Argentino Quintavalle è studioso biblico ed esperto in Protestantesimo e Giudaismo. Autore del libro “Apocalisse - commento esegetico” (disponibile su Amazon) e specializzato in catechesi per protestanti che desiderano tornare nella Chiesa Cattolica.
(1Cor 15,45-49)
1Corinzi 15:45 il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita.
1Corinzi 15:46 Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale.
1Corinzi 15:47 Il primo uomo tratto dalla terra è di terra, il secondo uomo viene dal cielo.
1Corinzi 15:48 Quale è l'uomo fatto di terra, così sono quelli di terra; ma quale il celeste, così anche i celesti.
1Corinzi 15:49 E come abbiamo portato l'immagine dell'uomo di terra, così porteremo l'immagine dell'uomo celeste.
In questi versetti Paolo si addentra nel parallelismo Adamo–Cristo. Adamo, il primo uomo, a causa del suo peccato fu un portatore di morte, di malattie, di sofferenza, di dolore. Fu anche causa di un corpo concupiscente, di un corpo difficilmente governabile dallo stesso uomo. Adamo anziché padre di vita si rivelò padre di morte, anziché di libertà si dimostrò padre di schiavitù, invece che di salvezza divenne un padre di perdizione.
Nella sua infinita ed eterna misericordia, Dio aveva fin dall’eternità previsto un rimedio efficace contro la morte che Adamo avrebbe immesso nel mondo. Pensando a Gesù Cristo, Salvatore e Redentore, ha pensato a Lui come spirito datore di vita al fine di operare la nostra redenzione. Come l’ha operata? Attraverso il suo corpo morto e risuscitato. Quel corpo che si è rivestito di vita divina e immortale, di gloria e incorruttibilità, il Signore lo dona come nostro cibo e bevanda di vita eterna perché anche noi diveniamo partecipi di esso, e ce ne rivestiamo.
Adamo ha lasciato in eredità un corpo di peccato. Questa è la nostra condizione. Solo chi diviene una cosa sola con Cristo, potrà rivestire il corpo spirituale. Se si rimane fuori del corpo di Cristo, noi rimaniamo nella schiavitù del vizio e del peccato; dimoriamo nel nostro egoismo, trascorriamo i nostri giorni sospinti e sballottati dalla concupiscenza che fa di noi uomini istintivi, passionali, superbi, fanfaroni, trasgressori.
A chi domandasse perché lo stato spirituale, benché più perfetto, sia venuto dopo lo stato animale più imperfetto, l'apostolo risponde con un principio generale: l'ordine naturale vuole che si cominci da ciò che è imperfetto, e si passi poi a ciò che è più perfetto. Dio ha voluto seguire questa legge, e perciò ha stabilito che lo stato spirituale più perfetto fosse preceduto dallo stato animale imperfetto.
Noi abbiamo ricevuto un corpo animale; attraverso questo corpo, in un cammino di verità siamo chiamati a rivestire il corpo celeste. La morte di Cristo consente di metterci in cammino, perché lo Spirito Santo nelle acque del battesimo ci riveste di Cristo. È un cammino verso l’acquisizione della nostra vera umanità. È un cammino lungo, non facile, costa il sacrificio e l’olocausto della nostra vita. La via è una sola: rimanere ancorati in Cristo, divenire con lui una cosa sola.
Adamo viene dalla terra perché secondo il racconto della Genesi fu plasmato dal polvere del suolo. Questa è la sua origine. Gesù viene dal cielo in quanto vero Dio. Non viene dal cielo in quanto corpo. Il corpo egli lo ha assunto dalla beata Vergine Maria. Anche lui quindi ha un corpo che è stato tratto dalla carne di Adamo, anche se questa carne per un singolare privilegio è santissima, piena di grazia, fin dal primo momento del suo concepimento. Il corpo di Gesù Cristo è nato nella più grande santità, ma è sempre carne umana e quindi anche Gesù Cristo ha un corpo che proviene dalla terra, altrimenti non avrebbe potuto redimerci.
«Quale è il terreno, tali sono anche i terreni; e quale è il celeste, tali saranno anche i celesti». Ognuno produce secondo la sua natura. Adamo che era stato tratto dalla polvere del suolo ha generato uomini a sua immagine, fatti anch’essi di corpo materiale. Altro invece è il dono di Cristo: attraverso la sua passione, morte e risurrezione il suo corpo è divenuto spirituale, glorioso. Il suo corpo porta in sé la perfezione dell’immagine divina. Per grazia saremo in tutto simile al suo corpo celeste, se ci lasceremo generare da Dio attraverso la fede. Questo è il più grande atto di amore con il quale Dio ci rivestirà domani, se oggi ci lasciamo rivestire nell’anima attraverso la conversione, la fedeltà al vangelo, ossia una vita tutta fatta di parola di Cristo.
Infatti, «come abbiamo portato l'immagine del terreno, così porteremo anche l'immagine del celeste». Per discendenza da Adamo abbiamo portato l’immagine dell’uomo terreno; così per fede porteremo l’immagine dell’uomo celeste. Cristo è nella gloria del suo corpo spiritualizzato. Questa è l’immagine di cui saremo rivestiti un giorno. Verso il compimento di questa verità dobbiamo camminare.
Il momento presente è il luogo del passaggio, cioè di questa gestazione in cui progressivamente la nostra vita animale, la nostra vita concreta di ogni giorno, la nostra esistenza, è vissuta in termini spirituali. Ed è già questa la caparra della risurrezione. La morte allora non sarà il fallimento di questa vita, ma il brano successivo che è tutto un inno alla vita. Nel battesimo abbiamo deposto l'immagine dell'uomo terreno e cominciato a portare l'immagine di Gesù Cristo, immagine che diverrà perfetta dopo la risurrezione.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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(1Cor 15,12.16-20)
6a Domenica T.O. (C)
1Corinzi 15:12 Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti?
1Corinzi 15:16 Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto;
1Corinzi 15:17 ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati.
1Corinzi 15:18 E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti.
1Corinzi 15:19 Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini.
Alcuni Corinzi sostenevano delle idee greche intorno all’immortalità dell’anima, e cioè che dopo la morte l’anima si separava dal corpo per essere assorbita nel divino o per continuare una tenue esistenza nell’Ades, in quanto per i Greci la risurrezione fisica era impossibile. Paolo ha già detto che Gesù Cristo non solo è risuscitato dai morti, egli è anche stato visto risorto. Le persone che hanno avuto la grazia di vederlo sono tantissime. Eppure, a Corinto alcuni insegnavano che non esiste risurrezione dei morti. Da una parte c’è tutto il vangelo che è fondato sulla risurrezione di Gesù e dall’altra si afferma che i morti non risuscitano. Questa non è una contraddizione su un punto marginale della fede; è una contraddizione sul punto nevralgico della fede, anzi sulla stessa fede, poiché la nostra fede è la risurrezione di Gesù Cristo; insieme alla sua incarnazione, passione e morte. O Cristo è risorto e anche i morti risorgono, oppure i morti non risorgono e neanche Cristo è risorto.
Paolo non parte dalla risurrezione di Gesù per confutare l’errore dei Corinzi: parte dall’errore dei Corinzi per trarre tutte le conseguenze di questa loro affermazione e metterli così dinanzi ad un’altra verità che loro dovrebbero confessare se la loro affermazione fosse vera: “se Cristo non è risuscitato, vana è la vostra fede; voi siete ancora nei vostri peccati”.
