don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Lo Spirito e i "semi di verità" del pensiero umano

1. Riprendendo un'affermazione del Libro della Sapienza (1,7), il Concilio Ecumenico Vaticano II ci insegna che "lo Spirito del Signore", il quale colma dei suoi doni il popolo di Dio pellegrino nella storia, "replet orbem terrarum", riempie tutto l'universo (cfr Gaudium et spes, 11). Egli guida incessantemente gli uomini verso la pienezza di verità e di amore che Dio Padre ha comunicato in Cristo Gesù.

Questa profonda consapevolezza della presenza e dell'azione dello Spirito Santo illumina da sempre la coscienza della Chiesa, facendo sì che tutto ciò che è genuinamente umano trovi eco nel cuore dei discepoli di Cristo (cfr ibid., 1).

Già nella prima metà del secondo secolo, il filosofo san Giustino poteva scrivere: "Tutto quanto è stato affermato sempre in modo eccellente e quanto scoprirono coloro che fanno filosofia o istituiscono leggi, è stato compiuto da loro attraverso la ricerca o la contemplazione di una parte del Verbo" (II Apol., 10,1-3).

2. L'apertura dello spirito umano alla verità e al bene si realizza sempre nell'orizzonte della "Luce vera che illumina ogni uomo" (Gv 1,9). Questa luce è lo stesso Cristo Signore, che ha illuminato fin dalle origini i passi dell'uomo ed è entrato nel suo "cuore". Con l'Incarnazione, nella pienezza dei tempi, la Luce è apparsa nel mondo in tutto il suo fulgore, brillando agli occhi dell'uomo come splendore di verità (cfr Gv 14,6).

Preannunciata già nell'Antico Testamento, la manifestazione progressiva della pienezza di verità che è Cristo Gesù si compie lungo il corso dei secoli per opera dello Spirito Santo. Tale specifica azione dello "Spirito della verità" (cfr Gv 14,17; 15,26; 16,13) riguarda non solo i credenti, ma, in modo misterioso, tutti gli uomini che, pur ignorando senza colpa il Vangelo, sinceramente cercano la verità e si sforzano di vivere rettamente (cfr Lumen gentium, 16).

Sulle orme dei Padri della Chiesa, san Tommaso d'Aquino può ritenere che nessuno spirito sia "così tenebroso da non partecipare in nulla alla luce divina. Infatti, ogni verità conosciuta da chicchessia è dovuta totalmente a questa 'luce che brilla nelle tenebre'; giacché ogni verità, chiunque sia che la dica, viene dallo Spirito Santo" (Super Ioannem, 1,5 lect. 3, n.103).

3. Per questo motivo, la Chiesa è amica di ogni autentica ricerca del pensiero umano e stima sinceramente il patrimonio di sapienza elaborato e trasmesso dalle diverse culture. In esso ha trovato espressione l'inesauribile creatività dello spirito umano indirizzato dallo Spirito di Dio verso la pienezza della verità.

L'incontro tra la parola di verità predicata dalla Chiesa e la sapienza espressa dalle culture ed elaborata dalle filosofie, sollecita queste ultime ad aprirsi e a trovare il proprio compimento nella rivelazione che viene da Dio. Come sottolinea il Concilio Vaticano II, tale incontro arricchisce la Chiesa, rendendola capace di penetrare sempre più a fondo nella verità, di esprimerla attraverso i linguaggi delle diverse tradizioni culturali e di presentarla - immutata nella sostanza - nella forma più adatta al mutare dei tempi (cfr Gaudium et spes, 44).

La fiducia nella presenza e nell'azione dello Spirito Santo anche nel travaglio della cultura del nostro tempo, può costituire, all'alba del Terzo Millennio, la premessa per un nuovo incontro tra la verità di Cristo e il pensiero umano.

4. Nella prospettiva del grande Giubileo dell'anno 2000, occorre approfondire l'insegnamento del Concilio a proposito di questo incontro sempre rinnovato e fecondo tra la verità rivelata, custodita e trasmessa dalla Chiesa, e le molteplici forme del pensiero e della cultura umana. Resta purtroppo ancor oggi valida la constatazione di Paolo VI nella lettera Enciclica Evangelii nuntiandi, secondo cui "la rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca" (n. 20).

Per ovviare a questa rottura, che incide con gravi conseguenze sulle coscienze e sui comportamenti, occorre risvegliare nei discepoli di Gesù Cristo quello sguardo di fede capace di scoprire i "semi di verità" diffusi dallo Spirito Santo nei nostri contemporanei. Si potrà contribuire anche alla loro purificazione e maturazione attraverso la paziente arte del dialogo, che mira in particolare alla presentazione del volto di Cristo in tutto il suo splendore.

In particolare è necessario tener ben presente il grande principio formulato dall'ultimo Concilio, che ho voluto richiamare nell'Enciclica Dives in misericordia: "Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e persino a contrapporre il teocentrismo e l'antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell'uomo in maniera organica e profonda" (n. 1).

5. Tale principio si mostra fecondo non solo per la filosofia e la cultura umanistica, ma anche per i settori della ricerca scientifica e dell'arte. Infatti, l'uomo di scienza che "si sforza con umiltà e con perseveranza di scandagliare i segreti della realtà, anche senza avvertirlo viene come condotto dalla mano di Dio, il quale, mantenendo in esistenza tutte le cose, fa che siano quelle che sono" (GS, 36b).

D'altro canto, il vero artista ha il dono di intuire e di esprimere l'orizzonte luminoso e infinito in cui è immersa l'esistenza dell'uomo e del mondo. Se è fedele all'ispirazione che lo abita e lo trascende, egli acquisisce una segreta connaturalità con la bellezza di cui lo Spirito Santo riveste la creazione.

Lo Spirito Santo, Luce che illumina le menti e divino "artista del mondo" (S. Bulgakov, Il Paraclito, Bologna 1971, p. 311), guidi la Chiesa e l'umanità del nostro tempo lungo i sentieri di un nuovo sorprendente incontro con lo splendore della Verità!

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 16 settembre 1998]

Pentecoste arrivò, per i discepoli, dopo cinquanta giorni incerti. Da un lato Gesù era Risorto, pieni di gioia lo avevano visto e ascoltato, e avevano pure mangiato con Lui. Dall’altro lato, non avevano ancora superato dubbi e paure: stavano a porte chiuse (cfr Gv 20,19.26), con poche prospettive, incapaci di annunciare il Vivente. Poi arriva lo Spirito Santo e le preoccupazioni svaniscono: ora gli Apostoli non hanno timore nemmeno davanti a chi li arresta; prima preoccupati di salvarsi la vita, ora non hanno più paura di morire; prima rinchiusi nel Cenacolo, ora annunciano a tutte le genti. Fino all’Ascensione di Gesù attendevano un Regno di Dio per loro (cfr At 1,6), ora sono impazienti di raggiungere confini ignoti. Prima non avevano quasi mai parlato in pubblico e quando l’avevano fatto avevano spesso combinato guai, come Pietro rinnegando Gesù; ora parlano con parresia a tutti. La vicenda dei discepoli, che sembrava al capolinea, viene insomma rinnovata dalla giovinezza dello Spirito: quei giovani, che in preda all’incertezza si sentivano arrivati, sono stati trasformati da una gioia che li ha fatti rinascere. Lo Spirito Santo ha fatto questo. Lo Spirito non è, come potrebbe sembrare, una cosa astratta; è la Persona più concreta, più vicina, quella che ci cambia la vita. Come fa? Guardiamo agli Apostoli. Lo Spirito non ha reso loro le cose più facili, non ha fatto miracoli spettacolari, non ha tolto di mezzo problemi e oppositori, ma lo Spirito ha portato nelle vite dei discepoli un’armonia che mancava, la sua, perché Egli è armonia.

Armonia dentro l’uomo. Dentro, nel cuore i discepoli avevano bisogno di essere cambiati. La loro storia ci dice che persino vedere il Risorto non basta, se non Lo si accoglie nel cuore. Non serve sapere che il Risorto è vivo se non si vive da Risorti. Ed è lo Spirito che fa vivere e rivivere Gesù in noi, che ci risuscita dentro. Per questo Gesù, incontrando i suoi, ripete: «Pace a voi!» (Gv 20,19.21) e dona lo Spirito. La pace non consiste nel sistemare i problemi di fuori – Dio non toglie ai suoi tribolazioni e persecuzioni – ma nel ricevere lo Spirito Santo. In questo consiste la pace, quella pace data agli Apostoli, quella pace che non libera dai problemi ma nei problemi, è offerta a ciascuno di noi. È una pace che rende il cuore simile al mare profondo, che è sempre tranquillo anche quando in superficie le onde si agitano. È un’armonia così profonda che può trasformare persino le persecuzioni in beatitudini. Quante volte, invece, rimaniamo in superficie! Anziché cercare lo Spirito tentiamo di rimanere a galla, pensando che tutto andrà meglio se passerà quel guaio, se non vedrò più quella persona, se migliorerà quella situazione. Ma questo è rimanere in superficie: passato un problema ne arriverà un altro e l’inquietudine ritornerà. Non è prendendo le distanze da chi non la pensa come noi che saremo sereni, non è risolvendo il guaio del momento che staremo in pace. La svolta è la pace di Gesù, è l’armonia dello Spirito.

Oggi, nella fretta che il nostro tempo ci impone, sembra che l’armonia sia emarginata: tirati da mille parti rischiamo di scoppiare, sollecitati da un nervosismo continuo che fa reagire male a ogni cosa. E si cerca la soluzione rapida, una pastiglia dietro l’altra per andare avanti, un’emozione dietro l’altra per sentirsi vivi. Ma abbiamo soprattutto bisogno dello Spirito: è Lui che mette ordine nella frenesia. Egli è pace nell’inquietudine, fiducia nello scoraggiamento, gioia nella tristezza, gioventù nella vecchiaia, coraggio nella prova. È Colui che, tra le correnti tempestose della vita, fissa l’ancora della speranza. È lo Spirito che, come dice oggi San Paolo, ci impedisce di ricadere nella paura perché ci fa sentire figli amati (cfr Rm 8,15). È il Consolatore, che ci trasmette la tenerezza di Dio. Senza lo Spirito la vita cristiana è sfilacciata, priva dell’amore che tutto unisce. Senza lo Spirito Gesù rimane un personaggio del passato, con lo Spirito è persona viva oggi; senza lo Spirito la Scrittura è lettera morta, con lo Spirito è Parola di vita. Un cristianesimo senza lo Spirito è un moralismo senza gioia; con lo Spirito è vita.

