don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Martedì, 01 Aprile 2025 05:47

5a Domenica di Quaresima (anno C)

5a Domenica di Quaresima (anno C)  [6 aprile 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Domani, mercoledì 2 aprile sarà il XX anniversario della morte di san Giovanni Paolo II. Lo ricordiamo nella preghiera invocando la sua protezione e intercessione.

 

*Prima Lettura Dal libro del profeta Isaia (43,16-21)

A prima vista, questo testo consta di due parti tra loro contraddittorie: la prima è un richiamo al passato, all’uscita dall’Egitto, mentre nella seconda il profeta esorta a lasciarsi alle spalle il passato. Ma di quale passato si tratta? Proviamo a meglio capire esaminando una dopo l’altra queste due parti. L’incipit è come sempre solenne: “Così dice il Signore” per introdurre parole di grande importanza cui immediatamente segue il riferimento al celebre passaggio nel mare, il miracolo del mare dei Giunchi durante la fuga degli Ebrei dall’Egitto: “Il Signore aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti”. Torna sempre il richiamo alla notte memorabile della liberazione dall’Egitto narrata nel capitolo 14 del libro dell’Esodo. Nella prima lettura Isaia offre ulteriori dettagli: “il Signore fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo e tutti giacciono morti e mai più si rialzeranno, si spensero come un lucignolo”. Dio salvò il suo popolo distruggendo gli egiziani ed è interessante notare che Isaia utilizza il nome “Signore” (il Tetragramma YHVH), nome che qualifica il Dio del Sinai come il liberatore del suo popolo. Ecco l’opera di Dio nel passato che costituisce la fonte della speranza per il futuro di Israele e Isaia  precisa:”Ecco, io faccio una cosa nuova”. Per capire di che si tratta e a chi il profeta preannuncia un mondo nuovo, occorre rifarsi al contesto storico. Il deuteroIsaia, che qui stiamo leggendo, visse nel VI secolo a.C., durante l’esilio a Babilonia (dal 587 al 538 a.C.), periodo segnato da una prova terribile: deportanti a Babilonia da Nabucodonosor, re di Babilonia, che aveva sconfitto il piccolo regno di Giuda di cui Gerusalemme era la capitale, gli ebrei speravano un giorno di fuggire dalla Babilonia, ma esistevano serie difficoltà  perché bisognava attraversare il deserto della Siria, lungo centinaia di chilometri e in condizioni terribili per dei fuggiaschi. Il profeta ha quindi il compito difficile di ridare coraggio ai suoi contemporanei: lo fa in questo libro chiamato il libro della Consolazione di Israele, perché il capitolo 40 inizia così: “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio”. E quando dice: “il vostro Dio” richiama l’Alleanza mai spezzata perché  Dio non li ha abbandonati. In effetti, una delle formule dell’Alleanza era: “Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio” e ogni volta che echeggia l’espressione mio Dio o vostro Dio, il possessivo è un incoraggiante richiamo all’Alleanza e, al tempo stesso, una professione di fede. Isaia intende mantenere accesa la speranza degli esiliati ricordando che Dio non solo non li ha abbandonati, anzi al contrario prepara già il loro ritorno in patria. Non si vede ancora nulla, ma avverrà e perché si è certi? Perché Dio è fedele alla sua Alleanza e da quando ha scelto questo popolo non ha mai smesso di liberarlo e di mantenerlo in vita, attraverso tutte le vicissitudini della sua storia. L’ha liberato dal faraone; l’ha protetto lungo tutto il cammino, lo ha fatto passare attraverso il mare all’asciutto al momento dell’uscita dall’Egitto.La speranza di Israele poggia dunque sul suo passato: questo è il significato della parola “Memoriale”, costante memoria dell’opera di Dio che continua ancora oggi e da questo si trae la certezza che continuerà anche nel futuro. Passato, presente, futuro: Dio è sempre presente accanto al suo popolo. Questo è uno dei significati del nome di Dio: “Io sono”, cioè sono con voi in ogni circostanza. E proprio durante il difficile periodo dell’esilio, quando c’era il rischio di cedere alla disperazione, Isaia sviluppa una nuova metafora, quella del germoglio: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” Partendo dall’esperienza straordinaria di un minuscolo seme capace di diventare un grande albero, è facile capire come la parola “germoglio” sia diventata in Israele e oggi per noi simbolo di speranza ed è importante imparare a riconoscere i germogli del mondo nuovo, il Regno che Dio sta costruendo.

 

*Salmo responsoriale [125 (126)]

 Questo salmo fa eco alla prima lettura, dove il profeta Isaia annuncia il ritorno del popolo esiliato a Babilonia e canta questo miracolo così come gli ebrei avevano cantato il prodigio dell’uscita dall’Egitto. Questi gli eventi: nel 587 a.C. Nabucodonosor, re di Babilonia, aveva conquistato Gerusalemme e deportato la popolazione, ma, a sua volta, fu sconfitto da Ciro, re di Persia ben noto per i suoi successi. Le truppe di Nabucodonosor saccheggiavano, depredavano, stupravano, massacravano e devastavano deportando sistematicamente le popolazioni. Ciro, invece, adottò una politica completamente diversa: preferì governare su popoli prosperi e permise a tutte le popolazioni deportate di tornare nelle loro terre d’origine fornendo pure i mezzi per farlo. E così, conquistata Babilonia nel 539 a.C., già nel 538 permise agli ebrei di rientrare a Gerusalemme, concedendo loro anche aiuti economici e restituendo persino gli oggetti saccheggiati dal Tempio dai soldati di Nabucodonosor.

Nel salmo non si dice “Quando il re di Persia Ciro ristabilì la sorte di Sion” ma “quando il Signore ristabilì la sorte di Sion”, un modo per affermare che Dio rimane il Signore della storia che ne muove tutti i fili e pertanto non c’è nessun altro dio – ancora un cenno alla lotta contro l’idolatria. Questo salmo, scritto probabilmente molto tempo dopo il ritorno dall’esilio, evoca la gioia e l’emozione della liberazione e del ritorno. Quante volte durante l’esilio, si sognava questo momento! Quando si è realizzato, quasi non si osava crederci: “Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion ci sembrava di sognare…la bocca si riempì di sorriso, la nostra lingua di gioia”.  Ci si immagina persino che anche gli altri popoli siano stupiti da questo miracolo: “Allora si diceva tra le genti: “Il Signore ha fatto grandi cose per loro”. In questa frase emergono due elementi: un’infinita gratitudine per la gratuità della scelta di Dio e la consapevolezza del popolo eletto di essere stato scelto per il mondo: la sua vocazione è essere testimone dell’opera di Dio, consapevolezza maturata proprio durante l’esilio. Nel salmo, lo stupore per la scelta di Dio è espresso con i termini: “grandi cose” cioè l’opera di liberazione di Dio, in particolare la liberazione dall’Egitto. Parole come impresa, opera, grandi cose, meraviglie, che si trovano spesso nei salmi, sono sempre un richiamo all’Esodo. Qui, si aggiunge una nuova opera di liberazione di Dio: la fine dell’esilio vissuta dal popolo come una vera e propria risurrezione. Per esprimerlo, il salmista usa due immagini: I torrenti nel deserto: “Ristabilisci, Signore, la nostra sorte, come i torrenti nel Negheb”, deserto a sud di Gerusalemme, dove in primavera fioriscono miriadi di fiori. L’altra immagine è il seme: “chi semina nelle lacrime, mieterà nella gioia”. il grano seminato sembra marcire e morire… ma quando spuntano le spighe, è come una rinascita, immagine eloquente perché il ritorno degli esiliati significava una vera rinascita anche per la terra. Un’ultima osservazione: quando in questo salmo si canta il ritorno dall’esilio babilonese, esso era  già avvenuto da molto tempo, ma Israele non parla del passato solo per raccontarlo, bensì per comunicare un messaggio e un insegnamento per il futuro: questo ritorno alla vita, collocato storicamente,  diventa ragione per sperare in altre future risurrezioni e liberazioni. Ogni anno, durante la festa delle Capanne, in autunno, questo canto veniva intonato durante il pellegrinaggio a Gerusalemme. Mentre i pellegrini salgono, cantano la liberazione già avvenuta e pregano Dio di affrettare il giorno della liberazione definitiva, quando apparirà il Messia promesso. Esistono anche oggi molti luoghi di schiavitù, molti «Egitto» e «Babilonia». È a questo che si pensa quando si canta: “Ristabilisci, Signore, la nostra sorte come i torrenti nel Negheb” chiedendo la grazia di collaborare con tutte le nostre forze all’opera di liberazione inaugurata dal Messia per affrettare il giorno in cui l’intera umanità possa cantare: “Grandi cose ha fatto il Signore per noi”

 

*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi (3,8-14)

 San Paolo usa l’immagine della corsa e sappiamo quanto sia importante per ogni persona il traguardo e la voglia di raggiungerlo. Qui l’apostolo parla di sé stesso: “So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù in Cristo Gesù”. Per correre verso questa stessa meta e ottenere il premio promesso, occorre voltare le spalle a molte cose, come ha fatto san Paolo da quando si è sentito conquistato da Cristo. Il verbo greco che utilizza (katalambano) significa afferrare, catturare, prendere con forza ed esprime il modo con cui è stato trasformato completamente da persecutore dei cristiani in apostolo del vangelo (At.9) quando Cristo si è letteralmente impossessato di lui sulla via di Damasco. San Paolo presenta la sua fede cristiana come naturale continuazione della sua fede ebraica perché Cristo realizza pienamente le attese dell’Antico Testamento assicurandone la continuità con il Nuovo Testamento. Qui però insiste sulla novità che Gesù Cristo apporta: “Ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore”. La conoscenza di Cristo reca una novità radicale perché si diventa realmente una “nuova creatura”, come scrive nella seconda lettera ai Corinzi, che abbiamo letto domenica scorsa (2 Cor 5,17-21). Ora lo dice in un altro modo: “Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui”. In altre parole:  quel che prima ai mei occhi appariva importante, cioè un vantaggio e un privilegio , adesso li rifiuto del tutto. I vantaggi di cui parla erano l’orgoglio di appartenere al popolo d’Israele, la fede e l’incrollabile speranza di quel popolo, la pratica assidua e scrupolosa di tutti i comandamenti che egli chiama l’obbedienza alla legge di Mosè. Ma ormai Gesù Cristo ha preso tutto lo spazio nella sua vita ed egli  possiede il bene più grande, l’unica vera ricchezza al mondo, il vero tesoro dell’umana esistenza: conoscere Cristo. Conoscere nel linguaggio biblico non significa conoscenza intellettuale ma vivere nell’ intimità con qualcuno, amarlo e condividerne la vita. Paolo insiste su questo legame con Cristo perché nella comunità di Filippi alcuni cristiani di origine ebraica volevano imporre la circoncisione a tutti i cristiani prima del battesimo e questo creava grande divisione come abbiamo letto nella seconda lettura della seconda domenica di Quaresima. Tale questione fu risolta dagli Apostoli durante il primo Concilio a Gerusalemme affermando che nella Nuova Alleanza, la Legge di Mosè è stata superata e il battesimo nel nome di Gesù ci rende figli di Dio per cui la circoncisione non è più indispensabile per far parte del popolo della Nuova Alleanza. Paolo inoltre parla qui di “comunione” alle sofferenze di Cristo, di conformazione alla sua morte nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti, innestati in lui per seguire il suo stesso cammino: “comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte”. 

Nota: San Paolo c’invita a vivere come Cristo e ad accettare tutti i rischi dell’annuncio del Vangelo, ma riusciamo a dire, come lui, che l’unico bene per noi è la conoscenza di Cristo e tutto il resto non è che spazzatura? La parola spazzatura che qui è usata traduce il termine greco skubala che ha un significato molto forte traducibile in più modi: come rifiuto, scarto, escrementi secchi e sporcizia, residuo di cibo marcio e avariato. Insomma un rifiuto totale di tutto, quando si conosce Cristo e da lui si è posseduti.

