don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

(Lc 12,49-59)

 

Chiesa funzionale? Il discernimento del Fuoco

 

Fiamma e Pace, Immersione e divisione. Non quietismo tattico

(Lc 12,49-53)

 

«Sono venuto a gettare un fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già divampato!» (Lc 12,49).

 

La differenza tra religiosità e Fede si rende palese nella comparazione tra la mentalità che identifica il Fuoco biblico con il castigo, e quella d’una sacra Fiamma riversata con passione d’amore (v.49) che evoca il Dono a nostro favore.

Francesco proclamava: «Laudato sie, mi Signore, per frate focu,/ per lo quale ennalumini la notte:/ et ello è bello e iocundo/ et robustoso et forte».

Per il Poverello d’Assisi il fuoco era elemento «nobile e utile fra le creature dell’Altissimo» [Legenda antiqua].

Egli aveva con «frate focu» uno sconcertante rapporto di cortesia. Certo esso non scacciava la notte allo stesso modo del Sole, ma vi portava luce.

Invece la vampa dei discepoli non era granché: Giacomo e Giovanni volevano che incenerisse avversari o malcapitati (Lc 9,54).

Prima di Gesù, Giovanni il battezzatore attendeva ancora un Messia che immergesse tutti in un falò divoratore e giustiziere (Lc 3,17).

Nel passo ad es. di Mt 19,13-15 la medesima tematica si confonde con l’ardore purista e fondamentalista degli apostoli che a tutti i costi volevano distaccare Gesù dai suoi diletti, i quali non avevano la minima intenzione di stare sottomessi.

 

L’incendio della Fede annunciata dalla Persona e dall’attività del Figlio non consuma, non corrode; è viceversa come un cibo: pienezza di energia per una vita completa, non elemento distruttivo o separatore.

Tutto ciò fa rinascere persone, rapporti e realtà circostante. Modifica la nostra Relazione con Dio, con noi stessi e il prossimo. Tale la divisione proclamata (v.51): il discrimine della nostra Chiamata.

Nella devozione comune l’errore di valutazione o la condizione di debolezza è considerata un’infermità, da additare, correggere, punire.

Dottrina e disciplina costituiscono l’armatura esteriore delle coscienze, e il culto le celebra e inculca [non di rado, in modo conformista e scadente, sebbene pretenzioso].

Le “impurità” non andrebbero “fuse” nel Fuoco divino e provvidente: solo normalizzate secondo ataviche prescrizioni, o idee sofisticate à la page.

Per la vita nello Spirito, viceversa, l’attenzione è altrove: le oscillazioni personali diventano possibilità; gli abbattimenti una nuova Forza.

Senso d’incapacità, insuccesso e impedimenti suscitano intensità,  scambio, dialogo, nuove elaborazioni, ricerca di altri processi; anche rabbie di sdegno che divampano e stimolano al riscatto.

La Fede si accende onda su onda, nell’accogliere e corrispondere Dio che si rivela, chiama e ancora propone - addirittura mescolanze trasversali, che impigliano i purismi astratti.

 

«Sogniamo come un’unica umanità» - sottolinea l'enciclica Fratelli Tutti (n.8), gioendo «per la diversità» che ci abita (cf. n.10).

Nell’imperfezione di situazioni critiche, il Padre non ci scaglia addosso pietre, ma Pane [non raffermo - come nelle ideologie antiche].

Sono Alimento e Fiamma anche le nostre situazioni insoddisfacenti: i macigni che sembravano schiacciare e ci facevano negativi vengono assunti, diventano benzina che proietta; giubilo, che - invece di “sistemarci” - fa crescere ancora.

Chiamati a collaborare, partecipiamo alla stessa azione creatrice, gratuita e rallegrante del Signore.

Egli orienta alla Pace inedita della completezza in divenire, dell’umanizzazione a tutto tondo ancora da acquisire.

 

Il Disegno d’Amore evolve e irrobustisce attraverso eventi concreti, non escluse le coinvolgenti dinamiche che scaturiscono dalla consapevolezza del proprio confine - di cui non va fatta piazza pulita.

La Fede non crea idoli disgreganti, che parificano eccentricità e peccato, solo vi posa lo sguardo per capire, lasciando che si sciolgano e sboccino da quel magma energetico plasmabile, trasfigurandoci.

Per le credenze vetuste era inimmaginabile che l’Altissimo non provasse ripugnanza della nostra condizione - e proprio sulle pieghe della precarietà carnale volesse edificare una storia di salvezza.

Invece il Figlio ci è complice. Strizza l’occhiolino persino a quegli aspetti che lo sguardo conformista gabella come squilibri, disturbi, malattie.

Vuol fare di ciascuno di noi non un censore o un buonista, bensì un irripetibile capolavoro - non costruito in provetta, ma che non t’aspetti.

Il Signore non standardizza né sterilizza, pretendendo recite o scalate fuori natura. È Lui che si umanizza - persino nelle nostre stranezze.

Si riconosce in ciò ch’è impastato di attese e sudori, sebbene ritenuto sconveniente per l’uomo [anche devoto, o viceversa, sofisticato] che brama innalzarsi.

Ci sentiamo accasati e “arrivati”? Solo qui non c’è ‘fuoco’, passione, scoperta, genesi, né terapia - e non siamo neanche alle soglie della Fede.

 

«Incarnazione» è il recupero dei lati opposti: l’imperfezione diventa una molla, coi suoi Tesori che non vediamo, nascosti dietro lati oscuri.

Sono quei versanti che poi domineranno il nostro Desiderio.

Questa è tutta la partita: si parte da dove siamo, e l'attenzione alle occasioni del presente scorretto - che non bisogna precipitarsi a disinfettare - ci farà trasalire per la vita inattesa che lì ri-sorge.

La Fiamma dello Spirito che sta edificando la Novità di Dio si annida nelle braci e nei lati ritenuti inconcludenti o contrapposti - non colloca se stessa in vetrina per soffocare subito l’istinto.

Così la Chiesa: non “funzionale”, bensì capace di dare vita. Regno e territorio non segnati da pacifismo tattico, che anestetizza.

In tal guisa, il Battesimo non è una rubrica o una mano di grigio e d’opinione comune, né un congegno che marchia, mettendo immediatamente all’angolo personalità e tensioni - bensì una Immersione (v.50 testo greco).

 

«Ora, perché non giudicate anche da voi stessi ciò che è giusto?» (v.57).

In Cristo abbiamo capacità di pensiero e veniamo fatti autonomi, per una fraternità solida con noi stessi, che si è ‘fermata’ - e che si dispiega rivitalizzando l’Unicità.

Accudendo le parti trascurate e fondendo i lati estranei o difformi, dall’esteriorità delle cose siamo riportati all’Origine di quanto accade.

 

 

Segni del tempo e motivo (Persona) presente

 

La stanza della Felicità, nell’orizzonte decisivo

(Lc 12,54-59)

 

«Ora, perché non giudicate anche da voi stessi ciò che è giusto?» (v.57).

Dalla natura e dagli accadimenti bisogna saper trarre lezione - anche per l’orizzonte del Mistero.

In Cristo abbiamo capacità di pensiero e veniamo fatti autonomi: dall’esteriorità delle cose siamo riportati all’Origine di quanto accade.

L’appello di Gesù sui Segni del Tempo fu il testo ispiratore di Papa Giovanni per la convocazione del Concilio Vaticano II, affinché fosse la Chiesa finalmente a interrogarsi, prestando maggiore attenzione alle Chiamate di Dio nella storia e alle speranze dell’umanità.

La sicurezza autocelebrativa e la pompa delle grandi forme avevano attenuato il sentimento ardente e l’entusiasmo liberatorio del Risorto.

La prevedibilità non faceva cambiare passo spirituale; in ciascuno, il suo pronosticare non concedeva all’anima di vedere lontano.

Le certezze dei codici spegnevano la carica e facevano sì che i fedeli si lasciassero travolgere solo dalla routine e dai problemucci.

Anche oggi, le sicurezze di struttura e di circostanza - tutte stabilite - affievoliscono lo sbocciare nel presente; non consentono di percepire e vivere ciò che si fa Evento.

 

I luoghi comuni sono capaci di spostare la Vocazione dal magico territorio dove sorge (e bussa dentro), volgendola a una quotidianità sacramentale tutta pronosticabile - approvata dal contorno sociale o ecclesiale consolidati sul territorio.

Invece, il nostro Eros fondante va speso adesso e in uscita, perché vive di passioni, non di stallo; poggia sul desiderio e sulle complicità con lo Spirito, che col suo Fuoco rinnova la faccia della terra.

Ma esso si spegne se ci lasciamo trascinare da valutazioni ponderate circa le forze in campo: calcoli dare-avere, situazionalismi opportunistici... perfino propositi altrui, o puristi, e di circostanza.

Lo slancio convinto e personale impallidisce nelle forzature, nella programmazione, nelle ossessioni di controllo e nelle verifiche, senza svolte decisive - come se fossimo all’asilo.

L’Amore infatti non è mai secondo aspettative o convinzioni concatenate, normali, senza nuove  soddisfazioni da sbigottimento - né ricalca idee di massa distratta da soliti pensieri conformisti, che inaridiscono lo sguardo.

Le convinzioni mai vagliate né sottoposte a prova collocano gl’impeti caratteriali su binari morti.

 

Le certezze inculcate generano vie che girano attorno, sospendono l’accorgersi, affievoliscono ogni capacità di percepire possibilità del mondo interiore; nonché le occasioni di comunione.

È il cuore che vede le minime possibilità. Le coglie su interrogativi perenni in rapporto di reciprocità col senso della vita presente.