Se Cristo non è risorto, oltre che ad avere una fede vana, c’è anche uno stato miserevole nel quale l’uomo viene a trovarsi: egli è ancora nei suoi peccati. Se Cristo non è risorto per la nostra giustificazione, neanche è morto per i nostri peccati, è morto e basta. Nessuna risurrezione implica nessuna espiazione. La tomba rimasta chiusa di Gesù starebbe a indicare ch’egli pure è rimasto preda della morte e che, di conseguenza, sono illusori il perdono dei peccati e la giustificazione che abbiamo cercato in lui: siamo ancora nella nostra schiavitù. Entriamo qui nel relativismo e nell’indifferentismo religioso. Se il peccato non è tolto attraverso la nostra giustificazione, non c’è alcuna differenza tra il cristiano e tutti gli altri uomini esistenti nel mondo. La differenza sarebbe solo di forma, ma non di sostanza. Tanto noi e gli altri siamo tutti nei nostri peccati e in essi viviamo, ma anche moriamo.
Altra conseguenza: “Anche quelli che dormono in Cristo, sono dunque periti”. Non solo noi che siamo vivi, siamo nei peccati; anche quelli che morirono credendo e sperando in Cristo, sono periti perché Cristo non essendo il vero Messia, non poterono ottenere la remissione dei peccati per la fede in Lui, e quindi passarono all'altro mondo con tutti i loro peccati, i quali conducono a perdizione. Da questa ultima deduzione una cosa appare evidente: la fede in Cristo (se non è risuscitato) non ci serve, né in questa vita, né nell’altra. Non ci serve perché non ci libera dalla morte, non ci libera dal peccato, non ci ottiene la redenzione, non ci porta nella gioia del cielo.
“Se abbiamo sperato in Cristo per questa vita soltanto, noi siamo i più miserabili di tutti gli uomini”. Una speranza in Cristo solo per questa vita, non solo è vana, è anche deleteria; anzi è una speranza antiumana. A motivo di questa fede, dobbiamo rinunciare a tante cose, di cui gli altri godono, e sopportare ogni sorta di travagli e persecuzioni - talvolta anche versare il proprio sangue. A che serve allora sperare in Cristo in questa vita, senza la speranza della vita eterna? A che giova obbligarsi al sacrificio, alla mortificazione di se stessi, a portare la croce ogni giorno, se poi tutto questo si conclude con la morte eterna, poiché non ci sarebbe speranza oltre la morte per coloro che si sono affidati a Cristo?
Siamo solo da compiangere. Abbiamo rinunciato a questo mondo alla luce di un altro mondo, ma se Cristo non è risuscitato noi abbiamo perso il piacere di entrambi i mondi. Stoltezza più grande di questa non potrebbe esistere per un uomo. Per questo i cristiani sarebbero da compiangere più di tutti gli uomini, perché sono stolti più di tutti gli uomini e sono stolti perché vanno dietro a una fede che nel suo nucleo è falsa, poiché essi stessi, cioè coloro che la professano, affermerebbero che è falsa, fondata su una verità che non esiste.
Quanto sarebbe auspicabile che i cristiani di oggi imparassero da Paolo a trarre le conseguenze di ogni loro affermazione riguardante la nostra santissima Fede! Se facessero questo capirebbero che certe cose non si possono affermare; se invece si affermano è giusto che si tirino le conclusioni e si agisca di conseguenza. Su molti argomenti di fede oggi si potrebbe fare lo stesso ragionamento di Paolo. I risultati sarebbero veramente sorprendenti. Ma questo non si fa, e allora l’uomo continua a vivere nella sua illusione. Pensa di avere detto tutto, mentre in realtà altro non fa che vivere di falsità, di inganno e di ogni altro genere di menzogne circa il Signore, non solo a proprio danno, ma a danno di ogni uomo, cristiano e non cristiano.
La forza della fede è nelle sue argomentazioni, nelle sue deduzioni, nelle conseguenze che necessariamente debbono essere tratte da una affermazione, vera o falsa ha poco importanza, purché si tirino le conclusioni e si sappia dedurre ogni cosa. Tutta questa capacità è saggezza dello Spirito Santo e viene data a chi ama la verità, cerca la verità, desidera la verità; viene data a tutti coloro che amano Dio e l’uomo; che non vogliono essere falsi testimoni di Dio; che non vogliono essere ingannatori dei fratelli.
Bisogna pregare sempre il Signore che ci dia una mente aperta, saggia, intelligente per percepire immediatamente la trappola mortale che si nasconde e si cela dietro ogni affermazione che è nell’apparenza di fede, mentre in realtà essa è pura menzogna, pura fantasia, pura immaginazione che ha come punto di origine il cuore dell’uomo e non certamente il cuore di Dio. La ragione è un bene prezioso dell’uomo. Egli deve saperla usare e usare bene anche per scoprire il vero e il falso delle sue affermazioni; deve saperla usare per cogliere le sfumature di vero e di falso che possono essere nascoste in una parola; deve saperla usare per giungere attraverso una serie di deduzioni e di argomentazioni alla verità in sé. La fede ha bisogno della ragione, necessita di essa; non per dimostrare la fede che si fonda solo sull’annuncio; ma perché la verità della fede possiede anche un percorso razionale che bisogna sviluppare.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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(1Cor 15,1-11)
1Corinzi 15:1 Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi,
1Corinzi 15:2 e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l'ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano!
Questo capitolo quindicesimo è dedicato da Paolo interamente al problema e alla questione di fede sulla risurrezione di Gesù Cristo, nella quale egli vede e contempla anche la nostra. È l’ultimo argomento dottrinale della Lettera ai Corinzi, uno tra i punti principali della dottrina cristiana, cioè la risurrezione dei morti. Questo dogma era negato dai sadducei, deriso dai pagani, interpretato allegoricamente da alcuni cristiani, giudicato impossibile e assurdo da alcuni Corinzi imbevuti di false idee filosofiche. Insieme alla risurrezione, costoro negavano probabilmente anche l'immortalità dell'anima, o almeno ne dubitavano. L'apostolo confuta questi errori, provando la realtà della risurrezione futura, e spiegando poi il modo con cui si compirà questo mistero, con l'esempio di Gesù risuscitato e con la vita dei fedeli e degli apostoli.
Nel primo versetto si può già intravedere la serietà con la quale l'apostolo affronta il tema. La risurrezione di Gesù non è uno dei tanti principi di fede, o una delle tante verità che formano la rivelazione da lui annunciata. La risurrezione di Gesù è il Vangelo che lui ha annunciato ai Corinzi. Essa, da sola, è Vangelo. Essa, da sola, è sufficiente per fondare saldamente la fede in Cristo. Dalla risurrezione di Cristo ogni altro mistero della fede si rende comprensibile e riceve il suo giusto valore.
Per produrre frutti di vita eterna, il Vangelo deve essere composto di tre momenti essenziali: l'annuncio del Vangelo, l’accoglienza del Vangelo, il restare saldi nel Vangelo. Se uno solo di questi momenti viene a mancare, viene a mancare anche il Vangelo. Il dono di Cristo all’uomo è essenziale. Se la Chiesa non dona Cristo all’uomo, l’uomo perde Cristo. Quelli che non hanno la Chiesa non hanno Cristo; il Cristo che credono di possedere non è il vero Cristo, non è il Cristo della fede, è un loro Cristo, fatto a loro immagine e somiglianza. Questo ‘Cristo’ che l’uomo si dona è un puro idolo. Non è il dono che Dio ha fatto all’uomo. Dio dona Cristo all’uomo attraverso la sua Chiesa, a partire dai suoi apostoli.