 

*Dal Vangelo secondo Giovanni (8, 1-11)

Siamo già nel contesto della Passione e la prima riga menziona il Monte degli Ulivi. Dato che gli evangelisti ne parlano solo negli ultimi giorni della vita pubblica di Gesù e i farisei vogliono qui tendergli un tranello, questo fa capire che ormai si è deciso di processarlo e condannarlo. Per questo ogni dettaglio di questo testo va esaminato attentamente perché non si tratta di un semplice episodio della vita di Gesù, ma del cuore stesso della sua missione.  All’inizio Gesù è seduto come un maestro: “tutto il popolo andava da lui ed egli sedette e si mise a insegnare loro”. Tuttavia la domanda degli scribi e dei farisei lo mette subito nella posizione di giudice e Gesù è l’unico personaggio seduto. Questo dettaglio ci aiuta a capire che il tema del giudizio, in san Giovanni, è centrale: l’episodio della donna adultera attua ciò che scrive all’inizio del suo vangelo: “Dio ha mandato il Figlio nel mondo, non per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17). Siamo davanti a un finto processo perché la questione è chiara: la donna adultera è stata colta in flagrante e ci sono testimoni; la Legge di Mosè condanna l’adulterio, come uno dei comandamenti dati da Dio sul Sinai (Non commetterai adulterio, Es 20,14; Dt 5,18); il Levitico prescrive la pena di morte: “Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno essere messi a morte” (Lv 20,10). Gli scribi e i farisei, che interrogano Gesù, sono come sempre molto attaccati alla Legge di Mosè, ma dimenticano di aggiungere che la Legge prevede la condanna per entrambi i colpevoli, l’uomo e la donna adultera. Il fatto che pur sapendolo nessuno lo ricorda, ciò dimostra che la vera questione non è l’osservanza della Legge, ma ben altro, e il testo lo dice chiaramente: “Dicevano questo per metterlo alla prova e per aver motivo di accusarlo”. E’ dunque una domanda-trappola e di che cosa vogliono accusare Gesù? Gesù non può approvare la lapidazione perché smentirebbe tutta la predicazione sulla misericordia; se però pubblicamente difende la donna, potrà essere accusato di incitare il popolo a disobbedire alla Legge. Nel Vangelo di Giovanni (capitolo 5), lo abbiamo già visto dire al paralitico guarito di prendere il suo lettuccio, un atto proibito di sabato. Quel giorno non riuscirono a condannarlo, ma questa volta la disobbedienza sarebbe stata pubblica. In fondo, nonostante l’apparente rispetto con cui lo chiamano “Maestro”, Gesù è in pericolo tanto quanto la donna adultera: entrambi rischiano la morte. Gesù non risponde subito: “Si chinò e si mise a scrivere col dito per terra”. Con il suo silenzio, silenzio costruttivo, invita ciascuno a riflettere senza umiliare nessuno e lui, incarnazione della misericordia, non mette in difficoltà né gli scribi e i farisei, né la donna adultera: Desidera che ciascuno faccia un passo avanti cercando di rivelare ai farisei e agli scribi il vero volto del Dio della misericordia. Quando risponde lo fa quasi ponendo  una domanda: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. A questo punto tutti se ne vanno, “uno per uno, cominciando dai più anziani». Niente di sorprendente: i più anziani appaiono quelli più pronti ad ascoltare l’appello alla misericordia. Chi sa quante volte hanno sperimentato su di loro la misericordia di Dio… Quante volte hanno letto, cantato, meditato il versetto: «Dio di tenerezza e di pietà, lento all’ira e ricco di amore» (Es 34,6. Quante volte hanno recitato il Salmo 50(51): «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia, nella tua grande bontà cancella il mio peccato”. Ora possono capire che la loro mancanza di misericordia è una colpa, una mancanza di fedeltà al Dio dell’Alleanza. La frase di Gesù potrebbe averli portati a questa riflessione: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra”. Essere il primo a scagliare la pietra era un’espressione nota a tutti nel contesto della lotta contro l’idolatria. La Legge non diceva che doveva essere il testimone dell’adulterio a lanciare la prima pietra; ma lo diceva espressamente per il caso dell’idolatria (Dt 13,9-10; Dt 17,7). Così la risposta di Gesù può essere interpretata come: «Questa donna è colpevole di adulterio, nel senso letterale del termine, è vero; ma voi non state forse commettendo un adulterio ancora più grave, un’infedeltà al Dio dell’Alleanza? I profeti spesso parlano dell’idolatria in termini di adulterio.  Alla fine, restano solo Gesù e la donna: è il faccia a faccia, come dice sant’Agostino, tra la miseria e la misericordia. Per lei, il Verbo compie ancora una volta la sua missione, dicendo la parola di riconciliazione. Isaia, parlando del servo di Dio, l’aveva annunciato: «Non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino fumigante…» (Is 42,3). Ma questo non è buonismo perché Gesù dice chiaramente alla donna di non peccare più, il peccato rimane condannato, ma solamente il perdono può permettere al peccatore di rinascere alla speranza.

Nota: Cosa scrive Gesù per terra? L’evangelista non lo specifica, e questo ha dato origine a diverse interpretazioni: Alcuni Padri della Chiesa, come Sant’Agostino, ipotizzano che Gesù stesse scrivendo i peccati nascosti di coloro che accusavano la donna. Per questo, uno dopo l’altro, essi se ne vanno via; Rimanda alla Legge mosaica: secondo un’interpretazione rabbinica, potrebbe riferirsi a Geremia 17,13: “Quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato il Signore, sorgente di acqua viva.” Se fosse così, Gesù starebbe indicando che gli accusatori stessi sono colpevoli di infedeltà a Dio. Potrebbe essere un atto simbolico di distacco; scrivere nella polvere potrebbe simboleggiare che le accuse contro la donna sono effimere, destinate a svanire; potrebbe indicare un richiamo alla pazienza e alla riflessione; infine potrebbe essere un modo per non rispondere subito, spingendo gli accusatori a riflettere sulla loro ipocrisia.

Il gesto di Gesù invita a spostare l’attenzione non sulla colpa degli altri, ma sulla propria coscienza. Nessuno può condannare un altro senza prima esaminare se stesso. Questo episodio ci insegna che la misericordia di Dio supera la condanna umana, e che il perdono è sempre possibile quando c’è un cuore disposto a cambiare. 

La prima lettura e il Vangelo di questa domenica hanno lo stesso messaggio: dimentica il passato, non rimanere attaccato a esso… nulla, nemmeno i ricordi, deve impedirti di andare avanti. Nella prima lettura, Isaia parla al popolo in esilio… nel Vangelo, Gesù parla a una donna colta in flagrante adulterio: apparentemente, due casi molto diversi, ma il messaggio è lo stesso: volgi lo sguardo con decisione verso il futuro, non pensare più al passato.

+Giovanni D’Ercole

Lunedì, 31 Marzo 2025 12:13

Buoncostume adultera, Gesù imputato

Martedì, 25 Marzo 2025 12:26

4a Domenica di Quaresima (anno C)

Oggi 25 marzo, siamo nel cuore del Giubileo contemplando il mistero dell’Annunciazione e Incarnazione del Verbo. Era prima una festa prevalentemente mariana, come appare tuttora in tante tradizioni religiose popolari. Con la riforma liturgica è stata evidenziata come solennità cristologica importante che c’immerge nel cuore dell’Incarnazione del Verbo eterno: il Dio che si fa uomo per la nostra salvezza. Resta sempre forte la presenza di Maria – L’Annunziata - come colei che con il suo “sì” ha reso possibile il mistero della nostra salvezza, il prodigio appunto dell’Incarnazione; e invita ognuno di noi a unire il nostro “sì” al suo, consapevoli che, soltanto nell’umiltà, il cuore umano è capace di rispondere alla chiamata di Dio.

 

IV Domenica di Quaresima anno C (30 Marzo 2025) 

 

*Prima Lettura Dal libro di Giosuè (5, 9a 10- 12)

Mosè non è entrato nella terra promessa perché è morto sul monte Nebo, in corrispondenza del Mar Morto, sul lato che oggi corrisponde alla riva giordana. Non è quindi lui che ha introdotto il popolo d’Israele in Palestina, ma il suo servitore e successore Giosuè. Tutto il libro di Giosuè racconta l’ingresso del popolo nella terra promessa, a partire dalla traversata del Giordano dato che le tribù d’Israele sono entrate in Palestina da est. L’obiettivo di chi ha scritto questo libro è abbastanza chiaro: se l’autore ricorda l’opera di Dio a favore d’Israele è per esortare il popolo alla fedeltà. Nelle poche righe del testo odierno si nasconde un vero e proprio sermone che si articola in due insegnamenti: in primo luogo, non bisogna mai dimenticare che Dio ha liberato il popolo dall’Egitto; e in secondo luogo, se l’ha liberato è per dargli questa terra come aveva promesso ai nostri padri. Tutto riceviamo da Dio, ma quando lo dimentichiamo, ci mettiamo da soli in situazioni senza uscita. Per tale ragione il testo fa continui paralleli tra l’uscita dall’Egitto, la vita nel deserto e l’ingresso in Canaan. Ad esempio, nel capitolo 3 del libro di Giosuè, la traversata del Giordano è raccontata in modo solenne come la ripetizione del miracolo del Mar Rosso. Nel testo di questa domenica, l’autore insiste sulla Pasqua: “celebrarono la Pasqua, al quattordici del mese, alla sera”. Come la celebrazione della Pasqua aveva segnato l’uscita dall’Egitto e il miracolo del Mar Rosso, anche ora la Pasqua segue l’ingresso nella terra promessa e il miracolo del Giordano. Si tratta di paralleli intenzionali con i quali l’autore vuol dire che, dall’inizio alla fine di questa incredibile avventura, è lo stesso Dio che agisce per liberare il suo popolo, in vista della terra promessa. Il libro di Giosuè viene immediatamente dopo il Deuteronomio. “Giosuè” non è il suo nome, ma il soprannome datogli da Mosè: all’inizio, si chiamava semplicemente “Hoshéa”, “Osea” che significa “Egli salva” e Il nuovo nome, “Giosuè” (“Yeoshoua”) contiene il nome di Dio a indicare più esplicitamente che solo Dio salva. Giosuè del resto ha ben compreso che lui da solo non può liberare il suo popolo. La seconda parte dell’odierno testo è sorprendente perché all’apparenza si parla solo di cibo, ma c’è ben altro: “Il giorno dopo la Pasqua, mangiarono i prodotti di quella terra: azzimi e frumento abbrustolito. E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna: quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan.” Questo cambiamento di cibo fa pensare a uno svezzamento: si volta pagina, inizia una nuova vita e finisce il periodo del deserto con le sue difficoltà, recriminazioni e anche soluzioni miracolose. Ora Israele, arrivato nella terra donata da Dio, non sarà più nomade, ma popolo sedentario di agricoltori nutrendosi dei prodotti del suolo; un popolo adulto e responsabile della propria sussistenza. Avendo i mezzi per provvedere da solo ai propri bisogni, Dio non si sostituisce a lui perché nutre grande rispetto per la sua libertà. Questo popolo però non dimenticherà la manna e ne conserverà la lezione: come il Signore ha provveduto nel deserto, così Israele deve diventare sollecito verso chi per varie ragioni è in difficoltà. E’ detto chiaramente nel Libro del Deuteronomio: Dio ci ha insegnato a nutrire i poveri per aver fatto scendere il pane dal cielo per i figli d’Israele e adesso a noi tocca fare altrettanto (cf Dt.34, 6). Infine, la traversata del Giordano e l’ingresso nella terra promessa, terra della libertà, aiuta a meglio comprendere il battesimo di Gesù nel Giordano che diventerà l segno della nuova entrata nella vera terra della libertà. 