E Gesù vuole che la nostra pianta ributti ancora nuove foglie, tutte verdi (non stagionate). 

Non muffa: ciò che riteniamo ci appartenga, è già perso.

Allora l’invito alla Conversione - invece di arenare l'anima e il pensiero su modelli antichi o utopie astratte, unilaterali - rende attenti al poliedro dell’Amicizia con se stessi, con i fratelli anche lontani, e tutte le cose, ora.

Mondo di relazione che nulla ritiene irrilevante - e può farci arricchire (sbloccati) con difformità avventurose, fresche, vivaci, le quali si affacciano da libere energie che non vogliono la vita standard, né troppo il legame dei ricordi, bensì il mutamento radicale, insieme.

Come sottolinea l’enciclica Fratelli Tutti: «questo implica la capacità abituale di riconoscere all’altro il diritto di essere se stesso e di essere diverso» (n.218).

 

Mutamento radicale è… non pensare solo al consenso veloce, al proprio tornaconto prossimo (addirittura banale) che in fondo non desideriamo davvero - e sappiamo non funziona: non modificherebbe nulla.

Tale Appello intimo e sociale dev’essere colto immediatamente, qui e adesso, sino a che dura il tempo umano di grazia - momento di Dio a nostro favore.

L’Attimo per scoprire i contenuti e non lasciarci frastornati, la chance presente, lo spirito del pellegrino, il riconoscimento delle culture... hanno un carattere decisivo per l'evoluzione della vita nello Spirito.

Essa non poggia sul protagonismo codificato, arruolato, che sa già dove arrivare - e così incaglia, adegua, ci perde di vista, rende interdetti; miete vittime d’illusioni, di attriti esterni; intossicando la strada d’approcci muscolari e pensieri.

Cose caduche, come ad es. l’idolo fisso e poco affascinante che spesso pedina le anime: il “ciò che abbiamo ottenuto” - coi suoi traguardi conformisti, le promozioni strappate, gli altri che ci guardano...

I complimenti fuori non riportano l’io e il tu alle Radici, né esplodono per il vero futuro, quello da vivere intensamente, che farà vibrare.

L’«Attimo presente» è semplicemente la porta da aprire per introdursi nella stanza dell’energia felice, che permane magmatica - dono incessante, “unzione” e Visione che non sappiamo.

Stupore che invita e conduce ben oltre l’aspetto omologante, unilaterale, codino - di frastuono, cliché, tatticismo, o età altrui da riprodurre.

 

«Teatranti! L’aspetto della terra e del cielo sapete discernere, ma questo tempo come non sapete discernere?» (Lc 12,56).

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Come vivi la tensione fra visione del genio del tempo e momento presente?

Quale relazione cogli fra Promessa di Dio e nostre speranze?

 

 

Fede e segno dei tempi

 

La Fede non è una sorta di oggetto né una ideologia (che si può avere o meno), bensì una Relazione.

Essa procede da un Dio che si rivela, c’interpella e chiama per nome.

Il suo Volto variegato e ricco non collima col pensiero comune, ma intercetta il nostro desiderio di pienezza di vita, e in tal modo ci corrisponde e conquista.

Non si tratta di una vicenda puntuale, ma che zampilla e procede di onda in onda nel corso dell’esistenza – con tutto il carico delle sue sorprese nel tempo [esse di quando in quando contestano, sabotandoci, o sbalordiscono].

In detto rapporto, la Fede che appunto nasce dall’ascolto si accende quando l’iniziativa del Padre che si manifesta e svela in una proposta che viene a noi, è accolta e non rifiutata.

Nell’evoluzione, tale dinamica stabilisce una Presenza invisibile nel Sé celato, fuoco inestinguibile del nostro Eros fondante; Eco percepibile – anche nel genio del tempo, nei solchi della storia personale, nelle pieghe delle vicende e relazioni, consigli, valutazioni opposte e persino fratture.

 

La Relazione di Fede ha diversi approcci. Un primo stadio è quello della Fede Assenso: la persona si riconosce in un mondo di saperi che gli corrisponde. È un livello assai dignitoso, ma comune a tutte le religioni e filosofie.

Scrutando la Parola, si comprende che lo specifico della Fede biblica riguarda assai più l’esistere concreto che il pensiero o la disciplina: ha un carattere diverso dai codici, è Sponsale.

La Fede già nel Primo Testamento è tipicamente quell’affidarsi della Sposa [in ebraico Israèl è termine di genere femminile] che ha piena fiducia nello Sposo.

Sa che poggiando sul Dio-Con fiorirà autenticamente e godrà di pienezza di vita, anche passando tra vicende spiacevoli.

La Fede vissuta nello Spirito del Risorto gode di altre sfaccettature, decisive per dare colore al nostro andare nel mondo e alla nostra maturazione piena e gioia di vivere.

[In tutto è fondamentale sia l’ascolto della Sacra Scrittura, che il passare dalla ridda di pensieri che frammentano il nostro occhio interiore alla percezione, ossia a uno sguardo contemplativo, che sappia posarsi su noi stessi e le cose].

 

Il terzo passo della fede cristologica è appunto una sorta di Appropriazione: il soggetto s’identifica e – sicuro della reciprocità amicale sperimentata nei Doni – s’impossessa del cuore mite e forte del Signore con un colpo di mano e senza alcun merito prescritto.

Citando s. Bernardo, Alfonso Maria de’ Liguori afferma: “Quel merito che manca a me per entrare nel Paradiso, io me l’usurpo da’ meriti di Gesù Cristo”. Nessuna trafila o disciplina dell’arcano.

Attenzione: non si tratta di “prove” di sostituzione vicaria, come se Gesù avesse dovuto colmare un debito di peccati, perché il Padre aveva bisogno di sangue e di almeno uno che la pagasse cara.

La persona si rende intima al Cristo non semplicemente con un credere comune, ma con una azione interiore personale.

Dio ci recupera educandoci.

È vero che inviando un agnello in mezzo ai lupi la sua fine è segnata. Ma è anche l’unico modo per insegnare agli uomini – ancora in condizione preumana – che quella della competizione non è vita da persone, ma di bestie feroci.

L’agnello è l’essere mansueto che fa riflettere persino i lupi: solo appropriandosene completamente, le belve si accorgono di essere tali.

Così possiamo cominciare a dire: “Io” da uomini invece che bestie. 

Certo, solo le persone conciliate con la propria vicenda fanno il bene. Ma il meglio autentico e pieno è fuori della nostra portata; non produzione propria. Non siamo onnipotenti.

 

Una ulteriore tappa del percorso della vita in Cristo e nello Spirito è quella della Fede-Calamita.

Anch’essa si configura come un’Azione, perché l’anima-sposa legge il segno dei tempi, interpreta la realtà circostante e le proprie inclinazioni. E cogliendo la portata del Futuro, lo anticipa e attualizza.

Così evitiamo di sprecare la vita a sostegno di rami secchi.

 

Ma lo stadio ultimo e forse ancor più perfetto (direi la vetta) di tale Fede-Innesco, è quello della Fede-Meraviglia.

Essa è il credere specifico dell’Incarnazione, perché riconosce proprio i Tesori che si nascondono dietro i nostri lati oscuri.

Tali Perle scenderanno in campo nel corso dell’esistenza [faranno quel che devono quando sarà necessario] e sarà uno stupore scoprirle.

Il bozzolo bucato genererà la nostra Farfalla, che non è costruzione omologata a dei prototipi, ma Sbalordimento.

C’è un’espressione di Gesù, nel Vangelo di questa domenica, che attira ogni volta la nostra attenzione e richiede di essere ben compresa. Mentre è in cammino verso Gerusalemme, dove lo attende la morte di croce, Cristo confida ai suoi discepoli: "Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione". E aggiunge: "D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera" (Lc 12,51-53). Chiunque conosca minimamente il Vangelo di Cristo, sa che è messaggio di pace per eccellenza; Gesù stesso, come scrive san Paolo, "è la nostra pace" (Ef 2,14), morto e risorto per abbattere il muro dell’inimicizia e inaugurare il Regno di Dio che è amore, gioia e pace. Come si spiegano allora queste sue parole? A che cosa si riferisce il Signore quando dice di essere venuto a portare – secondo la redazione di san Luca – la "divisione", o – secondo quella di san Matteo – la "spada" (Mt 10,34)?

Questa espressione di Cristo significa che la pace che Egli è venuto a portare non è sinonimo di semplice assenza di conflitti. Al contrario, la pace di Gesù è frutto di una costante lotta contro il male. Lo scontro che Gesù è deciso a sostenere non è contro uomini o poteri umani, ma contro il nemico di Dio e dell’uomo, Satana. Chi vuole resistere a questo nemico rimanendo fedele a Dio e al bene deve necessariamente affrontare incomprensioni e qualche volta vere e proprie persecuzioni. Perciò, quanti intendono seguire Gesù e impegnarsi senza compromessi per la verità devono sapere che incontreranno opposizioni e diventeranno, loro malgrado, segno di divisione tra le persone, addirittura all’interno delle loro stesse famiglie. L’amore per i genitori infatti è un comandamento sacro, ma per essere vissuto in modo autentico non può mai essere anteposto all’amore di Dio e di Cristo. In tal modo, sulle orme del Signore Gesù, i cristiani diventano "strumenti della sua pace", secondo la celebre espressione di san Francesco d’Assisi. Non di una pace inconsistente e apparente, ma reale, perseguita con coraggio e tenacia nel quotidiano impegno di vincere il male con il bene (cfr Rm 12,21) e pagando di persona il prezzo che questo comporta.