Lo Spirito Santo non porta solo armonia dentro, ma anche fuori, tra gli uomini. Ci fa Chiesa, compone parti diverse in un unico edificio armonico. Lo spiega bene San Paolo che, parlando della Chiesa, ripete spesso una parola, “diversi”: «diversi carismi, diverse attività, diversi ministeri» (1 Cor 12,4-6). Siamo diversi, nella varietà delle qualità e dei doni. Lo Spirito li distribuisce con fantasia, senza appiattire, senza omologare. E, a partire da queste diversità, costruisce l’unità. Fa così, fin dalla creazione, perché è specialista nel trasformare il caos in cosmo, nel mettere armonia. È specialista nel creare le diversità, le ricchezze; ognuno la sua, diversa. Lui è il creatore di questa diversità e, allo stesso tempo, è Colui che armonizza, che dà l’armonia e dà unità alla diversità. Soltanto Lui può fare queste due cose.

Oggi nel mondo le disarmonie sono diventate vere e proprie divisioni: c’è chi ha troppo e c’è chi nulla, c’è chi cerca di vivere cent’anni e chi non può venire alla luce. Nell’era dei computer si sta a distanza: più “social” ma meno sociali. Abbiamo bisogno dello Spirito di unità, che ci rigeneri come Chiesa, come Popolo di Dio, e come umanità intera. Che ci rigeneri. Sempre c’è la tentazione di costruire “nidi”: di raccogliersi attorno al proprio gruppo, alle proprie preferenze, il simile col simile, allergici a ogni contaminazione. E dal nido alla setta il passo è breve, anche dentro la Chiesa. Quante volte si definisce la propria identità contro qualcuno o contro qualcosa! Lo Spirito Santo, invece, congiunge i distanti, unisce i lontani, riconduce i dispersi. Fonde tonalità diverse in un’unica armonia, perché vede anzitutto il bene, guarda all’uomo prima che ai suoi errori, alle persone prima che alle loro azioni. Lo Spirito plasma la Chiesa, plasma il mondo come luoghi di figli e di fratelli. Figli e fratelli: sostantivi che vengono prima di ogni altro aggettivo. Va di moda aggettivare, purtroppo anche insultare. Possiamo dire che noi viviamo una cultura dell’aggettivo che dimentica il sostantivo delle cose; e anche in una cultura dell’insulto, che è la prima risposta ad un’opinione che io non condivido. Poi ci rendiamo conto che fa male, a chi è insultato ma anche a chi insulta. Rendendo male per male, passando da vittime a carnefici, non si vive bene. Chi vive secondo lo Spirito, invece, porta pace dov’è discordia, concordia dov’è conflitto. Gli uomini spirituali rendono bene per male, rispondono all’arroganza con mitezza, alla cattiveria con bontà, al frastuono col silenzio, alle chiacchiere con la preghiera, al disfattismo col sorriso.

Per essere spirituali, per gustare l’armonia dello Spirito, occorre mettere il suo sguardo davanti al nostro. Allora le cose cambiano: con lo Spirito la Chiesa è il Popolo santo di Dio, la missione il contagio della gioia, non il proselitismo, gli altri fratelli e sorelle amati dallo stesso Padre. Ma senza lo Spirito la Chiesa è un’organizzazione, la missione propaganda, la comunione uno sforzo. E tante Chiese fanno azioni programmatiche in questo senso di piani pastorali, di discussioni su tutte le cose. Sembra che sia quella strada ad unirci, ma questa non è la strada dello Spirito, è la strada della divisione.  Lo Spirito è il bisogno primo e ultimo della Chiesa (cfr S. Paolo VI, Udienza generale, 29 novembre 1972). Egli «viene dov’è amato, dov’è invitato, dov’è atteso» (S. Bonaventura, Sermone per la IV Domenica dopo Pasqua). Fratelli e sorelle, preghiamolo ogni giorno. Spirito Santo, armonia di Dio, Tu che trasformi la paura in fiducia e la chiusura in dono, vieni in noi. Dacci la gioia della risurrezione, la perenne giovinezza del cuore. Spirito Santo, armonia nostra, Tu che fai di noi un corpo solo, infondi la tua pace nella Chiesa e nel mondo. Spirito Santo, rendici artigiani di concordia, seminatori di bene, apostoli di speranza.

[Papa Francesco, omelia 9 giugno 2019]

Confronti no, Eccezionalità sì

(Gv 21,20-25)

 

Ancora una volta nel quarto Vangelo si fronteggiano il passo e il carattere petrino [incerto] con quello del discepolo amato dal Signore.

Ma la pienezza di Dio traspare dall’intera Chiesa, se genuina. Le Vocazioni sono diverse. Nessuna in sé sufficiente.

Ciascuno sente l’Appello a portare avanti la propria Chiamata per Nome secondo carattere diretto, confidenziale, proprio, e passo dopo passo, senza arenarsi nei confronti.

Nessuno è modello superiore, o viceversa destinato a facsimile: l’amore erompe in modo personale, sempre libero, inedito.

L’opinione, la vicenda o curiosità altrui, è un veleno, sia per la realizzazione che per la dimensione missionaria.

Attenzione dunque alle dicerie, alle congetture, all’immagine, anche diffuse sul territorio.

Soprattutto in situazioni di monopolio, porterebbero all’omologazione, alla “vita media”, al collasso.

Bando ai paragoni:

«Me, segui» (v.22) significa aderire a un Cielo che abita ciascun figlio - e in Comunione, non in branco.

A ogni energia, storia, e sensibilità esclusiva, corrisponde un modo riservato, irripetibile, di essere discepoli.

Differenze e legami si ricompongono nello Spirito, che sa dove andare - chiamando ogni personalità singolare a dimensioni d’esistenza raccolta o estroversa - nella propria Radice.

Chi è spinto più all’azione [o riflessione] non deve indugiare, né volgersi indietro; piuttosto, immergersi.

Ciascuno è nel punto giusto. Non deve smarrire la strada unica.

Insomma, l’amore autentico non ha fondamenta generiche, bensì impredicibili, singolari, insolite; di rilievo comunque, sebbene “scorrette”.

Non dobbiamo distrarci dal nostro scopo naturale e spirituale innato.

 

Il mistero che avvolge Cristo dispiegato nel suo Popolo è inesauribile, e anche noi siamo chiamati in prima persona a ‘scrivere’ senza timori un caratteristico Vangelo (v.25) [cf. Gv 20,29-30].

La differenza tra religiosità antica e vita di Fede? Non siamo fotocopie d’una condotta persistente, bensì inventori e battistrada.

Cristo vuol essere reinterpretato in prima persona e nella convivialità delle differenze.

A ciascuno il Maestro riconosce un suo agire. Il consenso non c’entra con la Vocazione.

Invece spesso ci sediamo in armature esterne, e forse misuriamo anche il progetto di vita, il segno dei tempi, il dono, lo stimolo, il Segreto dei fratelli, con la stessa miopia di programmi commisurati.

Dio si riserva appunto d’indicarlo Lui a ciascuno. Oltre ogni ‘mappa’ e organigramma.

Poi, anche le “stabilità” sono parziali, attendono un compimento.

Chi scommette sulla Via della Fede sa di doversi allontanare dallo spirito di unilateralità.

Lo stesso vigore del cammino chiede la sosta quieta e il convergere. 

Anche il “restare” lancia infine una sua energia tranquilla proprio alle iniziative... così via.

I modi della sequela che risuonano in fondo al cuore sono tanto vari quante le persone, gli accadimenti, i ritmi commisurati all’anima, le età.

Essi abbracciano la medesima Proposta - senza che in tale poliedricità si perda il Mistero perdurante, né alcun legame.

 

Solo qui, Mondo reale, Persona, Natura ed Eternità si alleano.

 

 

[Sabato 7.a sett. di Pasqua, 7 giugno 2025]

Confronti no, Eccezionalità sì

(Gv 21,20-25)

 

Ancora una volta nel quarto Vangelo si fronteggiano il passo e il carattere petrino (incerto) con quello del discepolo amato dal Signore.

In lui anche noi siamo chiamati a una personalità sciolta e liberale [più tipica delle comunità giovannee dell’Asia Minore] che rifletta un animo meno rigido e profeticamente superiore rispetto alla chiesa apostolica ufficiale - ancora giudaizzante.

I primi cristiani attendevano imminente la cosiddetta seconda Venuta del Signore.

Alcune chiese, di fronte al decesso dei seguaci, iniziarono a immaginare che almeno alcuni di loro sarebbero sopravvissuti fino alla Parusia del Cristo.

Col passare del tempo e la morte non solo degli apostoli, ma anche dei discepoli di seconda e terza generazione, sorgevano dissidi sulle precedenze e l’interpretazione delle Scritture.

Tutto ciò, malgrado Gv abbia insistito sulla Presenza sempre attuale del Risorto, e la storicità della Vita dell’Eterno [cosiddetta ‘vita eterna’].

In aggiunta a ciò, il quarto Vangelo ribadisce l’attualità delle realtà ultime e del Giudizio.

Viceversa, permaneva diffusa l’idea del loro carattere di futurità.

Ma la morte dello stesso evangelista scosse non poco le comunità, sconcertando molti fedeli che immaginavano quel discepolo dovesse - almeno lui - essere presente al cosiddetto «Ritorno» [termine che nei Vangeli - in lingua originale - non esiste].

Questo il motivo dell’aggiunta di una “seconda conclusione” a Gv 20,30-31.

È ciò che designiamo «capitolo 21» - opera di scuola giovannea, che tenta di chiarire la Vicinanza del Signore, il senso delle «Manifestazioni» del Risorto, il servizio dell’autorità, la testimonianza del “discepolo amato”.