 

*Salmo responsoriale (33 (34) 2-3, 4-5, 6-7)

In questo salmo, come in altri, ogni versetto è costruito in due righe in dialogo e l’ideale sarebbe cantarlo a due cori alternati, riga per riga. E’ composto da 22 versetti corrispondenti alle 22 lettere dell’alfabeto ebraico, in poesia chiamato acrostico: ogni lettera dell’alfabeto è posta verticalmente davanti a ogni versetto, che inizia con la lettera corrispondente nel margine. Questo procedimento, abbastanza frequente nei salmi, indica che ci troviamo di fronte a un salmo di ringraziamento per l’Alleanza. Potremmo dire che è la risposta alla prima lettura tratta dal libro di Giosuè, dove pur raccontando una storia, in realtà c’è un invito a rendere grazie per tutto ciò che Dio ha compiuto per Israele.  Il linguaggio del ringraziamento è onnipresente, come si nota già nei primi versetti: “Benedirò il Signore in ogni tempo… sulla mia bocca sempre la sua lode…magnificate con me il Signore… esaltiamo insieme il suo nome”. A parlare è Israele, testimone dell’opera di Dio: un Dio che risponde, libera, ascolta, salva: “Ho cercato il Signore: mi ha risposto; da ogni paura mi ha liberato… questo povero grida e il Signore lo ascolta: lo salva da tutte le sue angosce.”  Quest’attenzione di Dio emerge nel passo del capitolo 3 dell’Esodo, che era la prima lettura della scorsa domenica, terza di Quaresima cioè l’episodio del roveto ardente: “Ho visto la miseria del mio popolo… il suo grido è giunto fino a me… conosco le sue sofferenze”. Israele è il povero liberato della misericordia di Dio, come leggiamo in questo salmo e che ha scoperto la sua duplice missione: anzitutto insegnare a tutti gli umili la fede, intesa come dialogo tra Dio e l’uomo che grida la sua angoscia e Dio lo ascolta, lo libera e viene in suo aiuto; in secondo luogo essere disposti a collaborare con l’opera di Dio. Come Mosè e Giosuè sono stati strumenti di Dio per liberare il suo popolo e introdurlo nella terra promessa, così Israele sarà l’orecchio attento ai poveri e lo strumento della sollecitudine di Dio per loro: “i poveri ascoltino e si rallegrino”. Israele deve far risuonare lungo i secoli questo grido, che è una polifonia intrecciata di sofferenza, lode e speranza per alleviare ogni forma di povertà. Occorre però essere poveri nel cuore con il realismo di riconoscersi piccoli e invocare Dio in aiuto nella certezza che ci accompagna in ogni circostanz per aiutarci ad affrontare gli ostacoli della vita. 

 

*Seconda Lettura dalla seconda Lettera di san Paolo ai Corinti (5, 17-21)

Si può comprendere questo testo in due modi e tutto ruota attorno alla frase centrale: “non imputando (Dio) agli uomini le loro colpe” (v.19) che può avere due significati. Il primo: fin dall’inizio del mondo, Dio ha tenuto il conto dei peccati degli uomini, ma, nella sua grande misericordia, ha accettato di cancellarli grazie al sacrificio di Gesù Cristo e questa è la cosiddetta “sostituzione”, cioè Gesù si è fatto carico al nostro posto di un debito troppo grande per noi. Secondo: Dio non ha mai contato i peccati degli uomini e Cristo è venuto nel mondo per mostrarci che Dio è da sempre amore e perdono, come leggiamo nel salmo 102 (103): “Dio allontana da noi i nostri peccati”. L’intero cammino della rivelazione biblica ci fa passare dalla prima ipotesi alla seconda e, per capire meglio, occorre rispondere a queste tre domande: Dio tiene il conto dei nostri peccati? Si può parlare di «sostituzione» nella morte di Cristo? Se Dio non fa calcoli con noi e se non possiamo parlare di «sostituzione», come interpretare questo testo di Paolo?

Primo: Dio tiene il conto dei nostri peccati? All’inizio della storia dell’Alleanza, sicuramente Israele  ne era convinto e si capisce perché. L’uomo non può scoprire Dio se Dio stesso non gli si rivela. Ad Abramo Dio non parla di peccato, ma di alleanza, di promessa, di benedizione, di discendenza, e mai appare la parola “merito”. “Abramo ebbe fede nel Signore e ciò gli fu accreditato come giustizia” (Gen 15,6), dunque la fede è l’unica cosa che conta. Dio non tiene i conti delle nostre azioni, il che però non significa che possiamo fare qualsiasi cosa, perché siamo responsabili della costruzione del Regno. A Mosè il Signore si rivela come misericordioso e clemente, lento all’ira e ricco di amore (cf. Es 34,6). Davide, proprio in occasione del suo peccato, capisce che il perdono di Dio precede persino il nostro pentimento ed Isaia osserva  che Dio ci sorprende perché i suoi pensieri non sono i nostri pensieri: Egli è solo perdono per i peccatori (cf Is 55,6-8). Nell’Antico Testamento il popolo eletto sapeva già che Dio è tenerezza e perdono e l’ha chiamato Padre molto prima di noi. La parabola di Giona, ad esempio, è stata scritta proprio per mostrare che Dio si prende cura persino dei Niniviti, nemici storici di Israele.

Secondo: Si può parlare di «sostituzione» nella morte di Cristo? Se Dio non tiene il conto dei peccati e quindi non abbiamo un debito da pagare, non c’è bisogno che Gesù si sostituisca a noi. Inoltre, i testi del Nuovo Testamento parlano di solidarietà, mai di sostituzione e Gesù non agisce al nostro posto e non è nemmeno il nostro rappresentante. Egli è il «primogenito» come dice Paolo, che ci apre la strada e cammina davanti a noi. Mescolato con i peccatori ha chiesto il Battesimo da Giovanni e sulla croce ha accettato di dare la vita sulla croce per noi. Si è avvicinato a noi affinché noi potessimo avvicinarci a Lui.

Terzo: Come va quindi interpretato questo testo di Paolo? Anzitutto, Dio non ha mai tenuto il conto dei peccati degli uomini e Cristo è venuto nel mondo per farcelo comprendere. Quando a Pilato dice: “Sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37), afferma che la sua missione è rivelare il volto di Dio che è da sempre amore e perdono. E quando Paolo scrive: “… non imputando (Dio) agli uomini le loro colpe” intende chiarire che Dio cancella le nostre false idee su di Lui, quelle che lo dipingono come un contabile.  Gesù è venuto per mostrare il volto di Dio Amore, ma è stato rifiutato e per questo ha accettato di morire. Era diventato troppo scomodo per le autorità religiose del tempo, che pensavano di sapere meglio di lui chi fosse Dio ed è dunque morto in croce a causa dell’orgoglio umano che si è trasformato in odio implacabile. A Filippo nel cenacolo disse: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9) e pur in mezzo all’umiliazione e all’odio ha proferito solamente parole di perdono. Si comprende a questo punto la frase con cui si chiude questo brano: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (v. 21). Sul volto di Cristo crocifisso contempliamo fino a che punto arriva l’orrore del nostro peccato, ma anche fino a che punto giunge il perdono di Dio e da questa contemplazione può nascere la nostra conversione: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto”, testo del profeta  Zaccaria (12,10), che troviamo nel IV vangelo (Gv 19,37). Da qui nasce per noi la vocazione di ambasciatori dell’amore di Dio: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (v.20).

 

*Dal Vangelo secondo Luca (15, 1-3. 11-32)

La chiave interpretativa di questo testo si trova proprio nelle prime parole. Scrive san Luca che “si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo” mentre “i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. I primi sono pubblici peccatori da evitare, mentre gli altri sono persone oneste, che cercano di fare ciò che piace a Dio. In verità i farisei erano in genere persone rette, pie e fedeli alla Legge di Mosè, scioccate però dal comportamento di Gesù che sembra non capire con chi ha a che fare se persino mangia e si mescola con i peccatori. Dio è il Santo e per loro c’era un’incompatibilità totale tra Dio e i peccatori e pertanto Gesù, se era veramente da Dio, doveva evitare di frequentarli. Questa parabola intende aiutare a scoprire il vero volto di Dio che è Padre. In effetti, il personaggio principale di questa storia è Dio stesso, il padre che ha due tipi di figli, entrambi con almeno un punto in comune, cioè il modo di concepire  la relazione con il padre in termini di meriti e contabilità anche se si comportano in maniera differente: il minore l’offende gravemente, a differenza del maggiore, e alla fine però riconosce il suo peccato: “Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”; il maggiore  invece si vanta di aver sempre obbedito si lamenta però di non aver mai ricevuto nemmeno un capretto come meriterebbe. Il Padre è fuori da questi calcoli e non vuole sentir parlare di meriti perché ama i suoi figli e in questa relazione non c’è spazio per il calcolo della contabilità. Al minore, che aveva preteso “la mia parte di patrimonio che mi spetta”, si era spinto ben oltre la richiesta, come alla fine dirà a entrambi: tutto ciò che è mio è vostro. Al figlio prodigo che torna non lascia nemmeno il tempo di esprimere un qualche pentimento, non esige spiegazioni; al contrario vuole subito fare festa, perché “questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato”. Chiara la lezione: con Dio non è questione di calcoli, meriti, anche se facciamo fatica a debellare questa mentalità e tutta la Bibbia, fin dall’Antico Testamento, mostra la lenta e paziente pedagogia con cui Dio cerca di farsi conoscere come Padre, pronto a far festa ogni volta che ritorniamo da lui.

Due piccoli commenti per concludere:

1. Nella prima lettura, tratta dal libro di Giosuè, Israele viene nutrito dalla manna durante la traversata del deserto, mentre qui non c’è manna per il figlio che rifiuta di vivere con suo padre e si ritrova in un deserto esistenziale, perché si è tagliato fuori da solo. 

2. Circa invece il legame con la parabola della pecora smarrita, che si trova sempre in questo capitolo di Luca, si osserva che il pastore va a cercare la pecora smarrita e la riporta indietro mettendola sulle spalle, il padre invece non impedisce al figlio di partire e non lo costringe a tornare perché rispetta fino in fondo la sua libertà.

+Giovanni D’Ercole

Lunedì, 17 Marzo 2025 23:36

3a Domenica di Quaresima (C)

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!

3a Domenica di Quaresima (anno C)  [23 Marzo 2025]

 

*Prima Lettura dal libro dell’Esodo (3, 1-8a.10.13-15)

Questo testo ha un’importanza fondamentale per la fede di Israele e anche per noi perché per la prima volta l’umanità scopre di essere amata da Dio, un Dio che vede, sente e conosce le nostre sofferenze. Mai l’uomo avrebbe potuto giungere a tanto se Dio stesso non avesse deciso di rivelarsi e, proprio a partire dalla sua autonoma rivelazione, è nata la fede d’Israele e, di conseguenza, anche la nostra. Dobbiamo cogliere la forza di questo testo biblico che purtroppo la traduzione liturgica rende debolmente. Quando leggiamo: “ho osservato la miseria del mio popolo”, il testo ebraico è molto più insistente per cui sarebbe più corretto tradurre così, sentendo la voce Dio: “davvero ho visto, sì, ho visto” la miseria del mio popolo in Egitto. Una miseria reale come si evince dalla storia del popolo ebreo emigrato secoli prima a causa di una carestia, e, mentre all’inizio le cose andavano bene, poi essendo cresciuto il loro numero, proprio quando nacque Mosè gli Egiziani cominciarono a preoccuparsi. Trattennero gli Ebrei come manodopera a basso costo, ma vollero impedirne la crescita demografica facendo uccidere ogni neonato maschio dalle levatrici. Mosè si salvò perché adottato dalla figlia del Faraone e crebbe alla sua corte non potendo però dimenticare le sue origini, continuamente diviso tra la sua famiglia adottiva e i suoi fratelli di sangue, ridotti all’impotenza e alla rivolta. Finché un giorno uccise un egiziano che usava violenza verso un ebreo, ma il giorno dopo, intervenendo tra due ebrei che litigavano gli dissero di non intromettersi e questo voleva dire che non gli riconoscevano la responsabilità di guidare una ribellione contro il Faraone mentre il Faraone aveva deciso di punirlo per l’omicidio dell’egiziano. Mosè si vide costretto, per evitare la vendetta, a fuggire nel deserto del Sinai, dove prese come sposa una madianita, Sippora, figlia di Ietro e l’odierno testo parte da qui. Mentre pascolava il gregge del suocero, un giorno arrivò oltre il deserto al monte di Dio, l’Oreb dove incontrò Dio che gli affidò la grande missione. Attenzione! Mosè sentiva la miseria dei suoi fratelli e aveva rischiato la vita per loro uccidendo un egiziano, ma dovette riconoscere la sua impotenza per cui era fuggito emarginato dai suoi fratelli di sangue che non riconoscevano a lui nessuna autorità. E’ dunque un uomo umanamente fallito che si avvicina a uno strano roveto ardente e da qui la sua storia cambia totalmente. Chiudo con due riflessioni. La prima: Mosè incontra il Dio trascendente e al tempo stesso il Dio vicino. Trascendente perché ci si può avvicinare solo con timore e rispetto, ma anche il Dio vicino, che vede la miseria del suo popolo e suscita un liberatore. Cogliamo la santità di Dio e il profondo rispetto dell’uomo di fronte alla sua presenza in queste espressioni: “l'angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto”. Per indicare la presenza di Dio si usa la perifrasi: “l’Angelo del Signore” che è un modo rispettoso di parlare di Dio, come pure le parole: “Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo”; e infine “Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio”. Dio però si rivela come il Dio vicino all’uomo, colui che si china sulla sua sofferenza. La seconda riflessione concerne il modo come Dio interviene: vede la sofferenza degli uomini, agisce e invia Mosè. Dio chiama un collaboratore, ma perché la liberazione si compia, colui che viene chiamato deve accettare di rispondere, e colui che soffre deve accettare di essere salvato. -