La Vergine Maria, Regina della Pace, ha condiviso fino al martirio dell’anima la lotta del suo Figlio Gesù contro il Maligno, e continua a condividerla sino alla fine dei tempi. Invochiamo la sua materna intercessione, perché ci aiuti ad essere sempre testimoni della pace di Cristo, mai scendendo a compromessi con il male.

[Papa Benedetto, Angelus 19 agosto 2007]

1. Quest'anno la Giornata Mondiale della Pace viene celebrata sullo sfondo dei drammatici eventi dell'11 settembre scorso. In quel giorno, fu perpetrato un crimine di terribile gravità: nel giro di pochi minuti migliaia di persone innocenti, di varie provenienze etniche, furono orrendamente massacrate. Da allora, la gente in tutto il mondo ha sperimentato con intensità nuova la consapevolezza della vulnerabilità personale ed ha cominciato a guardare al futuro con un senso fino ad allora ignoto di intima paura. Di fronte a questi stati d'animo la Chiesa desidera testimoniare la sua speranza, basata sulla convinzione che il male, il mysterium iniquitatis, non ha l'ultima parola nelle vicende umane. La storia della salvezza, delineata nella Sacra Scrittura, proietta grande luce sull'intera storia del mondo, mostrando come questa sia sempre accompagnata dalla sollecitudine misericordiosa e provvida di Dio, che conosce le vie per toccare gli stessi cuori più induriti e trarre frutti buoni anche da un terreno arido e infecondo.

È questa la speranza che sostiene la Chiesa all'inizio del 2002: con la grazia di Dio il mondo, in cui il potere del male sembra ancora una volta avere la meglio, sarà realmente trasformato in un mondo in cui le aspirazioni più nobili del cuore umano potranno essere soddisfatte, un mondo nel quale prevarrà la vera pace.

La pace: opera di giustizia e di amore

2. Quanto è recentemente avvenuto, con i terribili fatti di sangue appena ricordati, mi ha stimolato a riprendere una riflessione che spesso sgorga dal profondo del mio cuore, al ricordo di eventi storici che hanno segnato la mia vita, specialmente negli anni della mia giovinezza.

Le immani sofferenze dei popoli e dei singoli, tra i quali anche non pochi miei amici e conoscenti, causate dai totalitarismi nazista e comunista, hanno sempre interpellato il mio animo e stimolato la mia preghiera. Molte volte mi sono soffermato a riflettere sulla domanda: qual è la via che porta al pieno ristabilimento dell'ordine morale e sociale così barbaramente violato? La convinzione, a cui sono giunto ragionando e confrontandomi con la Rivelazione biblica, è che non si ristabilisce appieno l'ordine infranto, se non coniugando fra loro giustizia e perdono. I pilastri della vera pace sono la giustizia e quella particolare forma dell'amore che è il perdono.

[Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la xxxv Giornata Mondiale della Pace]

Ago 9, 2025

Verso Gerusalemme

Pubblicato in Angolo dell'apripista

il Vangelo di questa domenica (Lc 12,49-53) fa parte degli insegnamenti di Gesù rivolti ai discepoli lungo la sua salita verso Gerusalemme, dove l’attende la morte in croce. Per indicare lo scopo della sua missione, Egli si serve di tre immagini: il fuoco, il battesimo e la divisione. Oggi desidero parlare della prima immagine: il fuoco.

Gesù la esprime con queste parole: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!» (v.49). Il fuoco di cui Gesù parla è il fuoco dello Spirito Santo, presenza viva e operante in noi dal giorno del nostro Battesimo. Esso – il fuoco - è una forza creatrice che purifica e rinnova, brucia ogni umana miseria, ogni egoismo, ogni peccato, ci trasforma dal di dentro, ci rigenera e ci rende capaci di amare. Gesù desidera che lo Spirito Santo divampi come fuoco nel nostro cuore, perché è solo partendo dal cuore che l’incendio dell’amore divino potrà svilupparsi e far progredire il Regno di Dio. Non parte dalla testa, parte dal cuore. E per questo Gesù vuole che il fuoco entri nel nostro cuore. Se ci apriamo completamente all’azione di questo fuoco che è lo Spirito Santo, Egli ci donerà l’audacia e il fervore per annunciare a tutti Gesù e il suo consolante messaggio di misericordia e di salvezza, navigando in mare aperto, senza paure.

Nell’adempimento della sua missione nel mondo, la Chiesa - cioè tutti noi che siamo la Chiesa - ha bisogno dell’aiuto dello Spirito Santo per non lasciarsi frenare dalla paura e dal calcolo, per non abituarsi a camminare entro i confini sicuri. Questi due atteggiamenti portano la Chiesa ad essere una Chiesa funzionale, che non rischia mai. Invece, il coraggio apostolico che lo Spirito Santo accende in noi come un fuoco ci aiuta a superare i muri e le barriere, ci rende creativi e ci sprona a metterci in movimento per camminare anche su strade inesplorate o scomode, offrendo speranza a quanti incontriamo. Con questo fuoco dello Spirito Santo siamo chiamati a diventare sempre più comunità di persone guidate e trasformate, piene di comprensione, persone dal cuore dilatato e dal volto gioioso. Più che mai oggi c’è bisogno di sacerdoti, di consacrati e di fedeli laici, con lo sguardo attento dell’apostolo, per commuoversi e sostare dinanzi ai disagi e alle povertà materiali e spirituali, caratterizzando così il cammino dell’evangelizzazione e della missione con il ritmo sanante della prossimità. È proprio il fuoco dello Spirito Santo che ci porta a farci prossimi degli altri, dei bisognosi, di tante miserie umane, di tanti problemi, dei rifugiati, dei profughi, di quelli che soffrono.

In questo momento, penso anche con ammirazione soprattutto ai numerosi sacerdoti, religiosi e fedeli laici che, in tutto il mondo, si dedicano all’annuncio del Vangelo con grande amore e fedeltà, non di rado anche a costo della vita. La loro esemplare testimonianza ci ricorda che la Chiesa non ha bisogno di burocrati e di diligenti funzionari, ma di missionari appassionati, divorati dall’ardore di portare a tutti la consolante parola di Gesù e la sua grazia. Questo è il fuoco dello Spirito Santo. Se la Chiesa non riceve questo fuoco o non lo lascia entrare in sé, diviene una Chiesa fredda o soltanto tiepida, incapace di dare vita, perché è fatta da cristiani freddi e tiepidi. Ci farà bene, oggi, prendere cinque minuti e domandarci: “Ma come va il mio cuore? È freddo? È tiepido? È capace di ricevere questo fuoco?” Prendiamoci cinque minuti per questo. Ci farà bene a tutti.

E chiediamo alla Vergine Maria di pregare con noi e per noi il Padre celeste, affinché effonda su tutti i credenti lo Spirito Santo, fuoco divino che riscalda i cuori e ci aiuta ad essere solidali con le gioie e le sofferenze dei nostri fratelli. Ci sostenga nel nostro cammino l’esempio di San Massimiliano Kolbe, martire della carità, di cui oggi ricorre la festa: egli ci insegni a vivere il fuoco dell’amore per Dio e per il prossimo.

[Papa Francesco, Angelus 14 agosto 2016]

Avvicinarsi senza stare sottomessi

(Mt 19,13-15)

 

«Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze» [Evangelii Gaudium n.49].

Non bisogna lasciarsi trascinare dalle ovvie sentenze sprezzanti sull’impurità legale. Secondo Gesù, un peso inutile, artificioso; che tarpa le ali e rende infelici.

Al contrario, è sempre opportuno acquisire una differente percezione delle cose di Dio nell’uomo. E non occorre essere ben formati nelle pratiche consuetudinarie: i giovinetti non lo sono.

Cosa succedeva nelle piccole chiese di Galilea e Siria all’inizio degli anni 80? Molti pagani iniziavano a presentarsi alle soglie delle comunità  (giudaizzanti) e stavano diventando maggioranza.

I membri della catena di comando valutavano gli incipienti poco qualificati dal punto di vista dell’osservanza delle disposizioni dei ‘padri’.

Alcuni reduci altezzosi consideravano i nuovi che chiedevano di essere accolti, alla stregua di servetti ancora torbidi [«paidìa»: età 9-11 anni], contaminati e frammisti.

A quel tempo, nelle condizioni in cui vivevano, certo i ragazzetti non adempivano le leggi di purità religiosa; però servivano gli altri, sia in casa che al lavoro.

Insomma, Gesù propone agli Apostoli un cambiamento di paradigma.

Fare pace col mondo dei giudizi.

La proposta sembrava un’assurdità per le religioni (tutte piramidali), non per la persona di Fede che procede sulla Via, nello Spirito.

Dio non ritiene affatto che la sua santità sia messa in pericolo dal contatto con le realtà normali di questo mondo.

Anzi, il Signore e Maestro s’identifica proprio con i garzoncini di bottega e di casa, con gli esseri “inquinati”, socialmente nulli e valutati male.

Ciò a dire: il discepolo del Regno non può permettersi di disconoscere le esigenze altrui.

Bando a luoghi comuni, nomenclature, doppiezze e procedure riconosciute.

Ciò che conta è il bene concreto della persona reale, così com’è.

L’accoglimento di fanciulli - ossia di coloro che sono al principio - nella loro condizione d’integrità creativa e affettiva, ancora ritenuta ambigua e trasgressiva, è icona d’una logica sociale, religiosa e di ceto capovolta; radicalmente impari.

Quindi guai a chi impedisce agli insignificanti di andare al Signore!

