Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
9 Febbraio 2025 V Domenica Tempo Ordinario Anno C
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!
Aggiungo in coda al commento delle Letture alcune note che aiutano a meglio entrare nel testo e utili anche per la lectio divina o la catechesi.
*Prima Lettura Dal Libro del profeta Isaia (6, 1- 8)
Nella IV domenica del Tempo Ordinario Anno C (quest’anno sostituita dalla liturgia della Presentazione del Signore) si leggeva il racconto della vocazione di Geremia, oggi invece quello di Isaia: entrambi grandi profeti eppure tutti e due confessano la loro piccolezza. Geremia proclama di essere incapace di parlare, ma poiché è Dio ad averlo scelto sarà Dio stesso a dargli la forza necessaria. Isaia, da parte sua, è preso da un senso di indegnità ma è sempre Dio a renderlo “puro”. La vocazione dei profeti è sempre una scelta personale da parte di Dio che chiede una completa adesione, frutto di decisa consapevolezza: “Mandare e andare” sono i termini di ogni vocazione e anche Isaia risponde in maniera totale. Se Geremia è un sacerdote ma non si sa dove abbia ricevuto la chiamata divina, Isaia invece, che sacerdote non era, colloca la sua vocazione nel tempio di Gerusalemme: “Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato”. Quando Isaia dice: io vidi, ci comunica una visione e poiché i libri profetici sono costellati di visioni occorre riuscire a decodificare questo linguaggio. Isaia ci offre un’indicazione preziosa e afferma che tutto ciò accadde nell’anno della morte del re Ozia che regnò a Gerusalemme dal 781 al 740 a.C. Morto il re Salomone (nel 933 a.C., quasi due secoli prima), il regno di Davide e Salomone si era diviso: esistevano due regni con due re e due capitali. Al Sud, Ozia regnava su Gerusalemme; al Nord, Menaem regnava su Samaria. Ozia era lebbroso e morì di questa malattia a Gerusalemme nel 740 a.C. È dunque in quell’anno che Isaia ricevette la sua vocazione profetica. Successivamente, predicò per circa quarant’anni e morì martirizzato sotto il re Manasse di Giuda, secondo un’accreditata tradizione, segato in due con una sega di legno. Rimane nella memoria collettiva di Israele come un grande profeta, in particolare come il profeta della santità di Dio. “Santo! Santo! Santo è il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria”: il Sanctus delle nostre celebrazioni eucaristiche risale dunque al profeta Isaia, anche se forse questa acclamazione faceva già parte della liturgia del tempio di Gerusalemme. Dio è “Santo”: in senso biblico significa che è totalmente Altro rispetto all’uomo (Qadosh), non è cioè a immagine dell’uomo, ma come la Bibbia afferma, è l’uomo a essere creato a immagine di Dio. Nella visione d’Isaia Dio è seduto su un trono elevato, il fumo si diffonde e riempie tutto lo spazio, una voce tuona così forte che i luoghi tremano: “Tutta la terra è piena della tua gloria”. Il profeta pensa a ciò che accadde a Mosè sul monte Sinai, quando Dio fece alleanza con il suo popolo e gli diede le Tavole della Legge. Il libro dell’Esodo racconta: “Il monte Sinai era tutto fumante, perché il Signore vi era disceso nel fuoco; il fumo saliva come quello di una fornace e tutto il monte tremava molto…” (Es 19,18-19). Isaia, nella sua piccolezza, prova un reverenziale timore: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono… eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti”. Il timore d’Isaia è anzitutto consapevolezza del nostro essere piccoli e del divario incolmabile che ci separa da Dio. Dio però non si ferma e dice: “Non temere”. Nella visione di Isaia la parola è sostituita dal gesto: “Uno dei serafini volò verso di me, teneva in mano un carbone ardente… mi toccò la bocca”. Lo purifica perché il profeta viene purificato dalla Parola che gli permette di entrare in relazione con Dio. Chiamando Dio “Il Santo d’Israele” afferma inoltre che Egli è il Totalmente Altro e al tempo stesso vicino al suo popolo, così che il suo popolo lo può sentire come il proprio Dio. In tutta la Bibbia Dio appare come colui che vuole diventare il “Santo” per l’intera umanità, il Dio che ci ama e vuole restare con tutti noi.
Tre note integrative:
1.Il libro di Isaia comprende sessantasei capitoli: non è però di un solo autore perché è un insieme di tre raccolte. I capitoli da 1 a 39 sono in gran parte opera del profeta che qui racconta la sua vocazione (all’interno di questi 39 capitoli, alcune pagine sono probabilmente posteriori); i capitoli da 40 a 55 sono opera di un profeta che predicava durante l’esilio a Babilonia (nel VI secolo a.C.); i capitoli da 56 a 66 riportano la predicazione di un terzo profeta, contemporaneo di quanti erano tornati dall’esilio in Babilonia.
2.La santità non è un concetto morale, né un attributo di Dio, ma è la natura stessa di Dio; infatti, l’aggettivo divino non esiste in ebraico ed è sostituito dal termine santo, che significa Totalmente Altro rispetto all’uomo: non possiamo raggiungerlo con le nostre forze perché ci supera infinitamente, al punto che non abbiamo alcun potere su di lui. Il profeta Osea scrive: “Io sono Dio e non uomo; in mezzo a te sono il Dio santo” (Os 11,9). Pertanto nella Bibbia nessun essere umano è mai considerato santo, al massimo si può essere “santificati” da Dio e, di conseguenza, riflettere la sua immagine, che è da sempre la nostra vocazione.
3.In alcune traduzioni linguistiche l’espressione “Il Signore degli eserciti” viene reso con “il Signore dell’universo” probabilmente per andare incontro a una sensibilità a cui urta l’idea di un Dio degli eserciti e per esprimere nel contempo un senso universalistico dell’azione di Dio.
*Salmo responsoriale (137 /138 ,1-5.7c-8)
Questo salmo trasmette una sensazione di gioia profonda e fin dal primo versetto tutto è detto. L’espressione “rendere grazie” è infatti ripetuta più volte: “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore… Rendo grazie al tuo nome”. Il credente è colui che vive nella grazia di Dio e lo riconosce semplicemente, con il cuore colmo di gratitudine. Qui il credente è il popolo d’Israele che, come sempre nei salmi, parla e rende grazie per l’Alleanza che Dio gli ha offerto. Questo si comprende dalla ripetizione del nome “Signore”, che torna più volte in questi versetti. “Signore” è il Nome di Dio, il cosiddetto “tetragramma”, formato da quattro consonanti (YHWH), rivelato a Mosè al Sinai nell’episodio del roveto ardente (Es. 3). Le quattro lettere ebraiche sono: yod, he, vav, he e la pronuncia esatta si è persa nel tempo, poiché le vocali originali non sono indicate nel testo ebraico. Generalmente diciamo “Yahweh”, nome sacro che si pronuncia raramente per rispetto. Quasi sempre viene sostituito da Adonai (“Signore”) o HaShem (“Il Nome”) durante la lettura. Dio si è rivelato a Mosè durante l’Esodo sul Sinai, anche sotto il nome di “Amore e Fedeltà” e lo sentiamo anche qui: “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”. Questa stessa espressione “Amore e Fedeltà” ricorre più volte in altri salmi e in tutta la Bibbia, preziosa scoperta di Israele, grazie allo Spirito di Dio: «Io sono il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6). Non è un caso che la rivelazione della tenerezza di Dio avvenga dopo l’episodio del vitello d’oro, cioè in un momento di grave infedeltà del popolo perché è nelle sue ripetute infedeltà che Israele ha sperimentato la misericordia di Dio. Fedeltà di Dio cantata incessantemente nel tempio di Gerusalemme: «Mi prostro verso il tuo tempio santo» (v.2) e il salmo prosegue: “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”. Come appare nella vita del profeta Isaia, il divario che ci separa da Dio, incolmabile con azioni meritorie, è colmato da Dio stesso invitandoci nella sua intimità. E in questo salmo scopriamo in cosa consiste la santità di Dio: Amore e fedeltà. Alla fine del salmo leggiamo “il tuo amore” è per sempre e “la tua destra mi salva”, un ulteriore richiamo all’Esodo dove si dice che Egli ci ha liberati “con mano potente e braccio teso” (Dt 4,34). Israele sa di essere il destinatario della Rivelazione, il confidente di Dio, ma si rende anche conto che deve diventarne il profeta proclamandone l’Amore e la Fedeltà a tutta l’umanità. Questo è il senso del versetto: “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra… quando ascolteranno le parole della tua bocca» (v.4). Soltanto quando Israele avrà compiuto la sua missione di testimone di Dio, allora si potrà davvero cantare: “Ti rendo grazie, Signore con tutto il cuore” e… “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra”. Il salmo si conclude con una preghiera: “Non abbandonare l’opera delle tue mani”, che vuol dire: Continua nonostante le nostre infedeltà. Vanno lette insieme le due frasi: “Signore, il tuo amore è per sempre…non abbandonare l’opera delle tue mani”. Il suo amore eterno ci dà certezza che non abbandonerà mai l’opera delle sue mani e per questo non smettiamo di rendere grazie: “Il Signore farà tutto per me” (v.8).
Nota integrativa. La traduzione italiana porta: “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra” (v.4), Gli esegeti fanno notare che qui si tratta di un verbo ebraico inaccompiuto o imperfetto che può indicare sia azoni future, sia azioni abituali e ripetute oppure azioni continue o incomplete nel passato o nel presente. Quindi potrebbe essere validamente tradotto con il presente: “Ti rendono grazie tutti i re della terra” oppure con un congiuntivo: “Che ti rendano grazie tutti i re della terra” ed è ovvio che in ogni scelta cambia un po’ il significato.
*Seconda Lettura Dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,1-11)
Se oggi rileggiamo quanto scrive san Paolo è grazie al fatto che in questi millenni, di generazione in generazione, è stato trasmesso il vangelo come in una ininterrotta staffetta dove, lungo il percorso, si consegna il “testimone” a chi viene dopo che a sua volta lo consegnerà al seguente. La Chiesa è chiamata a trasmettere fedelmente il vangelo. Paolo, a parte l’apparizione sulla via di Damasco, non ha conosciuto e non è stato testimone della vita di Gesù di Nazareth; le sue fonti sono gli Apostoli della prima generazione e per lui, in particolare, Anania, Barnaba e la comunità cristiana di Antiochia di Siria. Grazie a loro, egli ha ricevuto il Vangelo che trasmette a sua volta riassumendolo in due frasi: Cristo morì per i nostri peccati ed è risorto il terzo giorno, sintetizzabili in due sole parole: morto/risorto che costituiscono i due pilastri della fede cristiana e questo è conforme alle Scritture, cioè anche all’Antico Testamento dove però non si trovano affermazioni esplicite sulla morte e risurrezione del Messia. La formula “secondo le Scritture” non significa pertanto che tutto fosse scritto in anticipo, ma che tutto ciò che è accaduto è conforme al disegno misericordioso di Dio. Si potrebbe allora sostituire l’espressione “secondo le Scritture” con “secondo il progetto e la promessa di Dio”. Cristo morendo in croce ha cancellato i nostri peccati e, secondo la sua stessa promessa, è risorto: la morte è stata vinta ed è facile costatare che tutto l’Antico Testamento è colmo di promesse di perdono dei peccati, di salvezza e di vita. Ad esempio nell’Antico Testamento l’espressione “il terzo giorno” evocava una promessa di salvezza e liberazione perché dire che ci sarà un terzo giorno equivaleva a dire: “Dio interverrà”. Il terzo giorno sul monte Moria, Dio salva Isacco dalla morte (Gn 22,8); Il terzo giorno, Giuseppe in Egitto restituì la libertà ai suoi fratelli (Gn 42,18); Il terzo giorno, il Signore apparve al suo popolo radunato ai piedi del monte Sinai (Es 19,11- 16); Il terzo giorno, Giona, finalmente convertito, torna sulla terraferma e alla sua missione (Gn 2,1). Così si interpretava la parola di Osea: “Ci ridarà vita dopo due giorni; il terzo giorno ci farà risorgere e noi vivremo davanti a lui” (Os 6,2). Il terzo giorno non è dunque un dato cronologico, ma l’espressione di una speranza: quella del trionfo della vita sulla morte. Proclamare che Cristo è risorto il terzo giorno secondo le Scritture è quindi affermare che la salvezza è universale: il trionfo della vita e la salvezza sono per tutti i tempi e per tutti gli uomini, poiché Cristo vive per sempre. Innestati in lui siamo già parte della nuova umanità resa viva dallo Spirito Santo. Paolo racconta che ha personalmente sperimentato questa salvezza essendo un persecutore perdonato, convertito e trasformato in colonna della Chiesa e mai lo dimenticherà testimoniando la meraviglia dell’amore di Dio per l’umanità: un amore senza condizioni e continuamente offerto. Paolo, come Isaia, come Pietro, è profondamente consapevole del proprio peccato; ma lascia agire la grazia di Dio in lui: “Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi ho faticato più di tutti loro; non io però, ma la grazia di Dio che è me” (v.10). Da persecutore Dio l’ha fatto apostolo, il più ardente, come da giovane timido, ha reso Geremia profeta coraggioso e Isaia, da uomo dalle labbra impure, l’ha fatto la «bocca di Dio» e Pietro, da rinnegatore, l’ha costituito il fondamento della sua Chiesa. Il vangelo da gridare sui tetti dell’umanità è proprio l’Amore e la Misericordia di Dio per tutti.
