don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Maria nella Chiesa, che genera i figli

(Gv 19,25-34)

 

Il breve passo di Vangelo ai vv.25-27 è forse il vertice artistico del racconto della Passione.

Nel quarto Vangelo la Madre appare due volte, alle nozze di Cana e ai piedi della Croce - entrambi episodi presenti solo in Gv.

Sia a Cana che ai piedi della Croce, la Madre è figura del resto d’Israele autenticamente sensibile e fedele.

Il popolo-sposa del Primo Testamento è come in attesa della reale Rivelazione: percepisce tutto il limite dell’idea antica di Dio, che ha ridotto e spento la gioia della festa nuziale tra il Padre e i suoi figli.

L’Israele autenticamente adorante ha suscitato il passaggio dalla religiosità alla Fede che opera, dalla legge antica al Nuovo Testamento.

Ai piedi della Croce viene generato un Regno alternativo.

Si formano padri e madri di un’umanità diversa, che proclamano la Lieta Notizia di Dio - stavolta in favore esclusivo di ogni uomo, in qualsiasi condizione si trovi.

Nell'intento teologico di Gv, le Parole di Gesù «Donna, ecco tuo figlio» ed «Ecco, la tua Madre» volevano aiutare a dirimere e armonizzare le forti tensioni che a fine primo secolo già contrapponevano le diverse correnti di pensiero sul Cristo.

Tra esse: Giudaizzanti; sostenitori del primato della fede sulle opere; Lassisti, che consideravano ormai Gesù anatema, intendendo soppiantarlo con una generica libertà di spirito senza storia.

A inizio secondo secolo Marcione rifiutò tutto il Primo Testamento e sembra apprezzasse solo una parte del Nuovo.

A coloro che ormai volevano prescindere dall’insegnamento dei ‘padri’, Gesù propone di far camminare insieme passato e novità.

Il discepolo amato, icona dell’autentico figlio di Dio [Parola-evento diffusa del Nuovo Testamento] deve ricevere la Madre, la cultura del popolo del Patto, a casa sua - ossia nella Chiesa nascente.

Eppure, anche se è nella comunità cristiana che si scopre il senso pieno di tutta la Scrittura, la Persona, la vicenda e la Parola di Cristo stesso non si comprendono né porteranno frutto concreto coi tanti sogni in avanti, senza la radice antica che lo ha generato.

Non bastano le sole proiezioni, che pur scuotono le prigioni mentali, spesso edifici di false certezze: il Seme non è nemico da combattere, ma virtù che viene dal profondo.

L’Alleanza è preziosa, dà l’autentica scossa alla vita. Così fioriscono nuovi rapporti famigliari: allora nasce la Chiesa.

 

E la Chiesa suscitata dal suo Signore rivelerà qualcosa di portentoso: la fecondità dalla nullità, la vita dall’effusione di essa, la nascita dall’apparente sterilità.

In Maria e nelle icone fedeli generate dal petto di Cristo - inscindibili nella Missione - l’intima cooperazione s’intensifica dei momenti di un’esistenza comunitaria umile e silenziosa.

Nel perfetto adorare l’identità-carattere del Crocifisso e nel movimento del dono di sé, incede la libertà del calarsi.

Se qualcuno si deposita, il nuovo avanzerà.

E anche il vecchio potrà riemergere, stavolta perenne. Perché ci sono altre Altezze. Perché ciò che rende intimi a Dio non è nulla di esterno.

Un fiume di sintonie impensate riallaccerà lo spirito umano dei credenti all’opera materna dello Spirito senza barriere.

Dice il Tao Tê Ching (xxii): «Se ti pieghi, ti conservi; Se ti curvi, ti raddrizzi; Se t’incavi, ti riempi; Se ti logori, ti rinnovi; Se miri al poco, ottieni; Se miri al molto, resti deluso. Per questo il santo preserva l’Uno [il massimo del poco], e diviene modello [porge la misura] al mondo. Non da sé vede, perciò è illuminato; non da sé s’approva, perciò splende; non da sé si gloria, perciò ha merito; non da sé s’esalta, perciò a lungo dura. Proprio perché non contende, nessuno al mondo può muovergli contesa. Quel che dicevano gli antichi: se ti pieghi ti conservi, erano forse parole vuote? In verità, integri tornavano».

 

In tal guisa, nel silenzio non ci opporremo ai disagi. Il corpo offeso parlerà, manifestando l’anima e colmando la vita, in un crescendo.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

In che modo entri nel ritmo di questo passo di Vangelo? In quale personaggio ti riconosci, o perché ti rivedi in tutti? Qual è in ciascuno di loro la tua misura, che doni al mondo?

 

 

Sangue Acqua: Corpo ancora squarciato

 

Sangue e Acqua: vita donata e vita trasmessa

(Gv 19,31-37)

 

La crudele dipartita del Signore non è una fine: inaugura la vita nuova, sebbene fra segni raccapriccianti e di morte vera.

Il Crocifisso salva: comunica una vita da salvati. Ci fa passare da un mondo all’altro: solo in tal senso la Pasqua antica coincide con la nuova.

La sua è una Liberazione e Redenzione che procede ben oltre le promesse rituali dei sacrifici propiziatori, e la religione delle purificazioni.

Il Sangue del Cristo è qui figura del Dono estremo d’Amore. L’Acqua dal medesimo costato trafitto è quella che viene assimilata e fa crescere.

Tale Amicizia sovreminente, donata e accolta, vince ogni forma di morte, perché offre un doppio principio di vita indistruttibile: accoglienza di una proposta sempre inedita, e crescita di onda in onda.

Così la festa di liberazione ebraica viene sostituita dalla Pasqua cristiana - e dai segni dei Sacramenti essenziali.

Nel corpo di Gesù e in quello degli uomini crocifissi al suo fianco, Gv vede la fraternità del Figlio col genere umano, anch’esso reso Santuario divino.

Morto Gesù, anche noi possiamo seguirlo [malfattori cui sono spezzate le gambe] perché nessuno può togliere la vita al Risorto, anche se poi cerca di farlo agli sventurati con Lui.