L’imposizione delle mani su di essi (vv.13.15) è un segno di redenzione, valorizzazione, emancipazione e promozione della condizione di ultimi, esclusi, irrisi, nullatenenti e ‘meticci’ [non di quadretti tutti limpidezza e candore].

Chi accoglie un privilegiato, un legalista, uno che si è fatto strada ma non accetta i cambiamenti, difficilmente accoglie Gesù.

«Nel cammino sinodale, l’ascolto […] non deve trascurare tutti quei “presentimenti” incarnati dove non ce l’aspetteremmo: ci può essere un “fiuto senza cittadinanza”, ma non meno efficace».

Solo i misconosciuti e incerti vanno posti al centro della nuova Chiesa che dovremo costruire.

 

 

[Sabato 19.a sett. T.O.  16 agosto 2025]

Avvicinarsi senza stare sottomessi

(Mt 19,13-15)

 

Papa Francesco ha spesso ribadito: «Preferisco mille volte una Chiesa incorsa in un incidente, che una Chiesa malata per chiusura». Non una «zona di comfort», ma un «ospedale da campo» coinvolto nelle nostre speranze, addirittura piagato - non assente, né distaccato.

Nella esortazione apostolica Evangelii Gaudium (49): «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze».

Insomma, per dirla con il Vangelo di Mt, non bisogna lasciarsi trascinare dalle ovvie sentenze sprezzanti sull’impurità legale. Secondo Gesù, un peso inutile, artificioso; che tarpa le ali e rende infelici.

Al contrario, è sempre opportuno acquisire una differente percezione delle cose di Dio nell’uomo. E non occorre essere ben formati nelle pratiche consuetudinarie: i giovinetti non lo sono.

Cosa succedeva nelle piccole chiese di Galilea e Siria all’inizio degli anni 80? Molti pagani iniziavano a presentarsi alle soglie delle comunità  (giudaizzanti) e stavano diventando maggioranza.

I membri della catena di comando impedivano ai lontani e incipienti l’immediatezza del rapporto faccia a faccia col Signore - valutandoli poco qualificati dal punto di vista dell’osservanza delle disposizioni dei “padri”.

Alcuni reduci altezzosi consideravano i nuovi che chiedevano di essere accolti, alla stregua di servetti ancora torbidi [«paidìa»: età 9-11 anni], contaminati e frammisti.

A quel tempo, nelle condizioni in cui vivevano, certo i ragazzetti non adempivano le leggi di purità religiosa; però servivano gli altri, sia in casa che al lavoro.

Insomma, Gesù propone agli Apostoli un cambiamento di paradigma.

Chinarsi? Un modello di vita insopportabile per gli ambiziosi reduci che di frequente attorniavano il Maestro - ma stentavano a seguire il suo insegnamento vitale.

La libertà di scendere dal tabellone - viceversa - era cifra umana da cesellare quale “modello” del discepolo autentico, che riflette Cristo e “conquista” il Regno.

 

Fare pace col mondo dei giudizi.

La proposta sembrava un’assurdità per le religioni (tutte piramidali), non per la persona di Fede che procede sulla Via, nello Spirito.

Dio non ritiene affatto che la sua santità sia messa in pericolo dal contatto con le realtà normali di questo mondo.

Anzi, il Signore e Maestro s’identifica proprio con i garzoncini di bottega e di casa, con gli esseri “inquinati”, socialmente nulli e valutati male [da qualsiasi cricca legalista, pur devota].

Ciò a dire: il discepolo del Regno non può permettersi di disconoscere le esigenze di vita altrui.

Bando a luoghi comuni, nomenclature, doppiezze e procedure riconosciute.

Ciò che conta è il bene concreto della persona reale, così com’è.

L’accoglimento di fanciulli - ossia di coloro che sono al principio - nella loro condizione d’integrità creativa e affettiva, ancora ritenuta ambigua e trasgressiva, è icona d’una logica sociale, religiosa e di ceto capovolta; radicalmente impari.

Quindi guai a chi impedisce agli insignificanti di andare al Signore!

L’imposizione delle mani su di essi (vv.13.15) è un segno di redenzione, valorizzazione, emancipazione e promozione della condizione di ultimi, esclusi, irrisi, nullatenenti e “meticci” [non di quadretti tutti limpidezza e candore].

Chi accoglie un privilegiato, un purista osservante, uno che si è fatto strada ma non accetta i cambiamenti (manichino spesso di buone maniere e pessime abitudini) difficilmente accoglie Gesù.

Infatti, e la stessa cronaca di oggi è zeppa di sorprese amare, i direttori - così mediocri - che selezionano (v.13) e fanno gli adultoidi sono bambinoni egoisti e pericolosissimi, non «bambini».

 

Solo i misconosciuti e incerti vanno posti al centro della nuova Chiesa che dovremo costruire.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Ci sono tuoi aspetti vitali che hai dovuto tarpare per essere accolto nella comunità?

 

 

Il Fiuto senza cittadinanza

 

Nel cammino sinodale, l’ascolto deve tener conto del sensus fidei, ma non deve trascurare tutti quei “presentimenti” incarnati dove non ce l’aspetteremmo: ci può essere un “fiuto senza cittadinanza”, ma non meno efficace. Lo Spirito Santo nella sua libertà non conosce confini, e non si lascia nemmeno limitare dalle appartenenze. Se la parrocchia è la casa di tutti nel quartiere, non un club esclusivo, mi raccomando: lasciate aperte porte e finestre, non vi limitate a prendere in considerazione solo chi frequenta o la pensa come voi – che saranno il 3, 4 o 5%, non di più. Permettete a tutti di entrare… Permettete a voi stessi di andare incontro e lasciarsi interrogare, che le loro domande siano le vostre domande, permettete di camminare insieme: lo Spirito vi condurrà, abbiate fiducia nello Spirito. Non abbiate paura di entrare in dialogo e lasciatevi sconvolgere dal dialogo: è il dialogo della salvezza.

Non siate disincantati, preparatevi alle sorprese. C’è un episodio nel libro dei Numeri (cap. 22) che racconta di un’asina che diventerà profetessa di Dio. Gli ebrei stanno concludendo il lungo viaggio che li condurrà alla terra promessa. Il loro passaggio spaventa il re Balak di Moab, che si affida ai poteri del mago Balaam per bloccare quella gente, sperando di evitare una guerra. Il mago, a suo modo credente, domanda a Dio che fare. Dio gli dice di non assecondare il re, che però insiste, e allora lui cede e sale su un’asina per adempiere il comando ricevuto. Ma l’asina cambia strada perché vede un angelo con la spada sguainata che sta lì a rappresentare la contrarietà di Dio. Balaam la tira, la percuote, senza riuscire a farla tornare sulla via. Finché l’asina si mette a parlare avviando un dialogo che aprirà gli occhi al mago, trasformando la sua missione di maledizione e morte in missione di benedizione e vita.

Questa storia ci insegna ad avere fiducia che lo Spirito farà sentire sempre la sua voce. Anche un’asina può diventare la voce di Dio, aprirci gli occhi e convertire le nostre direzioni sbagliate. Se lo può fare un’asina, quanto più un battezzato, una battezzata, un prete, un Vescovo, un Papa. Basta affidarsi allo Spirito Santo che usa tutte le creature per parlarci: soltanto ci chiede di pulire le orecchie per sentire bene.

(Papa Francesco, Discorso 18 settembre 2021)

68. Cristo Gesù ha sempre manifestato la sua preferenza nei confronti dei più piccoli (cfr Mc 10,13-16). Lo stesso Vangelo è permeato in profondità dalla verità sul bambino. Che cosa significa infatti: « Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli » (Mt 18,3)? Gesù non fa forse del bambino un modello, anche per gli adulti? Nel bambino vi è qualche cosa che non dovrebbe mancare mai a chi vuole entrare nel Regno dei cieli. Il cielo è promesso a tutti coloro che sono semplici come i fanciulli, a quanti, come essi, sono pieni di uno spirito di abbandono nella fiducia, puri e ricchi di bontà. Essi soltanto possono trovare in Dio un Padre e diventare, grazie a Gesù, figli di Dio. Figli e figlie dei nostri genitori, Dio vuole che siamo tutti suoi figli adottivi per grazia!

[Papa Benedetto, Africae munus]

Cari bambini!

Gesù dona la Verità

Il Bambino, che a Natale contempliamo deposto nella mangiatoia, col passar degli anni crebbe. A dodici anni, come sapete, si recò per la prima volta, insieme a Maria e Giuseppe, da Nazaret a Gerusalemme in occasione della Festa di Pasqua. Lì, confuso tra la folla dei pellegrini, si staccò dai genitori e, insieme con altri suoi coetanei, si pose in ascolto dei dottori del Tempio, quasi per una « lezione di catechismo ». Le feste in effetti erano occasioni adatte per trasmettere la fede ai ragazzi dell'età, più o meno, di Gesù. Avvenne però che, durante tale incontro, l'Adolescente straordinario, giunto da Nazaret, non solo pose delle domande assai intelligenti, ma egli stesso cominciò a dare delle risposte profonde a coloro che lo stavano ammaestrando. Le domande e più ancora le risposte sbalordirono i dottori del Tempio. Era lo stesso stupore che, in seguito, avrebbe accompagnato la predicazione pubblica di Gesù: l'episodio del Tempio di Gerusalemme non era che l'inizio e quasi il preannuncio di ciò che sarebbe avvenuto alcuni anni più tardi.

Cari ragazzi e ragazze, coetanei di Gesù dodicenne, non vi tornano alla mente, a questo punto, le lezioni di religione che si svolgono in parrocchia ed a scuola, lezioni alle quali siete invitati a prender parte? Vorrei allora porvi alcune domande: qual è il vostro atteggiamento di fronte alle lezioni di religione? Vi fate coinvolgere come Gesù dodicenne al Tempio? Siete diligenti nel frequentarle a scuola e in parrocchia? Vi aiutano in questo i vostri genitori?