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*Dal Vangelo secondo Luca (5, 1-11)
La prima lettura richiama quasi sempre il vangelo e oggi lo percepiamo molto bene. Non siamo abituati a paragonare l’apostolo Pietro al profeta Isaia, eppure i testi della liturgia ci aiutano a farlo proponendoci i racconti della loro vocazione. Diversi gli scenari: per Isaia, tutto avviene durante una visione nel tempio di Gerusalemme; per Pietro, sul lago di Tiberiade. Entrambi, però, si trovano improvvisamente al cospetto di Dio: Isaia nella sua visione, Pietro assistendo a un miracolo dopo una notte andata a vuoto. I dettagli forniti da Luca non lasciano dubbi. Pietro dice a Gesù: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla” e Gesù invita a gettare ancora le reti. Succede allora qualcosa di straordinario contro ogni aspettativa e umana esperienza. Se infatti di notte non si è pescato nulla, di giorno sicuramente è ancor peggio e questo lo sanno tutti i pescatori che lavorano di notte. Il miracolo però avviene perché, sulla semplice parola di Gesù, Pietro, esperto pescatore mostra una fiducia umile e smisurata e ubbidisce. il risultato fu una così enorme quantità di pesci da rischiare di rompere le reti. Sia Pietro che Isaia reagiscono allo stesso modo davanti all’irruzione di Dio nella loro vita; entrambi ne percepiscono la santità e l’abisso che li separa da lui. Le loro espressioni sono simili: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore”, esclama Pietro, mentre Isaia dice: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono”. Chiaro l’insegnamento: i nostri peccati, la nostra indegnità non fermano Dio perché lui si accontenta che noi ne prendiamo coscienza e ci presentiamo a Lui nella verità. Soltanto però, quando riconosciamo la nostra povertà, Dio può colmarci della sua grazia. Pietro e Isaia sono presi da un timore reverenziale davanti alla sua presenza: Isaia vede un carbone ardente toccargli la bocca, Pietro sente le parole di Gesù: “Non temere” e alla fine entrambi vengono chiamati al servizio dello stesso progetto di Dio, la salvezza degli uomini. Isaia come profeta, Pietro diventerà pescatore di uomini per la loro salvezza. Alle parole di Gesù: “Non temere, d’ora sarai pescatore di uomini” Pietro non risponde direttamente, ma insieme agli altri compie un gesto d’una semplicità impressionante: “E tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”. I discepoli diventeranno collaboratori di Cristo anche se l’impresa sembrerà destinata al fallimento secondo il giudizio umano e occorrerà continuare sempre a gettare le reti. E’ il mistero della nostra collaborazione all’opera di Dio: non possiamo fare nulla senza lui, e Dio non vuole fare nulla senza noi. Come dice Paolo nella seconda lettura, è la sua grazia che fa tutto: “Per grazia di Dio sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana”. A ben vedere l’unica collaborazione che ci viene chiesta è una fiduciosa disponibilità come fa Pietro che con coraggio rischia un nuovo tentativo di pesca. E dopo il miracolo non chiama più Gesù Maestro, ma Signore, il nome riservato a Dio: si prostra ai suoi piedi pronto ormai a fare tutto ciò che dirà. In definitiva è grazie al sì di Isaia, di Pietro e dei suoi compagni e di Paolo, che oggi anche noi siamo qui. La parola di Gesù risuona ancora per noi: “Prendi il largo e gettate le reti per la pesca” e tocca a noi rispondere: sulla tua parola getteremo le reti. Per una pesca miracolosa il segreto è fidarsi sempre di Cristo, cosa non facile ma possibile a tutti.
Nota integrativa. Nel versetto 6, il verbo “presero una quantità di pesci” è συνεκλεισαν (synekleisan), derivato dal verbo συγκλείω (synkleió), che significa “rinchiudere”, “intrappolare” o “racchiudere insieme” e significa prendere i pesci con la rete strappandoli dal mare per ucciderli. Nelle sue opere, Sant’Agostino utilizza spesso l’immagine dei pescatori per descrivere l’opera degli Apostoli, in particolare di Pietro e Andrea, chiamati da Gesù a diventare “pescatori di uomini” (Matteo 4,19). Così annota nel Commento ai Salmi (Salmo 91, Discorso 2): “Essi pescano uomini, non per ucciderli ma per vivificarli; pescano, ma per condurli alla luce della verità, non alla morte”. Quando quindi si tratta di uomini, strapparli dal mare (simbolo del male) significa salvarli: prendere uomini vivi vuol dire impedir loro di annegare, cioè salvarli da gorghi di morte: portarli al respiro, alla Luce, alla Vita.
+Giovanni D’Ercole
*Sintesi 9 Febbraio 2025 V Domenica Tempo Ordinario Anno C
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!
Aggiungo in coda al commento delle Letture alcune note che aiutano a meglio entrare nel testo e utili anche per la lectio divina o la catechesi.
*Prima Lettura Dal Libro del profeta Isaia (6, 1- 8)
Nella IV domenica del Tempo Ordinario Anno C (quest’anno sostituita dalla liturgia della Presentazione del Signore) si leggeva il racconto della vocazione di Geremia, oggi invece quello di Isaia: entrambi grandi profeti eppure tutti e due confessano la loro piccolezza. Geremia proclama di essere incapace di parlare, ma poiché è Dio ad averlo scelto sarà Dio stesso a dargli la forza necessaria. Isaia, da parte sua, è preso da un senso di indegnità ma è sempre Dio a renderlo “puro”. La vocazione dei profeti è sempre una scelta personale da parte di Dio che chiede una completa adesione, frutto di decisa consapevolezza: “Mandare e andare” sono i termini di ogni vocazione e anche Isaia risponde in maniera totale. Se Geremia è un sacerdote ma non si sa dove abbia ricevuto la chiamata divina, Isaia invece, che sacerdote non era, colloca la sua vocazione nel tempio di Gerusalemme: “Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato”. Isaia ci offre un’indicazione preziosa e afferma che ciò accadde nell’anno della morte del re Ozia che regnò a Gerusalemme dal 781 al 740 a.C. Morto il re Salomone (nel 933 a.C., quasi due secoli prima), il regno di Davide e Salomone si era diviso: esistevano due regni con due re e due capitali. Al Sud, Ozia regnava su Gerusalemme; al Nord, Menaem regnava su Samaria. Ozia era lebbroso e morì di questa malattia a Gerusalemme nel 740 a.C. È dunque in quell’anno che Isaia ricevette la sua vocazione profetica. Successivamente, predicò per circa quarant’anni e morì martirizzato sotto il re Manasse di Giuda, secondo un’accreditata tradizione, segato in due con una sega di legno. Rimane nella memoria collettiva di Israele come un grande profeta, in particolare come il profeta della santità di Dio. “Santo! Santo! Santo è il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria”: il Sanctus delle nostre celebrazioni eucaristiche risale dunque al profeta Isaia, anche se forse questa acclamazione faceva già parte della liturgia del tempio di Gerusalemme. Dio è “Santo”: in senso biblico significa che è totalmente Altro rispetto all’uomo (Qadosh), non è cioè a immagine dell’uomo, ma come la Bibbia afferma, è l’uomo a essere creato a immagine di Dio. Chiamando Dio “Il Santo d’Israele” afferma inoltre che Egli è il Totalmente Altro e al tempo stesso vicino al suo popolo, così che il suo popolo lo può sentire come il proprio Dio. In tutta la Bibbia Dio appare come colui che vuole diventare il “Santo” per l’intera umanità, il Dio che ci ama e vuole restare con tutti noi.
Tre note integrative:
1.Il libro di Isaia comprende sessantasei capitoli: non è però di un solo autore perché è un insieme di tre raccolte. I capitoli da 1 a 39 sono in gran parte opera del profeta che qui racconta la sua vocazione (all’interno di questi 39 capitoli, alcune pagine sono probabilmente posteriori); i capitoli da 40 a 55 sono opera di un profeta che predicava durante l’esilio a Babilonia (nel VI secolo a.C.); i capitoli da 56 a 66 riportano la predicazione di un terzo profeta, contemporaneo di quanti erano tornati dall’esilio in Babilonia.
2.La santità non è un concetto morale, né un attributo di Dio, ma è la natura stessa di Dio; infatti, l’aggettivo divino non esiste in ebraico ed è sostituito dal termine santo, che significa Totalmente Altro rispetto all’uomo: non possiamo raggiungerlo con le nostre forze perché ci supera infinitamente, al punto che non abbiamo alcun potere su di lui. Il profeta Osea scrive: “Io sono Dio e non uomo; in mezzo a te sono il Dio santo” (Os 11,9). Pertanto nella Bibbia nessun essere umano è mai considerato santo, al massimo si può essere “santificati” da Dio e, di conseguenza, riflettere la sua immagine, che è da sempre la nostra vocazione.
3.In alcune traduzioni linguistiche l’espressione “Il Signore degli eserciti” viene reso con “il Signore dell’universo” probabilmente per andare incontro a una sensibilità a cui urta l’idea di un Dio degli eserciti e per esprimere nel contempo un senso universalistico dell’azione di Dio.
*Salmo responsoriale (137 /138 ,1-5.7c-8)
Questo salmo trasmette una sensazione di gioia profonda e fin dal primo versetto tutto è detto. L’espressione “rendere grazie” è infatti ripetuta più volte: “Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore… Rendo grazie al tuo nome”. Il credente è colui che vive nella grazia di Dio e lo riconosce semplicemente, con il cuore colmo di gratitudine. Qui il credente è il popolo d’Israele che, come sempre nei salmi, parla e rende grazie per l’Alleanza che Dio gli ha offerto. Questo si comprende dalla ripetizione del nome “Signore”, che torna più volte in questi versetti. “Signore” è il Nome di Dio, il cosiddetto “tetragramma”, formato da quattro consonanti (YHWH), rivelato a Mosè al Sinai nell’episodio del roveto ardente (Es. 3). Generalmente diciamo “Yahweh”, nome sacro che si pronuncia raramente per rispetto. Dio si è rivelato a Mosè durante l’Esodo sul Sinai, anche sotto il nome di “Amore e Fedeltà” e lo sentiamo anche qui: “Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà”. Questa stessa espressione “Amore e Fedeltà” ricorre più volte in altri salmi e in tutta la Bibbia: «Io sono il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6). In questo salmo scopriamo che la santità di Dio consiste in Amore e fedeltà. Israele si rende conto che deve diventarne il profeta proclamandone l’Amore e la Fedeltà a tutta l’umanità. Soltanto quando Israele avrà compiuto questa sua missione, allora si potrà davvero cantare: “Ti rendo grazie, Signore con tutto il cuore” e… “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra”.
Nota integrativa. La traduzione italiana porta: “Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra” (v.4), Gli esegeti fanno notare che qui si tratta di un verbo ebraico inaccompiuto o imperfetto che può indicare sia azoni future, sia azioni abituali e ripetute oppure azioni continue o incomplete nel passato o nel presente. Quindi potrebbe essere validamente tradotto con il presente: “Ti rendono grazie tutti i re della terra” oppure con un congiuntivo: “Che ti rendano grazie tutti i re della terra” ed è ovvio che in ogni scelta cambia un po’ il significato.
*Seconda Lettura Dalla Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,1-11)
Paolo, a parte l’apparizione sulla via di Damasco, non ha conosciuto e non è stato testimone della vita di Gesù di Nazareth; le sue fonti sono gli Apostoli della prima generazione e grazie a loro, ha ricevuto il Vangelo che trasmette a sua volta riassumendolo in due frasi: Cristo morì per i nostri peccati ed è risorto il terzo giorno, sintetizzabili in due sole parole: morto/risorto che costituiscono i due pilastri della fede cristiana e questo è conforme alle Scritture, cioè anche all’Antico Testamento dove però non si trovano affermazioni esplicite sulla morte e risurrezione del Messia. La formula “secondo le Scritture” non significa pertanto che tutto fosse scritto in anticipo, ma che tutto ciò che è accaduto è conforme al disegno misericordioso di Dio. Si potrebbe allora sostituire l’espressione “secondo le Scritture” con “secondo il progetto e la promessa di Dio”. Cristo morendo in croce ha cancellato i nostri peccati e, secondo la sua stessa promessa, è risorto: la morte è stata vinta ed è facile costatare che tutto l’Antico Testamento è colmo di promesse di perdono dei peccati, di salvezza e di vita. Ad esempio nell’Antico Testamento l’espressione “il terzo giorno” evocava una promessa di salvezza e liberazione perché dire che ci sarà un terzo giorno equivaleva a dire: “Dio interverrà”. Il terzo giorno sul monte Moria, Dio salva Isacco dalla morte (Gn 22,8); Il terzo giorno, Giuseppe in Egitto restituì la libertà ai suoi fratelli (Gn 42,18); Il terzo giorno, il Signore apparve al suo popolo radunato ai piedi del monte Sinai (Es 19,11- 16); Il terzo giorno, Giona, finalmente convertito, torna sulla terraferma e alla sua missione (Gn 2,1). Così si interpretava la parola di Osea: “Ci ridarà vita dopo due giorni; il terzo giorno ci farà risorgere e noi vivremo davanti a lui” (Os 6,2). Il terzo giorno non è dunque un dato cronologico, ma l’espressione di una speranza: quella del trionfo della vita sulla morte. Proclamare che Cristo è risorto il terzo giorno secondo le Scritture è quindi affermare che la salvezza è per tutti i tempi e per tutti gli uomini, poiché Cristo vive per sempre. Da persecutore Dio ha fatto san Paolo apostolo, come da giovane timido, ha reso Geremia profeta coraggioso e Isaia, da uomo dalle labbra impure, l’ha fatto la «bocca di Dio» e Pietro, da rinnegatore, l’ha costituito il fondamento della sua Chiesa.
