un soffio di vita che lo rende capace di vita spirituale, ma rimane ancora un uomo terreno. Paolo per argomentare fa riferimento alla Genesi e vede Adamo  come un tipo di comportamento perché  il racconto della creazione nella Genesi non è il resoconto degli eventi, bensì il racconto di una vocazione. Creando l’umanità (Adamo è un nome collettivo), Dio la chiama a un destino straordinario. Adamo, l’essere terrestre, è chiamato a diventare il tempio dello Spirito di Dio. E va ricordato che nella Bibbia la Creazione non è considerata un evento del passato ma parla del nostro rapporto con Dio: siamo stati creati da Lui, dipendiamo da Lui, siamo sospesi al suo soffio e non si tratta del passato, bensì del futuro. L’atto creativo ci viene presentato come un progetto ancora in corso: nei due racconti della creazione, l’uomo ha un ruolo da svolgere. “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela” (Gn 1,28). “Il SIGNORE Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gn 2,15). E questo compito riguarda tutti noi, poiché Adamo è un nome collettivo che rappresenta tutta l’umanità. La nostra vocazione, dice ancora la Genesi, è essere l’immagine di Dio, cioè abitati dallo Spirito stesso di Dio. “Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza… Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò.” (Gn 1,26-27). Adamo è anche il tipo di uomo che non risponde alla sua vocazione; si è lasciato influenzare dal serpente, che gli ha instillato, come un veleno, la sfiducia verso Dio. Questo è ciò che Paolo chiama un comportamento terreno, come il serpente che striscia rasoterra. Gesù Cristo, il nuovo Adamo, invece, si lascia guidare solo dallo Spirito di Dio. In questo modo, egli realizza la vocazione di ogni uomo, cioè di Adamo; è questo il senso della frase di Paolo: “Fratelli, il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente ma l’ultimo Adamo  ( cioè il Cristo) divenne  spirito datore di vita.”

Chiaro il messaggio: il comportamento di Adamo conduce alla morte, quello di Cristo conduce alla vita. Noi però siamo costantemente combattuti tra questi due comportamenti, tra cielo e terra e possiamo fare nostra l’espressione di Paolo quando grida: “Infelice uomo che sono! Non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio.” (Rm 7,24.19). In altri termini la storia individuale e quella collettiva di tutta l’umanità è un lungo cammino per lasciarci abitare sempre di più dallo Spirito di Dio.  Scrive Paolo: “Il primo uomo tratto dalla terra è fatto di terra, il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli della terra e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. 

 

*Dal Vangelo secondo Luca (6, 27-38)

“Siate misericordiosi come il vostro Padre è misericordioso” e sarete allora figli dell’Altissimo, perché lui è buono con gli ingrati e i cattivi.  Questo è il programma di ogni cristiano, è la nostra vocazione. L’intera Bibbia appare come il racconto della conversione dell’uomo, che impara gradualmente a dominare la propria violenza. Non è certo un processo facile, ma Dio è paziente ed educa il suo popolo con tanta pazienza. Questa lenta estirpazione della violenza dal cuore dell’uomo è espressa in modo figurato fin dal libro della Genesi: la violenza viene presentata come una forma di animalità. Dio aveva invitato Adamo a dare un nome agli animali, a simboleggiare la sua superiorità su tutte le creature.  E lo stesso Adamo si era riconosciuto diverso, superiore e non trovò il suo pari. Ma dopo troviamo la storia di Caino e Abele. Nel momento in cui Caino è preso da una folle voglia di uccidere, Dio gli dice: «Il peccato è accovacciato (come una bestia) alla tua porta. È in agguato, ma tu devi dominarlo» (Gn 4,7). E a partire da questo primo omicidio, il testo biblico mostra la proliferazione della vendetta (Gn 4,1-26). Fin dai primi capitoli della Bibbia, la violenza è dunque riconosciuta: esiste, ma viene smascherata e paragonata a un animale. L’uomo non merita più di essere chiamato uomo quando è violento. I testi biblici intraprendono quindi l’arduo cammino della conversione del cuore dell’uomo. In questo percorso possiamo distinguere delle tappe. Fermiamoci sulla prima: «Occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,24). In risposta al terribile vanto di Lamech (Gn 4,23), pronipote di Caino, che si glorificava di uccidere uomini e bambini per vendicare semplici graffi, la Legge introduce un primo limite: un solo dente per un dente, e non tutta la mascella; una sola vita per una vita, e non un intero villaggio in rappresaglia. La legge del taglione rappresentava dunque già un progresso significativo, anche se oggi ci appare ancora insufficiente. La pedagogia dei profeti affronta costantemente il problema della violenza, ma si scontra con una grande difficoltà psicologica: l’uomo che accetta di non vendicarsi teme di perdere il proprio onore. I testi biblici allora mostrano all’uomo che il suo vero onore è altrove: consiste proprio nell’assomigliare a Dio, che è «buono con gli ingrati e i malvagi». Il discorso di Gesù, che leggiamo questa domenica, rappresenta l’ultima tappa di questa educazione: dalla legge del taglione siamo passati all’invito alla dolcezza, al disinteresse, alla gratuità perfetta. Egli insiste: per due volte, all’inizio e alla fine, dice «Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano»…. Dio è misericordioso e ci invita a imitarlo. Ma ecco che le ultime righe sembrano cambiare tono: «Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati. Perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato (Lc 6,37-38). Siamo forse tornati a una logica del “do ut des”? Ovviamente no! Gesù qui ci sta semplicemente indicando un cammino molto rassicurante: per non temere di essere giudicati, basta non giudicare né condannare gli altri. Giudicate le azioni, ma mai le persone. Instaurate un clima di benevolenza. In questo modo, le relazioni fraterne non verranno mai spezzate.