Ma non è sufficiente dare e accogliere il dono, è necessario che nel dono rimaniamo saldi, ancorati. Paolo, in questo, è di una serietà inaudita. Non lascia spazio a pensieri personali, a riflessioni spontanee. Il Vangelo è annunciato dalla Chiesa e dagli apostoli, dalla Chiesa e dagli apostoli lo si accoglie, in esso si rimane saldi e bene ancorati e, per mezzo di questa fede, si entra in possesso della salvezza (“siete salvati”), che ci sarà data in tutta la sua pienezza nella vita futura.
Posto il primo principio di fede, ne segue immediatamente un altro. «Se lo mantenete in quella forma in cui ve l'ho annunziato». La condizione necessaria a ottenere questa salvezza è quella di mantenere, ossia credere fermamente al Vangelo quale è stato predicato, senza togliere o falsare cosa alcuna. La salvezza è dal Vangelo a una sola condizione: che venga mantenuto, conservato intatto, nella forma in cui la Chiesa e gli Apostoli lo hanno annunciato. Se questo non avviene, se il Vangelo viene modificato, alterato, diviene inefficace quanto a salvezza. La fede posta in esso è una fede vana, perché non dona salvezza.
C’è un obbligo, ed è un obbligo di salvezza, custodire il Vangelo nella sua forma originaria, conservarlo nel cuore e nella mente così come esso è stato annunciato. Chi vuole la salvezza deve accogliere il Vangelo dalla Chiesa, ma deve anche custodirlo così come la Chiesa glielo ha consegnato. Ad esso non può apportare alcuna modifica, pena la perdita della sua anima.
Credere in un Vangelo personale e poi perdere la propria anima (questo significa aver “creduto invano”), a che serve? Meglio non avere Vangelo, che averne uno falso; meglio vivere alla maniera del mondo che vivere falsamente alla maniera di Dio.
I principi di Paolo non si possono adattare a certa moderna teologia, la quale ha scalzato il Vangelo dal suo posto, sostituendolo con pensieri umani, che hanno solo la parvenza della verità e della fede. In verità essi non contengono nulla della potenza liberatrice e redentrice del Vangelo. Molta fede oggi è vana; molta fede non conduce alla salvezza, perché essa è fondata su un Vangelo modificato, ridotto a pensieri umani.
Anche questo deve essere detto per amore della verità; lo esige la salvezza di molte anime che sono cadute in questa trappola preparata loro da molti uomini che si dicono di fede, mentre hanno ridotto il Vangelo di Dio, l’unica parola di vita eterna, a vanità e stoltezza.
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(Lc 2,22-40)
Luca 2:29 «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo
vada in pace secondo la tua parola;
Luca 2:30 perché i miei occhi han visto la tua salvezza,
Luca 2:31 preparata da te davanti a tutti i popoli,
Luca 2:32 luce per illuminare le genti
e gloria del tuo popolo Israele».
Antichissimo è l’uso liturgico del Nunc dimittis, pregato alla sera prima di andare a dormire. Che cosa significa pregare il Nunc dimittis? Significa anzitutto confessare che, avendo creduto in Dio, per noi è ormai indifferente morire o vivere, perché per fede sappiamo di non vedere più la morte. Per il credente la vera morte sta alle spalle ed è nel battesimo (Rm 6,3-11), per cui la morte che ci sta davanti non deve più essere motivo di angoscia o di paura. A ogni credente sono rivolte le parole: "chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno" (Gv11,26), che Gesù disse a Marta.
Ripetere le parole di Simeone ci porta a una confessione di fede per cui possiamo dire a Dio che ormai può licenziarci dal suo servizio. Andando a dormire noi ci prepariamo a un momento di impotenza, un momento in cui non siamo padroni di nulla, ci apprestiamo al sonno, che è una figura della morte. Con questo cantico ci disponiamo ad accogliere nella pace l’ora in cui moriremo. Morire è una cosa difficile, e morire bene è una grazia rara, ma se ci esercitiamo ogni sera a fare del sonno una profezia della morte, allora ci prepariamo ad andare verso la morte come all’incontro con il Signore.
Con il Nunc dimittis noi confessiamo il Signore come il Padrone delle nostre vite, colui che per la sua potenza può ogni giorno chiamarci a sé, e così impariamo a fare della nostra vita un servizio da cui possiamo chiedere di essere congedati.
Pregare il Nunc dimittis è ringraziare Dio per il miracolo di averci fatti giungere a sera ancora con la fede in lui: già questo è un grande miracolo che va riconosciuto con rendimento di grazie. Chiedere ogni sera di essere congedati dal servizio del Signore ci insegna che non sta a noi finire l’opera, ma che a noi spetta solamente credere e confessare che l’opera di Dio è stata da lui compiuta e portata a termine in noi. Siamo noi che nella nostra poca fede pensiamo di aver sempre qualcosa da compiere.
Per il Signore dovremmo essere sempre pronti, perché egli torna come ladro nella notte. Davanti al sonno, quando viene la notte, noi dobbiamo essere pronti a deporre il nostro respiro nelle mani del Signore, riconsegnandogli la nostra esistenza.
Pregando il Nunc dimittis noi confessiamo anche di aver visto la salvezza, di aver visto e riconosciuto l’azione di Dio. Anche alla fine di un giorno di sofferenza, di pianto, con il Nunc dimittis noi riconosciamo nella fede che Dio opera la salvezza anche attraverso eventi che ci fanno soffrire, che costituiscono per noi una contraddizione. Ma dalla fede discende la pace che ci fa confessare: ‘abbiamo visto con i nostri occhi la salvezza di Dio’. E così noi portiamo tutta la nostra giornata davanti al Signore, e se siamo stati fedeli, allora noi stessi saremo stati ‘luce del mondo’. Anche la nostra giornata, seppure segnata dalle nostre debolezze, sarà stata luce per i pagani, per i non credenti, per tutti gli uomini che abbiamo incontrato.
Anche gli eventi che ci hanno contraddetto vanno dunque considerati come qualcosa di buono attraverso cui il Signore ci conduce. Del resto Simeone, ormai vecchio e senza ruoli rilevanti, è contraddetto nella sua vita. Anna, nella sua condizione di vecchiaia e vedovanza, anche lei conosce eventi di contraddizione. Nei primi due capitoli di Luca incontriamo la sterilità, la povertà, l’irrilevanza, tutti eventi di contraddizione che attraversano la vita di tutti gli uomini di Dio di questa parte del vangelo. Eppure proprio costoro si vedono ricompensati in maniera sovrabbondante dal Signore.
Dunque anche tra gli eventi di contraddizione siamo chiamati a camminare e svolgere la nostra missione. Secondo Luca la missione è stata svolta da Simeone, da Anna, non da coloro che avevano ricevuto incarichi. Colui che dice: "Io sono la luce del mondo" (Gv 8,12) è anche colui che dice: "Voi siete la luce del mondo" (Mt5,14), associandoci alla sua missione che avviene sia nel nostro abbassamento, sia nel nostro successo.