 

La pienezza di Dio traspare dall’intera Chiesa, se genuina. Le Vocazioni sono diverse. Nessuna in sé sufficiente.

Ciascuno sente l’Appello a portare avanti la propria Chiamata per Nome secondo carattere diretto, confidenziale, proprio, e passo dopo passo, senza arenarsi nei confronti.

L’opinione, la vicenda o curiosità altrui, è un veleno, sia per la realizzazione che per la dimensione missionaria.

Attenzione dunque alle dicerie, alle congetture, all’immagine, anche diffuse sul territorio.

Soprattutto in situazioni di monopolio culturale, spirituale, o semplicemente denominazionale [come ancora in Italia] dette convinzioni normalizzate porterebbero all’omologazione, alla “vita media”, al collasso.

Bando ai paragoni:

«Me, segui» (v.22 testo greco) significa aderire a un Cielo che abita ciascun figlio - e in Comunione, non in branco.

A ogni energia, storia, e sensibilità esclusiva, corrisponde un modo riservato, irripetibile, di essere discepoli.

Nessuno è modello superiore, o viceversa destinato a facsimile: l’amore erompe in modo personale, sempre libero, inedito.

La via della sequela additata, il rimanere o trattenere indeterminato, sono caratteristiche o polarità correlative e plasmabili: proprio da esse sorgono risposte inattese a questioni vere, e la Novità di Dio.

Differenze e legami si ricompongono nello Spirito, che sa dove andare - chiamando ogni personalità singolare a dimensioni d’esistenza raccolta o estroversa - nella propria Radice.

Chi è spinto più all’azione [o riflessione] non deve indugiare, né volgersi indietro; piuttosto, immergersi.

Ciascuno è nel punto giusto. Non deve smarrire la strada unica.

 

Nel mio giardino ho dei pini grossi che danno ombra, ma uno di essi all’improvviso è seccato irreparabilmente. Sembrava chissà cosa; in un attimo è precipitato. Da non credere. Succede anche nella vita religiosa.

Fra la mia erba campagnola noto fiorire - senza mai averle curate - diverse pianticelle che prive d’artificio scacciano gli insetti, offrendo al terreno una trama variegata e uno spettacolo cromatico delicato.

Se imponessi al sottobosco di crescer su per dare ombra, si ammalerebbe. Il tutto non diventerebbe neanche un rovo; piuttosto, un intreccio innaturale di disagi (imposti di testa mia) che mai sfumerebbero.

A ogni seme corrisponde un suo sviluppo e una propria unicità, anche in rapporto con la situazione differente a contorno - alla luce o meno.

Insomma, l’amore autentico non ha fondamenta generiche, bensì impredicibili, singolari, insolite; di rilievo comunque, sebbene “scorrette”.

 

Si narra che s. Antonio Abate si arrovellasse sul Giudizio finale [chi si salva e chi no?]. La risposta gli venne perentoria: «Antonio, bada a te stesso!» - a dire che l’interesse per le inclinazioni e preferenze altrui è ambiguo. Non sempre buono; talora inutile. Spesso funesto e letale.

Se a qualcuno è proposta in dono una vocazione di carità speciale - persino di sangue - ad altri è riservato un diverso genere di testimonianza irripetibile; es. martirio sapienziale o critico [degli osteggiati e pionieri].

Invece di perdere il pondus e carattere della propria Chiamata per Nome, lasciandosi travolgere dalla prepotenza di forze in campo - anche nella vita ecclesiale viene spontaneo annunciare un altro regno rispetto a quello del pensiero unico, del consenso, dei furbetti del quartierino. 

Non c’entrano con la Vocazione.

 

Non dobbiamo distrarci dal nostro scopo naturale e spirituale innato.

Il mistero che avvolge Cristo dispiegato nel suo Popolo è inesauribile. E anche noi siamo chiamati in prima persona a scrivere senza timori un caratteristico Vangelo (v.25) [cf. Gv 20,29-30].

La differenza tra religiosità antica e vita di Fede? Non siamo le fotocopie d’una condotta persistente, bensì inventori e battistrada.

Cristo vuol essere reinterpretato in prima persona e nella convivialità delle differenze.

A ciascuno il Maestro riconosce un suo agire.

Invece spesso ci sediamo in armature esterne, e forse misuriamo anche il progetto di vita, il segno dei tempi, il dono, lo stimolo, il Segreto dei fratelli, con la stessa miopia di programmi commisurati.

Dio si riserva appunto d’indicarlo Lui a ciascuno. Oltre ogni ‘mappa’ e organigramma.

 

Poi, anche le “stabilità” sono parziali, attendono un compimento.

Chi scommette sulla Via della Fede sa di doversi allontanare dallo spirito di unilateralità.

Lo stesso vigore del cammino chiede la sosta quieta e il convergere. 

Anche il “restare” lancia infine una sua energia tranquilla proprio alle iniziative... così via.

I modi della sequela che risuonano in fondo al cuore sono tanto vari quante le persone, gli accadimenti, i ritmi commisurati all’anima, le età.

Essi abbracciano la medesima Proposta - senza che in tale poliedricità si perda il Mistero perdurante, né alcun legame.

Solo qui, Mondo reale, Persona, Natura ed Eternità si alleano.

 

 

«Quando il tessitore alza un piede, l’altro si abbassa. Quando il movimento cessa e uno dei piedi si ferma, il tessuto non si fa più. Le sue mani lanciano la spola che passa dall’una all’altra; ma nessuna mano può sperare di tenerla. Come i gesti del tessitore, è l’unione dei contrari a tessere la nostra vita» (Tradizione orale africana Peul).

 

«Siamo assolutamente perduti se ci viene a mancare questa particolare individualità, l’unica cosa che possiamo dire veramente nostra - e la cui perdita costituisce anche una perdita per il mondo intero. Essa è preziosissima anche perché non è universale» (Rabindranath Tagore).

 

«La Verità non è affatto ciò che ho. Non è affatto ciò che hai. Essa è ciò che ci unisce nella sofferenza, nella gioia. Essa è figlia della nostra Unione, nel dolore e nel piacere partoriti. Né io né Te. E io e Te. La nostra opera comune, stupore permanente. Il suo nome è Saggezza» (Irénée Guilane Dioh).

 

«Lo smarrimento e la perdita di ogni certezza e riparo è insieme una sorta di prova e una sorta di guarigione» (Pema Chödrön).

 

«Quando patiamo una grave delusione, non sappiamo mai se si tratta della conclusione della vicenda che stiamo vivendo: potrebbe essere anche l’inizio di una grande avventura» (Pema Chödrön).

 

«Crescere significa superare ciò che siete oggi. Non imitate. Non pretendete d’avere raggiunto lo scopo e non cercate di bruciare le tappe. Cercate solo di crescere» (Svami Prajnanapada).

 

«La vera moralità non consiste nel seguire la via battuta, ma nel trovare il sentiero vero per noi e nel seguirlo senza paura» (Gandhi).

 

«La verità risiede in ogni cuore umano, e qui bisogna cercarla; bisogna lasciarsi guidare dalla verità quale ciascuno la vede. Ma nessuno ha il diritto di costringere gli altri ad agire secondo la propria visione della verità» (Gandhi).

 

«Ti devi oppone al mondo intero anche a costo di rimanere solo. Devi fissare il mondo negli occhi, anche se può succedere che il mondo ti guardi con occhi iniettati di sangue. Non temere. Credi in quella piccola cosa dentro di te che risiede nel cuore e dice: abbandona amici, moglie, tutto; ma porta testimonianza a quello per cui sei vissuto e per cui devi morire» (Gandhi).

 

«Nel Benin, se vedi una giara d’acqua posata sotto un albero davanti a una casa, sappi che è per te, straniero di passaggio; non c’è bisogno di bussare alla porta per chiedere da bere, ti basta aprire la giara, prendere la zucca, bere l’acqua e proseguire per la tua strada se non c’è nessuno» (Raymond Johnson).

 

«Dobbiamo imparare ad abbandonare le nostre difese e il nostro bisogno di controllare, e fidarci totalmente della guida dello spirito» (Sobonfu Somé).

 

«Osservare e ascoltare sono una grande arte. Dall’osservazione e dall’ascolto impariamo infinitamente più che non dai libri. I libri sono necessari, ma l’osservazione e l’ascolto ti affinano i sensi» (Krishnamurti).

 

«Il Fuoco è legato al Sogno, al mantenimento del nostro legame con noi stessi e con gli antenati, e all’arte di mantenere vive le nostre visioni» (Griot dell’Africa centrale).

 

«Come nella vita, i contrari coesistono ovunque: nell’organizzazione sociale e nella vita affettiva, negli scambi fra individui. Vivere e realizzare la contraddizione, ecco l’essenziale» (Alassane Ndaw).

 

«Il processo ai crimini è istruito, ma cosa ne pensa la giuria? Chi sono i giurati? Chi è il sostituto procuratore generale dell’umanità?» (Djibril Tamsir Niane).

 

«L’uomo deve assumersi la responsabilità dei legami, visibili e invisibili, il cui insieme conferisce un senso alla vita» (Aminata Traoré).

«Introdurre lo spirito di altre persone nella nostra vita ci dà più occhi per vedere e ci consente di superare i nostri limiti» (Sobonfu Somé).

 

«Nella foresta, quando i rami litigano, le radici si abbracciano»(Proverbio Africano).

 

Infatti persino in un rapporto d’amore profondo e coesistenza «c’è bisogno di liberarsi dall’obbligo di essere uguali» (Amoris Laetitia, n.139).

 

«Le onde si sollevano ciascuna alla sua altezza, quasi gareggiando incessantemente tra loro, ma giungono solo fino a un dato punto; in tal modo conducono la nostra mente alla grande calma del mare, di cui anch’esse sono parte e alla quale dovranno ritornare con un ritmo di meravigliosa bellezza» (Rabindranath Tagore).