Infatti la ‘trafittura’ al Corpo di Cristo continua anche dopo la morte in Croce (v.34): l’ostilità nei suoi confronti non si placherà, anzi vuol annientarlo per sempre.

Ma dal suo Corpo squarciato [la Chiesa autentica] continuerà a sgorgare amore da vertigini e finalmente la gioia d’un banchetto festoso, come promesso sin dalle nozze di Cana.

La testimonianza dell’evangelista diventa solenne fondamento della Fede dei discepoli futuri. E la Fede soppianterà il giogo della religione già tutta redatta.

Così l’autore invita ciascuno di noi a scrivere un proprio Vangelo (Gv 20,30-31) nell’esperienza dei paradossi e della salvezza di Dio, che ci ha raggiunto a partire proprio dai nostri peccati o situazioni incerte.

I discepoli futuri sono proclamati Beati (Gv 20,29) proprio perché «non hanno visto» quello spettacolo con gli occhi.

Lo hanno però riconosciuto in se stessi e nel proprio andare - ripetutamente sperimentando nelle proprie debolezze il luogo della Misericordia.

 

 

Senso Materno, non Chiesa di zitelli

 

A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».

«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria».

«Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» — e in realtà «potevano dirlo» — ma sempre Maria «è madre».

«I padri della Chiesa hanno capito bene questo — ha affermato il Pontefice — e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».

«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa — ha fatto presente il Papa — possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».

«La Chiesa è “donna” — ha rilanciato Francesco — e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».

«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».

Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».

Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».

«San Paolo — l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato — ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».

«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».

[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 22/05/2018]

La Croce di Cristo è strumento della nostra salvezza, che ci rivela in pienezza la misericordia del nostro Dio. La Croce è, in effetti, il luogo in cui si manifesta in modo perfetto la compassione di Dio per il nostro mondo. Oggi, celebrando la memoria della Beata Vergine Addolorata, contempliamo Maria che condivide la compassione del Figlio per i peccatori. Come affermava san Bernardo, la Madre di Cristo è entrata nella Passione del Figlio mediante la sua compassione (cfr Omelia per la Domenica nell’Ottava dell’Assunzione). Ai piedi della Croce si realizza la profezia di Simeone: il suo cuore di Madre è trafitto (cfr Lc 2,35) dal supplizio inflitto all’Innocente, nato dalla sua carne. Come Gesù ha pianto (cfr Gv 11,35), così anche Maria ha certamente pianto davanti al corpo torturato del Figlio. La sua riservatezza, tuttavia, ci impedisce di misurare l’abisso del suo dolore; la profondità di questa afflizione è soltanto suggerita dal simbolo tradizionale delle sette spade. Come per il suo Figlio Gesù, è possibile affermare che questa sofferenza ha portato anche lei alla perfezione (cfr Eb 2, 10), così da renderla capace di accogliere la nuova missione spirituale che il Figlio le affida immediatamente prima di “emettere lo spirito” (cfr Gv 19,30): divenire la Madre di Cristo nelle sue membra. In quest’ora, attraverso la figura del discepolo amato, Gesù presenta ciascuno dei suoi discepoli alla Madre dicendole: “Ecco tuo figlio” (cfr Gv 19, 26-27).

Maria è oggi nella gioia e nella gloria della Risurrezione. Le lacrime versate ai piedi della Croce si sono trasformate in un sorriso che nulla ormai spegnerà, pur rimanendo intatta la sua compassione materna verso di noi. L’intervento soccorrevole della Vergine Maria nel corso della storia lo attesta e non cessa di suscitare verso di lei, nel Popolo di Dio, una confidenza incrollabile: la preghiera del Memorare (“Ricordati”) esprime molto bene questo sentimento. Maria ama ciascuno dei suoi figli, concentrando in particolare la sua attenzione su coloro che, come il Figlio suo nell’ora della Passione, sono in preda alla sofferenza; li ama semplicemente perché sono suoi figli, secondo la volontà di Cristo sulla Croce.

Il Salmista, intravedendo da lontano questo legame materno che unisce la Madre di Cristo e il popolo credente, profetizza a riguardo della Vergine Maria: “i più ricchi del popolo cercheranno il tuo sorriso” (Sal 44,13). Così, sollecitati dalla Parola ispirata della Scrittura, i cristiani da sempre hanno cercato il sorriso di Nostra Signora, quel sorriso che gli artisti, nel Medioevo, hanno saputo così prodigiosamente rappresentare e valorizzare. Questo sorriso di Maria è per tutti: esso tuttavia si indirizza in modo speciale verso coloro che soffrono, affinché in esso possano trovare conforto e sollievo. Cercare il sorriso di Maria non è questione di sentimentalismo devoto o antiquato; è piuttosto la giusta espressione della relazione viva e profondamente umana che ci lega a Colei che Cristo ci ha donato come Madre.

Desiderare di contemplare questo sorriso della Vergine non è affatto un lasciarsi dominare da una immaginazione incontrollata. La Scrittura stessa ci svela tale sorriso sulle labbra di Maria quando ella canta il Magnificat: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore” (Lc 1,46-47). Quando la Vergine Maria rende grazie al Signore, ci prende a suoi testimoni. Maria condivide, come per anticipazione, con i futuri figli che siamo noi la gioia che abita nel suo cuore, affinché tale gioia diventi anche nostra. Ogni proclamazione del Magnificat  fa di noi dei testimoni del suo sorriso. Qui a Lourdes, nel corso dell’apparizione del 3 marzo 1858, Bernadette contemplò in maniera del tutto speciale questo sorriso di Maria. Fu questa la prima risposta che la Bella Signora diede alla giovane veggente che voleva conoscere la sua identità. Prima di presentarsi a lei, qualche giorno dopo, come “l’Immacolata Concezione”, Maria le fece conoscere innanzitutto il suo sorriso, quasi fosse questa la porta d’accesso più appropriata alla rivelazione del suo mistero.