Gesù dodicenne fu così preso da quella catechesi nel Tempio di Gerusalemme che, in un certo senso, dimenticò persino i propri genitori. Maria e Giuseppe, incamminati insieme ad altri pellegrini sulla strada del ritorno verso Nazaret, si resero conto ben presto della sua assenza. Lunghe furono le ricerche. Ritornarono sui loro passi e soltanto il terzo giorno riuscirono a trovarlo a Gerusalemme nel Tempio. « Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo » (Lc 2, 48). Com'è strana la risposta di Gesù e come fa riflettere! « Perché mi cercavate? - egli disse - Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio? » (Lc 2, 49). Era una risposta difficile da accettare. L'evangelista Luca aggiunge semplicemente che Maria « serbava tutte queste cose nel suo cuore » (2, 51). In effetti, era una risposta che si sarebbe resa comprensibile solo più tardi, quando Gesù, ormai adulto, avrebbe iniziato a predicare, dichiarando che per il suo Padre celeste era disposto ad affrontare ogni sofferenza e persino la morte sulla croce.

Da Gerusalemme Gesù tornò con Maria e Giuseppe a Nazaret, ove visse loro sottomesso (cf. Lc 2, 51). Circa questo periodo, prima dell'inizio della predicazione pubblica, il Vangelo nota soltanto che Gesù « cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini » (Lc 2, 52).

Cari ragazzi, nel Bambino che ammirate nel presepe sappiate vedere già il ragazzo dodicenne che nel Tempio di Gerusalemme dialoga con i dottori. Egli è lo stesso uomo adulto che più tardi, a trent'anni, comincerà ad annunciare la parola di Dio, si sceglierà i dodici Apostoli, sarà seguito da moltitudini assetate di verità. Egli confermerà ad ogni passo il suo straordinario insegnamento con i segni della potenza divina: restituirà la vista ai ciechi, guarirà i malati, risusciterà persino i morti. E tra i morti richiamati alla vita ci sarà la dodicenne figlia di Giairo, ci sarà il figlio della vedova di Nain, restituito vivo alla madre in pianto.

È proprio così: questo Bambino, ora appena nato, una volta diventato grande, come Maestro della Verità divina, mostrerà uno straordinario affetto per i bambini. Dirà agli Apostoli: « Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite », e aggiungerà: « Perché a chi è come loro appartiene il Regno di Dio » (Mc 10, 14). Un'altra volta, agli Apostoli che discutevano su chi fosse il più grande metterà davanti un bambino e dirà: « Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel Regno dei cieli » (Mt 18, 3). In quella occasione pronuncerà anche parole severissime di ammonimento: « Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare » (Mt 18, 6).

Quanto importante è il bambino agli occhi di Gesù! Si potrebbe addirittura osservare che il Vangelo è profondamente permeato dalla verità sul bambino. Lo si potrebbe persino leggere nel suo insieme come il « Vangelo del bambino ».

Che vuol dire infatti: « Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel Regno dei cieli »? Non pone forse Gesù il bambino come modello anche per gli adulti? Nel bambino c'è qualcosa che mai può mancare in chi vuol entrare nel Regno dei cieli. Al cielo sono destinati quanti sono semplici come i bambini, quanti come loro sono pieni di fiducioso abbandono, ricchi di bontà e puri. Questi solamente possono ritrovare in Dio un Padre, e diventare a loro volta, grazie a Gesù, altrettanti figli di Dio.

Dal Vaticano, 13 dicembre 1994.

[Papa Giovanni Paolo II, Lettera ai Bambini nell’Anno della Famiglia] Dal Vaticano, 13 dicembre 1994.

Come sapete – non è una novità! –, sta per iniziare un processo sinodale, un cammino in cui tutta la Chiesa si trova impegnata intorno al tema: «Per un Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione»: tre pilastri. Sono previste tre fasi, che si svolgeranno tra ottobre 2021 e ottobre 2023. Questo itinerario è stato pensato come dinamismo di ascolto reciproco, voglio sottolineare questo: un dinamismo di ascolto reciproco, condotto a tutti i livelli di Chiesa, coinvolgendo tutto il popolo di Dio. Il Cardinale vicario e i Vescovi ausiliari devono ascoltarsi, i preti devono ascoltarsi, i religiosi devono ascoltarsi, i laici devono ascoltarsi. E poi, inter-ascoltarsi tutti. Ascoltarsi; parlarsi e ascoltarsi. Non si tratta di raccogliere opinioni, no. Non è un’inchiesta, questa; ma si tratta di ascoltare lo Spirito Santo, come troviamo nel libro dell’Apocalisse: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (2,7). Avere orecchi, ascoltare, è il primo impegno. Si tratta di sentire la voce di Dio, cogliere la sua presenza, intercettare il suo passaggio e soffio di vita. Capitò al profeta Elia di scoprire che Dio è sempre un Dio delle sorprese, anche nel modo in cui passa e si fa sentire:

«Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce […], ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello» (1Re 19, 11-13).

Ecco come ci parla Dio. Ed è per questa “brezza leggera” – che gli esegeti traducono anche “voce sottile di silenzio” e qualcun altro “un filo di silenzio sonoro” – che dobbiamo rendere pronte le nostre orecchie, per sentire questa brezza di Dio.

La prima tappa del processo (ottobre 2021 - aprile 2022) è quella che riguarda le singole Chiese diocesane. Ed è per questo che sono qui, come vostro Vescovo, a condividere, perché è molto importante che la Diocesi di Roma si impegni con convinzione in questo cammino. Sarebbe una figuraccia che la Diocesi del Papa non si impegnasse in questo, no? Una figuraccia per il Papa e anche per voi.

Il tema della sinodalità non è il capitolo di un trattato di ecclesiologia, e tanto meno una moda, uno slogan o il nuovo termine da usare o strumentalizzare nei nostri incontri. No! La sinodalità esprime la natura della Chiesa, la sua forma, il suo stile, la sua missione. E quindi parliamo di Chiesa sinodale, evitando, però, di considerare che sia un titolo tra altri, un modo di pensarla che preveda alternative. Non lo dico sulla base di un’opinione teologica, neanche come un pensiero personale, ma seguendo quello che possiamo considerare il primo e il più importante “manuale” di ecclesiologia, che è il libro degli Atti degli Apostoli.

La parola “sinodo” contiene tutto quello che ci serve per capire: “camminare insieme”. Il libro degli Atti è la storia di un cammino che parte da Gerusalemme e, attraversando la Samaria e la Giudea, proseguendo nelle regioni della Siria e dell’Asia Minore e quindi nella Grecia, si conclude a Roma. Questa strada racconta la storia in cui camminano insieme la Parola di Dio e le persone che a quella Parola rivolgono l’attenzione e fede. La Parola di Dio cammina con noi. Tutti sono protagonisti, nessuno può essere considerato semplice comparsa. Questo bisogna capirlo bene: tutti sono protagonisti. Non è più protagonista il Papa, il Cardinale vicario, i Vescovi ausiliari; no: tutti siamo protagonisti, e nessuno può essere considerato una semplice comparsa. I ministeri, allora, erano ancora considerati autentici servizi. E l’autorità nasceva dall’ascolto della voce di Dio e della gente – mai separarli – che tratteneva “in basso” coloro che la ricevevano. Il “basso” della vita, a cui bisognava rendere il servizio della carità e della fede. Ma quella storia non è in movimento soltanto per i luoghi geografici che attraversa. Esprime una continua inquietudine interiore: questa è una parola chiave, la inquietudine interiore. Se un cristiano non sente questa inquietudine interiore, se non la vive, qualcosa gli manca; e questa inquietudine interiore nasce dalla propria fede e ci invita a valutare cosa sia meglio fare, cosa si deve mantenere o cambiare. Quella storia ci insegna che stare fermi non può essere una buona condizione per la Chiesa (cfr Evangelii gaudium, 23). E il movimento è conseguenza della docilità allo Spirito Santo, che è il regista di questa storia in cui tutti sono protagonisti inquieti, mai fermi.

Pietro e Paolo, non sono solo due persone con i loro caratteri, sono visioni inserite in orizzonti più grandi di loro, capaci di ripensarsi in relazione a quanto accade, testimoni di un impulso che li mette in crisi – un’altra espressione da ricordare sempre: mettere in crisi –, che li spinge a osare, domandare, ricredersi, sbagliare e imparare dagli errori, soprattutto di sperare nonostante le difficoltà. Sono discepoli dello Spirito Santo, che fa scoprire loro la geografia della salvezza divina, aprendo porte e finestre, abbattendo muri, spezzando catene, liberando confini. Allora può essere necessario partire, cambiare strada, superare convinzioni che trattengono e ci impediscono di muoverci e camminare insieme.