+Giovanni D’Ercole

Giovedì, 13 Febbraio 2025 21:26

VI Domenica T.O. (C) [e Commento breve]

Buona giornata sotto lo sguardo materno della B.V. di Lourdes.

Commento alle Letture della VI Domenica del Tempo Ordinario anno C [16 Febbraio 2025].

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga.

 

*Prima Lettura dal Libro del profeta Geremia (17, 5 – 8)

 Il profeta Geremia inizia in maniera solenne: “Così dice il Signore” per avvisare che quanto si sta per ascoltare è importante e grave perché è il “Signore” – cioè il Dio stesso dell’Alleanza del Sinai - che afferma: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo”. Qui però sorgono due domande: Dio può maledire l’uomo? E perché e in che senso fidarsi di un uomo è un errore? Non c’è alcun dubbio: Dio non può maledirci e l’espressione ebraica tradotta con “maledetto” nei profeti è “arur” (אָרוּר), che compare spesso nella Bibbia ebraica e il suo significato non va inteso come un’azione diretta di Dio che maledice, piuttosto come una dichiarazione dello stato di rovina o disgrazia in cui cade chi si allontana da Lui. Si tratta quindi di un avvertimento profetico e “maledetto l’uomo che confida nell’uomo” non indica un’azione attiva di Dio, ma un monito di questo tipo: se scegli di confidare solo negli uomini e non in Dio, ti metti in una situazione di insicurezza e fallimento. Nella mentalità biblica, Dio è fonte di vita e benedizione (berakha), e l’allontanamento da Lui porta automaticamente alla ’arur (rovina, sterilità, fallimento). Quando dunque i profeti usano “maledetto”, stanno dicendo: “Attenzione, questa strada porta alla tua distruzione”. Non è Dio a lanciare una maledizione come un castigo arbitrario, ma è una legge spirituale: quando ci si allontana dalla sorgente dell’acqua viva (Dio), inevitabilmente ci si ritrova nella siccità del deserto. Circa la seconda domanda concernente l’uomo che confida nell’uomo, dovremmo diffidare gli uni degli altri? Certamente no, perché Dio vuole che l’umanità diventi una cosa sola e dunque ogni sfiducia tra gli uomini va contro il suo disegno d’amore.  Qui si tratta di chi si allontana da Dio e confida, cioè ha fede nell’uomo. La parola chiave è confida/ ha “fede”, un termine assai forte che indica fare affidamento, appoggiarsi in modo assoluto sugli uomini, come ci si arrocca su una roccia. Senza Dio ogni sicurezza è fragile e si diventa come un arbusto nel deserto senza acqua destinato a morire. Chiaro il messaggio: Se ti allontani da Dio diventi spiritualmente arido e instabile, come un cespuglio nel deserto, mentre se confidi, hai fede, la tua vita sarà come un albero che rimane verde perché ha le sue radici nell’acqua.  Facile capire l’importanza dell’acqua per un popolo che camminava nel deserto e Geremia parla per esperienza avendo sotto gi occhi la strada che da Gerusalemme va a Gerico in un deserto completamente arido per gran parte dell’anno. Rinverdisce soltanto e fiorisce con le piogge primaverili, e così, attingendo a esempi e immagini dalla vita quotidiana dei suoi ascoltatori, il profeta offre saggi consigli di vita spirituale. La fede quindi è il fondamento: la fiducia in Dio è come radicarsi in una roccia sicura (Mt 7,24-25). Far dipendere la vita solo da umane realtà come il potere, il successo, i soldi, le relazioni, porta a diventare fragili. Inoltre il fatto di aver posto la propria fede in Dio non ti risparmia dalle difficoltà e dai problemi, ma dà la forza per superare ogni ostacolo. E allora ogni giorno Il credente è chiamato a scegliere: affidarsi solo su sé stesso e vivere nella paura, oppure radicare la vita in Dio e affrontare le tempeste dell’esistenza senza perdersi d’animo.