 

*Salmo responsoriale (102 (103), 1-2, 3-4, 6-7, 8.11)

Nella prima lettura, racconto del roveto ardente tratto dal libro dell’Esodo capitolo 3, Dio rivela il suo Nome: “Io sono” … cioè “con voi” nel profondo delle vostre sofferenze. Quasi facendo eco, il salmo responsoriale proclama: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all'ira e grande nell'amore”. Le due formulazioni del Mistero di Dio: “Io sono” e “Misericordioso e pietoso” si completano reciprocamente. Nell’episodio del roveto ardente l’espressione “Io sono” o “Io sono colui che sono” non va presa come la definizione di un concetto filosofico. La ripetizione del verbo “sono” è una forma idiomatica della lingua ebraica che serve a esprimere intensità e Dio comincia richiamando la lunga storia dell’Alleanza con i Padri: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” per esprimere la sua fedeltà con il suo popolo attraverso i secoli. Poi volle manifestare la sua compassione per Israele umiliato, ridotto in schiavitù in Egitto e solo allora rivela il suo Nome “Io sono”. La prima scoperta di Mosè sul Sinai fu proprio l’intensa presenza di Dio nel cuore della disperazione degli uomini: “Ho visto – diceva Dio – sì, ho visto la miseria del mio popolo in Egitto, e ho udito i suoi gridi sotto le percosse dei sorveglianti. Sì, conosco le sue sofferenze. Sono disceso per liberarlo…” Mosè conservò in maniera profonda tale memoria da trarne l’incredibile energia che lo trasformò da uomo solo, esiliato e rifiutato da tutti, nel condottiero instancabile e liberatore del suo popolo. Quando però Israele ricorda questa inedita avventura, sa benissimo che il suo primo liberatore è Dio, mentre Mosè ne è soltanto lo strumento. L’“Eccomi” di Mosè (come quello di Abramo, e di tanti altri in seguito) è la risposta che permette a Dio di realizzare la liberazione dell’umanità. E, d’ora in poi, quando si dice “”Il Signore” – traduzione delle quattro lettere (YHVH) del nome di Dio – si evoca la presenza liberatrice di Dio. Per meglio comprendere il mistero della presenza di Dio occorre tornare al racconto del roveto ardente: il roveto ardeva per il fuoco, ma non si consumava (cf Es 3,2). Dio si rivela in due modi: attraverso questa visione come attraverso la parola che proclama il suo Nome. Di fronte alla fiamma che arde un roveto senza consumarlo, Mosè è invitato a comprendere che Dio, paragonabile a un fuoco, è nel mezzo del suo popolo (il roveto) come presenza che non si consuma e non distrugge il popolo; Mosè si velò il volto e comprese che non bisogna aver paura. Così avvenne la vocazione d’Israele, luogo scelto dal Signore per manifestare la sua presenza e, da allora in poi, il popolo eletto testimonierà che Dio è tra gli uomini e non c’è nulla da temere.  Lo proclama il salmo responsoriale: “Misericordioso e pietoso è il Signore”, cioè tenerezza e pietà riprendendo un’altra rivelazione di Dio a Mosè (Es 34,6) e le due si fondono in un’unica verità. Il salmo continua: “Il Signore compie cose giuste, difende i diritti di tutti gli oppressi. Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie, le sue opere ai figli d'Israele”. Dio è lo stesso da sempre a per sempre: è in mezzo a noi, fiamma, fuoco di tenerezza e pietà e Israele è chiamato a testimoniare questo nel mondo che ha bisogno di tale messaggio perché soffre se non vi arde tale fuoco. Da qui nasce la predicazione dei profeti che sempre pongono in luce due aspetti della vocazione di Israele: Proclamare la propria fede rivelando la verità di cui si è portatori ed agire a immagine del proprio Signore, operando cioè nella giustizia a difesa degli oppressi. Tutti i profeti lottarono contro l’idolatria perché un popolo che ha sperimentato la presenza del Dio che vede le sue sofferenze non può riporre fiducia in idoli di legno o di pietra e al tempo stesso deve difendere i diritti degli oppressi, come dice Isaia: “Il digiuno che mi piace…è condividere il tuo pane con chi ha fame, accogliere in casa i poveri senzatetto, vestire chi trovi nudo, non voltare le spalle al tuo simile” (Is 58,6-7). 

 

*Seconda lettura dalla Prima Lettera di san Paolo ai Corinzi (10, 1-6.10-12)

Per mettere in guardia la comunità di Corinto, essendo importante quanto sta per dire, Paolo inizia così: “Non voglio che ignoriate, fratelli”, ricorda poi ciò che è accaduto durante l’uscita dall’Egitto e termina con “quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere”, cioè non sopravvalutatevi dato che nessuno è al riparo dalla tentazione. Nei primi capitoli della lettera l’Apostolo ha posto in guardia i cristiani di Corinto dai tanti rischi di corruzione e immoralità esistenti, invitando ad essere umili. Propone loro una rilettura dell’intera storia del popolo d’Israele durante l’Esodo: storia dove non sono mancati i doni di Dio, ma emerge sempre la volubilità dell’uomo. Dio promise a Mosè di essere il Dio fedele, presente al suo popolo nel difficile cammino verso la libertà, attraverso il deserto del Sinai, ma in cambio in molte occasioni il popolo ha tradito la sua Alleanza. L’Apostolo ripercorre le tappe narrate nel libro dell’Esodo, fin dalla partenza dall’Egitto prima ancora del passaggio del Mar Rosso, quando il Signore stesso aveva preso in mano la guida delle operazioni marciando alla loro testa di giorno in una colonna di nube, per indicar loro la via e di notte con una colonna di fuoco (cf Es 13,21-22). Fin dal primo accampamento, però, il popolo vedendo gli Egiziani alle spalle ebbe paura e si ribellò contro Mosè: “Forse perché in Egitto non c’erano tombe, ci hai portati a morire nel deserto? Che cosa ci hai fatto, facendoci uscire dall’Egitto? … Lasciaci stare, vogliamo servire gli Egiziani. Per noi è meglio servire gli Egiziani che morire nel deserto!”» (cf Es 14,10-11). E questo si ripeterà a ogni difficoltà perché il cammino della libertà è pieno di ostacoli e costante la tentazione di ricadere nella vecchia schiavitù. Paolo trasmette ai Corinzi questo messaggio: Cristo vi ha liberati, spesso però siete tentati di ricadere nei vecchi errori e non vi rendete conto che questi comportamenti vi rendono schiavi. Il cammino di Cristo vi sembra difficile, ma fidatevi di lui: solo lui è il vero liberatore. Anche nel passaggio del Mar Rosso, in una situazione umanamente disperata, Dio intervenne (cf Es 14,19) e il popolo poté attraversarlo perché le acque si aprirono per lasciarlo passare: «Il Signore durante tutta la notte sospinse il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero» (Es 14,21). Le prove continueranno e, in molte occasioni, gli Israeliti torneranno a rimpiangere la sicurezza della schiavitù in Egitto. Si lamentano e a ribellarno invece di avere fiducia pur sapendo che Dio intervene sempre. L’episodio che meglio evidenzia questa crisi è quando nel deserto il popolo iniziò a soffrire realmente la sete e cominciò a protestare accusando Mosè e, attraverso di lui, Dio stesso: “Perché ci hai fatti salire dall’Egitto? Per farci morire di sete, noi, i nostri figli e il nostro bestiame?” (Es 17,3). Fu allora che Mosè colpì la Roccia e ne sgorgò acqua e diede a quel luogo il nome di Massa e Meriba, che significa “Prova e Contesa”, perché  i figli d’Israele avevano contestato il Signore (Es 17,7). I problemi dei Corinzi, ovviamente, non sono gli stessi, ma esistono altre “Egitto” e altre forme schiavitù: per questi nuovi cristiani ci sono delle scelte da compiere in nome del loro battesimo, ci sono comportamenti che non si possono più mantenere. E queste scelte diventano talora dolorose. Pensiamo alle esigenze del catecumenato che comportavano vere rinunce a certi comportamenti, a certe relazioni e talvolta persino a un mestiere; rinunce che si possono accettare soltanto quando si pone tutta la fiducia in Gesù Cristo. Nella società mista e particolarmente permissiva di Corinto, mantenere un comportamento cristiano richiedeva coraggio, ma sottolinea Paolo, ciò che sembra follia agli uomini è vera saggezza agli occhi di Dio. Non è un caso che, durante la Quaresima, la Chiesa c’invita a meditare questo testo di Paolo, che ricorda quando dobbiamo essere esigenti con noi stessi per non cadere nelle vecchie schiavitù, e invece quanta rinnovata fiducia va posta in Dio sempre e in ogni occasione.

 

*Dal Vangelo secondo san Luca (13, 1-9)

 Nel vangelo di questa domenica troviamo il racconto di due fatti di cronaca nera, il commento di Gesù con la parabola del fico e il loro accostamento sorprende, anche se sicuramente l’evangelista ce lo propone intenzionalmente. Pertanto è proprio la parabola a poterci aiutare a comprendere il senso di che cosa Gesù vuol dire sui due fatti di cronaca.

Il primo concerne un massacro di pellegrini galilei venuti a Gerusalemme per offrire nel Tempio un sacrificio. Sono eventi che all’epoca non erano inusuali dato che era nota la crudeltà di Pilato e spesso i pellegrini erano accusati di essere oppositori del potere romano.  In verità la maggioranza del popolo ebreo mal tollerava l’occupazione dei romani e proprio dalla Galilea, all’epoca della nascita di Gesù, era partita la rivolta di Giuda il Galileo. Il secondo fatto di cronaca, il crollo della torre di Siloe con 18 vittime, era una tragedia come tante. Dalle parole di Gesù possiamo intuire la domanda che i discepoli avevano sulle labbra e che spesso sentiamo ripetere anche oggi: “Che hanno fatto di male per meritare questo castigo divino? È la grande domanda sulla sofferenza che fino ad a oggi è un problema irrisolto. Nella Bibbia, il libro di Giobbe pone il problema nel modo più drammatico e i tre amici – Elifaz, Bildad e Zofar – cercano di spiegare la sua sofferenza attraverso il principio della giustizia retributiva, secondo cui la sofferenza è una punizione per il peccato e quindi Giobbe deve aver commesso qualche colpa nascosta che giustifica le sue afflizioni.  Tuttavia, Giobbe si dichiara innocente e rifiuta queste spiegazioni. Alla fine del libro, Dio interviene e rimprovera gli amici di Giobbe per aver parlato in modo scorretto di Lui, rapprovando invece la sincerità di Giobbe nella sua ricerca di risposte. Complesso è il tema della sofferenza e Dio, che pur riconosce inefficaci tutti i tentativi umani d’interpretare il dolore perché il controllo degli eventi sfugge all’intelligenza dell’uomo, invita l’uomo a mantenere la fiducia in Dio in ogni difficoltà anche la più drammatica. Di fronte all’orrore del massacro dei Galilei e del crollo della torre di Siloe, Gesù è categorico: non c’è legame diretto tra la sofferenza e il peccato per cui quei galilei non erano più peccatori degli altri e né le diciotto persone schiacciate dalla torre di Siloe erano più colpevoli degli altri abitanti di Gerusalemme. Poi però, partendo da questi due eventi, invita i discepoli a una vera conversione, anzi insiste sull’urgenza di convertirsi, facendo eco agli appelli dei profeti come Amos, Isaia e tanti altri. Segue la parabola del fico, che attenua la durezza apparente delle sue parole perché mostra che i pensieri di Dio sono molto diversi da quelli degli uomini e ci mostra il volto di un Dio paziente e misericordioso. Per noi un fico sterile che sfrutta inutilmente il terreno va tagliato, cioè qualcuno che fa del male va punito subito e persino eliminato, ma non così pensa il nostro Dio che anzi afferma: “Com’è vero che io vivo – oracolo del Signore Dio – non provo piacere nella morte del malvagio, ma nella sua conversione, affinché viva” (Ez 33,11).  Gesù non ci chiede in primo luogo di cambiare i nostri comportamenti, ma di cambiare con urgenza l’immagine di un Dio che punisce. Anzi, proprio di fronte al male il Signore è “misericordioso e pietoso”, come dice il Salmo di questa domenica: misericordioso, cioè chinato sulle nostre miserie e la conversione che attende da noi è affidarci alla sua infinita e paziente misericordia. Insomma, riprendendo le conclusioni del libro di Giobbe, Gesù invita a non cercare di spiegare la sofferenza con il peccato e con altre teorie essendo un mistero, ma a conservare nonostante tutto la fiducia in Dio. E quando dice: “se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” vuole significare che l’umanità va verso la rovina quando perde la fiducia in Dio. Come Israele nel deserto, di cui Paolo ricorda l’avventura nella seconda lettura, anche noi siamo provocati a scegliere sempre se fidarci o nutrire il sospetto verso Dio. Dobbiamo però sapere che il suo disegno è sempre a nostro favore e se cambia il nostro cuore (è la conversione), cambierà anche il volto del mondo.