Nel sorriso della più eminente fra tutte le creature, a noi rivolta, si riflette la nostra dignità di figli di Dio, una dignità che non abbandona mai chi è malato. Quel sorriso, vero riflesso della tenerezza di Dio, è la sorgente di una speranza invincibile. Lo sappiamo purtroppo: la sofferenza prolungata rompe gli equilibri meglio consolidati di una vita, scuote le più ferme certezze della fiducia e giunge a volte a far addirittura disperare del senso e del valore della vita. Vi sono combattimenti che l’uomo non può sostenere da solo, senza l’aiuto della grazia divina. Quando la parola non sa più trovare espressioni adeguate, s’afferma il bisogno di una presenza amorevole: cerchiamo allora la vicinanza non soltanto di coloro che condividono il nostro stesso sangue o che ci sono legati con i vincoli dell’amicizia, ma la vicinanza anche di coloro che ci sono intimi per il legame della fede. Chi potrebbe esserci più intimo di Cristo e della sua santa Madre, l’Immacolata? Più di chiunque altro, essi sono capaci di comprenderci e di cogliere la durezza del combattimento ingaggiato contro il male e la sofferenza. La Lettera agli Ebrei afferma, a proposito di Cristo, che egli non è incapace di “compatire le nostre debolezze, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa” (Eb 4,15). Vorrei dire, umilmente, a coloro che soffrono e a coloro che lottano e sono tentati di voltare le spalle alla vita: volgetevi a Maria! Nel sorriso della Vergine si trova misteriosamente nascosta la forza per proseguire il combattimento contro la malattia e in favore della vita. Presso di lei si trova ugualmente la grazia di accettare senza paura né amarezza il congedo da questo mondo, nell’ora voluta da Dio.

Quanto era giusta l’intuizione di quella bella figura spirituale francese che fu Dom Jean-Baptiste Chautard, il quale ne L’anima di ogni apostolato proponeva al cristiano fervoroso frequenti “incontri di sguardo con la Vergine Maria” ! Sì, cercare il sorriso della Vergine Maria non è un pio infantilismo; è l’ispirazione, dice il Salmo 44, di coloro che sono “i più ricchi del popolo”(v. 13). “I più ricchi”, s’intende, nell’ordine della fede, coloro che hanno la maturità spirituale più elevata e sanno per questo riconoscere la loro debolezza e la loro povertà davanti a Dio. In quella manifestazione molto semplice di tenerezza che è il sorriso, percepiamo che la nostra unica ricchezza è l’amore che Dio ha per noi e che passa attraverso il cuore di colei che è diventata nostra Madre. Cercare questo sorriso significa innanzitutto cogliere la gratuità dell’amore; significa pure saper suscitare questo sorriso col nostro impegno di vivere secondo la parola del suo Figlio diletto, così come il bambino cerca di suscitare il sorriso della madre facendo ciò che a lei piace. E noi sappiamo ciò che piace a Maria grazie alle parole che lei stessa rivolse ai servi di Cana: “Fate quello che vi dirà” (cfr Gv 2,5)

Il sorriso di Maria è una sorgente di acqua viva. “Chi crede in me, ha detto Gesù, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno” (Gv 7,38). Maria è colei che ha creduto e, dal suo seno, sono sgorgati fiumi d’acqua viva che vengono ad irrigare la storia degli uomini. La sorgente indicata, qui a Lourdes, da Maria a Bernadette è l’umile segno di questa realtà spirituale. Dal suo cuore di credente e di madre sgorga un’acqua viva che purifica e guarisce. Immergendosi nelle piscine di Lourdes, quanti sono coloro che hanno scoperto e sperimentato la dolce maternità della Vergine Maria, attaccandosi a lei per meglio attaccarsi al Signore! Nella sequenza liturgica di questa festa della Beata Vergine Addolorata, Maria è onorata sotto il titolo di “Fons amoris”, “Sorgente d’amore”. Dal cuore di Maria scaturisce, in effetti, un amore gratuito che suscita una risposta filiale, chiamata ad affinarsi senza posa. Come ogni madre, e meglio di ogni madre, Maria è l’educatrice dell’amore. E’ per questo che tanti malati vengono qui, a Lourdes, per dissetarsi a questa “Sorgente d’amore” e per lasciarsi condurre all’unica sorgente della salvezza, il Figlio suo, Gesù Salvatore.

Cristo dispensa la sua salvezza attraverso i Sacramenti e, in modo speciale, alle persone che soffrono di malattie o che sono portatrici di un handicap, attraverso la grazia dell’Unzione degli infermi. Per ciascuno la sofferenza è sempre una straniera. La sua presenza non è mai addomesticabile. Per questo è difficile sopportarla, e più difficile ancora – come hanno fatto certi grandi testimoni della santità di Cristo – accoglierla come parte integrante della propria vocazione, o accettare, secondo l’espressione di Bernadette, di “tutto soffrire in silenzio per piacere a Gesù” Per poter dire ciò è necessario aver già percorso un lungo cammino in unione con Gesù. In compenso, è possibile già subito rimettersi alla misericordia di Dio così come essa si manifesta mediante la grazia del Sacramento dei malati. Bernadette stessa, nel corso di un’esistenza spesso segnata dalla malattia, ricevette questo Sacramento quattro volte. La grazia propria del Sacramento consiste nell’accogliere in sé Cristo medico. Cristo tuttavia non è medico alla maniera del mondo. Per guarirci, egli non resta fuori della sofferenza che si sperimenta; la allevia venendo ad abitare in colui che è colpito dalla malattia, per sopportarla e viverla con lui. La presenza di Cristo viene a rompere l’isolamento che il dolore provoca. L’uomo non porta più da solo la sua prova ma, in quanto membro sofferente di Cristo, viene conformato a Lui che si offre al Padre, e in Lui partecipa al parto della nuova creazione. 

Senza l’aiuto del Signore, il giogo della malattia e della sofferenza è crudelmente pesante. Nel ricevere il Sacramento dei malati, noi non desideriamo portare altro giogo che quello di Cristo, forti della promessa che Egli ci ha fatto, che cioè il suo giogo sarà facile da portare e il suo peso leggero (cfr Mt 11,30). Invito le persone che riceveranno l’Unzione dei malati nel corso di questa Messa a entrare in una simile speranza.