Questo ci apre a una grande libertà nella nostra vita cristiana e nella nostra chiamata: nel successo o presi a sassate, dobbiamo andare avanti nell’obbedienza alla promessa di Dio, non fermandoci davanti alle contraddizioni di ogni giorno.
Se durante il giorno abbiamo vissuto l’obbedienza, siamo stati luce del mondo. Ma in questo mondo noi siamo anche la gloria d’Israele, perché i cristiani, la chiesa, sono i missionari d’Israele nel mondo.
Ecco, il Nunc dimittis è veramente ciò che suggella la nostra giornata. Simeone l’ha cantato alla fine, al tramonto della sua vita; noi lo cantiamo ogni sera, al concludersi delle nostre giornate, in attesa di farlo alla fine della nostra esistenza, alla sera della nostra vita.
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(1Cor 12,12-30)
1Corinzi 12:12 Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo.
1Corinzi 12:13 E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito.
Attraverso la similitudine del corpo, Paolo vuole che i Corinzi comprendano il grande principio della comunione che lega tutti i battezzati in Cristo. La prima regola del principio della comunione è questo: il corpo è uno, le membra sono tante. Nessun membro da solo forma il corpo, nessun corpo è formato da un solo membro. Non c’è nessuna contrapposizione tra unità e diversità. Anzi, l’unità è data dalla diversità, e la diversità è fatta per l’unità, proprio come nel corpo umano.
La diversità è importantissima, se no, esisterebbe solo Dio. Quindi, la condizione stessa per potere esistere è che siamo diversi e distinti, e guai ad abolire la diversità, perché la vita di un membro, la sua funzionalità, deriva dalla vita dell’altro membro e dalla sua funzionalità. Nessun membro lavora per se stesso, ogni membro lavora per le altre membra. Ogni membro riceve un aiuto vitale dalle altre membra e vive finché è capace di ricevere questo aiuto vitale. Così la vita dell’uno dipende dalla vita dell’altro.
C’è una reciprocità nel corpo umano che per Paolo deve essere anche reciprocità nel corpo di Cristo, che è la Chiesa: “così anche è di Cristo”. Dato che Paolo ha usato il corpo umano come analogia della chiesa, si sarebbe aspettato che avesse concluso dicendo: "Così anche è della chiesa", invece dice “così anche è di Cristo”, ed è proprio questo che l’Apostolo vuole chiarire, e cioè che la "chiesa" è il corpo di Cristo, per cui, dire che siamo di Cristo, equivale a dire che siamo chiesa.
Nella lettura di domenica scorsa, l’apostolo Paolo aveva ricordato ai Corinzi che vi è un solo Dio, un solo Signore e un solo Spirito. Adesso aggiunge un’altra grande verità: esiste un solo corpo, cioè una sola chiesa. Il corpo di Cristo è uno, non due, non tre, non molti, e sarà uno fino alla consumazione della storia. Tutto è stato fatto in Cristo, per Cristo, e con Cristo - e noi tutti siamo in lui, membra del suo corpo. E l'immagine di chiesa come corpo unico, non è una semplice immagine: è la realtà mistica e profonda dell’umanità redenta.
Purtroppo si vive la diversità come incubo perché diciamo che l’altro ha una cosa che io non ho, quindi c’è una differenza, quindi devo appropriarmi di quello che ha. Quindi i doni che abbiamo diventano il luogo del litigio e della lotta, e l’uomo attraverso i doni domina e fa il male.
La chiesa non è un "club" formato da persone che hanno deciso di accordarsi su che cosa credere, per pensare tutti allo stesso modo. Al contrario, la chiesa è formata da cristiani che sono stati oggetto di una precisa operazione divina. Il battesimo simboleggia questa verità. Si fa parte del corpo di Cristo nel momento in cui si nasce da acqua e da Spirito Santo. Il Battesimo è il sacramento della nostra incorporazione in Gesù Cristo. Quando usciamo dalle acque non siamo più noi, usciamo come corpo di Cristo, usciamo come sue membra. Questa è la nuova realtà che si compie nel battesimo.
Battezzare vuol dire andare in fondo, immergersi, in che cosa? Nell’unico Spirito! Siamo immersi nella vita dello Spirito che ci è donato dalla croce. Noi ci immergiamo in questo amore che Dio ha per noi; questo è ciò che ci unisce. Viviamo di questo amore che è uno per tutti. Questo dà la mia identità di figlio, mi fa amare il Padre, e amare i fratelli; questo è il senso profondo del battesimo. E questo fa di noi un solo corpo, perché uniti da un solo respiro (lo Spirito). Uno solo è il respiro, una sola è la vita, uno solo è il corpo.
Formiamo un unico corpo dove ognuno è un membro distinto dall’altro, sia che siamo Giudei, sia che siamo Greci (le grandi differenze religiose); sia che siamo schiavi, sia che siamo liberi (le grandi differenze sociali); sia che siamo maschi o femmine (le grandi differenze naturali). Anzi, queste differenze sono fondamentali perché il corpo riesca articolato. Se siamo battezzati, se ci siamo immersi nell’amore che Dio ha per noi e viviamo di questo amore che ci unisce a Cristo, viviamo la vita di Dio, e insieme agli altri che vivono la stessa vita formiamo un’unica persona in Dio; ed è il Cristo totale. E questa è la Chiesa.
Come la mano destra e la mana sinistra e le altre parti del corpo, sono distinte e diverse tra loro, ma hanno un’unica vita e formano un’unica persona, così noi abbiamo un’unica vita e siamo una sola persona. Da questa verità nasce un duplice obbligo per chi ha accettato di essere parte del corpo di Cristo. Il primo è quello di vedersi e pensarsi corpo di Cristo, membro di Lui. Pensarsi come membro di Cristo: significa vivere la legge della comunione in tutti i suoi aspetti.
Il secondo obbligo è quello di alimentarsi quotidianamente di Spirito Santo, attraverso la preghiera personale e comunitaria, e soprattutto attraverso l’Eucaristia – il sacramento della vita nuova – in modo che l’assimilazione a Cristo avvenga in modo perfetto; integra, senza lacune. Questa configurazione a Cristo è necessaria per abolire quel passato che potrebbe sempre ritornare e renderci schiavi, e alimentare i pensieri dell’uomo vecchio. La forza dell’uomo nuovo è invece nell’abbeverarsi costantemente alle acque dello Spirito Santo. Questo è il segreto dei santi. Questo deve essere il segreto di ogni membro del corpo di Cristo. Se berrà costantemente dell’acqua dello Spirito, il vecchio uomo avrà sempre meno forza, e in lui crescerà Cristo sempre più.
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(1Cor 12,4-11)
2a Domenica T.O. (C)
1Corinzi 12:4 Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito;
1Corinzi 12:5 vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore;
1Corinzi 12:6 vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti.
1Corinzi 12:7 E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune:
Si parla tre volte di diversità e tre volte di unità. L’unità è attribuita allo Spirito che è lo Spirito Santo, al Signore che è Gesù, e a Dio che è il Padre. Praticamente la Trinità fa da sottofondo alla nostra diversità e unità, perché la Trinità è il primo luogo della diversità e unità. La distinzione, la diversità è necessaria alla relazione, all’amore. La diversità, nell’amore diventa unità, che mantiene la diversità. Siccome Dio è amore, allora l’amore necessita della diversità; e la diversità è il luogo stesso dell’unione, mentre molto spesso per noi la diversità è il luogo del litigio, perché non accettiamo la diversità.