+Giovanni D’Ercole

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Ecco il commento ai testi di domenica prossima con l’assicurazione della preghiera per il Papa e per le grandi esigenze spiritual e sociali della nostra società.

2a Domenica di Quaresima anno C (16 Marzo 2025)

 

*Prima Lettura dal libro della Genesi (15,5-12.17-18)

 All’epoca di Abramo, l’alleanza fra due capi di tribù avveniva con un cerimoniale simile a quello qui descritto: si sacrificavano animali adulti nel pieno della loro forza che venivano squartati in due come a dire: mi succeda come a questi se non sarò fedele all’alleanza che stiamo stipulando. Inoltre entrambi i contraenti passavano a piedi nudi tra le carcasse volendo così condividere il sangue, cioè la vita e diventavano come consanguinei. Gli animali dovevano avere tre anni perché le madri allattavano i figli fino ai tre anni e il numero 3 era diventato simbolo di maturità cosi ché l’animale di tre anni veniva considerato adulto. Abramo compie questi riti abituali per un’alleanza con Dio che all’apparenza sembra rispettare i riti tradizionali eppure tutto è differente perché per la prima volta, nella storia umana, uno dei contraenti è Dio stesso. Simile a riti analoghi è che Abramo squarta gli animali in due e pone ogni metà una di fronte all’altra senza però dividere gli uccelli perché i rapaci calavano sulle carcasse e li scacciava considerandoli uccelli di male augurio (Abramo, pur avendo scoperto il vero Dio, conservava ancora una certa superstizione). Ciò che invece è diverso è che al tramonto Abramo cade in un sonno misterioso accompagnato da un’angoscia oscura e profonda e in quel momento vede passare tra i pezzi degli animali un braciere fumante e una fiaccola ardente. Il testo parla di un sonno misterioso, ma usa una parola che non è di uso comune ma già usata per indicare il sonno di Adamo mentre Dio creava la donna. E’ dunque un modo per dire due cose: anzitutto l’uomo non può assistere all’opera di Dio e quando l’uomo si risveglia (che sia Adamo o Abramo), ha inizio un nuovo giorno, una nuova creazione; inoltre mostra che l’uomo e Dio non sono sullo stesso piano perché nell’opera della creazione e dell’alleanza Dio prende tutta l’iniziativa mentre per l’uomo basterà fidarsi: Abramo ebbe fede nel Signore e il Signore lo considerò giusto. La presenza di Dio è simboleggiata dal fuoco, come spesso accade nella Bibbia: “un braciere fumante e una fiaccola ardente”, come il roveto ardente, il fumo del Sinai, la colonna di fuoco che accompagnava il popolo durante l’Esodo nel deserto, fino alle lingue di fuoco della Pentecoste. Questi i termini dell’alleanza: Dio promette ad Abramo una discendenza e una terra, discendenza e terra termini posti in inclusione nel racconto: all’inizio, Dio aveva detto: guarda il cielo e conta le stelle, se riesci… così sarà la tua discendenza, “Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra” e alla fine: «Alla tua discendenza io do questa terra”.  Sorprendente è questa promessa a un vecchio senza figli e non è la prima volta che Dio gliela fa anche se fino ad ora Abramo non ha visto nemmeno l’ombra della sua realizzazione pur continuando a camminare sostenuto unicamente dalla promessa di un Dio a lui sconosciuto. Ricordiamo i precedenti della sua vocazione: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti mostrerò. Farò di te una grande nazione (Gn 12,1) e la Bibbia ha sempre sottolineato l’indomita fede di Abramo che “partì come il Signore gli aveva detto” (Gen 12,4). Qui, il testo afferma: “Abramo ebbe fede nel Signore, e il Signore lo considerò giusto”. È la prima apparizione della parola fede nella Bibbia: è l’irruzione della fede nella storia dell’umanità. Il verbo credere in ebraico deriva da una radice che significa stare fermamente: Amen deriva dalla stessa radice. Credere significa stare saldo, fidarsi fino in fondo, anche nel dubbio, nello scoraggiamento e nell’angoscia. Questa è l’attitudine di Abramo; ed è per questo che Dio lo considera giusto e nella Bibbia il giusto è colui la cui volontà è secondo la volontà di Dio. Più tardi, san Paolo si baserà su questa frase per affermare che la salvezza non è questione di meriti: «Se credi… sarai salvato» (Rm 10,9). A ben riflettere, Dio dona e ci chiede una sola cosa… crederci, cioè fidarci di lui. 

Note d’approfondimento.

v.7: «Io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei»; è lo stesso verbo usato per l’uscita dall’Egitto con Mosè, seicento anni dopo: l’opera di Dio è presentata fin dall’inizio come un’opera di liberazione.

• v.12: «sonno misterioso» = tardemah = stessa parola usata per Adamo, Abramo e Saul (1 Sam 26).

 

*Salmo responsoriale (26 (27),1.7-8.9a-d.13-14)

 Questo salmo presenta degli stati d’animo così contrastanti che si potrebbe quasi dubitare che sia la stessa persona a parlare dall’inizio alla fine, ma, a ben considerare, esprime sempre la stessa fede che si manifesta sia nell’esultanza che nella supplica secondo gli stati dell’animo dell’orante che si sente autorizzato a dire tutto al Signore. E così la preghiera abbraccia l’intera esistenza dell’uomo: serenità che nasce dalla certezza – “Il Signore è mia luce e mia salvezza: di chi avrò timore? Il Signore è difesa della mia vita:di chi avrò paura?”, unita a un’ardente supplica – “Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!”.Israele ha sempre mantenuto salda la fiducia in mezzo alle sue vicissitudini e anzi nelle difficoltà ha reso più vera la propria fede. Infine, tra la prima e l’ultima strofa, c’è il passaggio dal presente al futuro: nella prima strofa, “Il Signore è mia luce e mia salvezza” che è il linguaggio della fede, cioè della fiducia incrollabile, mentre nell’ultima strofa, “Sono certo di contemplare la bontà del Signore… e spera nel Signore, sii forte” esprime speranza coniugata insieme a fede al futuro. C’è modo di commentare questo salmo spesso nel ciclo liturgico triennale per cui oggi ci fermiamo solo su questi due versetti: “Il tuo volto, Signore, io cerco” e “sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”.  Prima di tutto, “Il tuo volto, Signore, io cerco”: vedere il volto di Dio è il desiderio, la sete di ogni credente perché siamo creati a immagine di Dio e siamo attratti da lui, nostro Creatore. Il desiderio di  cercare il suo volto si fa più intenso nel tempo di Quaresima. Come il Signore disse a Mosè, noi non possiamo vederlo e restare in vita (cf Es 33,18-23. In questo testo è presente insieme alla grandezza e alla inaccessibilità di Dio, anche tutta la tenera vicinanza di Dio, talmente immenso che non possiamo vederlo con i nostri occhi. Il fulgore della sua Presenza ineffabile, inaccessibile – ciò che i testi chiamano la sua gloria – è infatti troppo accecante per noi. Possono i nostri occhi fissare il sole? Come potranno allora guardare Dio? Questa grandezza però non schiaccia l’uomo, anzi, lo protegge, è la sua sicurezza e il profondo rispetto che invade il credente davanti a Dio non suscita paura, ma un misto di totale fiducia e infinito rispetto che la Bibbia chiama “timore di Dio”. Questo ci aiuta a comprendere il primo versetto: “Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò timore?” Cioè: chi crede non ha più paura di niente, nemmeno della morte, e nessun altro dio potrà mai suscitare in lui quel sentimento religioso di timore, come ribadisce il versetto successivo: “il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura? Fiducia che troviamo ancora nell’ultima strofa: “Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”. Ma quale è la terra dei viventi? Di certo la terra donata al suo popolo e di cui il possesso è diventato per Israele un simbolo dei doni di Dio, ma c’è anche il richiamo alle esigenze dell’Alleanza: la terra santa è stata data al popolo eletto affinché vi viva santamente. E questo è è uno dei temi principali del libro del Deuteronomio (cf Dt 5,32-33), dove i viventi nel senso biblico sono i credenti.

 

*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo ai Filippesi (3,17-4,1)

La questione fondamentale del cristianesimo e centrale nella storia dell’umanità, come emerge nel vangelo, negli Atti degli Apostoli, nelle lettere di Paolo e che continua ancor oggi ad essere attuale, è questa: l’incarnazione, la passione, morte e risurrezione di Cristo che l’apostolo chiama qui “la croce di Cristo”.  Se Cristo è veramente morto e risuscitato, il volto del mondo è cambiato perché lui ha fatto la pace con il sangue della sua croce. Per Paolo la croce di Cristo è davvero l’evento cruciale del cristiano per cui cambia il modo di pensare, di ragionare e di vivere. Chi pensa che il rito della circoncisione rimane anche ora indispensabile, agisce come se l’evento della “croce di Cristo” non è avvenuto e san Paolo li chiama i “nemici della croce di Cristo”. I Filippesi forse erano titubanti, ma san Paolo li mette in guardia in maniera severa invitandoli a fare attenzione ai cani, ai cattivi operai e ai falsi circoncisi (3,2) aggiungendo che i circoncisi (veri) siamo noi, che rendiamo culto per mezzo dello Spirito di Dio ponendo la nostra gloria in Gesù Cristo senza confidare in noi stessi. Usa persino un paradosso: i veri circoncisi sono quelli che non sono circoncisi nella loro carne, ma battezzati in Gesù Cristo perché tutta la loro esistenza e la loro salvezza é in Gesù Cristo e sanno di essere salvati dalla croce di Cristo e non dalle pratiche rituali. Falsi circoncisi sono invece quanti hanno ricevuto la circoncisione nella loro carne, secondo la legge di Mosè e attribuiscono a questo rito una importanza più grande del battesimo. E quando Paolo afferma che “il ventre è il loro dio” si riferisce proprio alla circoncisione. Inoltre Paolo intravede un’altra insidia nell’attitudine del credente: la salvezza si guadagna con le proprie pratiche oppure la riceviamo gratuitamente da Dio? Quando dice che il ventre è il loro dio vuol far capire che queste persone scommettono sulle pratiche rituali ebraiche e si sbagliano: “si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra” per cui “la loro sorte finale sarà la perdizione”.  E continua indicando quale sia la scelta giusta: ricorda ai Filippesi che la nostra cittadinanza è nei cieli mentre attendiamo come salvatore Gesù Cristo, che trasformerà i nostri poveri corpi a immagine del suo corpo glorioso, con la potenza attiva che lo rende perfino capace di sottomettere ogni cosa al suo dominio. Se lo attendiamo come salvatore significa riconoscere che tutta la nostra fiducia è posta in lui e non in noi stessi e nei nostri meriti. Siamo così i veri circoncisi e rendiamo culto per mezzo dello Spirito di Dio, perché la nostra gloria è posta in Gesù Cristo e non confidiamo in noi stessi. A questo punto Paolo si pone come modello dato che se c’era uno con meriti da far valere secondo la legge ebraica era proprio lui. Scrive infatti che se qualcun altro crede di poter confidare in sé stesso, io posso farlo ancor di più, io, circonciso l’ottavo giorno, della discendenza d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo, figlio di Ebrei; per la legge, fariseo; per lo zelo, persecutore della Chiesa; per la giustizia che si trova nella legge, divenuto irreprensibile. Ora tutte queste cose, che per me erano guadagni, le ho ritenute come una perdita a causa di Cristo (cf Fil 3,4-7). In sintesi,  prendere esempio da Paolo significa fare di Gesù Cristo – e non delle nostre pratiche – il centro della nostra vita e questo significa  essere “cittadini dei cieli”.