Una nota: Geremia probabilmente sta denunciando i due errori/peccati fatali dei re, dei capi religiosi e dell’intero popolo: l’idolatria e le alleanze. Per quanto concerne l’idolatria molti hanno introdotto in Israele vari culti idolatrici e offerto sacrifici agli idoli e Geremia lo stigmatizza: “Il mio popolo mi ha dimenticato per bruciare offerte a chi è un nulla.” ( 18,15). Quanto invece alle alleanze, il profeta critica la politica dei re che invece di contare sulla protezione di Dio, hanno moltiplicato manovre diplomatiche, alleandosi di volta in volta con ciascuna delle potenze del Medio Oriente ricavandone solo guerre e disgrazie. Così è avvenuto per Sedecia che, affidandosi a manovre diplomatiche e alla sua forza militare, è andato incontro  al fallimento con massacri, umiliazioni  per sé e per il popolo (Gr 39,1-10).

 

*Salmo Responsoriale (1) 

Questo salmo, il primo, molto breve dove ogni dettaglio è significativo, costituisce la chiave interpretativa di tutto il Salterio ed è stato scelto per introdurre alla preghiera di Israele. Esso  si apre con questa parola: Beato!  “Beato l’uomo che non entra nel  consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siete in compagnia degli arroganti “. Il termine “beato” nella Bibbia deriva dall’ebraico “ashré”, che esprime uno stato di felicità e profondo appagamento, condizione di benedizione e di pace interiore che Dio accorda a chi vive secondo la sua volontà. Questo concetto è simile a “shalom”, che indica una pace profonda e completa. Chi evita le influenze negative e trova gioia nella legge del Signore, meditandola costantemente, viene paragonatao a un albero piantato lungo corsi d’acqua, che produce frutto al momento opportuno e le cui foglie non appassiscono. Il salmista ha compreso che Dio vuole la nostra felicità, e questa è la cosa più importante che ha voluto dirci sin dall’inizio. Per capire il senso della parola beato nella Bibbia, dobbiamo pensare alle felicitazioni che ci si scambia nelle occasioni di festa augurando gioia e prosperità. L’espressione “Beato” etimologicamente significa riconoscerlo felice e rallegrarsi con lui; è innanzitutto una constatazione (sei felice), ma è anche un augurio, un incoraggiamento a far crescere la felicità ogni giorno. È come dire: sei sulla buona strada, continua a essere felice. Il termine biblico “Beato” esprime in definitiva una duplice dimensione: constatazione e incoraggiamento. Per questo, molti studiosi, come André Chouraqui, traducono beato con “in cammino”, immagine che invita a considerare la storia dell’umanità come un lungo viaggio, durante il quale gli uomini sono continuamente chiamati a scegliere la strada che porta alla vera felicità. 

 

Qualche nota per meglio entrare nella Parola:

1. Nei pochi versetti del salmo troviamo un’insistenza particolare sulla parola via: “via dei peccatori…cammino dei giusti…via dei malvagi” ed emerge il tema delle due vie: la via giusta e la via sbagliata, il bene e il male. L’immagine è chiara: la nostra vita è come un incrocio, dove dobbiamo decidere quale direzione prendere. Se imbocchiamo la strada giusta, ogni passo ci avvicinerà alla meta; se scegliamo la direzione sbagliata, ogni passo ci allontanerà sempre di più dal traguardo.  L’intera Rivelazione biblica ha lo scopo di indicare all’umanità il cammino della felicità che Dio desidera per noi e per tale motivo offre tanti segnali come le espressioni beato/maledetto o felice/infelice che sono indicatori del cammino. Quando Geremia nella prima Lettura dice “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo… o Isaia proclama “Guai a coloro che promulgano leggi inique” (10,1), non stanno giudicando o condannando le persone in modo definitivo, ma stanno lanciando un allarme, come chi grida per avvertire un passante del pericolo di un burrone. Al contrario, espressioni come “Benedetto l’uomo che confida nel Signore (Ger 17,7) o “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei peccatori” (Sal 1) sono un incoraggiamento: siete sulla strada giusta!