Il Concilio Vaticano II ha presentato Maria come la figura nella quale è riassunto tutto il mistero della Chiesa (cfr LG, 63-65). La sua vicenda personale ripropone il profilo della Chiesa, che è invitata ad essere attenta quanto lei alle persone che soffrono. Rivolgo un saluto affettuoso ai componenti del Servizio sanitario e infermieristico, come pure a tutte le persone che, a titoli diversi, negli ospedali e in altre istituzioni, contribuiscono alla cura dei malati con competenza e generosità. Ugualmente al personale di accoglienza, ai barellieri e agli accompagnatori che, provenendo da tutte le diocesi di Francia ed anche da più lontano, si prodigano lungo tutto l’anno intorno ai malati che vengono in pellegrinaggio a Lourdes, vorrei dire quanto il loro servizio è prezioso. Essi sono le braccia della Chiesa, umile serva. Desidero infine incoraggiare coloro che, in nome della loro fede, accolgono e visitano i malati, in particolare nelle cappellanie degli ospedali, nelle parrocchie o, come qui, nei santuari. Possiate sentire sempre in questa importante e delicata  missione il sostegno efficace e fraterno delle vostre comunità! A questo riguardo, saluto e ringrazio particolarmente i miei fratelli nell’episcopato, i vescovi francesi, i vescovi stranieri e tutti i preti che accompagnano i malati e gli uomini toccati dalla sofferenza nel mondo. Grazie per il vostro servizio al Signore sofferente.

Il servizio di carità che voi rendete è un servizio mariano. Maria vi affida il suo sorriso, affinché diventiate voi stessi, nella fedeltà al Figlio suo, sorgenti di acqua viva. Quello che voi fate, lo fate a nome della Chiesa, di cui Maria è l’immagine più pura. Possiate voi portare il suo sorriso a tutti!

Concludendo, desidero unirmi alla preghiera dei pellegrini e dei malati e riprendere insieme con voi uno stralcio della preghiera a Maria per la celebrazione di questo Giubileo: 

“Poiché tu sei il sorriso di Dio, il riflesso della luce di Cristo, la dimora dello Spirito Santo,

poiché tu hai scelto Bernadette  nella sua miseria, tu che sei la stella del mattino, la porta del cielo e la prima creatura risorta,

Nostra Signora di Lourdes”, con i nostri fratelli e le nostre sorelle i cui cuori e i cui corpi sono dolenti, noi ti preghiamo!

[Papa Benedetto, Lourdes 15 settembre 2008]

Presso la Croce, Maria è partecipe del dramma della Redenzione (Gv 19, 17-28.25).

1. Regina caeli laetare, alleluia!

Così canta la Chiesa in questo tempo di Pasqua, invitando i fedeli ed unirsi al gaudio spirituale di Maria, Madre del Risorto. La gioia della Vergine per la risurrezione di Cristo è ancor più grande se si considera l'intima sua partecipazione all'intera vita di Gesù.

Maria, accettando con piena disponibilità la parola dell'angelo Gabriele, che le annunciava che sarebbe diventata la Madre del Messia, iniziava la sua partecipazione al dramma della redenzione. Il suo coinvolgimento nel sacrificio del Figlio, svelato da Simeone nel corso della presentazione al Tempio, continua non solo nell'episodio dello smarrimento e del ritrovamento di Gesù dodicenne, ma anche durante tutta la sua vita pubblica.

Tuttavia, l'associazione della Vergine alla missione di Cristo raggiunge il culmine in Gerusalemme, al momento della passione e morte del Redentore. Come attesta il quarto Vangelo, Ella in quei giorni si trova nella Città Santa, probabilmente per la celebrazione della Pasqua ebraica.

2. Il Concilio sottolinea la dimensione profonda della presenza della Vergine sul Calvario, ricordando che Ella "serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce" (Lumen gentium, 58), e fa presente che tale unione "nell'opera della redenzione si manifesta dal momento della concezione verginale di Cristo fino alla morte di Lui" (Ivi, 57).

Con lo sguardo illuminato dal fulgore della risurrezione, ci soffermiamo a considerare l'adesione della Madre alla passione redentrice del Figlio, che si compie nella partecipazione al suo dolore. Torniamo nuovamente, ma nella prospettiva ormai della risurrezione, ai piedi della croce, dove la Madre "soffrì profondamente col suo Unigenito e si associò con animo materno al sacrificio di Lui, amorosamente consenziente all'immolazione della vittima da Lei generata" (Ivi, 58).

Con queste parole il Concilio ci ricorda la "compassione di Maria", nel cui cuore si ripercuote tutto ciò che Gesù patisce nell'anima e nel corpo, sottolineandone la volontà di partecipare al sacrificio redentore e di unire la propria sofferenza materna all'offerta sacerdotale del Figlio.

Nel testo conciliare si pone, altresì, in evidenza che il consenso da Lei dato all'immolazione di Gesù non costituisce una passiva accettazione, ma un autentico atto di amore, col quale Ella offre suo Figlio come "vittima" di espiazione per i peccati dell'intera umanità.

La Lumen gentium pone, infine, la Vergine in relazione a Cristo, protagonista dell'evento redentore, specificando che nell'associarsi "al sacrificio di Lui", Ella rimane subordinata al suo divin Figlio.

3. Nel quarto Vangelo san Giovanni riferisce che "stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala" (Gv 19, 25). Con il verbo "stare", che letteralmente significa "stare in piedi", "stare ritta", l'Evangelista intende forse presentare la dignità e la fortezza manifestate nel dolore da Maria e dalle altre donne.

In particolare, lo "stare ritta" della Vergine presso la croce ne ricorda l'incrollabile fermezza e lo straordinario coraggio nell'affrontare i patimenti. Nel dramma del Calvario Maria è sostenta dalla fede, rafforzatasi nel corso degli eventi della sua esistenza e, soprattutto, durante la vita pubblica di Gesù. Il Concilio ricorda che "la Beata Vergine avanzò nel cammino della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce" (Lumen gentium, 58).

Ai tracotanti insulti diretti al Messia crocifisso, Ella, condividendo le intime disposizioni di Lui, oppone l'indulgenza ed il perdono, associandosi alla supplica al Padre: "Perdonali, perché non sanno quello che fanno" (Lc 23, 34). Partecipe del sentimento di abbandono alla volontà del Padre, espresso dalle ultime parole di Gesù in croce: "Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito" (ivi, 23,46), Ella offre in tal modo, come osserva il Concilio, un consenso d'amore "all'immolazione della vittima da Lei generata" (Lumen gentium, 58).