 

*Dal Vangelo secondo san Luca (9, 28-36)

Nel capitolo nove Luca racconta che Gesù, mentre stava pregando in un luogo solitario, pose ai discepoli questa domanda: “le folle chi dicono che io sia?”, poi a loro: “Ma voi chi dite che io sia? e Pietro rispose: “Il Cristo (cioè il Messia) di Dio”. Gesù annunciò allora la necessità  del sacrificio del Figlio dell’uomo respinto dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, messo a morte ma risorto il terzo giorno. L’odierno episodio sembra riprendere lo stesso discorso otto giorni dopo. Gesù conduce Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte perché desidera nuovamente pregare con loro ed è in tale contesto che Dio sceglie di rivelare a questi tre privilegiati il mistero del Messia. Qui non sono più gli uomini, la folla o i discepoli, a esprimere la loro opinione, ma è Dio stesso che ci invita a contemplare il mistero del Cristo: “Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!” Il monte della Trasfigurazione fa pensare al Sinai e Luca sceglie un vocabolario che evoca il contesto della rivelazione di Dio sul Sinai: il monte, la nube, la gloria, la voce che risuona, le tende. Comprensibile la presenza di Mosè ed Elia visto che Mosè trascorse quaranta giorni sul Sinai in presenza di Dio e discese con il volto così raggiante da stupire tutti. Elia invece camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte dove Dio si rivelò in un modo totalmente inatteso: non nella potenza del vento, del fuoco, del terremoto, ma nel dolce sussurro di una brezza leggera. I due personaggi dell’Antico Testamento che ebbero il privilegio di vedere la gloria di Dio, sono presenti anche qui dove si manifesta la gloria di Cristo. Soltanto Luca precisa il contenuto del loro colloquio con Gesù, cioè stavano parlando del suo esodo che stava per compiersi a Gerusalemme. Luca usa la parola esodo perché non si può separare la gloria di Cristo dalla Croce e dalla risurrezione, che chiama la Pasqua di Cristo. Come la Pasqua di Mosè inaugurò l’Esodo d’Israele dalla schiavitù in Egitto verso la terra della libertà, la Pasqua di Cristo apre il cammino della liberazione per tutta l’umanità. Dalla nube una voce dice: “Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!”. Queste tre parole: Figlio mio, Eletto, Ascoltatelo esprimevano al tempo di Cristo la diversità dei ritratti con cui si immaginava il Messia. Il titolo di Figlio di Dio veniva conferito ai re il giorno della loro consacrazione; l’Eletto è uno dei nomi del servo di Dio di cui parla Isaia nei Canti del servo: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio Eletto”; Ascoltatelo, sembra alludere alla promessa che Dio fece a Mosè di suscitare dopo di lui un profeta: “Susciterò loro un profeta come te tra i loro fratelli; metterò le mie parole nella sua bocca” (Dt 18, 18) e alcuni ne deducevano che il Messia atteso sarebbe stato un profeta. “Ascoltatelo”, non è l’ordine di un maestro esigente o dominante, ma una supplica: Ascoltatelo, cioè abbiate fiducia in lui. Pietro, contemplando il volto trasfigurato di Gesù, propone di stabilirsi sul monte tutti insieme, ma Luca precisa che non sapeva quello che diceva perché non è il caso di isolarsi dal mondo e dai suoi problemi dato che il tempo è breve. Il progetto di Dio non è per pochi eletti: Pietro, Giacomo e Giovanni devono piuttosto affrettarsi a raggiungere gli altri e lavorare perché nell’ultimo giorno, sarà l’intera umanità a essere trasfigurata. Paolo nella lettera ai Filippesi lo dice alla sua maniera: “noi siamo cittadini del cielo”.

+Giovanni D’Ercole

 

 

Ecco una sintesi per coloro che lo desiderano 

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!

 

*Prima Lettura dal libro della Genesi (15,5-12.17-18)

 All’epoca di Abramo, l’alleanza fra due capi di tribù avveniva con un cerimoniale simile a quello qui descritto: si sacrificavano animali adulti nel pieno della loro forza squartati in due come a dire: mi succeda come a questi se non sarò fedele all’alleanza che stiamo stipulando. Inoltre entrambi i contraenti passavano a piedi nudi tra le carcasse volendo così condividere il sangue, cioè la vita e diventavano come consanguinei. Gli animali dovevano avere tre anni perché le madri allattavano i figli fino ai tre anni e il numero 3 era diventato simbolo di maturità cosi ché l’animale di tre anni veniva considerato adulto. Abramo compie questi riti abituali per un’alleanza con Dio. All’apparenza sembra rispettare i riti tradizionali eppure tutto è differente perché per la prima volta nella storia umana, uno dei contraenti è Dio stesso. Vediamo da vicino anzitutto ciò che è simile: Abramo squarta gli animali in due e pone ogni metà una di fronte all’altra senza però dividere gli uccelli perché i rapaci calavano sulle carcasse e Abramo li scacciava considerandoli uccelli di male augurio. Ma c’è qualcosa d’insolito: al tramonto, Abramo cade in un sonno misterioso accompagnato da un’angoscia oscura e profonda. Il testo parla di un sonno misterioso, una parola già usata per indicare il sonno di Adamo mentre Dio creava la donna e serve per dire due cose: anzitutto l’uomo non può assistere all’opera di Dio e quando l’uomo si risveglia (che sia Adamo o Abramo), ha inizio un nuovo giorno, una nuova creazione. Inoltre l’uomo e Dio non sono sullo stesso piano perché nell’opera della creazione e dell’alleanza Dio prende tutta l’iniziativa mentre all’uomo basterà fidarsi: Abramo ebbe fede e il Signore lo considerò giusto. La presenza di Dio è simboleggiata dal fuoco, come spesso accade nella Bibbia: “un braciere fumante e una fiaccola ardente”, come il roveto ardente, il fumo del Sinai, la colonna di fuoco che accompagnava il popolo durante l’Esodo nel deserto, fino alle lingue di fuoco della Pentecoste. Questi i termini dell’alleanza: Dio promette ad Abramo una discendenza e una terra, promessa già fatta a un vecchio senza figli anche se fino ad ora Abramo non ha visto nemmeno l’ombra della sua realizzazione, ma continua a fidarsi di un Dio a lui sconosciuto. Per la prima appare la parola fede nella Bibbia: è l’irruzione della fede nella storia dell’umanità. Il verbo credere in ebraico deriva da una radice che significa stare fermamente: Amen deriva dalla stessa radice. Credere significa stare saldo, fidarsi fino in fondo, anche nel dubbio, nello scoraggiamento e nell’angoscia. Questa è l’attitudine di Abramo; ed è per questo che Dio lo considera giusto. Il testo afferma: “Abramo ebbe fede nel Signore, e il Signore lo considerò giusto”. Più tardi, san Paolo si baserà su questa frase per affermare che la salvezza non è una questione di meriti: «Se credi… sarai salvato» (Rm 10,9). A ben riflettere, Dio dona tutto e ci chiede una sola cosa: fidarci di lui. 

 

*Salmo responsoriale (26 (27),1.7-8.9a-d.13-14)

 Questo salmo presenta degli stati d’animo così contrastanti che si potrebbe quasi dubitare che sia la stessa persona a parlare dall’inizio alla fine, ma, a ben considerare, esprime sempre la stessa fede che si manifesta sia nell’esultanza che nella supplica secondo gli stati dell’animo nei quali ci troviamo perché la preghiera abbraccia l’intera esistenza dell’uomo. La serenità nasce dalla certezza – “Il Signore è mia luce e mia salvezza… è difesa della mia vita: di chi avrò paura?”, insieme all’ardente supplica – “Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!”. Nei momenti di gioia e in quelli di prova Israele ha sempre mantenuto salda la fiducia e anzi nelle difficoltà ha reso più vera la propria fede. Questo salmo torna spesso nel ciclo liturgico triennale per cui oggi ci fermiamo solo su questi due versetti: “Il tuo volto, Signore, io cerco” e “sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”.  Vedere il volto di Dio è il desiderio di ogni credente perché siamo creati a immagine di Dio e siamo attratti da lui, ma il fulgore della sua Presenza ineffabile, che la Bibbia chiama la sua gloria, è troppo accecante per noi. Possono i nostri occhi fissare il sole? Come potranno allora guardare Dio? Questa grandezza però non schiaccia l’uomo, anzi, lo protegge, è la sua sicurezza e il profondo rispetto che invade il credente davanti a Dio non suscita paura, ma un misto di totale fiducia e infinito rispetto che la Bibbia chiama “timore di Dio”. Questo ci aiuta a comprendere il primo versetto: “Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò timore?” Cioè: il credente non ha più paura di nulla e di nessuno, nemmeno della morte, e nessun altro dio potrà mai più suscitare in lui quel sentimento religioso di timore, come ribadisce il versetto successivo: “il Signore è difesa della mia vita: di chi avrò paura? Troviamo la fiiducia ancora nell’ultima strofa: “Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”. E i viventi nel senso biblico sono i credenti.

 

*Seconda Lettura dalla Lettera di san Paolo ai Filippesi (3,17-4,1)

La questione fondamentale del cristianesimo e centrale nella storia dell’umanità, come emerge nel vangelo, negli Atti degli Apostoli, nelle lettere di Paolo e che continua ancor oggi ad essere attuale, è questa: l’incarnazione, la passione, morte e risurrezione di Cristo che l’apostolo chiama qui “la croce di Cristo”.  Se Cristo è veramente morto e risuscitato, il volto del mondo è cambiato perché lui ha fatto la pace con il sangue della sua croce. Per Paolo la croce di Cristo è davvero l’evento cruciale del cristiano per cui cambia il modo di pensare, di ragionare e di vivere. Chi pensava che il rito della circoncisione era anche indispensabile, agiva come se l’evento della “croce di Cristo” non fosse avvenuto e san Paolo li chiama i “nemici della croce di Cristo”. I Filippesi forse erano titubanti e san Paolo li invita a fare attenzione ai falsi circoncisi (3,2) aggiungendo che i veri circoncisi siamo noi, che poniamo tutta la nostra fiducia in Gesù Cristo. E arriva a usare un paradosso: i veri circoncisi sono quelli che non sono circoncisi nella loro carne, ma battezzati in Gesù Cristo perché tutta la loro esistenza è in Cristo e sanno di essere salvati dalla croce di Cristo e non dalle pratiche rituali. Quando Paolo afferma che “il ventre è il loro dio” si riferisce proprio alla circoncisione e vuol far capire che queste persone scommettono sulle loro pratiche rituali. La scelta giusta è ricordare che siamo cittadini del cielo e attendiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, che trasformerà i nostri poveri corpi a immagine del suo corpo glorioso. Se attendiamo Cristo come salvatore vuol dire che riconosciamo che tutta la nostra fiducia è in lui e non in noi stessi e nei nostri meriti. Siamo così i circoncisi (i veri) e rendiamo culto per mezzo dello Spirito di Dio, perché la nostra gloria è posta in Gesù Cristo e non confidiamo in noi stessi. A questo punto Paolo si pone come modello dato che se c’era uno con meriti da far valere secondo la legge ebraica era proprio lui. Ponendosi come esempio c’incoraggia a fare di Cristo, e non delle pratiche rituali, il centro della nostra vita e se siamo in Cristo siamo già “cittadini dei cieli”, pur abitando ancora sulla terra. 