*Dal Vangelo secondo Luca (5, 1-11)
La prima lettura richiama quasi sempre il vangelo e oggi lo percepiamo molto bene. Non siamo abituati a paragonare l’apostolo Pietro al profeta Isaia, eppure i testi della liturgia ci aiutano a farlo proponendoci i racconti della loro vocazione. Diversi gli scenari: per Isaia, tutto avviene durante una visione nel tempio di Gerusalemme; per Pietro, sul lago di Tiberiade. Entrambi, però, si trovano improvvisamente al cospetto di Dio: Isaia nella sua visione, Pietro assistendo a un miracolo dopo una notte andata a vuoto. I dettagli forniti da Luca non lasciano dubbi. Pietro dice a Gesù: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla” e Gesù invita a gettare ancora le reti. Succede allora qualcosa di straordinario contro ogni aspettativa e umana esperienza. Se infatti di notte non si è pescato nulla, di giorno sicuramente è ancor peggio e questo lo sanno tutti i pescatori che lavorano di notte. Il miracolo però avviene perché, sulla semplice parola di Gesù, Pietro, esperto pescatore mostra una fiducia umile e smisurata e ubbidisce. il risultato fu una così enorme quantità di pesci da rischiare di rompere le reti. Sia Pietro che Isaia reagiscono allo stesso modo davanti all’irruzione di Dio nella loro vita; entrambi ne percepiscono la santità e l’abisso che li separa da lui. Le loro espressioni sono simili: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore”, esclama Pietro, mentre Isaia dice: “Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono”. Chiaro l’insegnamento: i nostri peccati, la nostra indegnità non fermano Dio perché lui si accontenta che noi ne prendiamo coscienza e ci presentiamo a Lui nella verità e quando riconosciamo la nostra povertà, Dio può colmarci della sua grazia. Alle parole di Gesù: “Non temere, d’ora sarai pescatore di uomini” Pietro non risponde direttamente, ma insieme agli altri compie un gesto d’una semplicità impressionante: “E tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono”. I discepoli diventeranno collaboratori di Cristo anche se l’impresa sembrerà destinata al fallimento secondo il giudizio umano e occorrerà continuare sempre a gettare le reti. E’ il mistero della nostra collaborazione all’opera di Dio: non possiamo fare nulla senza lui, e Dio non vuole fare nulla senza noi. La parola di Gesù risuona ancora per noi: “Prendi il largo e gettate le reti per la pesca” e tocca a noi rispondere: sulla tua parola getteremo le reti.
Nota integrativa. Nel versetto 6, il verbo “presero una quantità di pesci” deriva dal verbo greco synkleió, che significa “rinchiudere”, “intrappolare” o “racchiudere insieme” e significa prendere i pesci con la rete strappandoli dal mare per ucciderli. Sant’Agostino utilizza spesso l’immagine dei pescatori per descrivere l’opera degli Apostoli, in particolare di Pietro e Andrea, chiamati da Gesù a diventare “pescatori di uomini” (Matteo 4,19). Nel Commento ai Salmi (Salmo 91, Discorso 2) scrive: “Essi pescano uomini, non per ucciderli ma per vivificarli; pescano, ma per condurli alla luce della verità, non alla morte”. Quando quindi si tratta di uomini, strapparli dal mare (simbolo del male) significa salvarli: prendere uomini vivi vuol dire impedir loro di annegare, cioè salvarli da gorghi di morte: portarli al respiro, alla Luce, alla Vita.
+Giovanni D’Ercole
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. In questa domenica 2 Febbraio 2025 celebriamo la Presentazione del Signore al Tempio di Gerusalemme
*Prima Lettura Dal libro del profeta Malachia (3,1-4)
Siamo in presenza di un misterioso frammento profetico visto da molti come una testimonianza di universalismo, di libertà e di speranza. Non è però facile capire come accogliere questo testo. Perché il profeta Malachia insiste così tanto sul Tempio, sui leviti (o sacerdoti), sulle offerte e su tutto ciò che riguarda il culto? Per capire questa insistenza, occorre tener conto del contesto storico. Malachia scrive intorno al 450 a.C., in un periodo in cui in Israele non c’era più un re discendente di Davide, il paese era sotto il dominio persiano e il popolo ebraico era comandato dai sacerdoti. Ecco perché l’autore insiste sull’alleanza di Dio con i sacerdoti he erano i rappresentanti di Dio presso il suo popolo. Malachia ricorda il legame privilegiato tra Dio e la discendenza di Levi, ma assiste a una degenerazione nella condotta di questa casta sacerdotale ed era perciò molto importante richiamare l’ideale e la responsabilità del sacerdozio. L’alleanza con i sacerdoti era al servizio dell’alleanza di Dio con il suo popolo ed è proprio di questa alleanza che qui si parla: “subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza che voi sospirate, eccolo venire”. Malachia si rivolge a tutti coloro che aspettano, desiderano, cercano e annuncia loro che non hanno atteso, cercato, desiderato invano e il loro desiderio, la loro attesa saranno esauditi. E questo avverrà presto.
“E subito entrerà”, la parola ebraica pit’ôm indica sia rapidità che vicinanza, ed è forte come l’espressione che segue: ”eccolo venire”. Le due espressioni sinonime “subito entrerà” e “eccolo venire” incorniciano (inclusione) l’annuncio della venuta del Signore. ”Subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza che voi sospirate, eccolo venire”. L’angelo dell’alleanza viene per ristabilire l’alleanza: prima di tutto con i figli di Levi, ma soprattutto, attraverso di loro, con il popolo intero e si capisce che quest’angelo dell’alleanza è Dio stesso. Nella Bibbia, per non nominare direttamente Dio per rispetto, si usa spesso l’espressione “l’Angelo di Dio”. Si tratta quindi della venuta stessa di Dio. Nel suo piccolo libro di appena quattro pagine nella nostra Bibbia, Malachia parla più volte del giorno della sua venuta; lo chiama il “giorno del Signore” e ogni volta questo giorno appare desiderabile e al tempo stesso inquietante. Per esempio, nel versetto che segue immediatamente il testo dell’odierna liturgia, Dio dice: “Io mi accosterò a voi per il giudizio” (v. 5), cioè vi libererò dal male. Questo è desiderabile per i giusti ma temibile per chi vive nel male e opera il male. L’intervento di Dio è un discernimento che deve avvenire dentro di noi nel giorno del giudizio e un messaggero deve precedere la venuta del Signore che chiamerà tutto il popolo alla conversione. Come scrive Malachia: “Io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me. Più tardi, Gesù citerà precisamente questa profezia riferendosi a Giovanni Battista. Chiedendo alla gente chi erano andati a vedere dirà che Giovanni Battista è “più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te; egli preparerà la tua strada davanti a te”(Mt 11,7-10 e Lc 7,27). Con queste parole, Gesù identificava sé stesso come l’Angelo dell’alleanza che viene nel suo tempio e lo capiremo meglio approfondendo il Vangelo di san Luca oggi, festa della Presentazione del Signore
*Salmo responsoriale 23/24 (7, 8, 9, 10)
“Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria”. Quest’espressione è solenne e un po’ sorprendente dato che è difficile immaginare che i lintei delle porte possano sollevarsi. Siamo in un contesto poetico e l’iperbole serve a esprimere la maestà di questo Re di gloria che entra solennemente nel Tempio di Gerusalemme. L’espressione “re della gloria” è riferita a Dio stesso, il Signore dell’universo. Il pensiero va alla grande festa della Dedicazione del primo Tempio, realizzata dal re Salomone intorno al 950 a.C. Con la fantasia rivediamo l’enorme processione, le gradinate gremite di fedeli… Come leggiamo nel salmo 67/68: “Appare il tuo corteo, Dio, il corteo del mio Dio, del mio re, nel santuario. Precedono i cantori, seguono i suonatori di cetra, insieme a fanciulle che suonano tamburelli” (Sal 67,25-26). La Dedicazione del primo Tempio da parte di Salomone è descritta nel primo libro dei Re. In quell’occasione Salomone radunò a Gerusalemme gli anziani d’Israele, i capi delle tribù, i prìncipi delle famiglie dei figli d’Israele, per far salire l’Arca del Signore dalla città di Davide, cioè da Sion nel mese di Etanim, il settimo mese, durante la festa delle Capanne. Quando tutti gli anziani d’Israele erano arrivati, i sacerdoti portarono l’Arca, la tenda del convegno e tutti gli oggetti sacri che si trovavano nella tenda e fu sacrificato così tanto bestiame minuto e grande che non si poteva contare né enumerare. I sacerdoti sistemarono l’Arca dell’Alleanza del Signore al suo posto, nella camera interna della Casa, il Santo dei Santi, sotto le ali dei cherubini. I cherubini, nella Bibbia, non assomigliano ai piccoli angioletti della nostra immaginazione, ma sono animali alati con volto umano, più simili a grandi sfingi egiziane. In Mesopotamia, erano i guardiani dei templi. Nel Tempio di Gerusalemme, sopra l’Arca dell’Alleanza si trovavano due statue di legno dorato raffiguranti questi esseri. Le loro ali spiegate sopra l’Arca simboleggiavano il trono di Dio. In questo contesto, possiamo immaginare la folla e un coro che canta: “Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria”. E un altro coro risponde: “Chi è questo re della gloria? Il Signore forte e valoroso, il Signore valoroso in battaglia”. Dietro i termini che richiamano la guerra, che oggi possono sorprenderci, dobbiamo leggere il ricordo di tutte le battaglie necessarie a Israele per conquistarsi uno spazio vitale. Sin dal dono della Legge sul Sinai, l’Arca accompagnava il popolo d’Israele in ogni battaglia, segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. L’ipotesi più comune è che questo salmo sia molto antico, poiché si è persa ogni traccia dell’Arca dall’esilio babilonese. Nessun testo biblico parla chiaramente di essa né durante né dopo l’esilio, ma si sa che finì come parte del bottino portato via da Nabucodonosor durante la presa di Gerusalemme. Fu nascosta poi da Geremia sul monte Nebo, come raccontano alcuni? Nessuno lo sa. Eppure questo salmo è stato cantato regolarmente nelle cerimonie del Tempio di Gerusalemme persino molto dopo l’esilio babilonese, in un’epoca in cui non vi era più nessuna processione intorno all’Arca. Proprio per questo ha acquisito maggiore importanza: avendo perso definitivamente l’Arca dell’’Alleanza, segno tangibile della presenza di Dio, il salmo rappresentava tutto ciò che restava dello splendore passato. Insegnava al popolo il necessario distacco: la presenza di Dio non è legata a un oggetto, per quanto carico di memoria. Inoltre, con il passare dei secoli, questo salmo ha assunto un significato nuovo: “Entri il re della gloria” è diventato il grido di impazienza per la venuta del Messia. Venga finalmente il Re eterno che regnerà sull’umanità rinnovata alla fine dei tempi! Sarà davvero il “Signore valoroso in battaglia” colui cioè che vince definitivamente il Male e le potenze della morte; sarà davvero il Signore, Dio dell’universo e tutta l’umanità parteciperà alla sua vittoria. Questa era l’attesa d’Israele, che cresceva di secolo in secolo. Non stupisce, dunque, che la liturgia cristiana canti il salmo 23/24 il giorno in cui celebra la Presentazione di Gesù Bambino al Tempio di Gerusalemme: un modo per affermare che questo bambino è il re della gloria, cioè Dio stesso.
*Seconda Lettura Dalla lettera agli Ebrei ( 2,14-18)
Il tema della mediazione di Cristo è fondamentale nella Lettera agli Ebrei. E' senz’altro utile ricordare che fu scritta in un contesto di non poche polemiche e proprio da questa lettera possiamo intuire il tipo di obiezioni che i primi cristiani di origine ebraica dovevano affrontare. Essi si sentivano dire continuamente: Il vostro Gesù non è il Messia; abbiamo bisogno di un sacerdote, e lui non lo è. Era quindi fondamentale per un cristiano del I° secolo sapere che Cristo è veramente sacerdote, essendo l’istituzione del sacerdozio centrale nell’Antico Testamento, come abbiamo notato anche nella prima lettura tratta dal libro di Malachia, che è l’ultimo dell’Antico Testamento. Ora, un’istituzione così importante nella storia del popolo ebraico e per la sua sopravvivenza, non poteva essere ignorata nel Nuovo Testamento. Gesù però, secondo la legge ebraica, non era sacerdote e non poteva aspirare a esserlo, tanto meno poteva considerarsi sommo sacerdote. Discendeva da Davide, quindi dalla tribù di Giuda, e per nulla da quella di Levi e l’autore della Lettera lo sa bene e afferma chiaramente (cf Eb 7,14). La Lettera agli Ebrei risponde: Gesù non è sommo sacerdote discendente da Aronne, ma lo è a somiglianza di Melchisedek. Questo personaggio menzionato nel capitolo 14 della Genesi visse molto prima di Mosè e di Aronne ed è legato ad Abramo. Eppure viene chiamato “sacerdote del Dio Altissimo” (Cf. Gn 14,18-20). Dunque Gesù è effettivamente sommo sacerdote, a suo modo, in continuità con l’Antico Testamento. Ecco precisamente lo scopo della Lettera agli Ebrei: mostrarci come Gesù realizzi l’istituzione del sacerdozio e realizzare nel linguaggio biblico non significa riprodurre il modello dell’Antico Testamento, ma portarlo alla sua piena perfezione. Vediamo allora i tre aspetti del sacerdozio antico e quali ne erano gli elementi essenziali: Il sacerdote era un mediatore, un membro del popolo ammesso a comunicare con la santità di Dio e, in cambio, trasmetteva al popolo i doni e le benedizioni di Dio. Nel brano odierno si sottolinea che Gesù è davvero un membro del popolo: “Poiché i figli hanno in comune il sangue e la carne, Cristo allo stesso modo ne è divenuto partecipe… perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli…” (Eb 2,14-17). Essere «simile» significa condividere le stesse debolezze: tentazioni, prove, sofferenza e morte. Gesù ha condiviso la nostra povera condizione umana e per avvicinare Dio all’uomo, si è fatto uno di noi annullando così la distanza tra Dio e l’uomo. Inoltre il sacerdote doveva essere ammesso a comunicare con la santità di Dio che è il Santo, cioè il totalmente Altro (Kadosh, El Elyon, HaKadosh HaMufla), come spesso ci ricorda la Bibbia. Per avvicinarsi al Dio santo, i sacerdoti venivano sottoposti a riti di separazione: bagni rituali, unzioni, vestizioni e sacrifici. Anche i luoghi sacri in cui i sacerdoti officiavano erano separati dagli spazi di vita comune del popolo. Con Gesù, tutto ciò è stravolto: egli non si è mai separato dalla vita del suo popolo, anzi si è mescolato con i piccoli, gli emarginati, gli impuri. Eppure, dice la Lettera agli Ebrei, abbiamo una prova certa che Gesù è il Giusto per eccellenza, il Figlio di Dio, il Santo: la sua resurrezione sconfiggendo la morte ha ristabilito l’Alleanza con Dio, che era l’obiettivo stesso dei sacerdoti. Ora siamo liberi e il più grande nemico della libertà è la paura. Ma, grazie a Gesù, non abbiamo più nulla da temere perché conosciamo l’amore di Dio. Chi ci faceva dubitare di questo amore era satana, ma mediante la morte, Gesù l’ ha ridotto all’impotenza.(cf 2,14-15). La sofferenza di Gesù mostra fin dove arriva l’amore di Dio per noi. Infine una domanda: Perché in questa Lettera si parla dei «figli di Abramo» e non dei «figli di Adamo»? Dice infatti. “Non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo”. La risposta è perché Abramo, nella meditazione biblica, rappresenta la fede, intesa come fiducia e a noi resta la libertà di non essere figli di Abramo, cioè credenti. Sta a noi decidere se entrare o no nel progetto di Dio.