Possiamo vederelo Spirito che spinge Pietro ad andare nella casa di Cornelio, il centurione pagano, nonostante le sue esitazioni. Ricordate: Pietro aveva avuto una visione che l’aveva turbato, nella quale gli veniva chiesto di mangiare cose considerate impure, e, nonostante la rassicurazione che quanto Dio purifica non va più ritenuto immondo, restava perplesso. Stava cercando di capire, ed ecco arrivare gli uomini mandati da Cornelio. Anche lui aveva ricevuto una visione e un messaggio. Era un ufficiale romano, pio, simpatizzante per il giudaismo, ma non era ancora abbastanza per essere pienamente giudeo o cristiano: nessuna “dogana” religiosa lo avrebbe fatto passare. Era un pagano, eppure, gli viene rivelato che le sue preghiere sono giunte a Dio, e che deve mandare qualcuno a dire a Pietro di recarsi a casa sua. In questa sospensione, da una parte Pietro con i suoi dubbi, e dall’altra Cornelio che aspetta in quella zona d’ombra, è lo Spirito a sciogliere le resistenze di Pietro e aprire una nuova pagina della missione. Così si muove lo Spirito: così. L’incontro tra i due sigilla una delle frasi più belle del cristianesimo. Cornelio gli era andato incontro, si era gettato ai suoi piedi, ma Pietro rialzandolo gli dice: «Alzati: anch’io sono un uomo!» (At 10,26), e questo lo diciamo tutti: “Io sono un uomo, io sono una donna, siamo umani”, e dovremmo dirlo tutti, anche i Vescovi, tutti noi: “alzati: anche io sono un uomo”. E il testo sottolinea che conversò con lui in maniera familiare (cfr v. 27). Il cristianesimo dev’essere sempre umano, umanizzante, riconciliare differenze e distanze trasformandole in familiarità, in prossimità. Uno dei mali della Chiesa, anzi una perversione, è questo clericalismo che stacca il prete, il Vescovo dalla gente. Il Vescovo e il prete staccato dalla gente è un funzionario, non è un pastore. San Paolo VI amava citare la massima di Terenzio: «Sono uomo, niente di ciò ch’è umano lo stimo a me estraneo». L’incontro tra Pietro e Cornelio risolse un problema, favorì la decisione di sentirsi liberi di predicare direttamente ai pagani, nella convinzione – sono le parole di Pietro – «che Dio non fa preferenza di persone» (At 10,34). In nome di Dio non si può discriminare. E la discriminazione è un peccato anche fra noi: “noi siamo i puri, noi siamo gli eletti, noi siamo di questo movimento che sa tutto, noi siamo…”. No. Noi siamo Chiesa, tutti insieme.

E vedete, non possiamo capire la “cattolicità” senza riferirci a questo campo largo, ospitale, che non segna mai i confini. Essere Chiesa è un cammino per entrare in questa ampiezza di Dio. Poi, tornando agli Atti degli Apostoli, ci sono i problemi che nascono riguardo all’organizzazione del crescente numero dei cristiani, e soprattutto per provvedere ai bisogni dei poveri. Alcuni segnalano il fatto che le vedove vengono trascurate. Il modo con cui si troverà la soluzione sarà radunare l’assemblea dei discepoli, prendendo insieme la decisione di designare quei sette uomini che si sarebbero impegnati a tempo pieno nella diakonia, nel servizio alle mense (At 6,1-7). E così, con il discernimento, con le necessità, con la realtà della vita e la forza dello Spirito, la Chiesa va avanti, cammina insieme, è sinodale. Ma sempre c’è lo Spirito come grande protagonista della Chiesa.

Inoltre, c’è anche il confronto tra visioni e attese differenti. Non dobbiamo temere che questo accada ancora oggi. Magari si potesse discutere così! Sono segni della docilità e apertura allo Spirito. Possono anche determinarsi scontri che raggiungono punte drammatiche, come capitò di fronte al problema della circoncisione dei pagani, fino alla deliberazione di quello che chiamiamo il Concilio di Gerusalemme, il primo Concilio. Come accade anche oggi, c’è un modo rigido di considerare le circostanze, che mortifica la makrothymía di Dio, cioè quella pazienza dello sguardo che si nutre di visioni profonde, visioni larghe, visioni lunghe: Dio vede lontano, Dio non ha fretta. La rigidità è un’altra perversione che è un peccato contro la pazienza di Dio, è un peccato contro questa sovranità di Dio. Anche oggi succede questo.

Era capitato allora: alcuni, convertiti dal giudaismo, ritenevano nella loro autoreferenzialità che non ci potesse essere salvezza senza sottomettersi alla Legge di Mosè. In questo modo si contestava Paolo, il quale proclamava la salvezza direttamente nel nome di Gesù. Contrastare la sua azione avrebbe compromesso l’accoglienza dei pagani, che nel frattempo si stavano convertendo. Paolo e Barnaba furono mandati a Gerusalemme dagli Apostoli e dagli anziani. Non fu facile: davanti a questo problema le posizioni sembravano inconciliabili, si discusse a lungo. Si trattava di riconoscere la libertà dell’azione di Dio, e che non c’erano ostacoli che potessero impedirgli di raggiungere il cuore delle persone, qualsiasi fosse la condizione di provenienza, morale o religiosa. A sbloccare la situazione fu l’adesione all’evidenza che «Dio, che conosce i cuori», il cardiognosta, conosce i cuori, Lui stesso sosteneva la causa in favore della possibilità che i pagani potessero essere ammessi alla salvezza, «concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi» (At 15,8), concedendo così anche ai pagani lo Spirito Santo, come a noi. In tal modo prevalse il rispetto di tutte le sensibilità, temperando gli eccessi; si fece tesoro dell’esperienza avuta da Pietro con Cornelio: così, nel documento finale, troviamo la testimonianza del protagonismo dello Spirito in questo cammino di decisioni, e della sapienza che è sempre capace di ispirare: «È parso bene, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo» eccetto quello necessario (At 15,28). “Noi”: In questo Sinodo andiamo sulla strada di poter dire “è parso allo Spirito Santo e a noi”, perché sarete in dialogo continuo tra voi sotto l’azione dello Spirito Santo, anche in dialogo con lo Spirito Santo. Non dimenticatevi di questa formula: “È parso bene allo Spirito Santo e a noi di non imporvi altro obbligo”: è parso bene allo Spirito Santo e a noi. Così dovrete cercare di esprimervi, in questa strada sinodale, in questo cammino sinodale. Se non ci sarà lo Spirito, sarà un parlamento diocesano, ma non un Sinodo. Noi non stiamo facendo un parlamento diocesano, non stiamo facendo uno studio su questo o l’altro, no: stiamo facendo un cammino di ascoltarsi e ascoltare lo Spirito Santo, di discutere e anche discutere con lo Spirito Santo, che è un modo di pregare.

“Lo Spirito santo e noi”. C’è sempre, invece, la tentazione di fare da soli, esprimendo una ecclesiologia sostitutiva – ce ne sono tante, di ecclesiologie sostitutive – come se, asceso al Cielo, il Signore avesse lasciato un vuoto da riempire, e lo riempiamo noi. No, il Signore ci ha lasciato lo Spirito! Ma le parole di Gesù sono chiare: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. […] Non vi lascerò orfani» (Gv 14,16.18). Per l’attuazione di questa promessa la Chiesa è sacramento, come affermato in Lumen gentium 1: «La Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano». In questa frase, che raccoglie la testimonianza del Concilio di Gerusalemme, c’è la smentita di chi si ostina a prendere il posto di Dio, pretendendo di modellare la Chiesa sulle proprie convinzioni culturali, storiche, costringendola a frontiere armate, a dogane colpevolizzanti, a spiritualità che bestemmiano la gratuità dell’azione coinvolgente di Dio. Quando la Chiesa è testimone, in parole e fatti, dell’amore incondizionato di Dio, della sua larghezza ospitale, esprime veramente la propria cattolicità. Ed è spinta, interiormente ed esteriormente, ad attraversare gli spazi e i tempi. L’impulso e la capacità vengono dallo Spirito:«Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8). Ricevere la forza dello Spirito Santo per essere testimoni: questa è la strada di noi Chiesa, e noi saremo Chiesa se andremo su questa strada.

Chiesa sinodale significa Chiesa sacramento di questa promessa - cioè che lo Spirito sarà con noi - che si manifesta coltivando l’intimità con lo Spirito e con il mondo che verrà. Ci saranno sempre discussioni, grazie a Dio, ma le soluzioni vanno ricercate dando la parola a Dio e alle sue voci in mezzo a noi; pregando e aprendo gli occhi a tutto ciò che ci circonda; praticando una vita fedele al Vangelo; interrogando la Rivelazione secondo un’ermeneutica pellegrina che sa custodire il cammino cominciato negli Atti degli Apostoli. E questo è importante: il modo di capire, di interpretare. Un’ermeneutica pellegrina, cioè che è in cammino. Il cammino che è incominciato dopo il Concilio? No. È incominciato con i primi Apostoli, e continua. Quando la Chiesa si ferma, non è più Chiesa, ma una bella associazione pia perché ingabbia lo Spirito Santo. Ermeneutica pellegrina che sa custodire il cammino incominciato negli Atti degli Apostoli. Diversamente si umilierebbe lo Spirito Santo. Gustav Mahler – questo l’ho detto altre volte – sosteneva che la fedeltà alla tradizione non consiste nell’adorare le ceneri ma nel custodire il fuoco. Io domando a voi: “Prima di incominciare questo cammino sinodale, a che cosa siete più inclini: a custodire le ceneri della Chiesa, cioè della vostra associazione, del vostro gruppo, o a custodire il fuoco? Siete più inclini ad adorare le vostre cose, che vi chiudono – io sono di Pietro, io sono di Paolo, io sono di questa associazione, voi dell’altra, io sono prete, io sono Vescovo – o vi sentite chiamati a custodire il fuoco dello Spirito?  È stato un grande compositore, questo Gustav Mahler, ma è anche maestro di saggezza con questa riflessione. Dei Verbum (n. 8), citando la Lettera agli Ebrei, afferma: «“Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri” (Eb 1,1), non cessa di parlare con la Sposa del suo Figlio». C’è una felice formula di San Vincenzo di Lérins che, mettendo a confronto l’essere umano in crescita e la Tradizione che si trasmette da una generazione all’altra, afferma che non si può conservare il “deposito della fede” senza farlo progredire: «consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età» (Commonitorium primum, 23,9) – “ut annis consolideturdilatetur temporesublimetur aetate”. Questo è lo stile del nostro cammino: le realtà, se non camminano, sono come le acque. Le realtà teologiche sono come l’acqua: se l’acqua non scorre ed è stantia è la prima a entrare in putrefazione. Una Chiesa stantia incomincia a essere putrefatta.