“C’è diversità di doni, ma vi è un medesimo Spirito”. Qui abbiamo la parola charismatōn. Derivando dalla stessa radice del termine “grazia”, charis, significa “manifestazioni della grazia” e dunque “doni”. Il carisma è una particolare grazia attraverso la quale possiamo manifestare al mondo la ricchezza di Dio. Il carisma è grazia perché dato gratuitamente all’uomo. Nessuno può farsene un vanto personale.
Affermata questa prima verità, Paolo ne afferma subito un’altra. Se i carismi sono tanti, uno solo però è il suo autore: lo Spirito Santo di Dio. Perché Paolo tiene a precisare questa verità? I pagani credevano che le diverse doti di una persona dovessero attribuirsi a diversi dèi, l'uno dei quali dava la sapienza, l'altro la forza, ecc. Affinché i cristiani non pensassero che qualcosa di analogo avvenisse per i diversi doni loro dati, l'apostolo li avvisa che, benché i doni siano diversi, uno però è lo Spirito da cui procedono.
“Vi è diversità di ministeri”. Ministeri, diakoniōn, vuol dire: diaconie, servizi (quegli degli apostoli, dei vescovi, dei presbiteri, ecc.). Quindi introduce un altro concetto: ogni carisma, ogni dono che abbiamo è un servizio agli altri. Quindi c’è una diversità di servizi perché i doni si manifestano nel servizio che si fa ai fratelli.
“Non v’è che un medesimo Signore”. Tutti questi servizi sono stabiliti e regolati dalla volontà suprema dell’unico capo della Chiesa: il Signore Gesù. Quindi ogni servizio trova la sua origine in Gesù, che si è fatto servo di tutti, e ogni dono trova il modello in Gesù.
“E vi è varietà di operazioni”. Operazioni traduce il termine energēmàtōn, che deriva dalla parola normalmente usata per indicare “opera”. Le opere che facciamo per il servizio del Regno devono essere ricondotte a Dio Padre Onnipotente, il quale dall’alto dei cieli fortifica la nostra volontà, infonde energia e vigore al corpo, santità all’anima perché si possa operare secondo Dio.
“Ma non v’è che un medesimo Iddio”. Per la terza volta Paolo asserisce che non vi possono essere divisioni tra i cristiani in base ai “doni”, perché è lo stesso Dio che elargisce i doni in tutta la loro diversità. E appunto perché tutti i doni procedono da Dio, non possono essere diretti che ad un fine degno di Dio.
Ogni uomo è uno strumento nelle mani di Dio. Se Dio usa uno strumento per una cosa e un altro strumento per un’altra cosa, forse che lo strumento può entrare in gelosia, può comportarsi con invidia, può dire al Signore perché usi me e non l’altro, oppure perché usi l’altro e non me? Se Dio ha disposto che uno eserciti un ministero con un carisma particolare e un altro agisca secondo un altro ministero e con un carisma differente, chi è l’uomo perché possa dire a Dio perché mi hai fatto così e perché mi hai fatto in modo differente dagli altri?
Se è Dio che opera in noi, allora è giusto pregare Dio che agisca in noi secondo il dono di cui ci ha arricchiti, ma anche che dia vigore al dono con cui ha arricchito gli altri.
In questi versetti abbiamo l’impalcatura profonda della struttura di una vita comunitaria e anche di coppia, cioè la diversità e l’unità. Esse non sono una insidia l’una all’altra, ma sono necessarie l’una all’altra, se no, è impossibile vivere. Il discorso è grade perché vale sia al livello strettamente personale, sia a livello sociale. Sono valori di fondo nei quali è in gioco il destino dell’umanità, cioè come vivi ciò che sei. Oggi si cerca di abolire la diversità. C’è unità, ma nella stoltezza, nella non identità, nella distruzione della persona.
«Or a ciascuno è data la manifestazione dello Spirito per l'utile comune». Questo è un criterio di discernimento dei doni: l’utilità comune. Tutto ciò che ho e sono, serve per amare Dio e il prossimo, e se non porta in questa direzione, me ne sto appropriando indebitamente, e quindi lo sto usando diabolicamente. Tutti i doni sono doni di Dio, ma possiamo farne un uso giusto o sbagliato. Un ministero, un dono, un carisma, una grazia non sono per la persona che li riceve, sono per l’utilità comune. Ognuno deve sentirsi arricchito dal carisma dell’altro, poiché l'altro, il suo carisma, Dio non gliel’ha dato per se stesso, ma per il bene della Chiesa.
Da questo principio enunciato da Paolo nasce per ogni cristiano un problema serio di coscienza. Se il carisma dell’altro è per la mia utilità, posso io trascurarlo, posso non servirmene se esso mi è necessario? Ignorare il carisma dell’altro, non servirsene, non volere che questo carisma porti frutto, è un peccato che si riversa contro di me. Se il carisma dell’altro è per me, privandomene, mi privo del nutrimento di cui necessito.
Il rifiuto del carisma dell’altro, e soprattutto il rifiuto per motivi di cattiva coscienza, mi pone in un serio pericolo di fallire nella mia vita cristiana, perché mi privo del sostegno e del nutrimento che il Signore mi ha posto accanto.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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(Lc 3,15-16.21-22)
Luca 3:15 Poiché il popolo era in attesa e tutti si domandavano in cuor loro, riguardo a Giovanni, se non fosse lui il Cristo,
Luca 3:16 Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali: costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.
Luca 3:21 Quando tutto il popolo fu battezzato e mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì
Luca 3:22 e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto».
La questione che qui viene posta e che costituirà motivo di rivelazione è l'identità di Giovanni: “se non fosse lui il Cristo”, cioè il Messia atteso da Israele. Il v. 16 pone in diretto confronto, da un lato, Giovanni con Gesù; dall'altro due diverse tipologie di battesimi. Gesù è presentato come il “più forte” di me. Il titolo de “il più Forte”, è riconosciuto nell'Antico Testamento a Dio (Dt 10,17). Se, dunque, Gesù è definito “il più Forte” ora Luca quantifica la distanza che intercorre tra Giovanni e colui che è “il più Forte”, commisurandola con l'espressione: “non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali”. Un lavoro da schiavi. Ebbene, la distanza è tale che a confronto de “il più Forte”, Giovanni non è neppure degno di essere qualificato come schiavo. Questa è la distanza che separa Giovanni da Gesù.
Gli effetti di questo divario tra i due sono indicati dal confronto tra le modalità dei due battesimi: “Io vi battezzo con acqua […] egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”. Una espressione quest'ultima che può essere letta come endiadi: lo Spirito Santo che è fuoco. Dio appare a Mosè sul monte Oreb sotto forma di fuoco che non brucia e guida il suo popolo nel deserto sotto forma di una colonna di fuoco che lo illumina e lo protegge dai suoi nemici. Un fuoco che esprime anche sia l'ira che la giustizia di Dio contro le infedeltà e i nemici del suo popolo. Questo fuoco è accostato allo Spirito Santo e, letto come endiadi, è lo Spirito Santo ed esprime la forza della sua natura dirompente, ma nel contempo esso si colloca in mezzo agli uomini come azione di giudizio divino.