*Dal Vangelo secondo Luca (2, 22 – 40)
Nel racconto dell’evangelista Luca emerge una doppia insistenza: prima sulla Legge, poi sullo Spirito. Nei primi versetti (vv. 22-24), egli cita tre volte la Legge per rimarcare che la vita del bambino inizia sotto il segno della Legge. Va però chiarito che Luca cita la Legge d’Israele non come una serie di comandamenti scritti e anzi si potrebbe sostituire la parola “Legge” con “Fede di Israele”. La vita della Famiglia di Nazaret è tutta impregnata della fede e, quando si presentano al Tempio di Gerusalemme per adempiere le usanze giudaiche, lo fanno con un atteggiamento di fervore. Il primo messaggio di Luca è questo: la salvezza di tutta l’umanità ha preso forma nel quadro della Legge d’Israele, della fede di Israele: in una parola, il Verbo di Dio si è incarnato in questo contesto e così si è compiuto il disegno misericordioso di Dio per l’umanità. Poi entra in scena Simeone, spinto dallo Spirito, menzionato anch’esso tre volte. È dunque lo Spirito che ispira a Simeone le parole che rivelano il mistero di questo bambino: “I miei occhi hanno visto la tua salvezza”. E’ bene riprendere queste parole di Simeone una per una: “I miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli”. L’Antico Testamento è la storia di questa lunga e paziente preparazione da parte di Dio per la salvezza dell’umanità. E si tratta proprio della salvezza dell’umanità, non solo del popolo d’Israele. È esattamente ciò che Simeone precisa: “Luce per irivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”. La gloria di Israele, infatti, sta nell’essere stato scelto non per se stesso, ma per tutta l’umanità. Con il progredire della storia, durante tutte le vicende dell’Antico Testamento il popolo che Dio si è scelto ha scoperto sempre più chiaramente che il progetto di salvezza di Dio riguarda l’intera umanità. inoltre tutto questo avviene nel Tempio. Per Luca il messaggio è fondamentale e lo comunica a noi: assistiamo già all’ingresso glorioso di Gesù, Signore e Salvatore, nel tempio di Gerusalemme, come aveva annunciato il profeta Malachia. Questo è proprio l’incipit della prima lettura: “Così dice il Signore Dio: Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza che voi sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti”.
Luca riconosce in Gesù l’Angelo dell’Alleanza che entra nel suo tempio. Le parole di Simeone sulla gloria e sulla luce si collocano perfettamente in questa linea: “I miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”. Un’altra eco del vangelo di oggi nell’Antico Testamento si trova nel Salmo: “Chi è questo re di gloria? Alzate, o porte, la vostra fronte”. Il salmo attendeva un Messia-re discendente di Davide; sappiamo che il re di gloria è questo bambino. Luca descrive una scena maestosa di gloria: tutta la lunga attesa di Israele è rappresentata da due personaggi, Simeone e Anna. “Simeone, uomo giusto e pio aspettava la consolazione d’Israele”. Quanto ad Anna, si può pensare che, se parlava del bambino a quanti aspettavano la liberazione di Gerusalemme, era perché anche lei viveva con impazienza l’attesa del Messia. Quando Simeone proclama: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola., perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele», afferma chiaramente che questo bambino è il Messia, il riflesso della gloria di Dio. Con Gesù, è la Gloria di Dio che entra nel Santuario; il che equivale a dire che Gesù è la Gloria, che egli è Dio stesso. Da questo momento, il tempo della Legge è compiuto. L’Angelo dell’Alleanza è entrato nel suo tempio per diffondere lo Spirito sull’intera umanità di ogni razza e cultura.
P.S. Per un ulteriore approfondimento, visto che questa pagina evangelica la ritroviamo anche nella festa della Santa Famiglia di Nazaret, unisco qualche nota supplementare.
L’attesa del Messia era viva nel popolo ebraico all’epoca della nascita di Gesù, ma non tutti ne parlavano allo stesso modo anche se l’impazienza era condivisa da tutti. Alcuni parlavano della “Consolazione di Israele”, come Simeone, altri della “liberazione di Gerusalemme”, come la profetessa Anna. Alcuni aspettavano un re, discendente di Davide, che avrebbe scacciato gli occupanti, rappresentanti del potere romano. Altri attendevano un Messia completamente diverso: Isaia lo aveva lungamente descritto e lo chiamava “il Servo di Dio”.
A coloro che aspettavano un re, i racconti dell’Annunciazione e della Natività hanno mostrato che Gesù era proprio colui che attendevano. Per esempio, l’angelo nell’Annunciazione aveva detto a Maria: “Il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre; regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine”. Certamente la giovane di Nazaret rimase sorpresa, tuttavia il messaggio era chiaro. Eppure nel racconto della presentazione di Gesù al Tempio, non si parla di questo aspetto della personalità del bambino appena nato. E d’altronde, il bambino che entra nel Tempio tra le braccia dei suoi genitori non è nato in un palazzo reale, ma in una famiglia modesta e in condizioni precarie. Sembra piuttosto che san Luca ci inviti a riconoscere nel bambino presentato nel Tempio, il servo annunciato da Isaia nei capitoli 42, 49, 50 e 52-53: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio (42, 1)… Il Signore mi ha chiamato fin dal seno materno, fin dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome (I49, 1)…Ogni mattina fa attento il mio orecchio, perché io ascolti come i discepoli; il Signore Dio ha aperto il mio orecchio” (50, 4-5). Un tal modo di esprimersi dichiara che questo servo era molto docile alla parola di Dio; e aveva ricevuto la missione di portare la salvezza a tutto il mondo. Isaia diceva: “Ti ho posto come alleanza per i popoli, come luce delle nazioni” (42, 6)… “Ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» (49, 6). Il che mostra che già all’epoca di Isaia si era compreso che il progetto d’amore e di salvezza di Dio riguarda tutta l’umanità e non solo il popolo d’Israele. Infine, Isaia non nascondeva il terribile destino che attendeva questo salvatore: egli avrebbe compiuto la sua missione di salvezza per tutti, ma la sua parola, ritenuta troppo scomoda, avrebbe suscitato persecuzioni e disprezzo. Ricordiamo questo passo: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che strappavano la barba” (50, 6). Probabilmente sotto l’ispirazione dello Spirito Santo e grazie alla sua conoscenza delle profezie di Isaia, Simeone capì immediatamente che il bambino era il Servo annunciato dal profeta. Intuì il destino doloroso di Gesù, la cui parola ispirata sarebbe stata rifiutata dalla maggioranza dei suoi contemporanei. Disse a Maria: “Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori”. Simeone comprese che era giunta l’ora della salvezza per tutta l’umanità: “Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”. Sì, Gesù è il Messia Servo, descritto nei “Canti del Servo del Signore” d’Isaia (42,49,50,52-53) colui che porta la salvezza: “Per mezzo suo si compirà la volontà del Signore” (53, 10).
+Giovanni D’Ercole
Offro anche su richiesta di qualcuno una breve sintesi che è possibile diffondere tra i fedeli. Domenica prossima 2 Febbraio 2025 celebriamo la Presentazione del Signore e
prepariamoci dando un rapido sguardo alla parola di Dio che ascolteremo nella santa Messa
*Prima Lettura Dal libro del profeta Malachia (3,1-4)
Siamo in presenza di un misterioso frammento profetico visto da molti come una testimonianza di universalismo, di libertà e di speranza. Non è però facile capire come accogliere questo testo. Il profeta Malachia insiste tanto sul Tempio, sui leviti (o sacerdoti), sulle offerte e su tutto ciò che riguarda il culto perché Israele era sotto il dominio persiano e il popolo ebraico era comandato dai sacerdoti i quali erano i rappresentanti di Dio presso il suo popolo. L’alleanza con i sacerdoti era al servizio dell’alleanza di Dio con il suo popolo ed è proprio di questa alleanza che qui si tratta. Malachia si rivolge a tutti coloro che aspettano, desiderano, cercano e annuncia loro che non hanno atteso, cercato, desiderato invano e il loro desiderio, la loro attesa saranno esauditi perché presto arriverà L’Angelo dell’Alleanza cioè Dio stesso. Come scrive Malachia: “Io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me. Più tardi, Gesù citerà precisamente questa profezia riferendosi a Giovanni Battista. Chiedendo alla gente chi erano andati a vedere dirà che Giovanni Battista è “più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te; egli preparerà la tua strada davanti a te”(Mt 11,7-10 e Lc 7,27). Con queste parole, Gesù identificava sé stesso come l’Angelo dell’alleanza che viene nel suo tempio e lo capiremo meglio approfondendo il Vangelo di san Luca oggi, festa della Presentazione del Signore
*Salmo responsoriale 23/24 (7, 8, 9, 10)
“Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria”. Quest’espressione è solenne e un po’ sorprendente dato che è difficile immaginare che i lintei delle porte possano sollevarsi. Siamo in un contesto poetico e l’iperbole serve a esprimere la maestà di questo Re di gloria che entra solennemente nel Tempio di Gerusalemme. L’espressione “re della gloria” è riferita a Dio stesso, il Signore dell’universo. Possiamo immaginare la folla e un coro che canta: “Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria”. E un altro coro risponde: “Chi è questo re della gloria? Il Signore forte e valoroso, il Signore valoroso in battaglia”. Questo salmo è stato cantato nelle cerimonie del Tempio di Gerusalemme persino molto dopo l’esilio babilonese, in un’epoca in cui non vi era più nessuna processione intorno all’Arca. Proprio per questo ha acquisito maggiore importanza: avendo perso definitivamente l’Arca dell’’Alleanza, segno tangibile della presenza di Dio, il salmo rappresentava tutto ciò che restava dello splendore passato. Insegnava al popolo il necessario distacco: la presenza di Dio non è legata a un oggetto, per quanto carico di memoria. Inoltre, con il passare dei secoli, questo salmo ha assunto un significato nuovo: “Entri il re della gloria” è diventato il grido di impazienza per la venuta del Messia. Venga finalmente il Re eterno che regnerà sull’umanità rinnovata alla fine dei tempi! Questa era l’attesa d’Israele, che cresceva di secolo in secolo. Non stupisce, dunque, che la liturgia cristiana canti il salmo 23/24 il giorno in cui celebra la Presentazione di Gesù Bambino al Tempio di Gerusalemme: un modo per affermare che questo bambino è il re della gloria, cioè Dio stesso.
*Seconda Lettura Dalla lettera agli Ebrei ( 2,14-18)
Il tema della mediazione di Cristo è fondamentale nella Lettera agli Ebrei. E' senz’altro utile ricordare che fu scritta in un contesto di non poche polemiche e proprio da questa lettera possiamo intuire il tipo di obiezioni che i primi cristiani di origine ebraica dovevano affrontare. Essi si sentivano dire continuamente: Il vostro Gesù non è il Messia; abbiamo bisogno di un sacerdote, e lui non lo è. Era quindi fondamentale per un cristiano del I° secolo sapere che Cristo è veramente sacerdote. Gesù però, secondo la legge ebraica, non era sacerdote e non poteva aspirare a esserlo, tanto meno poteva considerarsi sommo sacerdote. La Lettera agli Ebrei risponde: Gesù non è sommo sacerdote discendente da Aronne, ma lo è a somiglianza di Melchisedek, personaggio che appare nel capitolo 14 della Genesi e visse molto prima di Mosè e di Aronne ed è legato ad Abramo. Eppure viene chiamato “sacerdote del Dio Altissimo” (Cf. Gn 14,18-20). Dunque Gesù è effettivamente sommo sacerdote, a suo modo, in continuità con l’Antico Testamento. Ecco precisamente lo scopo della Lettera agli Ebrei: mostrarci come Gesù realizzi l’istituzione del sacerdozio e realizzare nel linguaggio biblico non significa riprodurre il modello dell’Antico Testamento, ma portarlo alla sua piena perfezione. Infine una domanda: Perché in questa Lettera si parla dei «figli di Abramo» e non dei «figli di Adamo»? Dice infatti. “Non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo”. La risposta è perché Abramo, nella meditazione biblica, rappresenta la fede, intesa come fiducia e a noi resta la libertà di non essere figli di Abramo, cioè credenti. Sta a noi decidere se entrare o no nel progetto di Dio.