2. Il tema delle due vie ci ricorda che siamo liberi e il desiderio di felicità è inscritto nel cuore di ogni uomo, ma spesso si sbaglia direzione e la legge di Dio non è altro che una guida per la nostra libertà, un aiuto per scegliere la via giusta. Israele sa che la Torah è un dono di Dio, un segno del suo desiderio di felicità per noi e per questo “la sua legge medita giorno e notte”.

3. Quando il salmo parla di giusti e malvagi, si riferisce a comportamenti, non a persone perché non esistono uomini perfettamente giusti o completamente malvagi e in verità dentro di noi convivono entrambe le tendenze. Ogni sforzo per ascoltare la Parola di Dio è un passo sulla via del vero bene. Ecco perché il salmo dice: ”Beato l’uomo che nella legge del Signore trova la sua gioia”.  Infine si capisce che la stessa costruzione letteraria del salmo sottolinea l’importanza della scelta giusta: il salmo non è infatti simmetrico e contrappone due atteggiamenti, quello dei giusti e quello dei peccatori, ma dedica la maggior parte a descrivere la felicità dei giusti per dirci che ciò che merita attenzione è il bene, non il male. Questo salmo è dunque un invito a scegliere consapevolmente il cammino della fedeltà a Dio e non è un caso che il salterio inizi proprio con questa parola: Beato l’uomo che confida nel Signore!  

 

*Seconda Lettura dalla prima Lettera di san Paolo ai Corinzi (15, 12 – 20)

Comprendiamo meglio quello che san Paolo vuol dirci se pensiamo allo svolgimento del funerale di un cristiano il cui rituale prevede tre “segni” di alto valore simbolico. Anzitutto il Cero Pasquale accanto alla bara arde durante tutta la celebrazione a ricordare la presenza del Cristo risorto vivo fra noi. Nel rito di commiato che segue la messa il celebrante e, secondo alcuni usi, anche i fedeli aspergono il corpo del defunto con l’acqua benedetta a ricordo del Battesimo. Inoltre il celebrante incensa il feretro e questo per i cristiani dei primi secoli era un gesto assai audace perché nell’Impero Romano l’incenso veniva bruciato davanti alle statue degli dèi e sembrava un fuori luogo incensare un corpo umano senza vita ridotto a nulla. Ma questo gesto è molto eloquente perché un cristiano, fin dal suo Battesimo, è tempio dello Spirito Santo come ci ricorda san Paolo e dimenticandolo si finisce per perdere il segno e il valore della risurrezione dei corpi. I cristiani di Corinto e forse non pochi oggi anche se credono alla risurrezione di Cristo, faticano a trarne la conseguenza che per Paolo è evidente: se Cristo è risorto, anche noi risorgeremo. E per spiegarci questa verità di fede procede per due tappe. Prima riafferma che Gesù è veramente risorto e poi ne trae le conseguenze. Essendo la risurrezione di Cristo il fondamento della fede cristiana, Paolo afferma che “se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede”.  In verità se non si crede nella risurrezione di Cristo, l’edificio della fede cristiana crolla: un rischio che corre ogni comunità. Chiediamoci: tutti i cattolici credono nella risurrezione di Cristo e nella nostra risurrezione? 

Da questa premessa san Paolo trae le conseguenze argomentando così: poiché Cristo è risorto e molti lo hanno visto vivo e lo possono testimoniare, egli è davvero il Salvatore del mondo ed è vero tutto ciò che ha detto e promesso. Con il battesimo noi siamo diventati tempio dello Spirito e questo significa che lo Spirito vive in noi, ma se lo Spirito d’amore è l’opposto del peccato, essendo il peccato mancanza di amore per Dio e per gli altri, lo Spirito Santo ci libera dal peccato e noi siamo, come Cristo, abitati dallo Spirito di Dio, per cui risorgeremo come lui. Ciò che è stato tempio dello Spirito può essere trasformato, ma non può essere distrutto. La morte biologica distrugge il nostro corpo, ma Gesù lo farà risorgere. 

 

Note per meglio capire il testo:

1.L’apostolo aggiunge “Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti”. Nel testo greco il termine utilizzato significa primizia nel senso di inizio di una lunga serie. Nell’Antico Testamento, le primizie erano i primi frutti della terra che segnavano l’inizio del raccolto. Dire che Gesù è risorto come “primizia di coloro che sono morti” significa affermare che è il fratello maggiore dell’umanità, il primo nato, come dice altrove Paolo: “Egli è il capo del corpo… Egli è il principio, il primogenito di coloro che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose…” (Col 1,18).