Si noti l'uso dei tempi che Luca fa del verbo battezzare: il battesimo di acqua è retto dal presente indicativo e dice lo stato attuale delle cose; un battesimo di penitenza e di preparazione in vista di un altro battesimo, ma in se stesso privo di ogni forza rigenerante. Un battesimo, quindi, ancora imperfetto. Per contro, il battesimo di Spirito Santo e fuoco è retto dal verbo al futuro, poiché riguarda i tempi successivi a Giovanni, inaugurati da “il più Forte” di lui.
Uno Spirito Santo che tutti gli evangelisti descrivono con riferimento alla colomba. Il richiamo alla colomba è alquanto singolare, poiché in nessuna parte della Bibbia Dio viene riferito alla colomba. La scelta della colomba probabilmente nasce da due immagini bibliche: da Gen 1,2 in cui si dice che “lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”; e nel racconto del diluvio universale, dove si narra che Noè liberò una colomba per verificare se la terra fosse ancora coperta dalle acque. In entrambi i casi l'aleggiare e la colomba di Noè hanno a che fare con l'acqua, così come lo Spirito ha a che fare con le acque battesimali, quelle del Giordano.
Il v. 22 presenta l'investitura pubblica di Gesù, una sorta di unzione profetica nello Spirito, fornendogli tutta l'autorità e il potere divini, di cui è rivestito non solo per mandato, ma anche per sua natura. Luca fornisce qui la chiave di lettura non solo della persona di Gesù, ma anche della sua stessa missione: Gesù non opera per conto proprio, ma in forma trinitaria. Vi è infatti qui la presenza sia del Padre, sotto forma di voce, che riconosce in Gesù suo Figlio: “Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto”; vi è lo Spirito Santo che scende su Gesù e vi rimane; e infine, vi è Gesù stesso, il Figlio del Padre. Padre e Spirito Santo, pertanto, operano in e con Gesù, che è azione del Padre, lo spazio storico dove il Padre opera con la potenza del suo Spirito. L'intera missione di Gesù acquista pertanto una valenza marcatamente trinitaria.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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Sal 17 (18)
Questa monumentale ode, che il titolo attribuisce a Davide, è un Te Deum del re d'Israele, è il suo inno di ringraziamento a Dio perché è stato liberato da tutti i suoi nemici e dalla mano di Saul. Davide riconosce che solo Dio è stato il suo Liberatore, il suo Salvatore.
Davide inizia con una professione di amore (v. 2). Grida al mondo il suo amore per il Signore. La parola che usa è «rāḥam», significa amare molto teneramente, come nel caso dell'amore di una madre. Il Signore è la sua forza. Davide è debole in quanto uomo. Con Dio, che è la sua forza, lui è forte. È la forza di Dio che lo rende forte. Questa verità vale per ogni uomo. Ogni uomo è debole, e rimane tale se Dio non diviene la sua forza.
Dio per Davide è tutto (v. 3). Il Signore per Davide è roccia, fortezza. È il suo Liberatore. È la rupe in cui si rifugia. È lo scudo che lo difende dal nemico. Il Signore è la sua potente salvezza e il suo baluardo. Il Signore è semplicemente la sua vita, la protezione, la difesa. È una vera dichiarazione di amore e di verità.
La salvezza di Davide è dal Signore (v. 4). Non è dal suo valore. Il Signore è degno di lode. Dio non si può non lodare. Fa tutto bene. A Davide è sufficiente che invochi il Signore e sarà salvato dai suoi nemici. Sempre il Signore risponde quando Davide lo invoca. La salvezza di Davide è dalla sua preghiera, dalla sua invocazione.
Poi Davide descrive da quali pericoli il Signore lo ha liberato. Lui era circondato da flutti di morte, come un uomo che sta per annegare travolto dalle onde. Era travolto da torrenti impetuosi. Da queste cose nessuno si può liberare da sé. Da queste cose solo il Signore libera e salva.
L’arma vincente di Davide è la fede che si trasforma in preghiera accorata da elevare al Signore, perché solo il Signore poteva aiutarlo ed è a Lui che Davide grida nella sua angustia. Ecco cosa fa Davide: nell’angoscia non si perde, non si abbatte, non smarrisce la sua fede, rimane integro. Trasforma la sua fede in preghiera. Invoca il Signore. Grida a Lui. A Lui chiede aiuto e soccorso. Dio ascolta la voce di Davide, l’ascolta dal suo tempio. Gli giunge il suo grido.
Dio si adira perché vede il suo eletto in pericolo. L’ira del Signore produce uno sconvolgimento di tutta la terra. La terra trema e si scuote. Le fondamenta dei monti si scuotono. È come se un forte terremoto mettesse a soqquadro il globo terrestre. Il fatto spirituale viene tradotto in uno sconvolgimento della natura così profondo che si ha l'impressione che la creazione stessa stia per cessare di esistere. In questa catastrofe che incute terrore, il giusto viene tratto in salvo.
Il Signore libera Davide perché gli vuole bene. Ecco il segreto dell’esaudimento della preghiera: il Signore vuole bene a Davide (v. 20). Il Signore vuole bene a Davide perché Davide ama il Signore. La preghiera è una relazione di amore tra l'uomo e Dio. Davide invoca l'amore di Dio. L'amore di Dio risponde e lo trae in salvo.
«Integro sono stato con lui e mi sono guardato dalla colpa» (v. 24). La coscienza di Davide testimonia per lui. Davide ha pregato con coscienza retta, con cuore puro. Questo non lo dice solo a Dio, ma ad ogni uomo. Tutti devono sapere che il giusto è veramente giusto. Il mondo deve conoscere l'integrità dei figli di Dio. Noi abbiamo il dovere di confessarla. È sull’integrità che si possono costruire rapporti veramente umani. Senza integrità ogni rapporto si stringe sulla falsità e sulla menzogna.
«La via di Dio è diritta, la parola del Signore è provata al fuoco» (v. 31). Qual è il segreto perché Dio è con Davide? È il rimanere di Davide nella Parola di Dio. Davide ha una certezza: la via indicata dalla Parola di Dio è diritta. La si deve solo seguire. Questa certezza oggi manca nel cuore di molti. Molti non credono nella purezza della Parola di Dio. Molti pensano che ormai essa sia superata. La modernità non può stare sotto la Parola di Dio.
«Infatti, chi è Dio, se non il Signore? O chi è rupe, se non il nostro Dio?». Ora Davide professa la sua fede nel Signore per farla sapere a tutti. Vi è forse un altro Dio al di fuori del Signore? Solo Dio è il Signore. Solo Dio è la rupe di salvezza. Cercare un altro Dio è idolatria. Questa professione di fede va sempre fatta a voce alta (ricordiamoci del “Credo”). C'è bisogno di persone convinte. Una fede nascosta nel cuore è morta. Un seme posto nel terreno spunta fuori e rivela la natura dell’albero. La fede che è nel cuore deve spuntare fuori e rivelare la sua natura di verità, di santità, di giustizia, di amore e speranza. Una fede che non rivela la sua natura è morta. È una fede inutile.