*Dal Vangelo secondo Luca (2, 22 – 40)
Nel racconto dell’evangelista Luca emerge una doppia insistenza: prima sulla Legge, poi sullo Spirito. Nei primi versetti (vv. 22-24), egli cita tre volte la Legge per rimarcare che la vita del bambino inizia sotto il segno della Legge. Va però chiarito che Luca cita la Legge d’Israele non come una serie di comandamenti scritti e anzi si potrebbe sostituire la parola “Legge” con “Fede di Israele” e la vita della Famiglia di Nazaret è tutta impregnata di questa fede. Il primo messaggio di Luca è questo: la salvezza di tutta l’umanità ha preso forma nel quadro della Legge d’Israele, della fede di Israele: in una parola, il Verbo di Dio si è incarnato in questo contesto e così si è compiuto il disegno misericordioso di Dio per l’umanità. Poi entra in scena Simeone, spinto dallo Spirito, menzionato anch’esso tre volte. È dunque lo Spirito che ispira a Simeone le parole che rivelano il mistero di questo bambino: “I miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli”. L’Antico Testamento è la storia di questa lunga e paziente preparazione da parte di Dio per la salvezza dell’umanità. E si tratta proprio della salvezza dell’umanità, non solo del popolo d’Israele. È esattamente ciò che Simeone precisa: “Luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele”. La gloria di Israele, infatti, sta nell’essere stato scelto non per se stesso, ma per tutta l’umanità. Per Luca il messaggio è fondamentale e lo comunica a noi: assistiamo già all’ingresso glorioso di Gesù, Signore e Salvatore, nel tempio di Gerusalemme, come aveva annunciato il profeta Malachia. Luca riconosce in Gesù l’Angelo dell’Alleanza che entra nel suo tempio. Il salmo attendeva un Messia-re discendente di Davide; sappiamo che il re di gloria è questo bambino. Luca descrive una scena maestosa di gloria: tutta la lunga attesa di Israele è rappresentata da due personaggi, Simeone e Anna. “Simeone, uomo giusto e pio aspettava la consolazione d’Israele”. Quanto ad Anna, si può pensare che, se parlava del bambino a quanti aspettavano la liberazione di Gerusalemme, era perché anche lei viveva con impazienza l’attesa del Messia. Quando Simeone proclama: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola., perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza “afferma chiaramente che questo bambino è il Messia. Con Gesù, la Gloria di Dio entra nel Santuario; il che equivale a dire che Gesù è la Gloria, Dio stesso entrato nel suo tempio per diffondere lo Spirito sull’intera umanità.
+Giovanni D’Ercole
III Domenica Tempo Ordinario (anno C) [26 gennaio 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Questa domenica, 26 gennaio 2025, ricorre la VI Domenica della Parola di Dio. Nella Basilica di San Pietro sarà papa Francesco a presiederla nel contesto dell’Anno Giubilare. Il motto scelto è ripreso dal libro dei Salmi: «Spero nella tua Parola» (Sal 119,74).
III Domenica Tempo Ordinario Anno C
*Prima Lettura dal Libro di Neemia (8, 2-4a. 5-6. 8-10)
Per noi che cominciamo a lamentarci quando le liturgie durano più di un’ora, saremmo sicuramente ben serviti restando tutti insieme in piedi dall’alba fino a mezzogiorno, come un solo uomo: uomini, donne e bambini. E durante un cosi lungo tempo per ascoltare letture in ebraico, una lingua che ormai non si comprendeva più, anche se lo scriba, il lettore, si interrompeva di tanto in tanto per lasciare spazio al traduttore, che traduceva il testo in aramaico, lingua comunemente usata a Gerusalemme. Quanti partecipano non sembrano stanchi né trovano il tempo troppo lungo: al contrario, tutti piangono di commozione, cantano e continuamente intervengono acclamando insieme con le mani alzate: Amen! Esdra, il sacerdote, e Neemia, il governatore, possono ritenersi soddisfatti perché sono riusciti a ridare fiducia al popolo che, dopo l’esilio babilonese, continua ad attraversare un periodo complicato e difficile.
Abbiamo qui una bella testimonianza della ricostruzione del “focolare nazionale” d’Israele dopo la deportazione babilonese. Siamo a Gerusalemme intorno al 450 a.C.: l’esilio a Babilonia era ormai finito e si era riusciti finalmente dopo tante polemiche a ricostruire il Tempio di Gerusalemme, anche se non era proprio come quello di Salomone e a riprendere anche la vita della comunità. Potremmo dire che tutto andava bene, ma non è così e il morale era a terra perché la gente sembrava aver perso la speranza, che sempre aveva conservato pur nei tratti più sofferti della sua esistenza. La verità è che permanevano le cicatrici dei drammi del secolo precedente perché non era semplice riprendere a vivere dopo l’invasione e il saccheggio della città. Anzi, le cicatrici restarono per generazioni: cicatrici dell’esilio stesso, ma anche quelle del ritorno in patria dato che con la deportazione a Babilonia si era perso tutto. Il ritorno tanto atteso non è stato un trionfo, ma occasione di scontro tra quanti erano rimasti a Gerusalemme e ormai avevano cominciato una loro vita introducendo persino riti pagani e la “comunità del ritorno” che dopo oltre cinquant’anni pensava di trovare quanto i loro antenati avevano lasciato, cosa del resto impossibile e che creava seri scontri tra di loro. Il miracolo è che quel periodo, pur terribile, è stato molto fecondo perché la fede d’Israele sopravvisse alla prova. Non solo questo popolo mantenne intatta la sua fede durante l’esilio, in mezzo a tutti i pericoli dell’idolatria, ma rimase unito e crebbe persino il suo fervore. Tutto ciò grazie ai sacerdoti e ai profeti, che hanno compiuto un lavoro pastorale instancabile. Fu, per esempio, un periodo di intensa rilettura e meditazione delle Scritture dato che uno degli scopi principali durante i cinquant’anni di esilio fu quello di orientare tutte le speranze verso il ritorno nella terra promessa. Tuttavia il ritorno, tanto auspicato, si rivelò una doccia fredda perché, come l’esperienza insegna, tra il sogno e la realtà c’è quasi sempre un abisso. A ben vedere, il grande problema del ritorno, come abbiamo visto nei testi di Isaia per l’Epifania e la seconda domenica del Tempo Ordinario (domenica scorsa), fu la difficoltà di vivere insieme tra quelli che erano rientrati da Babilonia pieni di ideali e progetti, la cosiddetta “comunità di ritorno”, e quanti invece nel frattempo si erano stabiliti a Gerusalemme. Tra di loro non c’era un fossato, ma un vero baratro: alcuni erano pagani che avevano occupato il territorio e recato con sé culti idolatrici e le loro preoccupazioni erano lontane anni luce dalle molteplici esigenze della legge ebraica. Le loro priorità erano incompatibili con le richieste della Torah. La ricostruzione del Tempio si scontrò con la loro ostilità, e i membri meno ferventi della comunità ebraica furono spesso tentati dal lassismo prevalente. Le autorità erano particolarmente preoccupate per questo rilassamento religioso, che continuava ad aggravarsi a causa dei numerosi matrimoni tra ebrei e pagani e diventava praticamente impossibile preservare la purezza e le esigenze della fede in tali condizioni. E’ a questo punto che Esdra, il sacerdote e Neemia, il governatore laico, unirono le forze e riuscirono a ottenere insieme dal re di Persia, Artaserse, una missione per ricostruire le mura della città e pieni poteri per riorganizzare questo popolo. Va ricordato che si era ancora sotto il dominio persiano. Esdra e Neemia fecero il massimo possibile per risollevare la situazione e per ridare forza e svegliare il morale del popolo. La comunità ebraica aveva tanto più bisogno di coesione poiché ormai viveva quotidianamente a contatto con il paganesimo e l’indifferenza religiosa. Nella storia d’Israele, l’unità del popolo è sempre stata costruita in nome dell’Alleanza con Dio e i pilastri dell’Alleanza restano sempre gli stessi: sono cioè la Terra, la Città Santa, il Tempio e la Parola di Dio. Poiché erano rientrati in patria la Terra c’era; Neemia, il governatore si dedicò a riorganizzare la Città Santa, Gerusalemme e il Tempio si riuscì a ricostruirlo. Restava la Parola che venne proclamata durante una gigantesca celebrazione all’aperto.
Era importante curare ogni dettaglio per la messa in scena della celebrazione di cui qui si parla: anche la data venne scelta con attenzione e si riprese un’antica tradizione, una grande festa in occasione di quella che allora era la data del Capodanno: “il primo giorno del settimo mese”. Per l’occasione fu costruita una tribuna in legno che dominava il popolo e da quel palco in alto il sacerdote e i traduttori proclamarono la Parola. L’omelia poi fu un invito a fare festa: mangiate, bevete, perché è giorno di gioia, giorno del vostro raduno intorno alla Parola di Dio. Non è più tempo per lacrime e nemmeno di tristezza e commozione. C’è qui una lezione che può esserci utile: per rinsaldare la comunità, Esdra e Neemia non fanno la morale al popolo, ma propongono una festa intorno alla Parola di Dio. Per ravvivare il senso di famiglia non c’è di meglio che organizzare e condividere in maniera regolare momenti di gioiosa festa condivisa.
*Salmo responsoriale (18 (19), 8. 9. 10. 15)
Si incontra più volte questo salmo e abbiamo quindi già avuto l’occasione di sottolineare l’importanza per Israele della Legge che è un valore estremamente positivo, così come importante è il timore di Dio, un atteggiamento anch’esso profondamente positivo e filiale. Ci sono diversi passaggi dell’Antico Testamento in cui la Legge è presentata come un cammino: se un figlio di Israele vuole essere felice, deve fare attenzione a non deviare né a destra né a sinistra. Oggi, per comprendere meglio questo salmo, propongo di rileggere il libro del Deuteronomio. Il libro del Deuteronomio è relativamente tardivo, scritto in un periodo in cui il regno di Giuda, il regno del sud, si stava pericolosamente allontanando dalla pratica della Legge. Questo libro risuonò dunque come un grido d’allarme: Se non volete che vi accada la stessa catastrofe che ha colpito il regno del Nord, fareste bene a cambiare condotta. È quindi un rimando a tutti i comandamenti di Mosè e ai suoi avvertimenti. Il Deuteronomio contiene inoltre una meditazione sul ruolo della Legge il cui unico scopo è educare il popolo e mantenerlo sul retto cammino. Se Dio tiene così tanto al fatto che il suo popolo rimanga sulla retta via, è perché questo è l’unico modo per vivere felicemente e portare a compimento la vocazione di essere un popolo eletto fra le nazioni. Il re di Gerusalemme, Giosia, intraprese una riforma religiosa profonda intorno al 620 a.C., appoggiandosi proprio sul libro del Deuteronomio. Mentre noi saremmo inclini a vedere la legge come un peso, appare invece chiaro nella Bibbia che è uno strumento di libertà. Per aiutare a capire questo è Interessante nella tradizione biblica l’immagine dell’aquila che insegna ai suoi piccoli a volare. Gli ornitologi che hanno osservato le aquile nel deserto del Sinai raccontano che, quando i piccoli si lanciano, i genitori rimangono nelle vicinanze e planano sopra di loro tracciando ampi cerchi; quando i piccoli sono stanchi, possono in qualsiasi momento riposarsi (nel doppio senso di riprendere fiato e posarsi sulle ali dei genitori) per poi rilanciarsi una volta recuperate le forze. Il fine ultimo, naturalmente, è che i piccoli diventino presto capaci di cavarsela da soli. L’autore biblico ha preso questa immagine per spiegare che Dio dà la sua Legge agli uomini per insegnare loro a volare con le proprie ali. Non c’è ombra di dominio in questo, tutt’altro; liberando il suo popolo dalla schiavitù in Egitto, il Signore ha dimostrato una volta per tutte che il suo unico obiettivo è liberare il suo popolo. Ecco cosa dice il libro del Deuteronomio: “Il Signore trovò il suo popolo in una terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo educò, lo allevò, lo custodì come sulla pupilla del suo occhio. Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le sue ali” (Dt 32, 9-11). Un Dio che vuole l’uomo libero! Questo è il messaggio che si trasmette fedelmente di generazione in generazione: «Domani, quando tuo figlio ti chiederà: perché queste prescrizioni, queste leggi e queste usanze che il Signore nostro Dio vi ha comandato?» allora risponderai a tuo figlio: «Eravamo schiavi del faraone in Egitto, ma con mano potente il Signore ci ha fatti uscire dall’Egitto… Il Signore ci ha comandato di mettere in pratica tutte queste leggi e di temere il Signore nostro Dio, affinché fossimo sempre felici e ci mantenesse in vita come oggi» (Dt 6, 20-24). Quando il re Giosia cercò di riportare il suo popolo sul retto cammino, si comprese quanto importante fosse per lui far conoscere questo libro, che ripete in tutti i modi questo messaggio: la via più breve per essere un popolo libero e felice è vivere secondo i comandi del Dio d’Israele. Sottinteso, se i vostri fratelli del Nord sono finiti così male, è perché hanno dimenticato questa verità elementare (da tenere sempre presente la divisione fra il regno del sud, regno di Giuda e quello del nord, il regno d’Israele e come il regno del nord a causa di alleanze con popoli stranieri finì per essere occupato e praticamente distrutto). E ora, ricorda Giosia, non è solo la salvezza del regno del Sud a essere in gioco – che ovviamente era la sua prima preoccupazione – ma la salvezza dell’intera umanità. E come potrà il popolo eletto essere testimone del Dio liberatore dinanzi a tutte le genti se non si comporta esso stesso come un popolo libero e ricade invece nelle costanti tentazioni dell’umanità: idolatria, ingiustizia sociale, lotta per il potere?
Nel corso della storia, gli autori biblici hanno preso gradualmente coscienza di questa responsabilità che Dio ha affidato al suo popolo proponendogli la sua Alleanza: «Al Signore nostro Dio appartengono le cose nascoste, mentre quelle rivelate sono per noi e per i nostri figli per sempre, affinché siano messe in pratica tutte le parole di questa Legge» (Dt 29, 28). Questo ispira a Israele un grande orgoglio che mai diventa presunzione; se necessario, il Deuteronomio richiama il popolo all’umiltà: «Se il Signore si è affezionato a voi e vi ha scelti, non è perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli, perché siete il più piccolo di tutti» (Dt 7, 7); e ancora: «Riconosci che non è perché sei giusto che il Signore tuo Dio ti dà in possesso questa terra buona, perché tu sei un popolo dalla dura cervice» (Dt 9, 6).
l nostro salmo oggi riprende questa lezione di umiltà: «I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore; il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi” (v.9). “I precetti del Signore sono retti”: ecco un bel modo per dire che solo Dio è saggio. Non serve allora credersi furbi, ma lasciarsi piuttosto guidare da lui con semplicità. A tal proposito il re Giosia avrà ripetuto volentieri questo richiamo per incoraggiare i suoi sudditi : «Sì, questo comando che oggi ti ordino non è troppo difficile per te, né fuori dalla tua portata. Non è in cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo a prendercelo, affinché ce lo faccia udire e possiamo metterlo in pratica? Non è neppure al di là del mare, perché tu dica: Chi attraverserà il mare per noi a prendercelo, affinché ce lo faccia udire e possiamo metterlo in pratica? Sì, la parola è molto vicina a te: è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica». La pratica umile e quotidiana della Legge può trasformare gradualmente un intero popolo; come dice ancora il salmo: «Il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi” Dt 30, 11)..