 

Non siamo “massa”, “moltitudine”, per Gesù! Siamo “persone” singole con un valore eterno, sia come creature sia come persone redente! lui ci conosce! lui mi conosce, e mi ama e ha dato se stesso per me! (Gal 2,20) [Giovanni Paolo II]

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quale Vangelo senti di dover scrivere con la tua vita?

 

 

Unicità

11. «Ognuno per la sua via», dice il Concilio. Dunque, non è il caso di scoraggiarsi quando si contemplano modelli di santità che appaiono irraggiungibili. Ci sono testimonianze che sono utili per stimolarci e motivarci, ma non perché cerchiamo di copiarle, in quanto ciò potrebbe perfino allontanarci dalla via unica e specifica che il Signore ha in serbo per noi. Quello che conta è che ciascun credente discerna la propria strada e faccia emergere il meglio di sé, quanto di così personale Dio ha posto in lui (cfr 1 Cor 12,7) e non che si esaurisca cercando di imitare qualcosa che non è stato pensato per lui. Tutti siamo chiamati ad essere testimoni, però esistono molte forme esistenziali di testimonianza. Di fatto, quando il grande mistico san Giovanni della Croce scriveva il suo Cantico spirituale, preferiva evitare regole fisse per tutti e spiegava che i suoi versi erano scritti perché ciascuno se ne giovasse «a modo suo». Perché la vita divina si comunica ad alcuni in un modo e ad altri in un altro.

[Papa Francesco, Gaudete et Exsultate]

Cari fratelli e sorelle,

dedichiamo l'incontro di oggi al ricordo di un altro membro molto importante del collegio apostolico: Giovanni, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo. Il suo nome, tipicamente ebraico, significa “il Signore ha fatto grazia”. Stava riassettando le reti sulla sponda del lago di Tiberìade, quando Gesù lo chiamò insieme con il fratello (cfr Mt 4,21; Mc 1,19). Giovanni fa sempre parte del gruppo ristretto, che Gesù prende con sé in determinate occasioni. E’ insieme a Pietro e a Giacomo quando Gesù, a Cafarnao, entra in casa di Pietro per guarirgli la suocera (cfr Mc 1,29); con gli altri due segue il Maestro nella casa dell'archisinagògo Giàiro, la cui figlia sarà richiamata in vita (cfr Mc 5,37); lo segue quando sale sul monte per essere trasfigurato (cfr Mc 9,2); gli è accanto sul Monte degli Olivi quando davanti all’imponenza del Tempio di Gerusalemme pronuncia il discorso sulla fine della città e del mondo (cfr Mc 13,3); e, finalmente, gli è vicino quando nell'Orto del Getsémani si ritira in disparte per pregare il Padre prima della Passione (cfr Mc 14,33). Poco prima della Pasqua, quando Gesù sceglie due discepoli per mandarli a preparare la sala per la Cena, a lui ed a Pietro affida tale compito (cfr Lc 22,8).

Questa sua posizione di spicco nel gruppo dei Dodici rende in qualche modo comprensibile l’iniziativa presa un giorno dalla madre: ella si avvicinò a Gesù per chiedergli che i due figli, Giovanni appunto e Giacomo, potessero sedere uno alla sua destra e uno alla sua sinistra nel Regno (cfr Mt 20,20-21). Come sappiamo, Gesù rispose facendo a sua volta una domanda: chiese se essi fossero disposti a bere il calice che egli stesso stava per bere (cfr Mt 20,22). L’intenzione che stava dietro a quelle parole era di aprire gli occhi dei due discepoli, di introdurli alla conoscenza del mistero della sua persona e di adombrare loro la futura chiamata ad essergli testimoni fino alla prova suprema del sangue. Poco dopo infatti Gesù precisò di non essere venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita in riscatto per la moltitudine (cfr Mt 20,28). Nei giorni successivi alla risurrezione, ritroviamo “i figli di Zebedeo” impegnati con Pietro ed alcuni altri discepoli in una notte infruttuosa, a cui segue per intervento del Risorto la pesca miracolosa: sarà “il discepolo che Gesù amava” a riconoscere per primo “il Signore” e a indicarlo a Pietro (cfr Gv 21,1-13).

All'interno della Chiesa di Gerusalemme, Giovanni occupò un posto di rilievo nella conduzione del primo raggruppamento di cristiani. Paolo infatti lo annovera tra quelli che chiama le “colonne” di quella comunità (cfr Gal 2,9). In realtà, Luca negli Atti lo presenta insieme con Pietro mentre vanno a pregare nel Tempio (cfr At 3,1-4.11) o compaiono davanti al Sinedrio a testimoniare la propria fede in Gesù Cristo (cfr At 4,13.19). Insieme con Pietro viene inviato dalla Chiesa di Gerusalemme a confermare coloro che in Samaria hanno accolto il Vangelo, pregando su di loro perché ricevano lo Spirito Santo (cfr At 8,14-15). In particolare, va ricordato ciò che afferma, insieme con Pietro, davanti al Sinedrio che li sta processando: “Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato” (At 4,20). Proprio questa franchezza nel confessare la propria fede resta un esempio e un monito per tutti noi ad essere sempre pronti a dichiarare con decisione la nostra incrollabile adesione a Cristo, anteponendo la fede a ogni calcolo o umano interesse.

Secondo la tradizione, Giovanni è “il discepolo prediletto”, che nel Quarto Vangelo poggia il capo sul petto del Maestro durante l'Ultima Cena (cfr Gv 13,21), si trova ai piedi della Croce insieme alla Madre di Gesù (cfr Gv 19, 25) ed è infine testimone sia della Tomba vuota che della stessa presenza del Risorto (cfr Gv 20,2; 21,7). Sappiamo che questa identificazione è oggi discussa dagli studiosi, alcuni dei quali vedono in lui semplicemente il prototipo del discepolo di Gesù. Lasciando agli esegeti di dirimere la questione, ci contentiamo qui di raccogliere una lezione importante per la nostra vita: il Signore desidera fare di ciascuno di noi un discepolo che vive una personale amicizia con Lui. Per realizzare questo non basta seguirlo e ascoltarlo esteriormente; bisogna anche vivere con Lui e come Lui. Ciò è possibile soltanto nel contesto di un rapporto di grande familiarità, pervaso dal calore di una totale fiducia. E’ ciò che avviene tra amici; per questo Gesù ebbe a dire un giorno: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici ... Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,13.15).

Negli apocrifi Atti di Giovanni l'Apostolo viene presentato non come fondatore di Chiese e neppure alla guida di comunità già costituite, ma in continua itineranza come comunicatore della fede nell'incontro con “anime capaci di sperare e di essere salvate” (18,10; 23,8). Tutto è mosso dal paradossale intento di far vedere l'invisibile. E infatti dalla Chiesa orientale egli è chiamato semplicemente “il Teologo”, cioè colui che è capace di parlare in termini accessibili delle cose divine, svelando un arcano accesso a Dio mediante l'adesione a Gesù.

Il culto di Giovanni apostolo si affermò a partire dalla città di Efeso, dove, secondo un’antica tradizione, avrebbe a lungo operato, morendovi infine in età straordinariamente avanzata, sotto l'imperatore Traiano. Ad Efeso l'imperatore Giustiniano, nel secolo VI, fece costruire in suo onore una grande basilica, di cui restano tuttora imponenti rovine. Proprio in Oriente egli godette e gode tuttora di grande venerazione. Nell’iconografia bizantina viene spesso raffigurato molto anziano – secondo la tradizione morì sotto l’imperatore Traiano - e in atto di intensa contemplazione, quasi nell’atteggiamento di chi invita al silenzio.

In effetti, senza adeguato raccoglimento non è possibile avvicinarsi al mistero supremo di Dio e alla sua rivelazione. Ciò spiega perché, anni fa, il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Atenagora, colui che il Papa Paolo VI abbracciò in un memorabile incontro, ebbe ad affermare: “Giovanni è all'origine della nostra più alta spiritualità. Come lui, i ‘silenziosi’ conoscono quel misterioso scambio dei cuori, invocano la presenza di Giovanni e il loro cuore si infiamma” (O. Clément, Dialoghi con Atenagora, Torino 1972, p. 159). Il Signore ci aiuti a metterci alla scuola di Giovanni per imparare la grande lezione dell’amore così da sentirci amati da Cristo “fino alla fine” (Gv 13,1) e spendere la nostra vita per Lui.

[Papa Benedetto, Udienza Generale 5 luglio 2006]

Mag 30, 2025

Come gli Apostoli

Pubblicato in Angolo dell'ottimista

VEGLIA DI PENTECOSTE

 

1. "Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi... Ricevete lo Spirito Santo"! (Gv 20, 21-22).

 

In questa vigilia di Pentecoste, la Chiesa che è in Roma si trova radunata come gli Apostoli nel Cenacolo, dopo gli eventi del triduo pasquale. Essi sapevano che il Signore era risorto ed era apparso a Simone. Ma Gesù in persona venne in mezzo a loro ed offrì il saluto di pace. Mostrò poi le mani ed il costato trafitti, con i segni visibili della passione. Sì! È proprio Lui. È lo stesso Gesù, prima crocifisso ed ora risorto. "I discepoli gioirono al vedere il Signore" ( Gv 20, 20 ).

 

Fin dalla sera del giorno di Pasqua, però, Gesù anticipò l’evento della Pentecoste: "Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi... Ricevete lo Spirito Santo".

2.

Carissimi Fratelli e Sorelle della Diocesi di Roma! Mediante una veglia di preghiera, che richiama quella pasquale, ci siamo qui riuniti per prepararci alla solennità della discesa dello Spirito Santo.

 

La lettura tratta dagli Atti degli Apostoli, che abbiamo poc’anzi ascoltata, ricorda quanto accadde a Gerusalemme nel giorno di Pentecoste: l’improvviso vento impetuoso, l’apparizione delle lingue di fuoco, gli Apostoli che, pieni di Spirito Santo, cominciano ad annunciare il Vangelo in lingue a loro sconosciute.

 

Persone appartenenti a varie nazioni, e che usano linguaggi diversi, ascoltano parlare nelle loro proprie lingue gli Apostoli, che erano Galilei (cf. At 1, 11 ): "Li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio" ( At 2, 11 ).