4. In questo supremo "sì" di Maria risplende la fiduciosa speranza nel misterioso futuro, iniziato con la morte del Figlio crocifisso. Le espressioni con le quali Gesù, nel cammino verso Gerusalemme, insegnava ai discepoli "che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare" (Mc 8, 31), le risuonano in cuore nell'ora drammatica del Calvario, suscitando l'attesa e l'anelito della risurrezione,

La speranza di Maria ai piedi della croce racchiude una luce più forte dell'oscurità che regna in molti cuori: di fronte al Sacrificio redentore, nasce in Maria la speranza della Chiesa e dell'umanità.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 2 aprile 1997]

A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».

«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria».

«Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» — e in realtà «potevano dirlo» — ma sempre Maria «è madre».

«I padri della Chiesa hanno capito bene questo — ha affermato il Pontefice — e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».

«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa — ha fatto presente il Papa — possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».

«La Chiesa è “donna” — ha rilanciato Francesco — e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».

«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».

Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».

Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».

«San Paolo — l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato — ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».

«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».

[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 22/05/2018]

Veglia di Pentecoste alternativa

(Gv 7,37-39)

 

Durante la Festa delle Capanne - in occasione della raccolta dei frutti - i sacerdoti compivano il rito dell’acqua, portandola in una brocca d’oro dalla piscina di Siloè [«Inviato»] al Tempio (dove veniva versata per chiedere la pioggia d’autunno).

Il rito è personalizzato da Gesù, che invita le folle ad abbeverarsi alla Sapienza: chi lo accoglie avrà in sé una sorgente di vita, espressione dell’oro divino che viene elargito a tutti i suoi intimi - abilitati a rinnovare ogni cosa.

Invito a venire a Cristo e dissetarsi di Lui, e Promessa dello stesso Spirito divino per chi si abbevera alla sua Persona. Qui il Signore sostituisce la Torah.

A dire: non possiamo esistere completamente senza che l'umanità si disseti alla Bevanda che procura pienezza di essere.

Il Signore corrisponde a quanto cerchiamo, e lo supera, facendo di ciascuno un santuario che irriga.

Fonte personale, abbondantissima e portatrice di correnti vitali - persino nei deserti, per trasformarli in giardino.

Pentecoste è in Cristo un momento ultimo e sorgivo. Fuoco e Onda.

 

A differenza di At 2, per narrare la manifestazione viva di Dio nei credenti il Maestro non usa l’immaginario impressionante dei fenomeni naturali del Primo Testamento [tuoni, terremoti, uragani, fulmini, fuoco].

Onde raffigurare l’effusione dello Spirito, la caduta delle barriere e il progetto di una nuova Sapienza, Gesù adopera l’immagine quieta di un’Acqua che dev’essere assorbita, che fa crescere e - nel tempo - produce vita.

Il cammino di Rivelazione e Alleanza nello Spirito si rivela progressivo - sino a Lui, in cui trova il suo apice.

Coronamento che si trasfonde nel popolo rigenerato: esso da pavido diviene annunciatore e pioniere.

La nuova Creazione, i nuovi padri e madri espressione della sua vittoria sulla morte, non nascono dalla polvere, bensì dallo stesso «sangue misto ad acqua» del Cristo «innalzato».

Flusso che ora trascorre nei suoi - per farvi germogliare vita, in modo da provvedere e rallegrare il percorso altrui.

Nel rapporto di apertura fra Dio e l’uomo (che per grazia dà il suo contributo al progetto esuberante del Cielo) anche l’intera creazione si fa partecipe del Patto di Comunione.

 

Dopo una prima Alleanza cosmica e di pace con Noè, ecco quella personale con Abramo - in vista delle «moltitudini».

Il progetto di interiorizzazione e appello personale era già spostato verso l’umanità, ma con Mosè diventa energia, disegno di Liberazione.

In Cristo il popolo eletto e santo depone ogni privilegio: si rende autentico nel recupero dei lati opposti, e universale.

“Israele” passa dal comune sentimento religioso e dal miglioramento delle consapevolezze sulla storia vissuta a fianco dell’Eterno, alla profondità del suo Cuore - sino al nostro: ossia alla reinterpretazione e avventura inedita; propriamente, di Fede.

Dai Profeti a Cristo, l’Alleanza si fa globale.

Sotto Azione improvvisa o cadenzata dello Spirito, ‘Acqua’ che travalica e deborda, ma se assimilata fa crescere - tutto e anche la difformità diventa moto verso l'Unità: persino il caos attiva le nuove coesioni.

Il Patto antico dilata ben oltre i confini.

I suoi cerchi diventano sempre più ampi - senza per questo far temere che gli accadimenti possano fuggire di mano a Dio - nei momenti della quiete e delle pause, o perfino nei rivolgimenti senza posa.

 

L’acqua che i condottieri o i profeti del Primo Testamento avevano visto sgorgare da rocce o rupi spaccate, diventa Vivente - senza più corruzioni.

 

 

[Solennità di Pentecoste: Veglia, 7/8 giugno 2025]

Gv 7,37-39 (37-53)

 

La Brocca d’oro e il Fiume della Vita

(Gv 7,37-39)

 

Durante la Festa delle Capanne - in occasione della raccolta dei frutti - i sacerdoti compivano il rito dell’acqua, portandola in una brocca d’oro dalla piscina di Siloè [«Inviato»] al Tempio (dove veniva versata per chiedere la pioggia d’autunno).

Il rito è personalizzato da Gesù, che invita le folle ad abbeverarsi alla Sapienza: chi lo accoglie avrà in sé una sorgente di vita, espressione dell’oro divino che viene elargito a tutti i suoi intimi - abilitati a rinnovare ogni cosa.

Invito a venire a Cristo e dissetarsi di Lui, e Promessa dello stesso Spirito divino per chi si abbevera alla sua Persona. Qui il Signore sostituisce la Torah.