Un’ultima osservazione: Il libro del Deuteronomio, che noi oggi conosciamo, è posteriore a Giosia; tuttavia le basi erano ben poste già in un manoscritto trovato dagli operai di Giosia durante la restaurazione del tempio di Gerusalemme (cf. Secondo Libro dei Re 22,8-13 e Secondo Libro delle Cronache 34,14-19). Si tratta di un interessante manoscritto portato probabilmente dai rifugiati del regno del Nord dopo la caduta di Samaria nel 721 e che costituiva una solida esortazione per una vera conversione e un invito a tornare alla pratica dei comandamenti. Gli studiosi ritengono che faccia parte dei capitoli 12-26 del libro del Deuteronomio.
*Seconda Lettura dalla Prima Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (12, 12-30)
San Paolo in maniera semplice e diretta afferma che ciascuno nella comunità cristiana e civile ha un compito da svolgere e il suo posto da occupare stando attenti l’uno all’altro: non bisogna disprezzarsi a vicenda, e anzi occorre ricordare che tutti hanno bisogno di tutti. Il lungo ragionamento di Paolo è prova di una situazione concreta: la comunità di Corinto affrontava esattamente gli stessi problemi che conosciamo noi oggi.
Per dare una lezione ai suoi fedeli, Paolo ricorre a un metodo che funziona meglio di qualsiasi discorso: propone loro un esempio con una parabola che in realtà non ha inventato del tutto perché usa una favola che tutti conoscevano e la adatta al suo obiettivo. Si tratta di una narrazione allegorica più nota come l’apologo “la pancia e le membra” di Menenio Agrippa, un console e diplomatico romano del V secolo a.C. In verità questa narrazione è già presente in Esopo, narratore e favolista dell’antica Grecia (VI secolo a.C.) come pure in Fedro (contemporaneo di Gesù 20 a. C. - 50 d.C.) entrambi ben noti al tempo di san Paolo. Questa parabola si trova nella Storia Romana di Tito Livio e Jean Fontaine (1621-1695) l’ha ripresa e trasformata in versi nel IX libro delle sue favole. Come tutte le favole, comincia con: C’era una volta un uomo come tutti gli altri… tranne per il fatto che, in lui, tutte le membra parlavano e discutevano tra loro, ma non tutte mostravano un buon carattere, a quanto pare, probabilmente perché alcune avevano l’impressione di essere meno considerate o un po’ sfruttate. Un giorno, durante una discussione, i piedi e le mani si ribellarono contro lo stomaco: perché lo stomaco, lui, si limitava a mangiare e bere ciò che le altre membra gli procuravano e tutto il piacere era per lui? Non era certo lo stomaco a stancarsi lavorando, coltivando la vigna, facendo la spesa, tagliando la carne, masticando e via dicendo. Allora decisero tutte le membra semplicemente di scioperare e da quel momento, nessuno si sarebbe più mosso: lo stomaco avrebbe visto cosa gli sarebbe successo. In questo modo se lo stomaco moriva la soddisfazione sarebbe stata di chi aveva smesso di lavorare. Avevano però dimenticato una cosa molto semplice: se lo stomaco muore di fame, non sarà l’unico a soffrirne. Quel corpo, come tutti gli altri, era un tutt’uno, e tutti hanno bisogno di tutti!
San Paolo riprese dunque dal patrimonio culturale del suo tempo una parabola molto facile da capire. E, se qualcuno non avesse compresa, si prese la briga di spiegare lui stesso il significato della parabola del corpo e delle membra illustrandone l’insegnamento. Per Paolo, la morale è chiara: le nostre diversità sono una ricchezza, a patto di usarle come strumenti per l’unità. Uno dei punti salienti del discorso di Paolo è che, nemmeno per un istante, parla in termini di gerarchia o superiorità: giudei o pagani, schiavi o uomini liberi dato che tutte le nostre distinzioni umane non contano più. Ormai conta una sola cosa: il nostro Battesimo nello stesso Spirito, la nostra partecipazione a un unico corpo, il corpo di Cristo.
Le prospettive di Dio sono completamente diverse come Gesù ha chiaramente insegnato ai suoi apostoli: “Tra voi non sarà così” (Mt20, 25-28). Paolo sa tuttavia che questa maniera di vedere le cose, non pensare più in termini di superiorità, gerarchia, avanzamenti o onori, è molto difficile e allora insiste sul rispetto che bisogna riservare a tutti: semplicemente perché la dignità più alta, l’unica che conta, è essere tutti membra dell’unico corpo di Cristo.
Il rispetto, nel senso etimologico del termine, è una questione di sguardo: a volte, le persone che ci sembrano o riteniamo poco importanti non le vediamo nemmeno, il nostro sguardo non si sofferma su di loro. A tutti può capitare di sentirsi ignorati agli occhi di qualcuno: il suo sguardo scivolava su di noi come se non esistessimo. Non è così?
Insomma, Paolo ci offre una grande lezione di rispetto: rispetto delle diversità, da un lato, e rispetto della dignità di ciascuno, qualunque sia la funzione che svolge e il ruolo sociale che riveste. So che non è semplice, ma è necessario avere uno sguardo meno egoista per scoprire ciò che di singolare ciascuno di noi può apportare nella vita delle nostre famiglie, delle nostre comunità e nella società. C’è chi è una mente pensante, chi è un ricercatore, un inventore, un organizzatore… C’è chi ha fiuto, chi sa essere paziente, chi è chiaroveggente, chi ha il dono della parola e chi è più bravo nello scrivere e c’è chi soffre una malattia o è molto povero materialmente e spiritualmente ma tutti possono offrire qualcosa agli altri. Si potrebbe continuare nell’enumerare i tanti carismi da scoprire e valorizzare: basta orientare bene lo sguardo. Se domenica scorsa, seconda domenica del Tempo ordinario, leggendo l’inizio del capitolo 12 della prima lettera ai Corinti, sembrava che fosse un inno alla diversità, lo sviluppo odierno è un richiamo all’unità attraverso il rispetto delle differenze.
*Dal Vangelo secondo Luca (1,1-4;4,14-21)
Nelle domeniche del tempo ordinario dell’Anno liturgico C ci accompagna l’evangelista Luca e di lui abbiamo già potuto meditare il racconto della nascita e dell’infanzia di Gesù nel tempo di Natale. Sappiamo molto poco su come sono stati scritti i vangeli e, in particolare, sulle loro date di composizione. Tuttavia, dal vangelo odierno possiamo dedurre alcune precisazioni. Ci fu certamente una predicazione orale prima che i vangeli venissero messi per iscritto, poiché Luca dice a Teofilo di voler permettergli di verificare «la solidità degli insegnamenti che ha ricevuto». Luca riconosce anche di non essere stato un testimone oculare degli eventi; ha potuto informarsi solo tramite i testimoni oculari, il che implica che questi erano ancora vivi quando scrisse. Possiamo dunque supporre che la predicazione sulla risurrezione di Cristo sia iniziata già a partire dalla Pentecoste e che il vangelo di Luca sia stato scritto più tardi, ma prima della morte degli ultimi testimoni oculari, fissando così una data limite intorno all’80-90 d.C.
Quanto leggiamo oggi si colloca dopo il battesimo di Gesù e il racconto delle sue tentazioni nel deserto. Apparentemente, tutto sembrava procedere bene per Gesù che inizia la sua missione pubblicamente dopo la morte di Giovanni Battista. Scrive l’evangelista: “Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle sinagoghe dei Giudei, e gli rendevano lode”. Quel sabato mattina Gesù, da buon ebreo tornato da un viaggio, si recò per il culto nella sinagoga. Nulla di sorprendente se gli affidano una lettura, dato che ogni fedele aveva il diritto di leggere le Scritture. La celebrazione nella sinagoga si svolse normalmente, fino a quando Gesù lesse il testo del giorno, che era un celebre passo del profeta Isaia. Nel grande silenzio che seguì la lettura, Gesù affermò con tranquillità qualcosa di straordinario: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. Seguì qualche minuto di imbarazzato silenzio, il tempo necessario per interpretare il significato delle sue parole. Infatti i presenti si aspettavano che Gesù facesse un commento, come era consuetudine, ma non un commento capace di sorprendere tutti. E’ difficile oggi a noi immaginare l’audacia di quell’affermazione così pacata di Gesù, ma per i suoi contemporanei, quel venerabile testo del profeta Isaia era riferito al Messia. Soltanto il Re-Messia, quando sarebbe venuto, avrebbe potuto permettersi di affermare: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione…” Dall’inizio della monarchia, infatti, il rito di consacrazione dei re prevedeva un’unzione con olio. Questo gesto era il segno che Dio stesso ispirava il re in modo permanente per renderlo capace di compiere la sua missione di salvare il popolo. Si diceva allora che il re era «mashiach», che in ebraico significa semplicemente «unto» e che in italiano è tradotto con Messia mentre in greco con Christos e in latino Christus.
Al tempo di Gesù, non c’erano più re sul trono di Gerusalemme, ma si attendeva che Dio inviasse finalmente il re ideale, che avrebbe portato al suo popolo libertà, giustizia e pace. In particolare, nella Palestina occupata dai Romani, si attendeva colui che avrebbe liberato il popolo dall’occupazione romana. Chiaramente, Gesù di Nazareth, il figlio del falegname, non poteva pretendere di essere quel Re-Messia atteso. Come avrebbero potuto riconoscere il Messia che aspettavano in Gesù umile falegname in terra di Galilea? Eppure era davvero il Messia. Bisogna riconoscere che Gesù non ha smesso di sorprendere i suoi contemporanei. San Luca sottolinea, introducendo questo passo, che Gesù era accompagnato dalla potenza dello Spirito, caratteristica essenziale del Messia. Ma questa è l’affermazione di Luca, il cristiano; gli abitanti di Nazareth, invece, non sapevano che, realmente, lo Spirito del Signore riposava su Gesù. C’è poi da aggiungere quest’osservazione sul brano evangelico appena ascoltato. Gesù cita il profeta Isaia e la citazione l’attribuisce a sé stesso, la fa propria come un vero discorso programmatico: “Lo Spirito del Signore è sopra di me… Mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare un anno di grazia del Signore. Della profezia di Isaia (61,1-2) egli non legge e anzi salta del tutto l’ultima parte del versetto 2, che dice: “…e un giorno di vendetta per il nostro Dio.” Si tratta di un’omissione significativa perché si concentra sull’annuncio della grazia e della liberazione, lasciando da parte l’idea di vendetta e tutto il suo ministero è centrato sulla misericordia, sulla salvezza e sull’amore di Dio, piuttosto che sul giudizio o sulla punizione immediata. Quest’omissione dell’ultima frase di Isaia e l’applicazione del passo a sé stesso hanno urtato i suoi ascoltatori per diverse ragioni. Anzitutto gli abitanti di Nazareth si aspettavano un Messia che avrebbe liberato Israele dai suoi oppressori, soprattutto dai Romani, e avrebbe portato giustizia e vendetta contro i nemici del popolo ebraico. L’omissione del “giorno di vendetta del nostro Dio” sembrava allontanare l’idea di un Messia politico e giustiziere. Proclamando un messaggio di grazia e salvezza universale, Gesù sfidava le loro attese nazionalistiche. In merito alla sua dichiarazione, cioè che la profezia di Isaia si realizza in Lui, molti dei presenti la ritenevano scandalosa e presuntuosa perché lo conoscevano come il “figlio del falegname” (Luca 4,22) che viveva tra loro, e non riuscivano a conciliare la sua umile origine con l’idea di un inviato di Dio. inoltre Gesù, quando più tardi menzionerà gli episodi di Elia ed Eliseo (Luca 4,25-27), andrà a sottolineare il fatto che Dio spesso è intervenuto per il bene di pagani come la vedova di Sarepta in Sidone o Naaman il Siro e questo mostrava che la salvezza e la grazia di Dio non erano esclusivamente per Israele, ma anche per i pagani. Proclamare quest’universalismo però offendeva l’orgoglio nazionale e religioso dei suoi ascoltatori. Infine, molti ebrei dell’epoca speravano in un giudizio immediato contro i nemici di Israele. Il fatto che Gesù enfatizzasse solo il tempo di grazia senza menzionare la vendetta poteva essere percepito come una negazione della giustizia divina contro i malvagi e questo urtava coloro che desideravano una liberazione rapida e definitiva. La combinazione di tanti elementi fa comprendere la reazione violenta dei suoi concittadini che tentano di cacciarlo dalla sinagoga e persino di ucciderlo gettandolo da una rupe (Luca 4,28-30). Infine, l rifiuto di Gesù da parte dei suoi compaesani diventa un simbolo del rifiuto più ampio che Egli incontrerà nel suo ministero.
Una nota informativa. Durante le prime domeniche del Tempo Ordinario nei cicli liturgici A, B, C la liturgia ci fa rileggere la Prima Lettera di San Paolo ai Corinti. E’ una lettura semicontinua, che inizia la prima domenica del Tempo Ordinario e termina la domenica che precede Mercoledì delle Ceneri.
Anno A. Le letture si concentrano principalmente sui primi quattro capitoli della lettera.
Tema principale: l’unità della Chiesa e la centralità di Cristo.
*Domenica I: 1Cor 1,1-3 – Saluto iniziale e chiamata alla santità.
*Domenica II: 1Cor 1,10-13.17 – Esortazione all’unità nella comunità cristiana.
*Domenica III: 1Cor 1,26-31 – La sapienza di Dio contro la sapienza umana.