 

È l’inizio solenne della missione degli Apostoli, missione ricevuta cinquanta giorni prima dal Risorto, che aveva ordinato loro: "Io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo" ( Gv 20, 21 . 22 ).

3.

"Emitte Spiritum tuum et creabuntur": "manda il tuo Spirito e saranno creati" (cf. Sal 103, 30 ).

 

Dicendo: "Ricevete lo Spirito Santo", Cristo rivela la potenza creatrice dello Spirito di Dio che, effuso sopra ogni uomo (cf. Gl 3, 1 ), ristabilisce quell’unità del genere umano infranta, a causa del peccato, presso la torre di Babele.

 

Babele è diventata il simbolo della disgregazione e della dispersione (cf. Gen 11,1-9 ). La Pentecoste costituisce invece il compimento pieno dell’unità che, per la potenza dello Spirito di verità, viene ricostruita a partire proprio dalla molteplicità dell’esistenza e delle esperienze umane.

 

Cristo è posto a capo del popolo della Nuova Alleanza: Egli è l’atteso grande Profeta. Attorno a Lui devono riunirsi "i figli e le figlie" del nuovo Israele (cf. Lumen gentium, n. 9), i quali, animati dallo Spirito che dà la vita (cf. Ez 37, 14 ), prendono personalmente parte alla missione salvifica di Cristo, Sacerdote, Profeta e Re, seguendo le sue orme, lungo i secoli ed i millenni.

4.

Il secondo millennio cristiano volge ormai al termine.

 

Consapevoli del "Tertio Millennio adveniente", del Terzo Millennio che si sta avvicinando, siamo riuniti in questo particolare Cenacolo della Chiesa, costituito questa sera presso la tomba di san Pietro. Ci guardano i quasi due millenni trascorsi, testimoniati in modo singolare da questo luogo, segnato dalle tombe di Martiri e di Confessori della fede. Qui siamo presso le reliquie degli Apostoli, colonne della Chiesa che è in Roma.

 

E si ripete in mezzo a noi, adesso, ciò che accadde la sera di Pasqua. Cristo, mediante l’Eucaristia, oltrepassa lo spazio e il tempo e si rende presente fra noi, come fece allora con gli Apostoli riuniti nel Cenacolo. Ci rivolge le stesse parole: "Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’ io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo".

5.

Ricevete lo Spirito Santo!

 

Siamo riuniti per invocare insieme il dono dello Spirito Santo per l’intera Comunità ecclesiale di Roma, chiamata a compiere un’impegnativa missione cittadina. Con questa iniziativa apostolica, la Chiesa che è in Roma intende spalancare le braccia ad ogni persona e famiglia della Città e penetrare come lievito in ogni ambito sociale, di lavoro, di sofferenza, di arte e di cultura, annunciando e testimoniando ai vicini e ai lontani il Signore risorto.

 

Carissimi Fratelli e Sorelle, vivendo in questa metropoli, che purtroppo non sfugge alle tentazioni del secolarismo, si è come sottilmente minacciati dalla stanchezza, dall’indifferenza, dal torpore spirituale e da quel relativismo in cui tutto si annacqua e si confonde. Ecco perché la grande missione cittadina, che con questa Veglia solennemente inauguriamo, è rivolta in primo luogo ai credenti. Essa è anzitutto implorazione allo Spirito Santo perché rinsaldi la nostra fede, rinnovi il nostro fervore, accenda la nostra carità.

 

Non si lasci turbare il nostro cuore dai timori e dalle perplessità. Al contrario, contando non sulle forze umane ma sulla grazia che viene da Dio, portiamo, quali testimoni della verità e dell’amore di Cristo, il Vangelo della speranza ad ogni abitante di Roma. Potremo così anche incidere sulla cultura, sui modi di vivere, sulle attese e i progetti dell’intera comunità cittadina.

6.

Chiesa che sei in Roma, il Signore ti ha amata con un amore incondizionato. Per questo sei ricca di energie spirituali e missionarie e molte di più lo Spirito, proprio attraverso la missione, ne susciterà in te.

 

Mi rivolgo anzitutto a voi, cari fratelli nel sacerdozio, consacrati per essere i primi testimoni del Vangelo e gli apostoli di verità e unità: siate i primi operatori instancabili della missione, siate santi per poter essere docili strumenti attraverso cui Dio opera la santificazione del suo popolo. È dalle parrocchie che deve partire questa missione e voi delle comunità parrocchiali siete i responsabili e i qualificati animatori.

 

E voi, cari religiosi e religiose, chiamati ad essere il segno profetico della presenza di Dio, donatevi con slancio, mediante la preghiera e le attività apostoliche, a questa Chiesa in missione. Troverete proprio in questo donarvi il gusto della vostra vocazione.

 

Penso a voi, cari fratelli e sorelle che operate pazientemente nelle parrocchie e formate il solido tessuto dell’attività pastorale quotidiana, della catechesi e del servizio della carità. Attraverso la missione potrete trovare un rinnovato vigore spirituale per trasmettere il Vangelo di Cristo nelle vostre famiglie e negli ambienti in cui lavorate. Voi, cari membri dei numerosi movimenti, organismi ed associazioni ecclesiali, assicurate alla missione cittadina la piena e fedele collaborazione, in stretta intesa con i Pastori, le parrocchie e l’intera realtà diocesana.

 

Voi, cari giovani, mettete le vostre fresche energie al servizio di questa grande impresa spirituale, superando ogni eventuale timore o rispetto umano. Proclamate con franchezza e coraggio la vostra fede in Cristo tra i vostri coetanei ed amici. Anche da voi, cari ammalati e sofferenti, e da voi che vi sentite emarginati, la missione cittadina attende un contributo in un certo senso determinante per il suo successo. Accogliendo la vostra condizione ed offrendola al Padre celeste insieme a Cristo, potete diventare una via provvidenziale e misteriosa di salvezza per Roma.

 

La missione vi appartiene, cari membri della Curia Romana e miei collaboratori al servizio della Chiesa universale, chiamati a dare il vostro qualificato contributo alla vita della Comunità cristiana, che è in Roma, ed alla preparazione del Grande Giubileo dell’Anno Duemila. Anche il vostro apporto sarà quanto mai importante per la buona riuscita di questa vasta azione evangelizzatrice.

 

La missione è fatta pure per voi, cari fratelli e sorelle giunti a Roma dalle più diverse parti del mondo. Voi ormai siete parte integrante della nostra Comunità diocesana. Grazie di essere qui con noi, questa sera, a pregare.

 

Possa la missione cittadina, dopo il Sinodo diocesano, segnare un ulteriore passo in avanti nel cammino di crescita spirituale e di comunione fra tutti i cristiani che vivono nella nostra Città.

7.

Il nostro sguardo, questa sera, non può non allargarsi alle attese della Chiesa universale, in cammino verso il Grande Giubileo del Duemila. La Chiesa cerca di prendere una coscienza più viva della presenza dello Spirito che agisce in lei, per il bene della sua comunione e missione, mediante doni sacramentali, gerarchici e carismatici.

 

Uno dei doni dello Spirito al nostro tempo è certamente la fioritura dei movimenti ecclesiali, che sin dall’inizio del mio Pontificato continuo a indicare come motivo di speranza per la Chiesa e per gli uomini. Essi "sono un segno della libertà di forme, in cui si realizza l’unica Chiesa, e rappresentano una sicura novità, che ancora attende di essere adeguatamente compresa in tutta la sua positiva efficacia per il Regno di Dio all’opera nell’oggi della storia" (Insegnamenti, VII 2[1984], p. 696). Nel quadro delle celebrazioni del Grande Giubileo, soprattutto quelle dell’anno 1998, dedicato in modo particolare allo Spirito Santo e alla sua presenza santificatrice all’interno della Comunità dei discepoli di Cristo (cf. Tertio millennio adveniente, n. 44), conto sulla comune testimonianza e sulla collaborazione dei movimenti. Confido che essi, in comunione con i Pastori ed in collegamento con le iniziative diocesane, vorranno portare nel cuore della Chiesa la loro ricchezza spirituale, educativa e missionaria, quale preziosa esperienza e proposta di vita cristiana.

8.

"Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi... Ricevete lo Spirito Santo".

 

Cristo, anche nel segno dell’Evangeliario che questa sera affido al Cardinale Vicario perché sia solennemente esposto nella Basilica di san Giovanni in Laterano, è presente e sostiene il cammino della grande missione cittadina che condurrà la Comunità ecclesiale di Roma alle soglie del terzo millennio.

 

"Anch’io mando voi... ".

 

Signore, come avvenne agli inizi della missione della Chiesa, all’alba del primo millennio, tu oggi ci invii per una nuova missione evangelizzatrice.

 

Ci affidi il compito di portare la Buona Novella nelle strade e nelle piazze di questa Città; tu vuoi che la tua Chiesa sia pellegrina di speranza e di pace nelle vie del mondo.

 

Sostieni il nostro cammino con la forza del tuo Spirito; rendici apostoli coraggiosi del Vangelo e costruttori di una nuova umanità.

 

Maria, Salus Populi Romani, che accompagnerai con la tua venerata icona il pellegrinaggio di questa notte, guida i nostri passi; ottienici la pienezza dei doni dello Spirito Santo.

 

"Emitte Spiritum tuum et creabuntur". Amen!

 

 

[Papa Giovanni Paolo II, Omelia per l’Inaugurazione della Missione cittadina, in preparazione al Grande Giubileo, 25 maggio 1996]

Anche stasera, vigilia dell’ultimo giorno del tempo di Pasqua, festa di Pentecoste, Gesù è in mezzo a noi e proclama ad alta voce: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva» (Gv 7,37-38).

È “il fiume d’acqua viva” dello Spirito Santo che scaturisce dal grembo di Gesù, dal suo fianco trafitto dalla lancia (cfr Gv 19,36), e che lava e feconda la Chiesa, mistica sposa rappresentata da Maria, nuova Eva, ai piedi della croce.