«Egli concede al suo re grandi vittorie, si mostra fedele al suo consacrato, a Davide e alla sua discendenza per sempre» (v. 51). In questo Salmo Davide si vede opera delle mani di Dio. Per questo lo benedice, lo loda, lo magnifica. La fedeltà e i grandi favori di Dio per Davide non finiscono con Davide. La fedeltà di Dio è per tutta la sua discendenza. Sappiamo che la discendenza di Davide è Gesù Cristo. Con Gesù Dio è fedelissimo in eterno. Con gli altri discendenti, Dio sarà fedele se essi saranno fedeli a Gesù Cristo.
Ecco dunque che scompare la figura di Davide per lasciare il posto a quella del re perfetto in cui si concentra l'azione salvifica che Dio offre al mondo. Alla luce di questa rilettura l'ode è entrata nella liturgia cristiana come un canto di vittoria di Cristo, il “figlio di Davide”, sulle forze del male e come inno della salvezza da lui offerta.
Argentino Quintavalle, autore dei libri
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1Ts 5,16-24
1Tessalonicesi 5:16 State sempre lieti,
1Tessalonicesi 5:17 pregate incessantemente,
1Tessalonicesi 5:18 in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi.
1Tessalonicesi 5:19 Non spegnete lo Spirito,
«State sempre lieti». Il tema della gioia è il clima spirituale della comunità cristiana. Il cristianesimo è gioia, letizia spirituale, gaudio del cuore, serenità della mente. «Sempre» significa in ogni circostanza. Da un punto di vista esteriore c’era ben poco per cui i credenti a quei tempi potessero rallegrarsi. Ma la gioia è un frutto dello Spirito, non è qualcosa che il cristiano possa procurarsi traendola fuori dalle proprie risorse.
Il cristiano è chiamato ad essere sempre lieto. Questa qualità del suo nuovo essere è possibile ad una sola condizione: che vi sia nel cuore una fede così forte da pensare in ogni momento che tutto ciò che avviene, avviene per un bene più grande per noi. Chi non possiede questa fede, si perde, perché la tribolazione, senza la fede, non genera speranza, ma delusione, tristezza, lacrime e ogni altra sorta di amarezza.
La letizia matura solo sull’albero della fede e chi cade dalla fede cade anche dalla letizia e precipita nella tristezza. Sapendo che il male fisico o morale permesso da Dio deve generare in noi la santificazione, il cristiano lo accoglie nella fede e lo vive nella preghiera.
Infatti l'apostolo aggiunge: «pregate incessantemente». In questa brevissima esortazione è nascosto il segreto della vita del cristiano. La preghiera deve scandire la vita della comunità e dei singoli; un’attitudine continua. Non è la preghierina fatta ogni tanto, ma è una preghiera regolare, fatta secondo un ritmo costante. Se si fa questo possiamo andare anche oltre, e cioè vivere in uno spirito di preghiera, consci della presenza di Dio con noi ovunque siamo.
È perso quel momento che è senza preghiera. È un momento affidato solo alla nostra volontà, razionalità, è un momento perso perché non fatto secondo la volontà di Dio ma secondo la nostra. È perso quell’attimo vissuto, ma non affidato a Dio nella preghiera. È perso quel momento fatto da noi stessi, ma non fatto come un dono di Dio per noi e per gli altri. Questa è la verità della nostra vita.
Poiché oggi non si prega più, o si prega solo per alcuni interessi personali, tanta parte della nostra vita viene sciupata, è persa, non è vissuta né per il nostro bene, né per il bene dei nostri fratelli. Imparare a pregare è la cosa più necessaria per un uomo. Insegnare a farlo è l’opera primaria del sacerdote, o di chi guida la comunità.
«In ogni cosa rendete grazie», è il modo di vivere in un clima gioioso e orante. Abbiamo il verbo eucharistein («rendere grazie»). In ogni situazione rendere grazie, perché anche nelle nostre difficoltà e nelle nostre prove Dio ci insegna lezioni preziose. Non è facile vedere il lato positivo di una prova, ma se Dio è sopra ogni cosa, allora è sovrano anche nella prova.
Perché di tutto si faccia un rendimento di grazie, occorre che il cuore si rivesta di umiltà. È proprio dell’umiltà riconoscere quanto il Signore ha fatto e fa per noi. Ma è proprio della preghiera innalzare al Signore l’inno per il rendimento di grazie, per la benedizione, per la glorificazione del suo nome che è potente sulla terra e nei cieli.
Chi non rende grazie è un idolatra. Pensa che tutto sia da lui, dalle sue capacità, e quindi si attribuisce ciò che è semplicemente e puramente un dono del Signore. Esempio di come si ringrazi il Signore, lo si benedica, lo si esalti e lo si magnifichi è la Vergine Maria. Il suo Magnificat è quotidianamente recitato dalla Chiesa. Bisogna che non solo venga recitato, quanto imitato, pregato, fatto propria vita.
A chiusura di questa triade di imperativi sulla vita spirituale, si dà una motivazione che abbraccia tutte e tre le esortazioni: «questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi». In questo contesto l’espressione «volontà di Dio» implica uno stile di vita corrispondente al progetto di salvezza rivelato in Gesù Cristo. La volontà di Dio viene fatta conoscere in Cristo, e in Cristo ci viene data la motivazione e la forza per cui ci è possibile fare quella volontà.
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Mc 1,1-8
Marco 1:1 Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio.
Marco 1:2 Come è scritto nel profeta Isaia:
Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te,
egli ti preparerà la strada.
Marco 1:3 Voce di uno che grida nel deserto:
preparate la strada del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri,
Il racconto di Marco inizia in un modo insolito e apparentemente banale, dicendo al lettore che quello che sta leggendo è l'inizio del vangelo di Gesù. Un'affermazione questa che lascia perplessi, dato che tutti i libri cominciano dal loro inizio e non è il caso che si sprechi un versetto per dirlo. Ma evidentemente quel “archē” (inizio) assume per l'evangelista un significato del tutto particolare. L'inizio di cui si parla non è soltanto l'inizio di un racconto, ma un "arché", cioè un principio da cui tutto discende. Il termine greco "arché" ci riporta alle origini della creazione: "In principio Dio creò il cielo e la terra" (Gen 1,1) e fu proprio in questo principio, assoluto e unico, che risuonò la parola creatrice. Marco, quindi, vede in Gesù l'inizio di una nuova creazione.
L'inizio di cui si parla è quello di un "vangelo", cioè l'inizio di un lieto annuncio, il cui contenuto è Gesù stesso: «di Gesù Cristo, Figlio di Dio», cioè appartiene a Gesù e si origina da lui. Marco fin da subito mette in chiaro chi è l'eroe del suo racconto e, quindi, come va letta e compresa la sua figura e, di conseguenza, la sua missione. Il suo personaggio è innanzitutto chiamato Gesù, dichiarandone, in tal modo, la dimensione storico-umana: egli è un vero uomo, che si muove ed opera in mezzo agli uomini. Gesù, dunque, non è una realtà metafisica, piovuta dal cielo chissà in quale modo, ma ha profonde radici umane ed è, grazie alla sua umanità, incardinato nella storia, che condivide con il resto degli uomini. In ciò Gesù dimostra tutta la sua solidarietà con il genere umano. In tale nome, poi, è racchiuso il senso più vero e profondo della sua missione. In ebraico, infatti, il nome Gesù (Yeshua) significa "Dio salva"; il lettore, pertanto, è invitato a cogliere in questo uomo l'azione salvifica di Dio stesso.