*Domenica IV: 1Cor 2,1-5 – La predicazione fondata sulla potenza dello Spirito.
Anno B. Le letture proseguono nei capitoli 6-9 della lettera. Tema principale: la vita morale e le responsabilità personali e comunitarie.
*Domenica II: 1Cor 6,13c-15a.17-20 – Il corpo come tempio dello Spirito Santo.
*Domenica III: 1Cor 7,29-31 – L’urgenza di vivere in vista del Regno di Dio.
*Domenica IV: 1Cor 8,1b-7.10-13 – La responsabilità verso i fratelli più deboli nella fede.
*Domenica V: 1Cor 9,16-19.22-23 – San Paolo come apostolo che si fa tutto per tutti.
Anno C Le letture si concentrano sui capitoli 12-15 della lettera. Tema principale: i carismi, l’amore cristiano e la risurrezione.
*Domenica II: 1Cor 12,4-11 – Diversità di carismi, un unico Spirito.
*Domenica III: 1Cor 12,12-30 – La Chiesa come corpo di Cristo.
*Domenica IV: 1Cor 13,4-13 – L’inno alla carità.
*Domenica V: 1Cor 15,12. 16- 20 – La risurrezione dei morti come fondamento della fede.
Ogni anno liturgico utilizza una sezione diversa della lettera per riflettere sulle diverse esigenze e temi della vita cristiana. Si evidenziano temi chiave come l’unità, la carità, la vita morale e la speranza nella risurrezione. Questo schema semicontinuo consente ai fedeli di approfondire progressivamente l’insegnamento dell’apostolo Paolo.
+Giovanni D’Ercole
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga!
2a Domenica del Tempo Ordinario (anno C) [19 gennaio 2025]
*Prima Lettura dal libro del profeta isaia (62,1-5)
Quanta tenerezza mostra Dio verso il popolo d’Israele che poteva davvero sentirsi abbandonato, soprattutto nel contesto del ritorno dall’esilio! Infatti, pur tornati da Babilonia nel 538 a.C., il Tempio fu ricostruito solo a partire dal 521 e in questo periodo di attesa si insinuò un senso di abbandono. Per contrastare questa disperazione, Isaia, ispirato da Dio, scrive questo splendido testo per proclamare che Dio non ha dimenticato il suo popolo né la sua città prediletta. E presto tutti lo sapranno! “Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposeranno i tuoi figli; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te”. Il profeta Isaia non manca certo di audacia! Per ben due volte, in questi pochi versetti appare il desiderio amoroso come espressione dei sentimenti di Dio verso il suo popolo. L’amore divino emerge in queste coraggiose espressioni: “Non ti chiameranno più ‘abbandonata’, né la tua terra sarà chiamata ‘devastata’, ma ti chiameranno ‘mia desiderata’ (letteralmente: il mio desiderio è in te), e la tua terra sarà chiamata ‘sposata cioè sposa mia’, perché il Signore trova in te la sua delizia (meglio il suo desiderio d’amore) e la tua terra avrà uno sposo.” Qui c’è una vera e propria dichiarazione d’amore! Neppure uno sposo direbbe di più alla sua amata: sarai la mia sposa… Sarai bella come una corona, come un diadema d’oro nelle mie mani… sarai la mia gioia. Come non essere colpiti dalla bellezza del vocabolario e dalla poesia che traspare da questo testo? Vi troviamo il parallelismo delle frasi, così caratteristico dei Salmi: “Per amore di Sion non tacerò, / per amore di Gerusalemme non mi darò pace… Sarai una corona splendente nella mano del Signore/ un diadema regale tra le dita del tuo Dio… Ti chiameranno ‘Mia Preferita’, e la tua terra sarà detta ‘Sposata’. Perché il Signore ti ha scelta, / e la tua terra avrà uno sposo”.
Questo testo si potrebbe chiamare il “poema d’amore di Dio” e il profeta Isaia esercita il ministero profetico fra il 740 a.C. e il 701 a.C durante il regno di vari re di Giuda tra cui Ozia, Iotam, Acaz, Ezechia in un periodo di grandi cambiamenti politici e minacce soprattutto a causa dell’espansione del ‘impero degli Assiri. Isaia è stato il primo ad avere l’audacia di usare un tale linguaggio. Anche se Dio ama l’umanità di un amore così grande, ciò era vero fin dall’origine, tuttavia l’umanità non era pronta a comprenderlo. La rivelazione di Dio come sposo, così come quella di Dio-Padre, è stata possibile solo dopo diversi secoli di storia biblica. All’inizio dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo, questa nozione sarebbe stata ambigua. Gli altri popoli concepivano troppo facilmente i loro dèi a immagine degli uomini e delle loro vicende familiari. In una prima fase della rivelazione bisognava piuttosto scoprire il Dio unico totalmente Altro rispetto all’uomo e accogliere la sua Alleanza. Fu dunque il profeta Osea, il primo a paragonare il popolo di Israele a una sposa. Definiva “adultèri” le infedeltà del popolo, cioè le sue ricadute nell’idolatria. Dopo di lui, Geremia, Ezechiele, il Secondo Isaia e il Terzo Isaia (autore del testo che leggiamo oggi) svilupparono il tema delle nozze tra Dio e il suo popolo; nei loro scritti troviamo tutto il vocabolario degli sponsali: i nomi affettuosi, la veste nuziale, la corona della sposa, la fedeltà, ma anche la gelosia, l’adulterio.
Ecco qualche esempio: Osea scrive: “Mi chiamerai ‘mio sposo’… Ti farò mia sposa per sempre… nella giustizia e nel diritto, nella fedeltà e nella tenerezza” (2,18.21). Nel secondo Isaia leggiamo: “Il tuo sposo è colui che ti ha creata… Si può forse rifiutare la donna della propria giovinezza? Nella mia fedeltà eterna ti mostro la mia tenerezza.» (Is 54, 5…8). Il testo più impressionante su questo tema è sicuramente il Cantico dei Cantici: si presenta come un lungo dialogo amoroso, composto da sette poemi. A dire il vero, in nessun punto i due innamorati sono identificati, ma la tradizione ebraica lo interpreta come una parabola dell’amore di Dio per l’umanità. La prova è che questo testo viene proclamato durante la celebrazione della Pasqua, la grande festa dell’Alleanza di Dio con il suo popolo e, attraverso esso, con tutta l’umanità. Nel brano odierno, uno dei passatempi preferiti dello sposo sembra essere dare nuovi nomi alla sua amata. Sapete quanto sia importante il nome nelle relazioni umane: ciò a cui non posso o non so dare il nome non esiste per me. Dare il nome a qualcuno significa già conoscerlo; e quando il rapporto con una persona si approfondisce, non è raro sentire il bisogno di darle un soprannome. Nella vita di coppia o in famiglia, diminutivi e soprannomi hanno un ruolo importante. Anche la Bibbia riflette questa esperienza fondamentale della vita umana; il nome ha un’importanza enorme, perché rivela il mistero della persona, la sua essenza profonda, la sua vocazione e missione. Spesso viene spiegato il significato del nome dei personaggi principali: ad esempio, l’angelo annuncia che il nome di Gesù significa “Dio salva”, indicando che quel bambino salverà l’umanità in nome di Dio. A volte Dio cambia il nome di qualcuno nel momento in cui gli affida una nuova missione: Abram diventa Abramo, Sarai diventa Sara, Giacobbe diventa Israele e Simone diventa Pietro. Nel testo di oggi, dunque, è Dio a dare nuovi nomi a Gerusalemme: da “abbandonata” diventa “mia gioia”, da “terra devastata” diventa “sposata”.
*Salmo Responsoriale (dal Sal 95/96, 1-2a, 2b-3. 7-8a, 9a-10)
Questo salmo invita a contemplare la gloria di Dio: la sua salvezza, le sue meraviglie, la sua potenza. “Cantate al Signore un canto nuovo… cantate al Signore, benedite il suo nome””. Nulla di sorprendente: in Israele, infatti, è abitudine costante ricordare l’opera di Dio lungo i secoli per liberare il suo popolo da tutto ciò che ostacola la sua felicità. Di giorno in giorno Israele proclama la sua salvezza… di giorno in giorno Israele fa memoria delle opere di Dio, delle sue meraviglie, ovvero della sua incessante azione di liberazione… di giorno in giorno Israele testimonia che Dio lo ha liberato dall’Egitto prima e poi da ogni forma di schiavitù. E la più terribile di tutte le schiavitù è sbagliarsi su chi sia Dio, riporre la propria fiducia in falsi valori, in falsi dèi che possono solo deludere, in idoli. Israele ha il privilegio immenso, l’onore straordinario, la gioia di sapere e proclamare che “il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno” (come afferma la professione di fede ebraica, lo Shema Israel). E la fede in Lui è l’unica via di felicità per l’uomo. Questo è il messaggio che Israele trasmette al mondo: “Dite tra le genti: Il Signore regna!”
Riprendiamo l’espressione: “Dite alle genti”. Nel linguaggio biblico, le nazioni o le genti indicano tutti i popoli diversi da Israele, i cosiddetti goyîm, ossia il resto dell’umanità, i non circoncisi, come dice san Paolo. Nei testi biblici, il termine goyîm assume significati diversi, a volte persino contraddittori. Talvolta ha un’accezione decisamente negativa: ad esempio, il libro del Deuteronomio parla delle “abominazioni delle genti” e questa condanna si riferisce al loro politeismo, alle loro pratiche religiose in generale e, in particolare, ai sacrifici umani. Il popolo eletto deve restare fedele a Dio senza compromessi, scoprendo il vero volto dell’unico Dio. Per questo nella prima fase della rivelazione, è necessario evitare ogni contatto con le genti o nazioni, percepite come un rischio di contagio idolatrico. La storia di Israele dimostra quanto più volte sia stato reale questo rischio! Inoltre, nella mentalità dell’epoca, dove le divinità erano viste come alleate nei conflitti, era inconcepibile immaginare un Dio che parteggiasse per tutti i popoli contemporaneamente. In questo salmo, però, si badi bene che il termine “ genti” non è più negativo: le “genti” sono tutti coloro che non appartengono al popolo di Israele, ma che sono comunque destinatari della salvezza di Dio, esattamente come il popolo eletto. Questo salmo, quindi, è stato composto in epoca relativamente tarda, probabilmente dopo l’esilio a Babilonia, quando Israele iniziava a comprendere che il Dio unico è il Dio di tutto l’universo e di tutta l’umanità, e che la sua salvezza non è riservata a Israele.
“Annunciate… a tutti i popoli dite le sue meraviglie”. Per arrivare a questa comprensione, Dio ha guidato il popolo eletto attraverso un lungo e paziente percorso pedagogico. Israele ha gradualmente aperto il cuore, accettando che il suo Dio fosse anche il Dio di tutti gli uomini, impegnato nella ricerca della felicità di tutti, non solo della propria. Il popolo eletto ha compreso di essere il fratello maggiore, non il figlio unico: la sua vocazione è quella di aprire la strada agli altri popoli nella lunga marcia dell’umanità verso Dio. E arriverà il giorno in cui tutti i popoli, senza eccezione, riconosceranno Dio come unico Dio. Allora, l’intera umanità riporrà la propria fiducia solo in Lui. Il salmo esprime questa speranza universale: “Date al Signore, o famiglie dei popoli, date al Signore gloria e potenza, date al Signore la gloria del suo nome”.
Gli ultimi versetti del salmo, che questa domenica non leggiamo, offrono una sorta di anticipazione della fine dei tempi perché arriverà il giorno nel quale tutta la creazione celebrerà la gloria di Dio: “Gioisca il cielo! Esulti la terra! Le onde del mare fremano, / i campi siano in festa e gli alberi della foresta danzino di gioia davanti al Signore”. Quel giorno vedremo danzare persino gli alberi! Il presente però non è facile. Occorre perseverare nella fede e testimoniare la propria fede davanti alle genti/ nazioni e la lotta contro l’idolatria, contro i falsi dèi, non è mai del tutto vinta. Quanto attuale è questo salmo!