Lo Spirito Santo sgorga dal grembo di misericordia di Gesù Risorto, riempie il nostro grembo di una “misura buona, pigiata, colma e traboccante” di misericordia (cfr Lc 6,38) e ci trasforma in Chiesa-grembo di misericordia, cioè in una “madre dal cuore aperto” per tutti! Quanto vorrei che la gente che abita a Roma riconoscesse la Chiesa, ci riconoscesse per questo di più di misericordia – non per altre cose –, per questo di più di umanità e di tenerezza, di cui c’è tanto bisogno! Si sentirebbe come a casa, la “casa materna” dove si è sempre benvenuti e dove si può sempre ritornare. Si sentirebbe sempre accolta, ascoltata, ben interpretata, aiutata a fare un passo avanti nella direzione del regno di Dio… Come sa fare una madre, anche con i figli diventati ormai grandi.

Questo pensiero alla maternità della Chiesa mi fa ricordare che 75 anni fa, l’11 giugno del 1944, il Papa Pio XII compì uno speciale atto di ringraziamento e di supplica alla Vergine, per la protezione della città di Roma. Lo fece nella chiesa di Sant’Ignazio, dove era stata portata la venerata immagine della Madonna del Divino Amore. L’Amore Divino è lo Spirito Santo, che scaturisce dal Cuore di Cristo. È Lui la “roccia spirituale” che accompagna il popolo di Dio nel deserto, perché attingendone l’acqua viva possa dissetarsi lungo il cammino (cfr 1 Cor 10,4). Nel roveto che non si consuma, immagine di Maria Vergine e Madre, c’è il Cristo Risorto che ci parla, ci comunica il fuoco dello Spirito Santo, ci invita a scendere in mezzo al popolo per ascoltare il grido, ci invia per aprire il varco a cammini di libertà che portano a terre promesse da Dio.

Lo sappiamo: c’è anche oggi, come in ogni tempo, chi cerca di costruire “una città e una torre che arrivi fino al cielo” (cfr Gen 11,4). Sono i progetti umani, anche i nostri progetti, fatti al servizio di un “io” sempre più grande, verso un cielo dove non c’è più spazio per Dio. Dio ci lascia fare per un po’, in modo da farci sperimentare fino a che punto di male e di tristezza siamo capaci di arrivare senza di Lui… Ma lo Spirito del Cristo, Signore della storia, non vede l’ora di buttare all’aria tutto, per farci ricominciare! Noi siamo sempre un po’ “stretti” di sguardo e di cuore; lasciati a noi stessi finiamo per perdere l’orizzonte; arriviamo a convincerci di aver compreso tutto, di aver preso in considerazione tutte le variabili, di aver previsto cosa accadrà e come accadrà… Sono tutte costruzioni nostre che si illudono di toccare il cielo. Invece lo Spirito irrompe nel mondo dall’Alto, dal grembo di Dio, lì dove il Figlio è stato generato, e fa nuove tutte le cose.

Che cosa celebriamo oggi, tutti insieme, in questa nostra città di Roma? Celebriamo il primato dello Spirito, che ci fa ammutolire di fronte all’imprevedibilità del piano di Dio, e poi trasalire di gioia: “Allora era questo che Dio aveva in grembo per noi!”: questo cammino di Chiesa, questo passaggio, questo Esodo, questo arrivo alla terra promessa, la città-Gerusalemme dalle porte sempre aperte per tutti, dove le varie lingue dell’uomo si compongono nell’armonia dello Spirito, perché lo Spirito è l’armonia.

E se abbiamo presenti le doglie del parto, comprendiamo che il nostro gemito, quello del popolo che abita in questa città e il gemito del creato intero non sono altro che il gemito stesso dello Spirito: è il parto del mondo nuovo. Dio è il Padre e la madre, Dio è la levatrice, Dio è il gemito, Dio è il Figlio generato nel mondo e noi, Chiesa, siamo al servizio di questo parto. Non al servizio di noi stessi, non al servizio delle nostre ambizioni, di tanti sogni di potere, no: al servizio di questo che Dio fa, di queste meraviglie che Dio fa.

«Se l’orgoglio e la presunta superiorità morale non ci ottundono l’udito, ci renderemo conto che sotto il grido di tanta gente non c’è altro che un gemito autentico dello Spirito Santo. È lo Spirito che spinge ancora una volta a non accontentarsi, a cercare di rimettersi in cammino; è lo Spirito che ci salverà da ogni “risistematizzazione” diocesana» (Discorso al Convegno diocesano, 9 maggio 2019). Il pericolo è questa voglia di confondere le novità dello Spirito con un metodo di “risistematizzare” tutto. No, questo non è lo Spirito di Dio. Lo Spirito di Dio sconvolge tutto e ci fa incominciare non da capo, ma da un nuovo cammino.

Lasciamoci allora prendere per mano dallo Spirito e portare in mezzo al cuore della città per ascoltarne il grido, il gemito. A Mosè Dio dice che questo grido nascosto del Popolo è arrivato sino a Lui: Egli lo ha udito, ha visto l’oppressione e le sofferenze… E ha deciso di intervenire inviando Mosè per suscitare e alimentare il sogno di libertà degli Israeliti e rivelare loro che questo sogno è la sua stessa volontà: fare di Israele un Popolo libero, il suo Popolo, legato a Lui da un’alleanza d’amore, chiamato a testimoniare la fedeltà del Signore davanti a tutte le genti.

Ma perché Mosè possa realizzare la sua missione, Dio vuole invece che egli “scenda” con Lui in mezzo agli Israeliti. Il cuore di Mosè deve diventare come quello di Dio, attento e sensibile alle sofferenze e ai sogni degli uomini, a quello che gridano di nascosto quando alzano le mani verso il Cielo, perché non hanno più appigli sulla terra. È il gemito dello Spirito, e Mosè deve ascoltare, non con l’orecchio, con il cuore. Oggi chiede a noi, cristiani, di imparare ad ascoltare con il cuore. E il Maestro di questo ascolto è lo Spirito. Aprire il cuore perché Lui ci insegni ad ascoltare con il cuore. Aprirlo.

E per metterci in ascolto del grido della città di Roma, anche noi abbiamo bisogno che il Signore ci prenda per mano e ci faccia “scendere”, scendere dalle nostre posizioni, scendere in mezzo ai fratelli che abitano nella nostra città, per ascoltare il loro bisogno di salvezza, il grido che arriva fino a Lui e che noi abitualmente non udiamo. Non si tratta di spiegare cose intellettuali, ideologiche. A me fa piangere quando vedo una Chiesa che crede di essere fedele al Signore, di aggiornarsi quando cerca strade puramente funzionalistiche, strade che non vengono dallo Spirito di Dio. Questa Chiesa non sa scendere, e se non si scende non è lo Spirito che comanda. Si tratta di aprire occhi e orecchie, ma soprattutto il cuore, ascoltare con il cuore. Allora ci metteremo in cammino davvero. Allora sentiremo dentro di noi il fuoco della Pentecoste, che ci spinge a gridare agli uomini e alle donne di questa città che è finita la loro schiavitù e che è Cristo la via che porta alla città del Cielo. Per questo ci vuole la fede, fratelli e sorelle. Chiediamo oggi il dono della fede per andare su questa strada.

[Papa Francesco, omelia alla veglia di Pentecoste 8 giugno 2019]

(Gv 21,15-19)

 

Gesù chiama Simone con l’attributo «di Giovanni» perché lo considera ancora spiritualmente allievo del Battista (!).

Malgrado le sue oscillazioni, il Signore lo rimette in piedi.

Anche con noi, il Figlio non si stanca di riproporre un Volto di Dio amabile e invitante, capace di stupire.

Ricordiamo infatti che l’apostolo capo era stato chiamato a libertà e aveva scelto la condizione di lacchè [cf. Gv 21,9 con il «fuoco di brace» in Gv 18,18].

Così, al termine d’un gioco di riproposte, nel dialogo è Gesù stesso che si “accontenta” d’un amore di amicizia [cf. testo greco] modificando la doppia domanda «mi ami?» con la terza: «mi vuoi bene?».

 

L’amore umano attende un minimo di soddisfazione; non riesce a configurarsi in pura perdita. Aspetta qualcosina, almeno un cenno di approvazione e gratitudine.

Nessun riconoscimento? Allora è il più Forte che cede.

‘Attendere’ è l’infinito del verbo amare, perché consente di ‘nascere’ ancora.

Il sentimento umano ha fretta: regola la sua condotta sulla base del successo o delle perfezioni dell’amato.

L’Amore divino recupera, aiuta a diventare un’altra persona - non rompe l’intesa.

La sua Chiamata non è legata a meriti e prestazioni.

 

Anche attraverso le opere, dire «ti amo» è [purtroppo non di rado] una dichiarazione fatua.

O un’espressione sincera, ma spesso animata dall’entusiasmo senza radice profonda, che ad una successiva prova dei fatti trasforma il giuramento di fedeltà in sentimento fragile e incerto.

È la consapevolezza della propria impresentabilità gratuitamente redenta e trasformata in terreno di assurda fiducia che tramuta la presunzione di sé in apostolato!

Per questo Gesù chiede a Pietro d’iniziare cominciando dai piccoli del gregge (v.15).

E «pascere» (vv.15.17) o «pasturiare» (v.16) significa «alimentare»: nutrire, aver cura, proteggere, favorire; avviare, rischiare in prima persona, difendere e metterci la faccia - non “comandare”.

Pascere è farsi presente, in un continuo di rimandi. È questo clima che convince, educa, sfama e sostiene, lasciando crescere e fiorire.

 

«Pascere» non è (appunto) dominare, ma alimentare l’ideale. E cominciare dal gregge minuto (v.15).

Insomma, onde assicurarsi l’esito “felice”, il credente vero, l’amico del Signore, il figlio di Dio, non si allea con gente che conta - poi si vedrà...

Neppure deve “pescare” proseliti, bensì dilatare e rallegrare la vita.

La pienezza del “risultato” è la Gioia di ogni singola persona reale - così com’è - non “come dovrebbe essere” secondo opinione.