A dire: non possiamo esistere completamente senza che l'umanità si disseti alla Bevanda che procura pienezza di essere.

Il Signore corrisponde a quanto cerchiamo, e lo supera, facendo di ciascuno un santuario che irriga.

Fonte personale, abbondantissima e portatrice di correnti vitali - persino nei deserti, per trasformarli in giardino.

Pentecoste è in Cristo un momento ultimo e sorgivo. Fuoco e Onda.

 

A differenza di At 2, per narrare la manifestazione viva di Dio nei credenti il Maestro non usa l’immaginario impressionante dei fenomeni naturali del Primo Testamento [tuoni, terremoti, uragani, fulmini, fuoco].

Onde raffigurare l’effusione dello Spirito, la caduta delle barriere e il progetto di una nuova Sapienza, Gesù adopera l’immagine quieta di un’Acqua che dev’essere assorbita, che fa crescere e - nel tempo - produce vita.

Il cammino di Rivelazione e Alleanza nello Spirito si rivela progressivo - sino a Lui, in cui trova il suo apice.

Coronamento che si trasfonde nel popolo rigenerato: esso da pavido diviene annunciatore e pioniere.

La nuova Creazione, i nuovi padri e madri espressione della sua vittoria sulla morte, non nascono dalla polvere, bensì dallo stesso «sangue misto ad acqua» del Cristo «innalzato».

Flusso che ora trascorre nei suoi - per farvi germogliare vita, in modo da provvedere e rallegrare il percorso altrui.

Nel rapporto di apertura fra Dio e l’uomo (che per grazia dà il suo contributo al progetto esuberante del Cielo) anche l’intera creazione si fa partecipe del Patto di Comunione.

 

Dopo una prima Alleanza cosmica e di pace con Noè, ecco quella personale con Abramo - in vista delle «moltitudini».

Il progetto di interiorizzazione e appello personale era già spostato verso l’umanità, ma con Mosè diventa energia, disegno di Liberazione.

In Cristo il popolo eletto e santo depone ogni privilegio: si rende autentico nel recupero dei lati opposti, e universale.

“Israele” passa dal comune sentimento religioso e dal miglioramento delle consapevolezze sulla storia vissuta a fianco dell’Eterno, alla profondità del suo Cuore - sino al nostro: ossia alla reinterpretazione e avventura inedita; propriamente, di Fede.

Dai Profeti a Cristo, l’Alleanza si fa globale.

Sotto Azione improvvisa o cadenzata dello Spirito, ‘Acqua’ che travalica e deborda, ma se assimilata fa crescere - tutto e anche la difformità diventa moto verso l'Unità: persino il caos attiva le nuove coesioni.

Il Patto antico dilata ben oltre i confini.

I suoi cerchi diventano sempre più ampi - senza per questo far temere che gli accadimenti possano fuggire di mano a Dio - nei momenti della quiete e delle pause, o perfino nei rivolgimenti senza posa.

 

L’acqua che i condottieri o i profeti del Primo Testamento avevano visto sgorgare da rocce o rupi spaccate, diventa Vivente - senza più corruzioni.

 

 

Come parla quest’uomo: il primato della coscienza della plebe

(Gv 7,40-53)

 

Nel passo di Vangelo le autorità religiose giudicano tutti con disprezzo.

Chi si è sempre immaginato maestro non sarà disposto a farsi discepolo di una Rivelazione sovversiva.

Novità impensabile, e non datata, che osa sgretolare piedistalli e legalismi.

Mentre l’élite scarica Cristo, persino la gendarmeria comandata a perpetuare e sorvegliare la sicurezza del mondo antico viene sbalordita dalla forza della nuova Parola-Persona.

Il Signore sostituisce la Torah:

«Ora nell’ultimo giorno, il grande della festa, Gesù stava ritto e gridò dicendo: Se qualcuno ha sete, venga a me e beva, colui che crede in me. Come ha detto la Scrittura: dal suo ventre scaturiranno fiumi di Acqua vivente» (vv.37-38).

Chi viene in contatto con il nuovo Tempio è guidato dall’intima radice che ha in grembo, e vuole riconoscerla in sé.

Nonché dare vita, promuoverla; amare, rallegrare la vita stessa.

Diventa egli stesso un Santuario gorgogliante, che inizia a pensare e agire in coscienza - a partire dal proprio nocciolo (forse soffocato, ma indistruttibile).

Una lezione di pensiero dal basso, data ai “superiori”.

Esempio che rivaluta il giudizio teologico dell’empia plebe (v.49).

Ed è curioso che la disubbidienza che salva dal sequestro il Cristo presente nei suoi fedeli abbia origine dalla mancanza di conoscenza minuta della Legge.

 

C’è gran confusione di opinioni riguardo a Gesù, in mezzo alla gente. 

Per le sette che hanno instaurato la tirannia delle norme fa difficoltà la sua origine imprevista, non misterica né travolgente - inaccettabile per il pensiero tarato.

Qualcuno lo ritiene figlio di Davide, altri un Profeta; un ingannatore o un uomo buono (v.12) ovvero qualcuno che non ha gli studi (v.15).

Il punto è che Egli non viene a imporre di nuovo la disciplina vetusta, né a rabberciarne i costumi.

Neppure a purificare il Tempio, rinnovandone la pratica propiziatoria. 

Cristo lo soppianta con l’adesso della realtà che rivela un inconcepibile Volto di Dio, che si coglie e dilata anche dal di dentro di ciascuno di noi.

Non è affatto la tranquilla riconferma delle solite cose.

La Tradizione (scritta e orale) vanta argomenti radicati, ma la sua fama provoca confusione e confronto duro tra tifoserie opposte, [anche oggi] alla moda o meno.

In tutto ciò non si trova mai nulla di eccezionale.

 

Fondamentale è capire che non abbiamo più bisogno di mandanti.

Il discrimine è la Persona, nell’unicità della sua Vocazione; non il punto di vista corrispondente a una grandezza o una mania.

È nel Figlio inatteso che giunge il presente e il futuro - non in un codice d’idee che possa riassumere gli spunti del “successo” e imbelletti il già trascorso.