 

*Dal Vangelo secondo san Luca (9, 28-36)

Nel capitolo nove Luca racconta che Gesù, mentre stava pregando in un luogo solitario, chiese ai discepoli: “le folle chi dicono che io sia?”, poi a loro: “Ma voi chi dite che io sia? e Pietro rispose: “Il Cristo (cioè il Messia) di Dio”. E Gesù disse: é necessario che il Figlio dell’uomo soffra molto, sia respinto, messo a morte e, il terzo giorno, risorga. L’odierno episodio sembra riprendere lo stesso discorso otto giorni dopo con Gesù che conduce Pietro, Giacomo e Giovanni sul monte perché desidera nuovamente pregare con loro e in tale contesto Dio sceglie di rivelare a questi tre privilegiati il mistero del Messia. Qui non sono più gli uomini, la folla o i discepoli, a esprimere la loro opinione, ma è Dio stesso che fornisce la risposta e invita a contemplare il mistero del Cristo: “Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!” Il monte della Trasfigurazione fa pensare al Sinai e Luca sceglie un vocabolario che evoca il contesto della rivelazione di Dio sul Sinai: il monte, la nube, la gloria, la voce che risuona, le tende. Comprensibile la presenza di Mosè ed Elia, i due personaggi dell’Antico Testamento che ebbero il privilegio della rivelazione della gloria di Dio e ora sono testimoni della gloria di Cristo. Soltanto Luca precisa il contenuto del loro colloquio con Gesù, cioè stavano parlando del suo esodo che stava per compiersi a Gerusalemme. Luca usa la parola esodo perché non si può separare la gloria di Cristo dalla Croce e la usa riferendosi alla Pasqua di Cristo. Come la Pasqua di Mosè inaugurò l’Esodo d’Israele dalla schiavitù in Egitto verso la terra della libertà, la Pasqua di Cristo apre il cammino della liberazione per tutta l’umanità. Tutto s’incentra su tre parole che esprimevano al tempo di Cristo le diverse concezioni del Messia: “Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo!”. Il titolo di Figlio di Dio veniva conferito ai re il giorno della loro consacrazione; l’Eletto è uno dei nomi del servo di Dio di cui parla Isaia nei Canti del servo: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio Eletto”; Ascoltatelo sembra alludere alla promessa che Dio fece a Mosè di suscitare dopo di lui un profeta (Dt 18, 18) e alcuni ne deducevano che il Messia atteso sarebbe stato un profeta. Ascoltatelo! Non è l’ordine di un maestro esigente o dominante, ma una supplica: Ascoltatelo, cioè abbiate fiducia in lui. Pietro, meravigliato dal volto trasfigurato di Gesù, propone di stabilirsi sul monte tutti insieme, ma Luca precisa che Pietro non sapeva quello che diceva perché non è il caso di isolarsi dal mondo e dai suoi problemi dato che il tempo è breve. Pietro, Giacomo e Giovanni devono piuttosto affrettarsi a raggiungere gli altri perché il progetto di Dio non si limita a pochi eletti: nell’ultimo giorno, sarà l’intera umanità a essere trasfigurata. San Paolo nella lettera ai Filippesi diceva che “noi siamo cittadini del cielo”, perché con il battesimo siamo già nella vita eterna pur pellegrinando ancora sulla terra.

+Giovanni D’Ercole

Riflessioni sul senso religioso.

Anche questa riflessione nasce da un dialogo con un signore della mia età circa.

Questo signore conosciuto e stimato nel suo paese incontrando una sua vecchia conoscenza, viene redarguito da quest’ultima perché non frequentava le  funzioni religiose;  secondo lei avrebbe dovuto farlo per il suo bene. Il signore ha risposto che non sentiva questo bisogno e che non gli sembrava che il suo comportamento potesse offendere il senso religioso generalmente inteso. 

Discussioni del genere ce ne sono spesso fra gli esseri umani, non è una novità. La riporto perché mi ha  fatto riflettere sul senso religioso nella vita dell’uomo. L’argomento tocca diverse discipline ed è complesso.     

Studi di Fiorenzo Facchini dicono che vari comportamenti dell’uomo preistorico vengono letti in senso religioso. I nostri antenati  davano sepoltura  ai loro morti e dipingevano raffigurazioni sulle pareti.      

Queste caverne avevano qualcosa di sacro. Manifestazioni religiose dell’antichità erano i canti e le danze.

In tutte le religioni troviamo un bisogno di rassicurazione sulla nostra vita e anche il bisogno di trovare delle risposte magiche ai nostri problemi.

Bettelheim sostiene che a livello individuale e soprattutto nell’infanzia la religione  può dare quelle basi di stabilità e sicurezza con cui il bambino potrà evolversi verso l’autonomia.

La società in cui viviamo ci impone di correre, di essere al passo con i tempi; vuole darci i suoi valori.

Oggi esiste la moda dell’effimero, della competitività - e allora è psicologicamente rassicurante credere in una “madre-ambiente” che ci vuole bene, o essere dentro un disegno che dà  significato alla nostra vita.

A differenza di Freud che non aveva una  visione positiva, o del filosofo Carlo Marx il quale sosteneva che la religione è l’oppio dei popoli, Jung nell’undicesimo volume “Psicologia e religione”  dice testualmente:

“Poiché’ la religione è incontestabilmente una delle prime e universali espressioni dell’anima umana […] non è soltanto un fenomeno sociologico o storico, ma un’importante questione personale” (vol.XI, p.15).

Nella mia  lunga pratica professionale ho incontrato spesso persone che hanno dovuto fare i conti con questa tematica.

Compito del terapeuta non è condizionare  l’altro, ma chiarire le dinamiche sottostanti.

Ho incontrato persone che si definivano non credenti ma che a livello inconscio dovevano fare i conti con i loro sogni. Oppure individui che appartenevano a religioni diverse talmente rigide che inibivano il loro il senso vitale.

In tutti questi casi  cresceva la  conoscenza dell’animo umano, sia che esso si dichiarasse religioso o meno. Non stiamo discutendo della posizione filosofica di ciascuno.

Si notavano delle differenze tra la persona che si definiva religiosa da una che non lo era.

Tengo a precisare che tali differenze non costituiscono dei giudizi di valore, ma solo caratteristiche comportamentali.

lI religioso crede che esiste una realtà che è sacra e che va oltre questo mondo - e che la sua esistenza viene potenziata in base al suo credo.

Colui che si definiva non credente rifiutava la trascendenza, era uno il quale si fa da sé e crede che solamente lui si costruisce  il proprio destino.

Una preoccupazione costante è quella di negare qualsiasi riferimento o battuta di spirito venisse riferita ad argomenti religiosi.

Addirittura ho incontrato qualcuno più preoccupato  di quale fosse il mio credo più che dei suoi problemi personali. Ho sempre risposto che il mio ambito d’azione era la psiche in tutte le sue manifestazioni. Al di là di ogni manifestazione sacra o meno, il rispetto della persona è già un atteggiamento sacro.

“Desacralizzarsi“ del tutto non è neanche facile, poiché è difficile rinnegare del tutto la storia - sia per chi crede nella creazione e per chi crede nell’evoluzione.

Chissà se l’evoluzione include una creazione?

 

Dott. Francesco Giovannozzi Psicologo-psicoterapeuta                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                            

Mercoledì, 05 Marzo 2025 21:02

1a Domenica di Quaresima (anno C)

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! 

Prima Domenica di Quaresima (anno C)  9 Marzo 2025 

 

*Prima Lettura dal Libro del Deuteronomio (26, 4 – 10)

Mosè ordina un gesto di offerta, come avviene in tutte le religioni, ma per Israele si tratta di una reale professione di fede: “Prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole”. Segue poi un intero discorso sull’opera di Dio a favore del suo popolo, che si potrebbe riassumere in una semplice frase: tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che siamo, è dono di Dio. Questa è la grande novità di tutta la Bibbia specialmente del libro del Deuteronomio. Se nelle religioni il rito dell’offerta è un gesto di richiesta alle divinità di benefici che loro possiedono, per Israele avviene il ribaltamento del senso del rito perché quest’offerta è un atto di gratitudine. Offrire i doni non significa concedere a Dio qualcosa che ci appartiene, ma riconoscere che tutto è suo dono e non ci presentiamo a lui con le mani piene di ricchezze nostre; anzi riconosciamo che senza di Lui le nostre mani resterebbero vuote. In questo spirito, portare le proprie offerte diventa un gesto di memoria. Il libro del Deuteronomio insiste su questa pratica forse perché il popolo sembrava aver in parte dimenticato Dio e i suoi benefici. Nel deserto Israele aveva ben compreso che la sua sopravvivenza dipendeva da Dio e solo da Lui. Giunto però nella terra promessa (la terra di Canaan, l’Israele di oggi) correva il rischio di dimenticare il vero Dio essendovi diffusi culti delle popolazioni locali adoranti Baal e il serio rischio della contaminazione da parte dell’idolatria costituiva una minaccia alla vera fede. I profeti hanno sempre cercato di mantenere la fedeltà all’Alleanza del Sinai (cf Es 20,2), ripetendo che c’è un solo Dio, il Dio di Mosè, che ha liberato il suo popolo dalla mano degli Egiziani, lo ha accompagnato lungo tutta la sua storia e, infine, gli ha donato la terra promessa. Sembra proprio che la preoccupazione del nostro testo sia quella di conservare la memoria di quanto Dio ha compiuto e, in realtà, il libro del Deuteronomio potrebbe essere definito il libro della memoria. Il rito dell’offerta delle primizie è pertanto soprattutto un gesto di memoria, accompagnato dall’enumerazione delle opere compiute da Dio a favore del suo popolo. Nella parola “primizie” è contenuta l’idea di “primo”, i primi frutti del nuovo raccolto, i primi covoni di grano, i primi grappoli d’uva, il primo nato della nuova cucciolata. Tutto questo costituisce l’inizio e la promessa: pesando il primo covone, il primo grappolo, si poteva capire se il raccolto sarebbe stato abbondante e il rito di offerta esisteva già ai tempi di Caino e Abele per ottenere le benedizioni della divinità. Mosè ne aveva trasformato il significato: da quel momento in poi, tutto veniva vissuto in funzione dell’Alleanza e per questo si capisce il discorso che accompagna l’offerta. Non si domandano a Dio benefici per il futuro, ma si riconoscono quelli avuti sin dalla chiamata di Abramo e il rito diventa una professione di fede che costituisce un riassunto della storia di Israele: «Mio padre era un Arameo errante…». Tutto iniziò con Abramo, l’Arameo scelto da Dio per diventare il padre del popolo dell’Alleanza: un nomade “errante” nel senso che, prima della sua chiamata da parte di Dio, non aveva ancora scoperto l’unico Dio, errante quindi in senso spirituale. La frase che segue «Mio padre era un Arameo errante, che scese in Egitto», non si riferisce più ad Abramo, il capostipite, ma al suo discendente Giacobbe: lui e i suoi figli si stabilirono in Egitto. Segue tutta la storia, fino all’ingresso nella terra promessa. A questo punto, il gesto dell’offerta assume il suo pieno significato: offrendo il primo covone, il primo grappolo, è come se si presentasse a Dio tutto il raccolto.  L’ offertorio nella Messa ha lo stesso significato: riconoscere che tutto è dono di Dio: «Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questi doni: a ben vedere prepariamo e offriamo doni a Dio che non sono nostri ma suoi.

 

 * Salmo Responsoriale 90 (91), 1-2, 10-11, 12-13, 14-15

Il salmo si presenta come un dialogo a tre voci.  Israele dice: “Chi abita al riparo dell’Altissimo passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente. Io dico al Signore: «Mio rifugio mia fortezza, mio Dio in cui confido”. I sacerdoti all’ingresso del Tempio proclamano: “Non ti potrà colpire la sventura, nessun colpo cadrà sulla tua tenda”. Infine interviene Dio stesso: “Lo libererò, perché a me si è legato, lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome.”.  Nei primi versetti, se si fa attenzione, vengono dati quattro nomi diversi a Dio: l’Altissimo (Elyôn), l’Onnipotente (El Shaddai), il Signore (YHWH) e infine Dio (Elohim). Le divinità degli altri popoli utilizzano tre di questi nomi: l’Altissimo, l’Onnipotente ed Elohim. Israele riprende questi termini comuni per designare il proprio Dio, ma è l’unico popolo al mondo a poterlo chiamare con il quarto, il famoso Nome rivelato a Mosè nel roveto ardente: YHWH. Come dice Dio stesso nel libro dell’Esodo: «Mi sono rivelato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe come Dio Onnipotente (El Shaddai), ma con il mio nome, YHWH, non mi sono fatto conoscere da loro» (Es 6,3). Questi primi versetti sviluppano il tema della sicurezza del credente con l’abbraccio dell’Altissimo all’ombra dell’Onnipotente.  Nel linguaggio dei salmi, l’abbraccio dell’Altissimo richiama il Tempio di Gerusalemme e l’ombra è quella delle ali delle statue dei cherubini che sovrastano l’arca dell’Alleanza. C’è però anche un’allusione alla presenza protettrice di Dio lungo tutto l’Esodo. Come annotano gli esegeti le «ali» richiamano quelle dell’aquila che incoraggia i primi voli dei suoi piccoli (Dt 32,10-11; cf. Es 19,4). E l’angelo Gabriele dirà alla Vergine di Nazaret: “Su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo” (Lc 1,35). I termini “mio rifugio, mia fortezza, mio Dio in cui confido” esprimono una professione di fede e indicano una risoluzione contro l’idolatria che esige sempre l’impegno a non abbandonare l’abbraccio dell’Altissimo. Gesù è colui che non smette mai di rifugiarsi in Dio, come vediamo oggi nel vangelo delle tentazioni di Gesù. Insomma la lotta contro l’idolatria è un tema che attraversa tutta la Bibbia ed è un punto centrale della predicazione dei profeti. Anche in questo nostro tempo c’è da riflettere perché l’idolatria assume volti diversi e sempre nuovi. Nel salmo seguono due strofe che sono una sorta di catechesi rivolta dai sacerdoti a ogni pellegrino nel Tempio di Gerusalemme: “non ti potrà colpire la sventura, nessun colpo cadrà sulla tua tenda” se tu resti sotto l’ombra dell’Altissimo perché Egli darà ordine ai suoi angeli di custodirti in tutte le tue vie. Calpesterai leoni e vipere, schiaccerai leoncelli e draghi. Duplice è il messaggio: certa è la vittoria - calpesterai leoni e draghi - e a garantirla è Dio che non cesserà mai di proteggere il suo popolo che darà ordine agli angeli di custodire tutti i passi del pellegrino, anzi lo porteranno con le loro mani, perché il suo piede non inciampi nelle pietre. Alla fine, nell’ultima strofa parla Dio: “Lo libererò, perché a me si è legato, lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome. Mi invocherà e io gli darò risposta” Da notare il versetto finale “nell’angoscia io sarò con lui, lo libererò e lo renderò glorioso” che mostra come Israele abbia compreso che Dio non elimina ogni prova con un colpo magico, ma è «con» noi nella difficoltà e nella prova. Nell’angoscia” sarò con lui” è esattamente il significato del nome «Emmanuele», che vuol dire Dio-con-noi. Proposto all’inizio della Quaresima, questo salmo c’invita a trovare rifugio nell’abbraccio dell’Altissimo, frequentando la liturgia nelle nostre chiese dove non c’è più l’arca dell’Alleanza, né le due statue dei cherubini – quegli esseri alati con testa d’uomo e corpo di leone, le cui ali unite formavano un trono per Dio -, ma qualcosa di molto più grande: la Presenza della Santissima Trinità