Infatti Gesù non chiede a Pietro: sei un buon amministratore? sei un bravo organizzatore? sei un abile animatore? sei abbastanza attrezzato, intelligente, furbo e introdotto per tener testa agli avversari?

 

[Una riflessione per il capo scout recita: «Ricorda, capo scout: se tu rallenti, essi si arrestano; se tu cedi, essi indietreggiano; se tu ti siedi, essi si sdraiano. Se tu cammini avanti, essi ti supereranno; se tu dai la tua mano, essi daranno la loro pelle»].

Dunque ‘nemico’ di Dio non è l’incertezza, ma la ricerca della “vita media”. Pantano ove non ci si getta.

 

 

[Venerdì 7.a sett. di Pasqua, 6 giugno 2025]

Mag 29, 2025

Mi ami? Ti voglio bene

Pubblicato in il Mistero

Mistero dell’Amore e dell’Eros

Gv 21,15-19 (1-19)

 

Il medesimo segno della pesca sovrabbondante, in Lc 5,1-11 non riguarda la vicenda della Chiesa dopo la Pasqua, ma si colloca addirittura nel giorno in cui Gesù invita i primi discepoli a seguirlo per diventare “pescatori” di uomini.

Il prodigio della Vocazione espande il cammino del fedele in Cristo e interessa ogni esperienza che possiamo fare del Risorto nel lavoro ordinario - e quale Missione ci è affidata per sperimentarlo Vivente.

La Chiesa non è composta da fenomeni, ma da un cocciuto e smanioso a capo [Pietro]. Qualcuno sta dentro e fuori [Tommaso], altri restano legati al passato [Natanaele], e non mancano i fanatici [i figli di Zebedeo]; quindi gli anonimi, ossia tutti noi.

Pietro si rende conto che prima di dare ordini deve fare ed esporsi lui: se così, gli altri pur insubordinati decideranno spontaneamente (v.3), dilatando la loro vita.

Ma senza la fiaccola della Parola, nessun risultato. Seguire Pietro non basta e non salva nessuno.

Ecco Gesù: sulla Riva della condizione definitiva ci chiama e ci fa strada, fa da guida all’attività, ed è finalmente Luce - l’Alba.

 

La rete va gettata dalla «parte destra» (v.6), ossia dalla parte buona!

Per tirar su persone da abissi d’acque inquinate e flutti di morte verso una possibilità di respiro o stima di sé e vita piena, bisogna iniziare e puntare al meglio di ciascuno, far emergere il bene che sempre c’è.

Richiamo per noi. Ogni cultura possiede molte qualità: si faccia leva su di esse, invece di approcciare donne e uomini, etnie o situazioni, evidenziando limiti e problemi.

Quindi il Pietro - ciascun responsabile di comunità - non deve avere preconcetti, ma svestirsi della talare di capogruppo e cingersi il grembiule da servo [v.7: il verbo greco è quello della lavanda dei piedi].

Per un lavoro che doni risultato secondo Dio (l’amore) bisogna indossare la stessa veste di Cristo - unico distintivo: l’abito di chi non dà ordini, ma li riceve.

È il tratto della Chiesa autentica - nulla di grande: non arriva su un transatlantico, ma su una «barchetta» [v.8 testo greco].

E resta di bassa misura: come un poco di lievito, per abbracciare tutti.

 

Malgrado le difficoltà a credere, i discepoli vengono costituiti araldi della notizia di Dio favorevole all’umanità che intende viaggiare verso se stessa - senza più il bagaglio dei soverchianti accumuli di maniera.

Per la comunione con Dio e i fratelli, nel cammino della vita e nel senso di rinascita che vi si annida [ad es. dopo un dolore, i travagli, esperienze di rifiuto, pensieri di fallimento e morte...] Gesù aveva fatto emergere il portato delle capacità trasmutative già in dote a ciascuno.

La sua proposta aveva soppiantato il giogo oppressivo delle perfezioni esterne predicate dalla religione, sostituite appunto con le nostre semplici virtù famigliari, colte dal di dentro. Non: combattere, bensì accogliere. Non: obbedire, ma somigliare. E così via.

La chiesa non avrebbe dovuto diventare una comunione etica di santi, ma di peccatori e indecisi. La vicenda degli apostoli increduli ci conforta: siamo già abilitati, e con attitudine alla pienezza. Ma nel suo capovolgimento.

È la risurrezione che ci manda fra gli uomini, appunto da rigenerare; proprio come noi. Quindi la condizione di apostolo non è sottoposta alla solita trafila dottrinale, moralistica, di costume, e religiosa; non tarda più ad essere assunta.

Malgrado il credere in sé rimanga fragile, facciamo di continuo esperienza di risuscitazione dalle nostre macerie - risollevando o nel migliore dei casi rigenerando l’intero organismo dello spirito, e l’universo interiore.

Tutto ciò plasma una coscienza d’inadeguatezza differente: quella nella Fede - solo positiva, perché capisce i fratelli. Li riconosce nell’intimo di sé, e in tal guisa sa giustificare le resistenze all’Annuncio.

Infatti è nel recupero dei lati opposti e nella sinergia delle contraddizioni che siamo diventati - nel proprio - esperti della difficoltà. Più in grado di cogliere i disagi; perfino il sentimento di sentirsi svuotati, che presto o tardi darà spazio al capovolgimento; inedito felice.

Poi abbiamo imparato l’ascolto delle emozioni: l’intuirsi travolti - persino nelle idee. E la necessità di cogliere e perderci nei dolori, assurdi o insopportabili. Lati dignitosi; volti di noi stessi.

Insomma, al fine di una realizzazione vocazionale, ciascuno è già “perfetto”.

Nel suo portato di energie difformi, deve solo imparare a incontrare i rilievi di sé cui ancora non ha fatto largo.

Come se dentro di noi avessimo una molteplicità di aspetti, spesso tutti da scoprire, dietro un qualche guscio che resiste - i quali ci completano e guidano infallibilmente alla fioritura personale e sociale.

 

Così nell’esodo passiamo dall’esperienza di morte-risurrezione alla vera testimonianza - nella spontanea franchezza di venire abilitati come evangelizzatori.

Cosa che ci sorprende. Ma adesso il Messaggio fa corpo con noi stessi.

Diventa Richiamo di pace, però esplosivo - incredibile, e lo si vede più dai limiti (ora nulla da temere) che dall’abilità, o dallo stile esterno, dalla capacità di allestire cattedre sentenziose, nonché vetrine.

Dopo Cristo non bisogna più “migliorare” secondo accezione comune - né attesa, o proposito, che guardino e si abbeverino alla fonte del già detto da altri [in passato, o per la moda] che poi ricolloca nella medesima situazione prevedibile di sempre.

Per i malfermi apostoli, il consenso, la religione antica o glamour, l’identificazione, erano la negazione di se stessi nel cuore.

Viceversa la Chiamata per Nome diveniva lo sviluppo di ciò che ognuno era nel profondo e che non si era dato, manipolandosi.

Strada della realizzazione di sé, anche nel contributo ai fratelli. Anch’essi non intimamente dissociati.

Unica arma convincente, la genuinità - che arde dentro per farci santuari, inconsapevoli e incompleti ma viventi.

Contemplativi e in azione. Sola via per incontrare le anime.

 

Siamo collaboratori del grembiule, per dialogare con chi ha bisogno di recupero, in qualsiasi condizione di vortice o periferia si trovi.

Pertanto, «pascere» (vv.15-17) significa precedere e nutrire, non comandare.

Coloro che guidano devono essere segno di un Dio che non si stufa né ripicca.

Volto amabile e invitante di Colui che è capace di stupire e rimettere in piedi pure Simone. L’apostolo a capo, che era stato chiamato a libertà e aveva scelto la condizione di lacchè [cf. Gv 21,9; con il «fuoco di brace» in Gv 18,18].

 

Al termine d’un gioco di riproposte, nel dialogo con lo stesso Simone - «di Giovanni» perché ancora spiritualmente allievo del Battista (!) - è Gesù che si “accontenta” d’un amore di amicizia [cf. testo greco] modificando la doppia domanda «mi ami?» con la terza: «mi vuoi bene?».

L’amore umano attende un minimo di soddisfazione, non riesce a configurarsi in pura perdita - aspetta qualcosina, almeno un cenno di approvazione e gratitudine.

Nessun riconoscimento? Allora è il più Forte che cede.

‘Attendere’ è l’infinito del verbo ‘amare’, perché consente di nascere ancora.

Il sentimento umano ha fretta: regola la sua condotta sulla base del successo o delle perfezioni dell’amato.

L’Amore divino recupera; aiuta a diventare un’altra ‘persona’, a tutto tondo - non rompe l’intesa.

La sua Chiamata non è legata a meriti e prestazioni: anche attraverso le opere, dire «ti amo» è (purtroppo non di rado) una dichiarazione fatua.

O un’espressione sincera, ma spesso animata dall’entusiasmo senza radice profonda, che ad una successiva prova dei fatti trasforma il giuramento di fedeltà in sentimento fragile e incerto.

È la consapevolezza della propria impresentabilità gratuitamente redenta e trasformata in terreno di assurda fiducia, che tramuta la presunzione di sé in apostolato!

Per questo Gesù chiede a Pietro d’iniziare cominciando dai piccoli del gregge (v.15).

E «pascere» (vv.15.17) o «pasturiare» (v.16) significa «alimentare»: nutrire, aver cura, proteggere, favorire; avviare, rischiare in prima persona, difendere e metterci la faccia - non “comandare”.

Pascere è farsi presente, in un continuo di rimandi. È questo clima che convince, educa, sfama e sostiene, lasciando crescere e fiorire.

 

«Pascere» non è [appunto] dominare, ma alimentare l’ideale. E cominciare dal gregge minuto (v.15).

Insomma, onde assicurarsi l’esito “felice”, il credente vero, l’amico del Signore, il figlio di Dio, non si allea con gente che conta, poi si vedrà.

Neppure deve “pescare” proseliti, bensì dilatare e rallegrare la vita.

La pienezza del ‘risultato’ è la Felicità di ogni singola persona reale - così com’è - non come “dovrebbe essere” secondo opinione acclarata.