Vedete come la nostra Tradizione è una pasta lievitata, una realtà in fermento dove possiamo riconoscere la crescita, e nell’impasto una comunione che si attua in movimento: camminare insieme realizza la vera comunione. È ancora il libro degli Atti degli Apostoli ad aiutarci, mostrandoci che la comunione non sopprime le differenze. È la sorpresa della Pentecoste, quando le lingue diverse non sono ostacoli: nonostante fossero stranieri gli uni per gli altri, grazie all’azione dello Spirito «ciascuno sente parlare nella propria lingua nativa» (At 2,8). Sentirsi a casa, differenti ma solidali nel cammino. Scusatemi la lunghezza, ma il Sinodo è una cosa seria, e per questo io mi sono permesso di parlare…

Tornando al processo sinodale, la fase diocesana è molto importante, perché realizza l’ascolto della totalità dei battezzati, soggetto del sensus fidei infallibile in credendo. Ci sono molte resistenze a superare l’immagine di una Chiesa rigidamente distinta tra capi e subalterni, tra chi insegna e chi deve imparare, dimenticando che a Dio piace ribaltare le posizioni: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52), ha detto Maria. Camminare insieme scopre come sua linea piuttosto l’orizzontalità che la verticalità. La Chiesa sinodale ripristina l’orizzonte da cui sorge il sole Cristo: innalzare monumenti gerarchici vuol dire coprirlo. I pastori camminano con il popolo: noi pastori camminiamo con il popolo, a volte davanti, a volte in mezzo, a volte dietro. Il buon pastore deve muoversi così: davanti per guidare, in mezzo per incoraggiare e non dimenticare l’odore del gregge, dietro perché il popolo ha anche “fiuto”. Ha fiuto nel trovare nuove vie per il cammino, o per ritrovare la strada smarrita. Questo voglio sottolinearlo, e anche ai Vescovi e ai preti della diocesi. Nel loro cammino sinodale si domandino: “Ma io sono capace di camminare, di muovermi, davanti, in mezzo e dietro, o sono soltanto nella cattedra, mitra e baculo?”. Pastori immischiati, ma pastori, non gregge: il gregge sa che siamo pastori, il gregge sa la differenza. Davanti per indicare la strada, in mezzo per sentire cosa sente il popolo e dietro per aiutare coloro che rimangono un po’ indietro e per lasciare un po’ che il popolo veda con il suo fiuto dove sono le erbe più buone.

Il sensus fidei qualifica tutti nella dignità della funzione profetica di Gesù Cristo (cfr Lumen gentium, 34-35), così da poter discernere quali sono le vie del Vangelo nel presente. È il “fiuto” delle pecore, ma stiamo attenti che, nella storia della salvezza, tutti siamo pecore rispetto al Pastore che è il Signore. L’immagine ci aiuta a capire le due dimensioni che contribuiscono a questo “fiuto”. Una personale e l’altra comunitaria: siamo pecore e siamo parte del gregge, che in questo caso rappresenta la Chiesa. Stiamo leggendo nel Breviario, Ufficio delle Letture, il “De pastoribus” di Agostino, e lì ci dice: “Con voi sono pecora, per voi sono pastore”.  Questi due aspetti, personale ed ecclesiale, sono inseparabili: non può esserci sensus fidei senza partecipazione alla vita della Chiesa, che non è solo l’attivismo cattolico, ci dev’essere soprattutto quel “sentire” che si nutre dei «sentimenti di Cristo» (Fil 2,5).

L’esercizio del sensus fidei non può essere ridotto alla comunicazione e al confronto tra opinioni che possiamo avere riguardo a questo o quel tema, a quel singolo aspetto della dottrina, o a quella regola della disciplina. No, quelli sono strumenti, sono verbalizzazioni, sono espressioni dogmatiche o disciplinari. Ma non deve prevalere l’idea di distinguere maggioranze e minoranze: questo lo fa un parlamento. Quante volte gli “scarti” sono diventati “pietra angolare” (cfr Sal 118,22; Mt 21,42), i «lontani» sono diventati «vicini» (Ef 2,13). Gli emarginati, i poveri, i senza speranza sono stati eletti a sacramento di Cristo (cfr Mt 25,31-46). La Chiesa è così. E quando alcuni gruppi volevano distinguersi di più, questi gruppi sono finiti sempre male, anche nella negazione della Salvezza, nelle eresie. Pensiamo a queste eresie che pretendevano di portare avanti la Chiesa, come il pelagianesimo, poi il giansenismo. Ogni eresia è finita male. Lo gnosticismo e il pelagianesimo sono tentazioni continue della Chiesa. Ci preoccupiamo tanto, giustamente, che tutto possa onorare le celebrazioni liturgiche, e questo è buono – anche se spesso finiamo per confortare solo noi stessi – ma San Giovanni Crisostomo ci ammonisce: «Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: “Questo è il mio corpo”, confermando il fatto con la parola, ha detto anche “Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare” e: “Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli tra questi, non l’avete fatto neppure a me”» (Omelie sul Vangelo di Matteo, 50, 3). “Ma, Padre, cosa sta dicendo? I poveri, i mendicanti, i giovani tossicodipendenti, tutti questi che la società scarta, sono parte del Sinodo?”. Sì, caro, sì, cara: non lo dico io, lo dice il Signore: sono parte della Chiesa. Al punto tale che se tu non li chiami, si vedrà il modo, o se non vai da loro per stare un po’ con loro, per sentire non cosa dicono ma cosa sentono, anche gli insulti che ti danno, non stai facendo bene il Sinodo. Il Sinodo è fino ai limiti, comprende tutti. Il Sinodo è anche fare spazio al dialogo sulle nostre miserie, le miserie che ho io come Vescovo vostro, le miserie che hanno i Vescovi ausiliari, le miserie che hanno i preti e i laici e quelli che appartengono alle associazioni; prendere tutta questa miseria! Ma se noi non includiamo i miserabili – tra virgolette – della società, quelli scartati, mai potremo farci carico delle nostre miserie. E questo è importante: che nel dialogo possano emergere le proprie miserie, senza giustificazioni. Non abbiate paura!

Bisogna sentirsi parte di un unico grande popolo destinatario delle divine promesse, aperte a un futuro che attende che ognuno possa partecipare al banchetto preparato da Dio per tutti i popoli (cfr Is 25,6). E qui vorrei precisare che anche sul concetto di “popolo di Dio” ci possono essere ermeneutiche rigide e antagoniste, rimanendo intrappolati nell’idea di una esclusività, di un privilegio, come accadde per l’interpretazione del concetto di “elezione” che i profeti hanno corretto, indicando come dovesse essere rettamente inteso. Non si tratta di un privilegio – essere popolo di Dio –, ma di un dono che qualcuno riceve … per sé? No: per tutti, il dono è per donarlo: questa è la vocazione. È un dono che qualcuno riceve per tutti, che noi abbiamo ricevuto per gli altri, è un dono che è anche una responsabilità. La responsabilità di testimoniare nei fatti e non solo a parole le meraviglie di Dio, che, se conosciute, aiutano le persone a scoprire la sua esistenza e ad accogliere la sua salvezza. L’elezione è un dono, e la domanda è: il mio essere cristiano, la mia confessione cristiana, come lo regalo, come lo dono? La volontà salvifica universale di Dio si offre alla storia, a tutta l’umanità attraverso l’incarnazione del Figlio, perché tutti, attraverso la mediazione della Chiesa, possano diventare figli suoi e fratelli e sorelle tra loro. È in questo modo che si realizza la riconciliazione universale tra Dio e l’umanità, quell’unità di tutto il genere umano di cui la Chiesa è segno e strumento (cfr Lumen gentium, 1). Già prima del Concilio Vaticano II era maturata la riflessione, elaborata sullo studio attento dei Padri, che il popolo di Dio è proteso verso la realizzazione del Regno, verso l’unità del genere umano creato e amato da Dio. E la Chiesa come noi la conosciamo e sperimentiamo, nella successione apostolica, questa Chiesa deve sentirsi in rapporto con questa elezione universale e per questo svolgere la sua missione. Con questo spirito ho scritto Fratelli tutti. La Chiesa, come diceva San Paolo VI, è maestra di umanità che oggi ha lo scopo di diventare scuola di fraternità.

Perché vi dico queste cose? Perché nel cammino sinodale, l’ascolto deve tener conto del sensus fidei, ma non deve trascurare tutti quei “presentimenti” incarnati dove non ce l’aspetteremmo: ci può essere un “fiuto senza cittadinanza”, ma non meno efficace. Lo Spirito Santo nella sua libertà non conosce confini, e non si lascia nemmeno limitare dalle appartenenze. Se la parrocchia è la casa di tutti nel quartiere, non un club esclusivo, mi raccomando: lasciate aperte porte e finestre, non vi limitate a prendere in considerazione solo chi frequenta o la pensa come voi – che saranno il 3, 4 o 5%, non di più. Permettete a tutti di entrare… Permettete a voi stessi di andare incontro e lasciarsi interrogare, che le loro domande siano le vostre domande, permettete di camminare insieme: lo Spirito vi condurrà, abbiate fiducia nello Spirito. Non abbiate paura di entrare in dialogo e lasciatevi sconvolgere dal dialogo: è il dialogo della salvezza.