2. In definitiva, occorre sempre tornare al progetto misericordioso di Dio che è quello di riunire tutta l’umanità in Gesù Cristo come leggiamo nella Lettera agli Efesini ( cf. Ef 1,9-10). E Dio non ha certo previsto di riunire dei morti, ma dei vivi e Gesù nella sua discussione con i Sadducei: ebbe a spiegare: “Quanto poi alla risurrezione dei morti, non avete letto quello che vi è stato detto da Dio: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? Egli non è il Dio dei morti, ma dei vivi” (Mt 22,31-32).

3. C’è un aspetto del mistero dell’Incarnazione da non dimenticare: Dio prende sul serio la nostra umanità, il nostro corpo perché il Verbo si è fatto carne diventando in tutto simile agli uomini, così simile che il suo destino è diventato il nostro: se è risorto, anche noi risorgeremo. La risurrezione di Cristo non è dunque solo il felice epilogo della sua storia personale ma l’alba della vittoria dell’umanità sulla morte. La morte non è più un muro, ma una porta… e noi vi entriamo dietro di lui. Da qui si capisce l’inconciliabilità della fede cristiana con qualsiasi idea di reincarnazione. La dignità dell’essere umano arriva fino a questo punto: anche se il nostro corpo a volte è fragile e segnato dalla sofferenza, Dio non lo tratta mai come una cosa da gettare e sostituire; la nostra persona è un tutt’uno. Può capitare che ci disprezziamo, ma agli occhi di Dio, siamo ognuno unico e insostituibile. Il nostro intero essere è chiamato a vivere per sempre accanto a Lui.

 

*Dal Vangelo secondo Luca ( 6, 17......26)

Nella prima lettura il profeta Geremia ha esortato a non confidare in sé stessi e sui beni materiali, ma a poggiare la propria vita su Dio. Il Vangelo delle Beatitudini va ben oltre affermando: Beati voi poveri che ponete la vostra fiducia in Dio perché egli vi colmerà delle sue ricchezze. Ma chi sono i poveri secondo il vangelo? Il termine poveri nell’Antico Testamento non ha alcun legame con il conto in banca perché nel senso biblico (anawim) poveri sono coloro che non hanno un cuore superbo né lo sguardo altero chiamati “i curvi di schiena”: sono i piccoli, gli umili, che, mai sazi e compiaciuti di sé, sentono che manca loro qualcosa e proprio per questo Dio può colmarli. I profeti alternano nella loro predicazione il tono severo e minaccioso quando il popolo si smarrisce e insegue valori sbagliati, con quello incoraggiante e consolante quando attraversa momenti di sofferenza e disperazione. Gesù cerca di educare lo sguardo dei discepoli e della folla riprendendo il doppio linguaggio del profeta presente nella prima lettura. Geremia afferma: voi che ponete la vostra fiducia nelle ricchezze materiali, nella vostra posizione sociale, voi che siete ben considerati, presto non vi invidieranno più e per questo non siete sulla strada giusta. Se lo foste, non sareste così ricchi e così ben visti. Un vero profeta si espone al rischio di non piacere, e Gesù lo sa bene. Un vero profeta non ha né il tempo né la preoccupazione di accumulare denaro o curare la propria immagine. Queste quattro beatitudini fotografano perfettamente Gesù che è così povero da non avere una pietra su cui posare il capo ed è morto nell’abbandono totale; è colui che ha pianto la morte dell’amico Lazzaro e ha conosciuto l’angoscia nell’orto degli Ulivi, ha pianto la sorte di Gerusalemme; ha avuto fame e sete nel deserto e drammaticamente sulla croce; è colui che è stato disprezzato, calunniato, perseguitato e infine eliminato in nome dei principi della legge e quindi di quella che si riteneva la vera religione. In queste Beatitudini si profila la promessa della Risurrezione ed emerge un senso di gratitudine a Dio perché Gesù vuol far comprendere con quale sguardo d’amore il Padre ci avvolge sapendo che la vittoria è già certa. Ci rivela così lo sguardo di Dio, la sua misericordia: e noi sappiamo che “misericordia” etimologicamente significa viscere che fremono di compassione. In definitiva questo è il messaggio: lo sguardo dell’uomo è ben diverso da quello di Dio; l’ammirazione umana rischia spesso di sbagliare l’oggetto del proprio entusiasmo e si dirige ai ricchi, ai sazi, ai privilegiati della vita. Lo sguardo di Dio è ben diverso: “Un povero grida, il Signore lo ascolta”, dice il Salmo e “Un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi” (Sal 50/51). Isaia arriva persino a dire: “Nella sofferenza che schiaccia il suo servo, Dio lo ama con un amore di predilezione” (Is 53,10). I poveri, i perseguitati, coloro che hanno fame e che piangono, Dio si china su di loro con predilezione: non per un loro merito, ma per la loro stessa condizione. E così Gesù ci apre gli occhi su un’altra dimensione della felicità: la vera felicità è lo sguardo di Dio su di noi. Certi di questo sguardo di Dio, i poveri, coloro che piangono, coloro che hanno fame, troveranno la forza di prendere in mano il proprio destino. 