Infatti Gesù non chiede a Pietro: sei un buon amministratore? sei un bravo organizzatore? sei un abile animatore? sei abbastanza attrezzato, intelligente, furbo e introdotto per tener testa agli avversari?

 

Dunque “nemico” di Dio non è l’incertezza o il peccato - ossessione che genera squilibrati - bensì la ricerca della “vita media”. Pantano ove non ci si getta.

 

[Una riflessione per il capo scout recita: «Ricorda, capo scout: se tu rallenti, essi si arrestano; se tu cedi, essi indietreggiano; se tu ti siedi, essi si sdraiano. Se tu cammini avanti, essi ti supereranno; se tu dai la tua mano, essi daranno la loro pelle»].

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Sei un inviato o un semplice ammiratore?

Qual è la tua personale Sorgente?

Qual è la Fonte delle tue relazioni?

E la radice della fedeltà e di ogni generosità che ti trascina, e mostri?

 

 

Amore totale e non

 

La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà. Anche Pietro deve imparare a essere debole e bisognoso di perdono. Quando finalmente gli cade la maschera e capisce la verità del suo cuore debole di peccatore credente, scoppia in un liberatorio pianto di pentimento. Dopo questo pianto egli è ormai pronto per la sua missione.

In un mattino di primavera questa missione gli sarà affidata da Gesù risorto. L’incontro avverrà sulle sponde del lago di Tiberiade. E’ l’evangelista Giovanni a riferirci il dialogo che in quella circostanza ha luogo tra Gesù e Pietro. Vi si rileva un gioco di verbi molto significativo. In greco il verbo “filéo” esprime l’amore di amicizia, tenero ma non totalizzante, mentre il verbo “agapáo” significa l’amore senza riserve, totale ed incondizionato. Gesù domanda a Pietro la prima volta: «Simone... mi ami tu (agapâs-me)” con questo amore totale e incondizionato (cfr Gv 21,15)? Prima dell’esperienza del tradimento l’Apostolo avrebbe certamente detto: “Ti amo (agapô-se) incondizionatamente”. Ora che ha conosciuto l’amara tristezza dell’infedeltà, il dramma della propria debolezza, dice con umiltà: “Signore, ti voglio bene (filô-se)”, cioè “ti amo del mio povero amore umano”. Il Cristo insiste: “Simone, mi ami tu con questo amore totale che io voglio?”. E Pietro ripete la risposta del suo umile amore umano: “Kyrie, filô-se”, “Signore, ti voglio bene come so voler bene”. Alla terza volta Gesù dice a Simone soltanto: “Fileîs-me?”, “mi vuoi bene?”. Simone comprende che a Gesù basta il suo povero amore, l’unico di cui è capace, e tuttavia è rattristato che il Signore gli abbia dovuto dire così. Gli risponde perciò: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene (filô-se)”. Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù! E’ proprio questo adeguamento divino a dare speranza al discepolo, che ha conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Da qui nasce la fiducia che lo rende capace della sequela fino alla fine: «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: “Seguimi”» (Gv 21,19).

Da quel giorno Pietro ha “seguito” il Maestro con la precisa consapevolezza della propria fragilità; ma questa consapevolezza non l’ha scoraggiato. Egli sapeva infatti di poter contare sulla presenza accanto a sé del Risorto. Dagli ingenui entusiasmi dell’adesione iniziale, passando attraverso l’esperienza dolorosa del rinnegamento ed il pianto della conversione, Pietro è giunto ad affidarsi a quel Gesù che si è adattato alla sua povera capacità d’amore. E mostra così anche a noi la via, nonostante tutta la nostra debolezza. Sappiamo che Gesù si adegua a questa nostra debolezza. Noi lo seguiamo, con la nostra povera capacità di amore e sappiamo che Gesù è buono e ci accetta.

(Papa Benedetto, Udienza Generale 24 maggio 2006)

La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà. Anche Pietro deve imparare a essere debole e bisognoso di perdono. Quando finalmente gli cade la maschera e capisce la verità del suo cuore debole di peccatore credente, scoppia in un liberatorio pianto di pentimento. Dopo questo pianto egli è ormai pronto per la sua missione.

In un mattino di primavera questa missione gli sarà affidata da Gesù risorto. L’incontro avverrà sulle sponde del lago di Tiberiade. E’ l’evangelista Giovanni a riferirci il dialogo che in quella circostanza ha luogo tra Gesù e Pietro. Vi si rileva un gioco di verbi molto significativo. In greco il verbo “filéo” esprime l’amore di amicizia, tenero ma non totalizzante, mentre il verbo “agapáo” significa l’amore senza riserve, totale ed incondizionato. Gesù domanda a Pietro la prima volta: «Simone... mi ami tu (agapâs-me)” con questo amore totale e incondizionato (cfr Gv 21,15)? Prima dell’esperienza del tradimento l’Apostolo avrebbe certamente detto: “Ti amo (agapô-se) incondizionatamente”. Ora che ha conosciuto l’amara tristezza dell’infedeltà, il dramma della propria debolezza, dice con umiltà: “Signore, ti voglio bene (filô-se)”, cioè “ti amo del mio povero amore umano”. Il Cristo insiste: “Simone, mi ami tu con questo amore totale che io voglio?”. E Pietro ripete la risposta del suo umile amore umano: “Kyrie, filô-se”, “Signore, ti voglio bene come so voler bene”. Alla terza volta Gesù dice a Simone soltanto: “Fileîs-me?”, “mi vuoi bene?”. Simone comprende che a Gesù basta il suo povero amore, l’unico di cui è capace, e tuttavia è rattristato che il Signore gli abbia dovuto dire così. Gli risponde perciò: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene (filô-se)”. Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù! E’ proprio questo adeguamento divino a dare speranza al discepolo, che ha conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Da qui nasce la fiducia che lo rende capace della sequela fino alla fine: «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: “Seguimi”» (Gv 21,19).

Da quel giorno Pietro ha “seguito” il Maestro con la precisa consapevolezza della propria fragilità; ma questa consapevolezza non l’ha scoraggiato. Egli sapeva infatti di poter contare sulla presenza accanto a sé del Risorto. Dagli ingenui entusiasmi dell’adesione iniziale, passando attraverso l’esperienza dolorosa del rinnegamento ed il pianto della conversione, Pietro è giunto ad affidarsi a quel Gesù che si è adattato alla sua povera capacità d’amore. E mostra così anche a noi la via, nonostante tutta la nostra debolezza. Sappiamo che Gesù si adegua a questa nostra debolezza. Noi lo seguiamo, con la nostra povera capacità di amore e sappiamo che Gesù è buono e ci accetta.

[Papa Benedetto, Udienza Generale 24 maggio 2006]

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Jesus contrasts the ancient prohibition of perjury with that of not swearing at all (Matthew 5: 33-38), and the reason that emerges quite clearly is still founded in love: one must not be incredulous or distrustful of one's neighbour when he is habitually frank and loyal, and rather one must on the one hand and on the other follow this fundamental law of speech and action: "Let your language be yes if it is yes; no if it is no. The more is from the evil one" (Mt 5:37) [John Paul II]
Gesù contrappone all’antico divieto di spergiurare, quello di non giurare affatto (Mt 5, 33-38), e la ragione che emerge abbastanza chiaramente è ancora fondata nell’amore: non si deve essere increduli o diffidenti col prossimo, quando è abitualmente schietto e leale, e piuttosto occorre da una parte e dall’altra seguire questa legge fondamentale del parlare e dell’agire: “Il vostro linguaggio sia sì, se è sì; no, se è no. Il di più viene dal maligno” (Mt 5, 37) [Giovanni Paolo II]
And one thing is the woman before Jesus, another thing is the woman after Jesus. Jesus dignifies the woman and puts her on the same level as the man because he takes that first word of the Creator, both are “God’s image and likeness”, both; not first the man and then a little lower the woman, no, both. And the man without the woman next to him - both as mother, as sister, as bride, as work partner, as friend - that man alone is not the image of God (Pope Francis)
E una cosa è la donna prima di Gesù, un’altra cosa è la donna dopo Gesù. Gesù dignifica la donna e la mette allo stesso livello dell’uomo perché prende quella prima parola del Creatore, tutti e due sono “immagine e somiglianza di Dio”, tutti e due; non prima l’uomo e poi un pochino più in basso la donna, no, tutti e due. E l’uomo senza la donna accanto – sia come mamma, come sorella, come sposa, come compagna di lavoro, come amica – quell’uomo solo non è immagine di Dio (Papa Francesco)
Only one creature has already scaled the mountain peak: the Virgin Mary. Through her union with Jesus, her righteousness was perfect: for this reason we invoke her as Speculum iustitiae. Let us entrust ourselves to her so that she may guide our steps in fidelity to Christ’s Law (Pope Benedict)
Una sola creatura è già arrivata alla cima della montagna: la Vergine Maria. Grazie all’unione con Gesù, la sua giustizia è stata perfetta: per questo la invochiamo Speculum iustitiae. Affidiamoci a lei, perché guidi anche i nostri passi nella fedeltà alla Legge di Cristo (Papa Benedetto)
Jesus showed us with a new clarity the unifying centre of the divine laws revealed on Sinai […]  Indeed, in his life and in his Paschal Mystery Jesus brought the entire law to completion.  Uniting himself with us through the gift of the Holy Spirit, he carries with us and in us the “yoke” of the law, which thereby becomes a “light burden” (Pope Benedict)
Gesù ci ha mostrato con una nuova chiarezza il centro unificante delle leggi divine rivelate sul Sinai […] Anzi, Gesù nella sua vita e nel suo mistero pasquale ha portato a compimento tutta la legge. Unendosi con noi mediante il dono dello Spirito Santo, porta con noi e in noi il "giogo" della legge, che così diventa un "carico leggero" (Papa Benedetto)
The light of our faith, in giving of oneself, does not fade but strengthens. However it can weaken if we do not nourish it with love and with charitable works. In this way the image of light complements that of salt. The Gospel passage, in fact, tells us that, as disciples of Christ, we are also “the salt of the earth” (Pope Francis)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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