Non siate disincantati, preparatevi alle sorprese. C’è un episodio nel libro dei Numeri (cap. 22) che racconta di un’asina che diventerà profetessa di Dio. Gli ebrei stanno concludendo il lungo viaggio che li condurrà alla terra promessa. Il loro passaggio spaventa il re Balak di Moab, che si affida ai poteri del mago Balaam per bloccare quella gente, sperando di evitare una guerra. Il mago, a suo modo credente, domanda a Dio che fare. Dio gli dice di non assecondare il re, che però insiste, e allora lui cede e sale su un’asina per adempiere il comando ricevuto. Ma l’asina cambia strada perché vede un angelo con la spada sguainata che sta lì a rappresentare la contrarietà di Dio. Balaam la tira, la percuote, senza riuscire a farla tornare sulla via. Finché l’asina si mette a parlare avviando un dialogo che aprirà gli occhi al mago, trasformando la sua missione di maledizione e morte in missione di benedizione e vita.

Questa storia ci insegna ad avere fiducia che lo Spirito farà sentire sempre la sua voce. Anche un’asina può diventare la voce di Dio, aprirci gli occhi e convertire le nostre direzioni sbagliate. Se lo può fare un’asina, quanto più un battezzato, una battezzata, un prete, un Vescovo, un Papa. Basta affidarsi allo Spirito Santo che usa tutte le creature per parlarci: soltanto ci chiede di pulire le orecchie per sentire bene.

[Papa Francesco, Discorso alla Diocesi di Roma, 18 settembre 2021]

L’itinerario della creatura (e della Chiesa) che realizza in sé la vittoria della Vita sulla morte

 

Maria è Icona di come trovare la strada giusta, da cui le vicende della vita possono allontanarci o portar via.

Emblema di chi è sul proprio e conforme percorso di persona, Gemma di paragone per non tradire la nostra identità-carattere vocazionale e disposizione innata.

Come Lei però abbandonandosi; tuttavia mutando. E così realizzando la nostra vera natura, nel pellegrinaggio verso il Nucleo dell’essere - perché presenti alle cose, nei diversi modi di stare al mondo, nitidamente.

La sua anima possedeva una freschezza giovane, una capacità di avvicinarsi a se stessa senza tuttavia smarrire la portata dei riscontri: nell’accorgersi, vivendo d’ogni Dono.

Chi ne ricalca lo stile abbraccia e adora l’inatteso, e quando d’improvviso irrompe la Novità dello Spirito, immediatamente gli sa fare posto.

L’attitudine della sua anima non volgeva alla banale ripetitività: meravigliata da una Parola, sbalordita dall’Imprevisto, sorpresa da una Ferita.

Itinerante, insegnava ad aprire il cuore e la mente a nuovi percorsi che non solo schivavano ma addirittura sorvolavano il preponderante dei condizionamenti.

Ella spontaneamente attivava flussi di possibilità che si ponevano alle spalle tante abitudini, senza neppure combatterle.

Maria disponeva se stessa a cogliere le varianti, le sfumature dell’anima; anche i sentimenti non abituali che magari ripudiamo di attribuirgli e che invece provava. Talora anche perdendosi nei labirinti di una spaventosa lotta epocale col «drago», l’ideologia del potere.

Una vita piena, da mamma di famiglia, non da creatura incorporea che si ritrae, e solo vereconda.

Nulla d'ingenuo e asservito. Donna libera, Maria parte senza chiedere l'autorizzazione della società attardata, gerarchica e ancora patriarcale.

E non si associa a carovane rassicuranti, perché non è persona di branco ma di novità.

Non si è incamminata lungo il Giordano, che era la strada più battuta e sicura. Ma perché rischiare la vita in terra ostile? Perché l'amore non conosce ostacolo.

E l’esuberanza non ripete conformismi. Vita che scorre dalla Galilea alla Giudea, ossia dalla periferia al centro.

Così ha accettato di far coabitare in sé e rendere compresenti le situazioni variegate con le sfaccettature dei molti appelli, l’afflato della premura e lo spirito di decisione - da donna emancipata.

Come recita la Liturgia di oggi, l’Assunta ha accettato il Deserto ma ha trovato un Rifugio, «dimenticando il suo popolo e la casa di suo padre».

Solidarietà, Sobrietà, Silenzio: l’esperienza dell’Esodo. Novità, Fraternità e Orizzonte di Persona che consentono la riscoperta del proprio ‘seme’ - e il senso della Chiesa.

Maria è insegna dell’esistenza paradossale del credente, che conosce la sua bassezza e l’Imprevedibile di Dio: nella sua vicenda riconosciamo il tracciato ideale del nostro cammino.

 

Non possiamo ignorare che nel mondo talora la forza prevale sulla debolezza, il bisogno fa impallidire l’amore, il declino sembra ridicolizzare la vita…

Ma nella dialettica del perdere se stessi per ritrovarsi, introduciamo nuove energie; acquisiamo come Lei una capacità di vedere spalancate le tombe, scorgendo vita anche in luoghi di morte.

In tal guisa, Lc è l’evangelista che celebra i ribaltamenti di situazione [fariseo e pubblicano, primo e ultimo posto, figlio scapestrato e primogenito, così via].

In detti rovesci la Vita nello Spirito non si palesa come replica che rassicura o che sacralizza posizioni, ma come attitudine a un guadagno nella perdita; una fioritura, nell’amarezza della croce.

Un saper scovare occasioni di crescita persino nell’apparente degrado.

E in noi? La ridefinizione di ciò che è “affare o umiliazione” può diventare storia redenta, l’autentica forza dirompente nel corso degli eventi, e di qualsiasi vicenda.

Negli inermi e incapaci di miracolo si cela infatti la percezione di una potenza che sa recuperare tutto l’essere. Virtù che ricompone l’armonia dell’onda vitale.

Progetto che vuole innalzare il povero dalle immondizie, per trasformarci in capolavori - a partire dalla verità di pitocche radici [dove siamo noi stessi].

La sfida della Fede è aperta.

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The dialogue of Jesus with the rich young man, related in the nineteenth chapter of Saint Matthew's Gospel, can serve as a useful guide for listening once more in a lively and direct way to his moral teaching [Veritatis Splendor n.6]
Il dialogo di Gesù con il giovane ricco, riferito nel capitolo 19 del Vangelo di san Matteo, può costituire un'utile traccia per riascoltare in modo vivo e incisivo il suo insegnamento morale [Veritatis Splendor n.6]
The Gospel for this Sunday (Lk 12:49-53) is part of Jesus’ teachings to the disciples during his journey to Jerusalem, where death on the cross awaits him. To explain the purpose of his mission, he takes three images: fire, baptism and division [Pope Francis]
Il Vangelo di questa domenica (Lc 12,49-53) fa parte degli insegnamenti di Gesù rivolti ai discepoli lungo la sua salita verso Gerusalemme, dove l’attende la morte in croce. Per indicare lo scopo della sua missione, Egli si serve di tre immagini: il fuoco, il battesimo e la divisione [Papa Francesco]
«And they were certainly inspired by God those who, in ancient times, called Porziuncola the place that fell to those who absolutely did not want to own anything on this earth» (FF 604)
«E furono di certo ispirati da Dio quelli che, anticamente, chiamarono Porziuncola il luogo che toccò in sorte a coloro che non volevano assolutamente possedere nulla su questa terra» (FF 604)
It is a huge message of hope for each of us, for you whose days are always the same, tiring and often difficult. Mary reminds you today that God calls you too to this glorious destiny (Pope Francis)
È un grande messaggio di speranza per ognuno noi; per te, che vivi giornate uguali, faticose e spesso difficili. Maria ti ricorda oggi che Dio chiama anche te a questo destino di gloria (Papa Francesco)
In the divine attitude justice is pervaded with mercy, whereas the human attitude is limited to justice. Jesus exhorts us to open ourselves with courage to the strength of forgiveness, because in life not everything can be resolved with justice. We know this (Pope Francis)
Nell’atteggiamento divino la giustizia è pervasa dalla misericordia, mentre l’atteggiamento umano si limita alla giustizia. Gesù ci esorta ad aprirci con coraggio alla forza del perdono, perché nella vita non tutto si risolve con la giustizia; lo sappiamo (Papa Francesco)
The Second Vatican Council's Constitution on the Sacred Liturgy refers precisely to this Gospel passage to indicate one of the ways that Christ is present:  "He is present when the Church prays and sings, for he has promised "where two or three are gathered together in my name there am I in the midst of them' (Mt 18: 20)" [Sacrosanctum Concilium, n. 7]
La Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II si riferisce proprio a questo passo del Vangelo per indicare uno dei modi della presenza di Cristo: "Quando la Chiesa prega e canta i Salmi, è presente Lui che ha promesso: "Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io  sono in mezzo a loro" (Mt 18, 20)" [Sacrosanctum Concilium, 7]
This was well known to the primitive Christian community, which considered itself "alien" here below and called its populated nucleuses in the cities "parishes", which means, precisely, colonies of foreigners [in Greek, pároikoi] (cf. I Pt 2: 11). In this way, the first Christians expressed the most important characteristic of the Church, which is precisely the tension of living in this life in light of Heaven (Pope Benedict)
Era ben consapevole di ciò la primitiva comunità cristiana che si considerava quaggiù "forestiera" e chiamava i suoi nuclei residenti nelle città "parrocchie", che significa appunto colonie di stranieri [in greco pàroikoi]

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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