 

Una nota per meglio entrare nella Parola: 

Ricordo che André Chouraqui afferma che la parola “beati” significa anche “in cammino”. Cita l’esempio del popolo guidato da Mosè che trovò la forza di affrontare la lunga marcia nel deserto nella certezza della costante presenza di Dio. Ancora una volta, la contrapposizione tra beatitudini e maledizioni non divide l’umanità in due gruppi distinti: da una parte quelli che meritano parole di conforto, dall’altra quelli che meritano solo rimproveri. Tutti, a seconda dei momenti della vita, possiamo trovarci nell’uno o nell’altro gruppo. E a ciascuno di noi Cristo dice: “In cammino…Sarete saziati, consolati, rallegratevi ed esultate”.  Tutto questo era già presente nel linguaggio dell’Antico Testamento per descrivere la felicità che avrebbe portato il Messia. I discepoli conoscevano bene queste espressioni e capiscono subito cosa Gesù sta annunciando loro: Voi che siete usciti dalla folla per seguirmi, non lo avete fatto per raccogliere onori o ricchezze, ma avete fatto la scelta giusta, perché avete saputo riconoscere in me il Messia.

 

 

Commento Breve:

*Prima Lettura dal Libro del profeta Geremia (17, 5 – 8)

 Il profeta Geremia inizia in maniera solenne: “Così dice il Signore” per avvisare che quanto si sta per ascoltare è importante e grave perché è il “Signore” – cioè il Dio stesso dell’Alleanza del Sinai - che afferma: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo”. Qui però sorgono due domande: Dio può maledire l’uomo? E perché e in che senso fidarsi di un uomo è un errore? Non c’è alcun dubbio: Dio non può maledirci e l’espressione ebraica che compare spesso nella Bibbia e il suo significato non va inteso come un’azione diretta di Dio che maledice, piuttosto come una dichiarazione dello stato di rovina o disgrazia in cui cade chi si allontana da Lui. Si tratta quindi di un avvertimento profetico e “maledetto l’uomo che confida nell’uomo” non indica un’azione attiva di Dio, ma un monito di questo tipo: se scegli di confidare solo negli uomini e non in Dio, ti metti in una situazione di insicurezza e fallimento. Quando dunque i profeti usano “maledetto”, stanno dicendo: “Attenzione, questa strada porta alla tua distruzione”. Non è Dio a lanciare una maledizione come un castigo arbitrario, ma è una legge spirituale: quando ci si allontana dalla sorgente dell’acqua viva (Dio), inevitabilmente ci si ritrova nella siccità del deserto. Circa la seconda domanda concernente l’uomo che confida nell’uomo, dovremmo diffidare gli uni degli altri? Certamente no, perché Dio vuole che l’umanità diventi una cosa sola e dunque ogni sfiducia tra gli uomini va contro il suo disegno d’amore.  Qui si tratta di chi si allontana da Dio e confida, cioè mette tutta la sua fiducia nell’uomo, appoggiarsi in modo assoluto sugli uomini. Senza Dio ogni sicurezza è fragile e si diventa come un arbusto nel deserto senza acqua destinato a morire. Chiaro il messaggio: Se ti allontani da Dio diventi spiritualmente arido e instabile, come un cespuglio nel deserto, mentre se confidi, hai fede, la tua vita sarà come un albero che rimane verde perché ha le sue radici nell’acqua. La fede quindi è il fondamento: la fiducia in Dio è come radicarsi in una roccia sicura (Mt 7,24-25). Far dipendere la vita solo da umane realtà come il potere, il successo, i soldi, le relazioni, porta a diventare fragili. Inoltre il fatto di aver posto la propria fede in Dio non ti risparmia dalle difficoltà e dai problemi, ma dà la forza per superare ogni ostacolo. E allora ogni giorno Il credente è chiamato a scegliere: affidarsi solo su sé stesso e vivere nella paura, oppure radicare la vita in Dio e affrontare le tempeste dell’esistenza senza perdersi d’animo.