Ed ecco, quindi, che accanto al nome Gesù compare subito l'attributo "Cristo". Il profeta Natan aveva promesso a Davide una discendenza, che avrebbe reso stabile il suo regno. Da quel momento il popolo ebreo attendeva questa "discendenza", questo "Unto del Signore", a lui consacrato. Nell'immaginario del popolo le attese erano rivolte ad una sorta di super uomo, politico, militare e religioso, che avrebbe dato lustro, splendore e stabilità ad Israele sopra tutti gli altri popoli, e che avrebbe fondato sulla terra il regno di Dio. Marco vede in Gesù il realizzarsi di questa antica profezia, che supera, però, le ristrette visioni storiche e terrene del popolo. Certo, Gesù è il vero Messia atteso, ma la sua messianicità non è così come è sempre stata pensata dagli uomini, ma è posta al servizio di Dio e si rivelerà gradualmente nel doloroso cammino verso la croce, che lascerà sbigottiti, increduli e riluttanti i suoi stessi discepoli. Marco, quindi, vede in Gesù l'Unto di Dio, l'uomo che Dio aveva promesso a Davide e che aveva pensato da sempre per il suo popolo e per l'intera umanità.
Capire, quindi, che Gesù è il Cristo atteso è il primo passo per poter accedere all'altra incredibile realtà, presente in lui: egli è anche Figlio di Dio. L'essere "figlio di Dio" era uno dei titoli attribuiti al Messia; era anche il titolo riconosciuto ai re. Ma Gesù nel corso della sua vita ha dimostrato che il suo essere "Figlio di Dio" aveva radici molto profonde, sconosciute fino ad allora, testimoniando una relazione unica, privilegiata ed esclusiva con Dio, che chiamava "Padre" in senso reale e non metaforico, denunciando, in tal modo la sua vera origine e natura.
Il vangelo di Marco, quindi, diventa un cammino alla scoperta della vera natura e del vero essere di Gesù. Si parte dalla sua umanità, definita e contenuta nel nome Gesù, per accedere alla sua messianicità, condensata nel titolo di «Cristo», per giungere alla scoperta del titolo dei titoli: «Figlio di Dio» e, quindi, Dio lui stesso.
Il racconto di Marco continua poi con un solenne e autorevole “Come è scritto nel profeta Isaia...”. Alla base di tutto, dunque, ecco la Scrittura, la Parola creatrice di Dio, che trova nell'evento Gesù la sua incarnazione e la sua piena manifestazione. Gesù, dunque, è la Parola del Padre che si fa storia e diviene azione redentrice di Dio in mezzo agli uomini.
Il profeta Isaia esortava il popolo d'Israele, prigioniero a Babilonia, ad aprirsi alla speranza e a preparare la via del ritorno in patria come una sorta di secondo esodo, attraverso il deserto, dove il resto d'Israele, quello rimasto fedele a Dio, avrebbe visto la gloria del Signore.
Ed è proprio sulla spinta del profeta Isaia che il “maestro di Giustizia”, l'enigmatica figura della comunità di Qumran, creò la sua comunità in mezzo al deserto, in attesa della venuta del Messia. Una sorta di comunità monacale animata da forti tensioni escatologiche ed apocalittiche.
Il “deserto” è una parola emblematica e molto significativa nella storia di Israele, perché è da lì che è partita la sua storia della salvezza; lì ha ricevuto la sua identità diventando proprietà di Dio; ed è sempre lì, nel deserto, che Israele viene messo alla prova e trova il suo riscatto e la sua rigenerazione spirituale. In tal guisa, è ancora da qui, dal deserto, che parte ora la storia di un nuovo Israele, a cui Marco allude, richiamandosi ai testi profetici. Ecco perché Marco vede la sua opera come un “archē”, come un inizio.
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Praying, celebrating, imitating Jesus: these are the three "doors" - to be opened to find «the way, to go to truth and to life» (Pope Francis)
Pregare, celebrare, imitare Gesù: sono le tre “porte” — da aprire per trovare «la via, per andare alla verità e alla vita» (Papa Francesco)
In recounting the "sign" of bread, the Evangelist emphasizes that Christ, before distributing the food, blessed it with a prayer of thanksgiving (cf. v. 11). The Greek term used is eucharistein and it refers directly to the Last Supper, though, in fact, John refers here not to the institution of the Eucharist but to the washing of the feet. The Eucharist is mentioned here in anticipation of the great symbol of the Bread of Life [Pope Benedict]
Narrando il “segno” dei pani, l’Evangelista sottolinea che Cristo, prima di distribuirli, li benedisse con una preghiera di ringraziamento (cfr v. 11). Il verbo è eucharistein, e rimanda direttamente al racconto dell’Ultima Cena, nel quale, in effetti, Giovanni non riferisce l’istituzione dell’Eucaristia, bensì la lavanda dei piedi. L’Eucaristia è qui come anticipata nel grande segno del pane della vita [Papa Benedetto]
Work is part of God’s loving plan, we are called to cultivate and care for all the goods of creation and in this way share in the work of creation! Work is fundamental to the dignity of a person. Work, to use a metaphor, “anoints” us with dignity, fills us with dignity, makes us similar to God, who has worked and still works, who always acts (cf. Jn 5:17); it gives one the ability to maintain oneself, one’s family, to contribute to the growth of one’s own nation [Pope Francis]
Il lavoro fa parte del piano di amore di Dio; noi siamo chiamati a coltivare e custodire tutti i beni della creazione e in questo modo partecipiamo all’opera della creazione! Il lavoro è un elemento fondamentale per la dignità di una persona. Il lavoro, per usare un’immagine, ci “unge” di dignità, ci riempie di dignità; ci rende simili a Dio, che ha lavorato e lavora, agisce sempre (cfr Gv 5,17); dà la capacità di mantenere se stessi, la propria famiglia, di contribuire alla crescita della propria Nazione [Papa Francesco]
God loves the world and will love it to the end. The Heart of the Son of God pierced on the Cross and opened is a profound and definitive witness to God’s love. Saint Bonaventure writes: “It was a divine decree that permitted one of the soldiers to open his sacred wide with a lance… The blood and water which poured out at that moment was the price of our salvation” (John Paul II)
Il mondo è amato da Dio e sarà amato fino alla fine. Il Cuore del Figlio di Dio trafitto sulla croce e aperto, testimonia in modo profondo e definitivo l’amore di Dio. Scriverà San Bonaventura: “Per divina disposizione è stato permesso che un soldato trafiggesse e aprisse quel sacro costato. Ne uscì sangue ed acqua, prezzo della nostra salvezza” (Giovanni Paolo II))
[Nicodemus] felt the fascination of this Rabbi, so different from the others, but could not manage to rid himself of the conditioning of his environment that was hostile to Jesus, and stood irresolute on the threshold of faith (Pope Benedict)
[Nicodemo] avverte il fascino di questo Rabbì così diverso dagli altri, ma non riesce a sottrarsi ai condizionamenti dell’ambiente contrario a Gesù e resta titubante sulla soglia della fede (Papa Benedetto)
Those wounds that, in the beginning were an obstacle for Thomas’s faith, being a sign of Jesus’ apparent failure, those same wounds have become in his encounter with the Risen One, signs of a victorious love. These wounds that Christ has received for love of us help us to understand who God is and to repeat: “My Lord and my God!” (Pope Benedict)
don Giuseppe Nespeca
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