 

Dice il Tao Tê Ching (ii): «Il santo attua l’insegnamento non detto». Commenta il maestro Wang Pi: «La spontaneità gli basta. Se governa corrompe».

Nell’intimo di ciascuno dimora una naturalezza che insegna, anche ai maestri della legge.

La spontaneità non ci porterà alla debole difesa di Gesù fatta da Nicodemo (vv.51-53) che per salvare la situazione si appoggia su un’altra legge, ovvia del resto.

Quando si smette di voler essere solo dipendenti - come chi è “chiamato” ad arrestare il nuovo che si affaccia - arriva lo stupore, la vertigine di Dio; differenti interessi.

Il Cristo-icona di Gv 7 vuole sviluppare in noi l’immagine e il talento innato del maestro di spirito che semplicemente attinge dall’esperienza personale del Padre, di sé e della realtà.

Non dobbiamo aspettarci che le risposte arrivino sempre da qualcuno fuori, valutato più esperto - cui invece siamo noi a dover insegnare il nuovo che viene per salvarci.

La Vocazione per Nome è affidata al Rabbi sconosciuto che ci abita già - e vuole affiorare, esprimendo il divino inconscio già presente.

 

L’Oro indispensabile, senza pesi mentali indotti: solo in coscienza e carattere.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

Mi sento in grado di ricevere il messaggio della Vita, o sono ancora inceppato nel meccanismo degli omologati che si turano occhi e orecchi?

Rimango sensibile al richiamo del Signore persino nei dettagli di una vita senza gloria o sotto inchiesta?

Solennità di Pentecoste, Tradizione viva

 

Negli Inni Sacri Manzoni paragona la caduta spirituale dell’umanità al precipitare di una gran pietra lungo uno «scheggiato» pendio; masso che infine «batte sul fondo e sta».

Per natura non abbiamo le capacità di risospingere il nostro macigno, rotolato a valle e «abbandonato all’impeto di rumorosa frana» [né appunto provvedere ai suoi fracassi].

Ma il Signore conosce l’uomo nel suo bisogno, e sa che non di rado - nel tempo del nostro disagio - esprimendoci anche affrettatamente, peggioriamo le situazioni.

È una condizione, più che una colpa.

Il Cielo Viene per aiutarci a interiorizzare; per imboccare la via della Felicità indistruttibile, evitando che le lacerazioni distruggano anche l’anima.

A tale scopo lo Spirito dispone a vivere un’Attinenza eminente, di Dimora e reciprocità, d’interpretazione e Radice.

Il suo vento potente - Ruah - viene chiamato «Santo» sia per la qualità suprema che per la sua attività: «santificare» ossia separare le persone dalla voragine dell’autodistruzione.

E un discernimento profondo sul tema vita-morte non è alla nostra portata.

Per questo ben quattro dei tradizionali sette Doni dello Spirito Santo hanno un carattere di profondo sapere.

 

La comprensione globale sulle cose è quanto caratterizza il Dono di Sapienza [dal latino sāpere, avere sapore] che trasmette all’esistere concreto il gusto di Dio stesso.

La Sapienza infonde nel credente una comprensione sottile, dal punto di vista divino, sul panorama e sui singoli tratti del nostro percorso: dubbioso, incerto, condizionato da situazioni a contorno.

L’occhio di Dio coglie la persona nella sua radicale indigenza, che cerca un completamento (proprio mentre l’affanno dei tentativi o dei pareri e degli influssi esterni gioca brutti scherzi).

Per questo motivo, nell’ascetica tradizionale la Sapienza - metro di Dio - si considerava recasse a perfezione la virtù teologale della Carità. 

Insomma, l’uomo in sé non è autonomo: necessita di essere colmato e salvato.

Sapienza è fonte d’intuito dei nostri limiti: principio di tolleranza altrui. 

Essa ci trasmette una equilibrata connaturalità, e un diverso ‘profumo’ nelle relazioni; pilastro d’una vita dedicata al bene.

Il Dono d’Intelletto [intus-lēgere, leggere dentro le cose] fa scoprire la trama di Dio nella storia e aiuta a valutare se stessi.

Decifrando i segni del tempo con acume di vista, scopriamo la dimensione non puramente terrena delle vicende. In tal guisa, grani divini deposti nel creato e negli accadimenti.

Vediamo in profondità: per questo era considerato Dono che porta a perfezione la virtù teologale della Fede: guida al cuore delle cose e non lascia che giudichiamo banalmente.

Il Consiglio conduce in vetta l’esercizio valutativo della virtù cardinale della Prudenza.

Un tempo i padri spirituali lo associavano alla spiegazione del brano dell’adultera: lei salvata dagli ipocriti e i vecchi marpioni resi immediatamente e finalmente coscienziosi.

Dono che ci fa capire il Disegno della Salvezza e aiuta a decidere per il meglio in situazioni d’impellenza imprevista o pericolo immediato.

È capacità di discernimento contro la precipitazione.

Il Consiglio accentua il dialogo e la sinergia in ordine alla pratica e alle prospettive di realizzazione personale.

Ad es: quante volte siamo stati in ascolto dei consigli di genitori e nonni - per capire il mondo e far tesoro delle loro esperienze e competenze!

Per noi che a fatica scopriamo le cose a portata di mano, tale Dono spalanca la Direzione di Dio: cosa è conveniente in ordine alla nostra maturità e al Fine ultimo.

Il Dono di Scienza porta anch’esso a perfezione la virtù di Fede, in quanto fa comprendere il valore (straordinario) e il limite (così ordinario) delle creature.

La Scienza dall’alto non consente di cadere nel materialismo, né nel disprezzo delle cose mondane - che ultimamente è diniego dell’opera ineffabile e suprema del Creatore.

Dall’indescrivibilmente piccolo della Fisica dei Quanti, all’infinitamente grande della Relatività [e il loro strano universo di mancate correlazioni] sbalordiamo di Dio.

Tutto parla di Lui e può condurci all’Eterno. Tuttavia, nulla lo cattura in modo assoluto.

Conoscere la realtà ad ampio spettro - nonché il contributo vitale di differenti punti di vista e culture - può far capire anche il prossimo.