 

*Salmo Responsoriale (1) 

Questo salmo, il primo, molto breve dove ogni dettaglio è significativo, costituisce la chiave interpretativa di tutto il Salterio ed è stato scelto per introdurre alla preghiera di Israele. Esso  si apre con questa parola: Beato!  “Beato l’uomo che non entra nel  consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siete in compagnia degli arroganti “. Il termine “beato” nella Bibbia esprime uno stato di felicità e profondo appagamento, condizione di benedizione e di pace interiore che Dio accorda a chi vive secondo la sua volontà. Questo concetto è simile a “shalom”, che indica una pace profonda e completa. Chi evita le influenze negative e trova gioia nella legge del Signore, meditandola costantemente, viene paragonatao a un albero piantato lungo corsi d’acqua, che produce frutto al momento opportuno e le cui foglie non appassiscono. Il salmista ha compreso che Dio vuole la nostra felicità, e questa è la cosa più importante che ha voluto dirci sin dall’inizio. Per capire il senso della parola beato nella Bibbia, dobbiamo pensare alle felicitazioni che ci si scambia nelle occasioni di festa augurando gioia e prosperità. L’espressione “Beato” etimologicamente significa riconoscerlo felice e rallegrarsi con lui; è innanzitutto una constatazione (sei felice), ma è anche un augurio, un incoraggiamento a far crescere la felicità ogni giorno. È come dire: sei sulla buona strada, continua a essere felice. Il termine biblico “Beato” esprime in definitiva una duplice dimensione: constatazione e incoraggiamento.

 

*Seconda Lettura dalla prima Lettera di san Paolo ai Corinzi (15, 12 – 20)

Comprendiamo meglio quello che san Paolo vuol dirci se pensiamo allo svolgimento del funerale di un cristiano il cui rituale prevede tre “segni” di alto valore simbolico. Anzitutto il Cero Pasquale accanto alla bara arde durante tutta la celebrazione a ricordare la presenza del Cristo risorto vivo fra noi. Nel rito di commiato che segue la messa il celebrante e, secondo alcuni usi, anche i fedeli aspergono il corpo del defunto con l’acqua benedetta a ricordo del Battesimo. Inoltre il celebrante incensa il feretro e questo per i cristiani dei primi secoli era un gesto assai audace perché nell’Impero Romano l’incenso veniva bruciato davanti alle statue degli dèi e sembrava un fuori luogo incensare un corpo umano senza vita ridotto a nulla. Ma questo gesto è molto eloquente perché un cristiano, fin dal suo Battesimo, è tempio dello Spirito Santo come ci ricorda san Paolo e dimenticandolo si finisce per perdere il segno e il valore della risurrezione dei corpi. I cristiani di Corinto e forse non pochi oggi anche se credono alla risurrezione di Cristo, faticano a trarne la conseguenza che per Paolo è evidente: se Cristo è risorto, anche noi risorgeremo. E per spiegarci questa verità di fede procede per due tappe. Prima riafferma che Gesù è veramente risorto e poi ne trae le conseguenze. Essendo la risurrezione di Cristo il fondamento della fede cristiana.  In verità se non si crede nella risurrezione di Cristo, l’edificio della fede cristiana crolla: un rischio che corre ogni comunità. Chiediamoci: tutti i cattolici credono nella risurrezione di Cristo e nella nostra risurrezione?  Da questa premessa san Paolo trae la conclusione che, se  con il battesimo siamo, come Cristo, abitati dallo Spirito di Dio, risorgeremo come lui. La morte biologica distrugge il nostro corpo, ma Gesù lo farà risorgere. 

 

*Dal Vangelo secondo Luca ( 6, 17......26)

 Nella prima lettura il profeta Geremia ha esortato a non confidare in sé stessi e sui beni materiali, ma a poggiare la propria vita su Dio. Il Vangelo delle Beatitudini va ben oltre affermando: Beati voi poveri che ponete la vostra fiducia in Dio perché egli vi colmerà delle sue ricchezze. Ma chi sono i poveri secondo il vangelo? Il termine poveri nell’Antico Testamento non ha alcun legame con il conto in banca perché nel senso biblico (anawim) poveri sono coloro che non hanno un cuore superbo né lo sguardo altero chiamati “i curvi di schiena”: sono i piccoli, gli umili, che, mai sazi e compiaciuti di sé, sentono che manca loro qualcosa e proprio per questo Dio può colmarli. I profeti alternano nella loro predicazione il tono severo e minaccioso quando il popolo si smarrisce e insegue valori sbagliati, con quello incoraggiante e consolante quando attraversa momenti di sofferenza e disperazione. Queste quattro beatitudini fotografano perfettamente Gesù che è così povero da non avere una pietra su cui posare il capo ed è morto nell’abbandono totale; è colui che ha pianto la morte dell’amico Lazzaro e ha conosciuto l’angoscia nell’orto degli Ulivi, ha pianto la sorte di Gerusalemme; ha avuto fame e sete nel deserto e drammaticamente sulla croce; è colui che è stato disprezzato, calunniato, perseguitato e infine eliminato in nome dei principi della legge e quindi di quella che si riteneva la vera religione. In queste Beatitudini si profila la promessa della Risurrezione ed emerge un senso di gratitudine a Dio perché Gesù vuol far comprendere con quale sguardo d’amore il Padre ci avvolge sapendo che la vittoria è già certa. Ci rivela così lo sguardo di Dio, la sua misericordia. Lo sguardo dell’uomo è ben diverso da quello di Dio; l’ammirazione umana rischia spesso di sbagliare l’oggetto del proprio entusiasmo e si dirige ai ricchi, ai sazi, ai privilegiati della vita. Lo sguardo di Dio è ben diverso: “Un povero grida, il Signore lo ascolta”, dice il Salmo e “Un cuore affranto e umiliato, tu, o Dio, non disprezzi” (Sal 50/51). E così Gesù ci apre gli occhi su un’altra dimensione della felicità: la vera felicità è lo sguardo di Dio su di noi. Certi di questo sguardo di Dio, i poveri, coloro che piangono, coloro che hanno fame, troveranno la forza di prendere in mano il proprio destino.