 

*Seconda lettura dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Romani (10,8-13)

San Paolo afferma una cosa importante: che siate giudei o pagani non c’è alcuna differenza perché ciò che vi accomuna è l’essere cristiani e invocate tutti lo stesso Signore, generoso verso coloro che lo cercano. Il problema esisteva a Roma come altrove e ci si chiedeva se occorreva trattare allo stesso modo giudei e pagani. Anche se Paolo desiderava che tutti i giudei accogliessero Gesù come il Messia, tuttavia soltanto una minoranza del popolo ebraico aderì a Gesù Cristo, mentre furono i pagani a costituire la parte più numerosa delle comunità cristiane. Si capisce allora che la convivenza tra cristiani di origini così diverse, ebraiche o pagane, poneva non poche difficoltà e nascevano interminabili discussioni su questioni come la Legge, la circoncisione e le norme alimentari. Il problema era più profondo dato che alcuni giudei convertiti al cristianesimo accettavano a malincuore l’ingresso di quelli che chiamavano «gli incirconcisi», essendo Israele il popolo eletto da cui sarebbe nato il Messia.  La domanda era la seguente: accogliere i non giudei non è forse tradire l’Alleanza e l’elezione del popolo ebraico? Per Paolo impedire ai pagani di ricevere il battesimo, voleva dire che Gesù salva solo i giudei, mentre nell’ Antico Testamento già il profeta Gioele aveva affermato del Messia: “Effonderò il mio Spirito su ogni uomo. I vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. Anche sui servi e sulle serve, in quei giorni, effonderò il mio Spirito… Allora chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato.» (Gl 3,1-5). Inoltre i contemporanei di Paolo trovavano strano che per essere salvati bastasse invocare il nome di Gesù mentre ritenevano si doveva essere circoncisi e osservare scrupolosamente la Legge. L’Apostolo risponde che, poiché Gesù Cristo è Signore (Dio), d’ora in poi chiunque lo invoca è salvato come lo stesso Cristo disse a Nicodemo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”, precisando proprio chiunque: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.» (Gv 3,16-17) e il termine «mondo» significa chiaramente «tutta l’umanità». L’Apostolo non esita a ripetere: ”se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza”.  Nell’Antico Testamento, «ottenere la giustizia» e «essere salvati» significavano la stessa cosa.  Inoltre il verbo «credere» non ha qui il senso di un’opinione personale e il parallelo tra «bocca» e «cuore» su cui insiste indica che la fede è un impegno profondo e totale della persona. Così, secondo Paolo, si compie quanto si legge nel libro del Deuteronomio: “Questa parola è molto vicina a te: è nella tua bocca e nel tuo cuore.» Mentre nel Deuteronomio si parla della Legge da osservare, ora questa parola è il messaggio della fede in Gesù Cristo e Paolo ricorda a coloro che hanno ricevuto il battesimo: la salvezza ci è donata gratuitamente da Dio senza alcun nostro merito,; dobbiamo solo accoglierla con fede e libertà: «Se con la tua bocca proclami che Gesù è Signore e se con il tuo cuore credi che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore si crede per ottenere la giustizia, con la bocca si fa professione di fede per avere la salvezza

 

* Dal Vangelo secondo san Luca (4, 1 – 13)

Se leggiamo questa pagina evangelica alla luce dell’odierno salmo responsoriale, riconosciamo l’attitudine interiore con cui Gesù inizia la sua missione pubblica: “Chi abita al riparo dell’Altissimo passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente. Io dico al Signore: Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio in cui confido”.  Gesù si pone  all’ombra dell’Altissimo, mentre la tentazione lo spinge a lasciare questo rifugio, a dubitare della sua sicurezza e a cercare altrove ripari e sicurezze: sono proprio queste le tre tentazioni che hanno segnato sempre la storia di Israele e anche la nostra vita. Il diavolo - in greco «diabolos» cioè colui che divide – lo tenta insinuando il dubbio e la sfiducia. Se veramente tu sei il Figlio di Dio, tu puoi fare tutto quello che vuoi e sei in grado da solo di provvedere alla tua felicità. Dì a questa pietra che diventi pane e così sazi subito la tua fame dopo un così lungo digiuno (prima tentazione); adorami e sicuramente potrai realizzare tutti i tuoi disegni e progetti (seconda tentazione). Infine “se tu sei Figlio di Dio, gettati giù di qui; sta scritto infatti: "Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano"; e “ ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra (terza tentazione). Gesù però non cede alle lusinghe sataniche perché è certo che solamente Dio sazia la fame vera dell’uomo e ha scelto di fidarsi, in altri termini, di abitare al riparo dell’Altissimo, come dice il salmo. Più in dettaglio nella prima tentazione, quando il Tentatore lo provoca Gesù risponde: “Sta scritto: "Non di solo pane vivrà l’uomo”, una espressione nota a tutto il popolo ebraico perché è contenuta nel capitolo 8 del Deuteronomio, come una meditazione sull’esperienza d’Israele durante l’esodo sotto la guida di Mosè: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto…ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito con la manna che né tu né i tuoi padri conoscevate, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma di tutto ciò che esce dalla bocca del Signore.” (Dt 8,2-3). Il popolo sa per esperienza cosa significa la beatitudine della povertà: Beati coloro che hanno fame, perché confidano solo in Dio per essere saziati e il Deuteronomio prosegue: «Riconosci dunque nel tuo cuore che il Signore tuo Dio ti educava come un uomo educa suo figlio.» (Dt 8,5). In questo modo Il Figlio di Dio, che ora comincia a guidare il suo popolo, rivive nella sua carne l’esperienza di Israele nel deserto. In altre parole, quando il Tentatore sfida Gesù dicendo: «Se sei Figlio di Dio, dimostralo!», la sua risposta è chiara: Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere le sue opere, come dirà ai discepoli nell’incontro con la Samaritana (cf Gv 4,32-34). Nella seconda tentazione, al Tentatore che gli promette tutti i regni della terra, Gesù risponde: "Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”, citando questo testo fra i più conosciuti dell’Antico Testamento, che segue lo Shema Israel, la professione di fede ebraica (Dt 6,10-13). Nella terza tentazione il diavolo provoca Gesù a gettarsi giù essendo il Figlio di Dio, poiché sta scritto che verranno gli angeli a custodirlo portandolo sulle mani, ma risponde: “È stato detto: "Non metterai alla prova il Signore Dio tuo (Dt 6,16). Il Cristo sa di essere sempre al riparo dell’Altissimo, qualunque cosa accada. Di fronte alle provocazioni del Tentatore Gesù trae dalla parola di Dio la forza per resistere a chi vuole separarlo dal Padre; non discute mai con lui e le tre risposte sono esclusivamente citazioni della Scrittura. In questo si mostra erede autentico del suo popolo e a lui si applica la frase del Deuteronomio, ripresa da san Paolo nella Lettera ai Romani (vedi la seconda lettura): «La Parola è vicino a te, è sulla tua bocca e nel tuo cuore.» (Dt 30,14). Le tre le risposte si richiamano al libro del Deuteronomio, scritto proprio per ricordare agli Israeliti che Dio è loro Padre. Gesù, nella sua vita, ripercorre l’esperienza del suo popolo nel deserto, dal Battesimo, in cui viene rivelato come il Figlio fino al Getsemani dove il Tentatore tornerà per l’ultimo attacco. Leggiamo alla fine del nostro testo: «Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento opportuno, ma Gesù rimarrà sempre sotto l’ombra dell’Altissimo e, con questo episodio, Luca mostra che è Gesù l’unico vero modello da seguire.

+Giovanni D’Ercole

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Paolo VI stated that the world today is suffering above all from a lack of brotherhood: “Human society is sorely ill. The cause is not so much the depletion of natural resources, nor their monopolistic control by a privileged few; it is rather the weakening of brotherly ties between individuals and nations” (Pope Benedict)
Paolo VI affermava che il mondo soffre oggi soprattutto di una mancanza di fraternità: «Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli» (Papa Benedetto)
Dear friends, this is the perpetual and living heritage that Jesus has bequeathed to us in the Sacrament of his Body and his Blood. It is an inheritance that demands to be constantly rethought and relived so that, as venerable Pope Paul VI said, its "inexhaustible effectiveness may be impressed upon all the days of our mortal life" (Pope Benedict)
Questa, cari amici, è la perpetua e vivente eredità che Gesù ci ha lasciato nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue. Eredità che domanda di essere costantemente ripensata, rivissuta, affinché, come ebbe a dire il venerato Papa Paolo VI, possa “imprimere la sua inesauribile efficacia su tutti i giorni della nostra vita mortale” (Papa Benedetto)
The road that Jesus points out can seem a little unrealistic with respect to the common mindset and to problems due to the economic crisis; but, if we think about it, this road leads us back to the right scale of values (Pope Francis)
La strada che Gesù indica può sembrare poco realistica rispetto alla mentalità comune e ai problemi della crisi economica; ma, se ci si pensa bene, ci riporta alla giusta scala di valori (Papa Francesco)
Our commitment does not consist exclusively of activities or programmes of promotion and assistance; what the Holy Spirit mobilizes is not an unruly activism, but above all an attentiveness that considers the other in a certain sense as one with ourselves (Pope Francis)
Il nostro impegno non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro considerandolo come un’unica cosa con se stesso (Papa Francesco)
The drama of prayer is fully revealed to us in the Word who became flesh and dwells among us. To seek to understand his prayer through what his witnesses proclaim to us in the Gospel is to approach the holy Lord Jesus as Moses approached the burning bush: first to contemplate him in prayer, then to hear how he teaches us to pray, in order to know how he hears our prayer (Catechism of the Catholic Church n.2598)
L’evento della preghiera ci viene pienamente rivelato nel Verbo che si è fatto carne e dimora in mezzo a noi. Cercare di comprendere la sua preghiera, attraverso ciò che i suoi testimoni ci dicono di essa nel Vangelo, è avvicinarci al santo Signore Gesù come al roveto ardente: dapprima contemplarlo mentre prega, poi ascoltare come ci insegna a pregare, infine conoscere come egli esaudisce la nostra preghiera (Catechismo della Chiesa Cattolica n.2598)
If penance today moves from the material to the spiritual side, let's say, from the body to the soul, from the outside to the inside, it is no less necessary and less feasible (Pope Paul VI)
Se la penitenza si sposta oggi dalla parte, diciamo, materiale a quella spirituale, dal corpo all’anima, dall’esterno all’interno, non è meno necessaria e meno attuabile (Papa Paolo VI)

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