*Seconda Lettura dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (1Cor 12,4-1)
Questa lettera ai Corinzi risale a venti secoli fa ma è sorprendentemente attuale. Come restare cristiani in un mondo che ha valori completamente diversi? Come discernere, tra le idee che circolano, quelle compatibili con la fede cristiana? Come convivere con i non cristiani senza venir meno alla carità, ma anche senza perdere la nostra identità? Il mondo attorno a noi parla di sesso e di denaro… Come possiamo evangelizzarlo? Queste erano le domande dei cristiani di Corinto, appena convertiti in un mondo prevalentemente pagano. Son in verità le stesse domande che ci poniamo oggi, noi cristiani in una società che non privilegia più i valori del vangelo e le risposte di Paolo ci riguardano tutte. Egli affronta le divisioni nella comunità, i problemi della vita coniugale specialmente quando i coniugi non condividono la stessa fede, come pure l’urgenza di rimanere saldi di fronte al proliferare di nuove idee ed emergenti nuovi culti religiosi. Nell’ambito di ciascuno di questi temi, Paolo rimette le cose al loro posto. Tuttavia, come sempre, quando tratta argomenti concreti, Paolo ci ricorda prima di tutto dove porre il fondamento, cioè nel Battesimo. Lo aveva già ben preannunciato Giovanni Battista parlando del Battesimo inaugurato da Cristo con il quale veniamo immersi nel fuoco dello Spirito (Mt 3,11), ed è lo Spirito che ora agisce in noi secondo le nostre diversità. Paolo lo ribadisce: “tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole”. A Corinto, come nel resto del mondo ellenistico, si idolatrava l’intelligenza e si ambiva alla saggezza spesso attraverso la filosofia. A coloro che cercavano di giungere alla saggezza tramite il ragionamento rigoroso, Paolo risponde che la vera saggezza, che è l’unica conoscenza che conta, non si raggiunge con discorsi, ma è un dono di Dio data per mezzo dello Spirito. Non c’è pertanto motivo di vantarsene: tutto è dono. La parola “dono” (o il verbo “dare”) compare in questo testo ben sette volte! Anche se tale concetto esiste nella Bibbia, Paolo però riprende ciò che Israele aveva già compreso - ovvero che solo Dio conosce e rivela la vera saggezza - e la sua novità consiste nel parlare dello Spirito come di una Persona. Si distacca così totalmente dalle speculazioni filosofiche dell’epoca: non propone una nuova scuola di filosofia, ma annuncia Qualcuno e i doni distribuiti ai membri della comunità cristiana non riguardano il potere o il sapere, ma una nuova esistenza interiore. In questo passaggio, dove il nome dello Spirito ricorre sette volte, pur rivolto ai Corinzi, non parla di loro, ma esclusivamente dello Spirito all’opera nella comunità cristiana, che con pazienza e costanza orienta tutti verso il Padre (ci ispira a dire «Abba» – Padre) e verso i fratelli. Paolo chiarisce che a ognuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune. I Corinzi, attratti da fenomeni spirituali straordinari, vengono così ricondotti all’essenziale: l’obiettivo è il bene di tutti, perché lo Spirito è l’Amore in persona. Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. Ed allora le nostre diversità ci rendono capaci, ciascuno a suo modo, di manifestare l’unico Amore di Dio. Una delle lezioni di questo testo di Paolo è imparare a gioire delle differenze che rappresentano le molteplici sfaccettature di ciò che l’Amore ci permette di realizzare, rispettando l’unicità di ciascuno. Consideriamo dunque la varietà di razze, lingue, doni, arti, invenzioni… una tale diversità è la ricchezza della Chiesa e del mondo, purché sia vissuta nell’amore. Dio vuole che l’umanità sia come un’orchestra: una stessa ispirazione, espressioni diverse e complementari, strumenti differenti che creano una sinfonia purché tutti suonino nella stessa tonalità; altrimenti, si ha una cacofonia! La sinfonia di cui parla Paolo è il canto d’amore che la Chiesa è chiamata a intonare al mondo. Potremmo definirlo un “inno all’amore”, come esiste l’inno alla gioia o l’inno alla vita di celebri musicisti. La complementarità nella Chiesa non è dunque questione di ruoli o funzioni per strutturarla con un organigramma ben definito. È qualcosa di molto più importante e sublime: la missione affidata alla Chiesa di rivelare l’Amore. Quanto mai opportuna è questo testo di san Paolo in questa settimana di preghiera per l’unità dei cristiani!
*Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 2,1-11)
San Giovanni usa un linguaggio diverso dagli altri evangelisti e occorre imparare a scoprire che le cose importanti vengono spesso dette tra le righe. Per lui, questo primo “segno” (così lo chiama) di Gesù a Cana è di enorme rilevanza: da solo evoca il grande mistero del progetto di Dio sull’umanità, il mistero della nuova creazione, mistero di Alleanza e di Nozze tra Dio e il suo popolo. Il Prologo, ossia l’inizio del primo capitolo del suo vangelo, è una grande meditazione su questo mistero e il racconto del miracolo di Cana in fondo è la stessa meditazione espressa però sotto forma di narrazione. Questi due testi, posti all’inizio del vangelo e riletti in simmetrica contemplazione, ci aiutano a introdurci alla comprensione di tutto ciò che seguirà. Cercheremo dunque di leggere il racconto delle nozze di Cana avendo in mente e nel cuore il Prologo. Sono due testi che “abbracciano” la “settimana inaugurale” della vita pubblica di Gesù. Settimana che inizia con Giovanni Battista sulle rive del Giordano interrogato dai farisei sulla sua missione mentre già annuncia la venuta di Gesù. Il giorno dopo, egli lo vede avvicinarsi e lo riconosce come “il Figlio di Dio, colui che battezza nello Spirito Santo” (Gv 1,33-34). Il giorno successivo (notare la precisione di Giovanni che sembra richiamare il primo capitolo della Genesi dove l’autore sacro ogni volta annota: “fu sera e fu mattina”), altri due discepoli di Giovanni Battista lasciano il suo gruppo per seguire Gesù, che li invita a trascorrere la serata con lui. Il giorno seguente, Gesù parte per la Galilea con alcuni discepoli. In Galilea, tre giorni dopo, si svolge il miracolo di Cana e l’evangelista inizia il racconto dicendo: ”Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea”. Se contiamo i giorni dall’inizio siamo giunti al “settimo giorno” e il riferimento a una settimana o a un “settimo giorno” non può essere casuale perché il “settimo giorno” richiama sempre il compimento della creazione. “Questo fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù”: siamo alla fine del brano e Giovanni annota che fu l’inizio; anche nel Prologo afferma: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste”. Siamo qui nel contesto dei sette giorni della creazione, mentre nelle nozze di Cana viene annotata l’ora delle nozze tra Dio e l’umanità mostrando che quest’evento si situa nel settimo giorno della nuova creazione. A Cana Gesù non si limita a moltiplicare il vino, ma lo crea. Come all’inizio di tutte le cose, il Verbo, rivolto verso Dio, aveva creato il mondo, ora inaugura una nuova creazione. E si tratta di nozze! Il parallelismo poi continua: il sesto giorno della Creazione, Dio aveva completato la sua opera creando la coppia umana a sua immagine; il settimo giorno della nuova creazione, Gesù partecipa a un banchetto nuziale ed è un modo per dire che il progetto creatore di Dio è, in definitiva, un progetto di Alleanza, un progetto di Nozze. (Molto probabilmente la prima lettura - Isaia 62 che parla di Israele come «gioia di Dio» e di Dio come sposo del suo popolo- è stata posta proprio in relazione a questa pagina evangelica). I Padri della Chiesa hanno visto nel miracolo di Cana la realizzazione della promessa divina: qui iniziano le nozze di Dio con l’umanità. Ma che significato riveste il termine l’ora? Per Giovanni si tratta d’un termine simbolico di cruciale valore perché si riferisce all’Ora in cui il progetto di Dio si compie in Cristo. Quando Gesù dice a Maria:” Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora” sta pensando alla sua missione più grande: realizzare le nozze tra Dio e l’umanità. La frase (Donna, che vuoi da me?) sorprende e ha generato molte discussioni. In greco, la frase significa “Che c’è tra me e te?”, cioè “tu non puoi comprendere”. Qui Gesù si confronta con il mistero della sua missione: deve compiere un miracolo, creare del vino, e rivelare così la sua natura divina? In questa scena si potrebbe cogliere un’eco delle tentazioni nei Vangeli sinottici: nel deserto, Gesù aveva rifiutato di trasformare le pietre in pane, perché sarebbe stato un miracolo per sé stesso. A Cana, invece, crea il vino per la gioia degli altri. Il Figlio di Dio compie miracoli solo per il bene dell’umanità. C’è poi il riferimento al “terzo giorno” non certamente casuale. Rimanda alla Resurrezione e collega Cana alla Pasqua. È lì, nella morte e resurrezione di Cristo, che l’Alleanza sarà definitivamente sigillata. Quando Giovanni dice: “E manifestò la sua gloria”, allude alla gloria definitiva della Resurrezione. In questa prospettiva, Cana diventa il primo segno visibile della gloria di Cristo, preludio alla gloria piena del Risorto.
Alcune annotazioni finali su un testo che meriterebbe una ben più lunga riflessione
1 - “Il terzo giorno”: da sola, questa precisione è certamente un messaggio; anche in questo caso, non si tratta di una semplice annotazione aneddotica per riempire un diario, ma di una meditazione teologica: la memoria dei discepoli è per sempre segnata da un certo terzo giorno, quello della Risurrezione. Essa ci rimanda dunque all’altra estremità, per così dire, della vita pubblica di Gesù: alla Passione, morte e Risurrezione di Cristo. È un modo per Giovanni di dirci che lì, e solo lì, l’Alleanza di Dio con l’umanità sarà definitivamente sigillata e saranno celebrate le sue nozze con l’umanità. Del resto, l’ultima frase, “Manifestò la sua gloria”, è anche un’allusione alla Risurrezione. Nel Prologo Giovanni diceva: “ Il Verbo si è fatto carne e ha abitato tra noi e noi abbiamo visto la sua gloria”… . È proprio a Cana che i discepoli videro per la prima volta la gloria di Gesù, in attesa della manifestazione definitiva della gloria di Dio sul volto del Cristo, morto e risorto.
2. L’evangelista Giovanni specifica che Cana è in Galilea, il che amplia notevolmente la prospettiva: la Galilea, tradizionalmente, è considerata il paese dei pagani, un crocevia di popoli; Isaia la chiamava “il paese dell’ombra, la Galilea delle genti”. Dio quindi sposa l’intera umanità, non solo alcuni privilegiati.
3. “Donna, che vuoi da me?” Non cerchiamo di minimizzare l’evidente vivacità di questa reazione del Figlio verso sua madre. In ebraico, questa frase generalmente esprime una divergenza di opinioni, a volte persino ostilità (Gdc 11,12; Mc 1,24; 2 Sam 16,10; 2 Sam 19,23); riconosciamo però che si tratta di casi estremi. La riflessione di Gesù potrebbe somigliare di più a quella della vedova di Sarepta nei confronti di Elia al momento della morte di suo figlio (1 Re 17,18): ella considera la presenza del profeta come un intervento inopportuno. Tuttavia, la difficoltà rimane: Gesù, mite e umile di cuore, manca forse di rispetto verso sua madre? In realtà, forse qui si intravede un’ammissione implicita di un autentico conflitto interiore del Figlio riguardo alla sua missione. Colui che non si permetteva di compiere miracoli per il proprio beneficio (come trasformare le pietre in pane) doveva qui trasformare l’acqua in vino? Qui si tocca la profondità del mistero di Cristo, un mistero che egli stesso ha gradualmente scoperto: essendo pienamente uomo, ha dovuto crescere poco a poco, come ciascuno di noi, nella comprensione della sua missione.
4. Le giare d’acqua di Cana sono di pietra, e Giovanni lo sottolinea intenzionalmente: le brocche di terracotta venivano usate per l’acqua potabile, mentre le giare di pietra erano destinate all’acqua per le abluzioni rituali. È proprio quest’acqua, simbolo dell’Alleanza, che si è trasformata nel vino delle nozze.
5. I discepoli scopriranno il miracolo solo in seguito, perché gli unici che sono realmente a conoscenza del fatto, come sottolinea san Giovanni, sono i servitori (versetto 9): essi lo sapevano, per così dire, “nella loro carne”, perché furono loro ad attingere l’acqua, a trasportarla, e tutto ciò in un’obbedienza cieca, senza forse comprendere a cosa sarebbe servita quell’acqua. Ovviamente, non ci deve sorprende troppo che i poveri, in questo caso gli ultimi - i servi - siano i primi a essere a conoscenza del progetto di Dio!
+Giovanni D’Ercole
In addition to physical hunger man carries within him another hunger — all of us have this hunger — a more important hunger, which cannot be satisfied with ordinary food. It is a hunger for life, a hunger for eternity which He alone can satisfy, as he is «the bread of life» (Pope Francis)
Oltre alla fame fisica l’uomo porta in sé un’altra fame – tutti noi abbiamo questa fame – una fame più importante, che non può essere saziata con un cibo ordinario. Si tratta di fame di vita, di fame di eternità che Lui solo può appagare, in quanto è «il pane della vita» (Papa Francesco)
The Eucharist draws us into Jesus' act of self-oblation. More than just statically receiving the incarnate Logos, we enter into the very dynamic of his self-giving [Pope Benedict]
L'Eucaristia ci attira nell'atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione [Papa Benedetto]
Jesus, the true bread of life that satisfies our hunger for meaning and for truth, cannot be “earned” with human work; he comes to us only as a gift of God’s love, as a work of God (Pope Benedict)
Gesù, vero pane di vita che sazia la nostra fame di senso, di verità, non si può «guadagnare» con il lavoro umano; viene a noi soltanto come dono dell’amore di Dio, come opera di Dio (Papa Benedetto)
Jesus, who shared his quality as a "stone" in Simon, also communicates to him his mission as a "shepherd". It is a communication that implies an intimate communion, which also transpires from the formulation of Jesus: "Feed my lambs... my sheep"; as he had already said: "On this rock I will build my Church" (Mt 16:18). The Church is property of Christ, not of Peter. Lambs and sheep belong to Christ, and to no one else (Pope John Paul II)
Gesù, che ha partecipato a Simone la sua qualità di “pietra”, gli comunica anche la sua missione di “pastore”. È una comunicazione che implica una comunione intima, che traspare anche dalla formulazione di Gesù: “Pasci i miei agnelli… le mie pecorelle”; come aveva già detto: “Su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18). La Chiesa è proprietà di Cristo, non di Pietro. Agnelli e pecorelle appartengono a Cristo, e a nessun altro (Papa Giovanni Paolo II)
Praying, celebrating, imitating Jesus: these are the three "doors" - to be opened to find «the way, to go to truth and to life» (Pope Francis)
Pregare, celebrare, imitare Gesù: sono le tre “porte” — da aprire per trovare «la via, per andare alla verità e alla vita» (Papa Francesco)
In recounting the "sign" of bread, the Evangelist emphasizes that Christ, before distributing the food, blessed it with a prayer of thanksgiving (cf. v. 11). The Greek term used is eucharistein and it refers directly to the Last Supper, though, in fact, John refers here not to the institution of the Eucharist but to the washing of the feet. The Eucharist is mentioned here in anticipation of the great symbol of the Bread of Life [Pope Benedict]
Narrando il “segno” dei pani, l’Evangelista sottolinea che Cristo, prima di distribuirli, li benedisse con una preghiera di ringraziamento (cfr v. 11). Il verbo è eucharistein, e rimanda direttamente al racconto dell’Ultima Cena, nel quale, in effetti, Giovanni non riferisce l’istituzione dell’Eucaristia, bensì la lavanda dei piedi. L’Eucaristia è qui come anticipata nel grande segno del pane della vita [Papa Benedetto]
Work is part of God’s loving plan, we are called to cultivate and care for all the goods of creation and in this way share in the work of creation! Work is fundamental to the dignity of a person [Pope Francis]
don Giuseppe Nespeca
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