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In addition to physical hunger man carries within him another hunger — all of us have this hunger — a more important hunger, which cannot be satisfied with ordinary food. It is a hunger for life, a hunger for eternity which He alone can satisfy, as he is «the bread of life» (Pope Francis)
Oltre alla fame fisica l’uomo porta in sé un’altra fame – tutti noi abbiamo questa fame – una fame più importante, che non può essere saziata con un cibo ordinario. Si tratta di fame di vita, di fame di eternità che Lui solo può appagare, in quanto è «il pane della vita» (Papa Francesco)
The Eucharist draws us into Jesus' act of self-oblation. More than just statically receiving the incarnate Logos, we enter into the very dynamic of his self-giving [Pope Benedict]
L'Eucaristia ci attira nell'atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione [Papa Benedetto]
Jesus, the true bread of life that satisfies our hunger for meaning and for truth, cannot be “earned” with human work; he comes to us only as a gift of God’s love, as a work of God (Pope Benedict)
Gesù, vero pane di vita che sazia la nostra fame di senso, di verità, non si può «guadagnare» con il lavoro umano; viene a noi soltanto come dono dell’amore di Dio, come opera di Dio (Papa Benedetto)
Jesus, who shared his quality as a "stone" in Simon, also communicates to him his mission as a "shepherd". It is a communication that implies an intimate communion, which also transpires from the formulation of Jesus: "Feed my lambs... my sheep"; as he had already said: "On this rock I will build my Church" (Mt 16:18). The Church is property of Christ, not of Peter. Lambs and sheep belong to Christ, and to no one else (Pope John Paul II)
Gesù, che ha partecipato a Simone la sua qualità di “pietra”, gli comunica anche la sua missione di “pastore”. È una comunicazione che implica una comunione intima, che traspare anche dalla formulazione di Gesù: “Pasci i miei agnelli… le mie pecorelle”; come aveva già detto: “Su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18). La Chiesa è proprietà di Cristo, non di Pietro. Agnelli e pecorelle appartengono a Cristo, e a nessun altro (Papa Giovanni Paolo II)
Praying, celebrating, imitating Jesus: these are the three "doors" - to be opened to find «the way, to go to truth and to life» (Pope Francis)
Pregare, celebrare, imitare Gesù: sono le tre “porte” — da aprire per trovare «la via, per andare alla verità e alla vita» (Papa Francesco)
In recounting the "sign" of bread, the Evangelist emphasizes that Christ, before distributing the food, blessed it with a prayer of thanksgiving (cf. v. 11). The Greek term used is eucharistein and it refers directly to the Last Supper, though, in fact, John refers here not to the institution of the Eucharist but to the washing of the feet. The Eucharist is mentioned here in anticipation of the great symbol of the Bread of Life [Pope Benedict]
Narrando il “segno” dei pani, l’Evangelista sottolinea che Cristo, prima di distribuirli, li benedisse con una preghiera di ringraziamento (cfr v. 11). Il verbo è eucharistein, e rimanda direttamente al racconto dell’Ultima Cena, nel quale, in effetti, Giovanni non riferisce l’istituzione dell’Eucaristia, bensì la lavanda dei piedi. L’Eucaristia è qui come anticipata nel grande segno del pane della vita [Papa Benedetto]
Work is part of God’s loving plan, we are called to cultivate and care for all the goods of creation and in this way share in the work of creation! Work is fundamental to the dignity of a person [Pope Francis]

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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