E induce a comportarsi con competenza fra le cose: del pensiero, della psiche, dell’anima.

L’amore non sorretto da una capacità di versato discernimento non di rado va alla deriva.

Nell’era dei finti intenditori e dirigisti, non c’è forse cosa più devastante d’un impreparato scatenato nell’azione.

Mio padre falegname sapeva che il migliore del suo campo non è l’artigiano che fa più trucioli.

Gli antichi padri spirituali ribadivano volentieri: «per Scientiam homo cognoscit defecus suos et rerum mundanarum».

Lo vediamo negli insegnamenti approssimativi e persino nei parossismi delle teologie divorate dalla vanità: intimistiche e chiuse, o praticone ma esterne; disincarnate, favolistiche, o balorde.

Grazie al Dono di Fortezza, riconoscendoci deboli diamo spazio al vigore di Dio, non solo nelle grandi prove.

L’azione di spillo può sgretolare la nostra vita, più di una sciabolata.

E chi non ha forza interiore è malato, nelle difficoltà conformista; si barcamena e se ne lava le mani.

Il minimalismo attenua, snerva, fa diventare uomini-bonsai, che vegetano a lungo - restando rattrappiti.

Costanza, coraggio e tenacia sono un aiuto alla debolezza; solo con grinta diamo il meglio, anche nella relazione con Dio - perfezionando la stessa virtù cardinale della fortezza.

Il Dono di Pietas - virtù famigliare - infonde alla religione il cuore; il carattere d’intimità e tenerezza.

È sentimento figliale che integra e dirada la paura dello schiavo di fronte al padrone.

Un tempo era considerato Dono che portava in vetta la virtù cardinale della Giustizia [verso Dio] non come dovere di culto, bensì espressione di amicizia.

Riconoscimento della Gratuità ricevuta senza merito: creaturale e redentiva.

Il Timore di Dio guidava infine a perfezione la virtù teologale della Speranza, carattere dell’essere vivente che tutto attende dal Padre.

 

La Pentecoste era una festa ebraica che celebrava il dono della Legge. Il cambio di passo della Fede l’ha trasformata nel compleanno del popolo che dispiega nella storia il Volto amabile del Signore.

Non per una differente dottrina, ma per l’Azione d’un Motivo e Motore che ci porta, e rinnova il mondo in modo che non t’aspetti.

Magari con virtù passive più che attive. Grazie a un Sapere infuso o innato, spontaneo e naturale, più che artificiale.

Dimorando nella Persona ricondotta alla Sorgente e nella trama del Noi, il Padre non si pronuncia emanando leggi come il Dio-padrone delle religioni antiche.

Piuttosto, si esprime nella creatività polifonica della vita e nell’inedito dell’amore - unico linguaggio convincente, in grado di edificare. 

Comprensibile a tutti.

Insomma, nella convivialità delle differenze ciascuno è se stesso, in rapporto di scambio arricchente.

Trasparenza nella carne della condizione celeste.

Così l’Incarnazione continua: riflesso nell’umano dell’unità, verità e intensità d’intesa Padre-Figlio.

Qui anche la polvere può diventare Splendore, perché il complesso delle virtù cardinali individuali e teologali viene sublimato e perfezionato nella Relazione: il Noi dello Spirito.

Tale Eros fondante è tutt’Altro: addirittura in grado di trasmutare la nostra incoerenza in stato energetico per Nuovi Orizzonti.

(Gv 14,15-16.23-26)

 

Chi s’innamora scatena una energia nuova: mai più orfani

(Gv 14,15-21)

 

Gesù sostituisce i Suoi comandamenti (la sua stessa Persona e i suoi valori) a quelli della religione legalista. Non si può amare Qualcuno abituato a prendere nota.

Le differenti espressioni dell’amore sono infinitamente più importanti di un codice di leggi - quello di Mosè - e della proliferazione di norme tipica della tradizione, se essa ci rendesse nervosi e insoddisfatti (sebbene impiantati).

L’uomo accomodato tende a trascinarsi secondo interpretazioni e modi di stare in campo devianti il suo stesso essere profondo.

Affezionati a rubriche logore e desuete, si continua a dare risposte vecchie a problemi nuovi, a non accettare l’emancipazione, la gioia delle scoperte. Così pure le innovazioni che avvicinano, un nuovo pensiero che consenta di cogliere Dio vivo, Presente sempre, quindi in grado con la sua Azione incessante di farci assumere un volto che umanizza.

Quando si consolidano oltre misura, le consuetudini devianti chiudono agli impulsi dello Spirito della Verità, e proprio in nome di Dio. In tal guisa corrompono e soppiantano la purezza della Sorgente, e (a cascata) l’innata fragranza delle nostre essenze particolari.

Invece il Paraclito in noi ci difende dalle inimicizie esteriori e anche dalle potenze interiori che fanno il male: ad es. timori a corrispondere alla Chiamata autentica, smanie di avere potere apparire, che trascinano lontano dalla vita.

Tentativi d’arricchire sì, cercando tuttavia la reciprocità più variegata delle qualità, e accentuando le stesse risorse del prossimo.

 

Dio si rivela in un volto personale, quindi lo Spirito è il Difensore che ci permette di sbagliare.

Egli spegne il panico degli inizi inattesi, fa intuire la magia che ci protegge; aiuta a sorvolare l’agguato del perfezionismo, il quale rischia sempre di colpire persino gli esordi delle nostre intraprese vocazionali.

L’Amico innato libera dal personaggio, dalle armature, dall’ansia di prestazioni, dal non voler deludere opinioni e aspettative a contorno. 

Riporta coi piedi a terra e costringe il nostro occhio a guardarci dentro. Smarrendo e vagando, in Lui ritroveremo il Centro.

Il nostro Alleato fa penetrare il senso dei momenti no - quelli che sembrano un cumulo di accanimenti della sorte - le brutte figure, i fallimenti, i tempi in cui (ad es. per una catena di lutti e persecuzioni) sembra che stiamo attirando le negatività come una calamita.

Nelle situazioni critiche veniamo guidati a staccarci dall’esteriore che finisce per inaridirci e perdere di vista il nostro stesso Nucleo, lo Spirito celato.

Quando la realtà attorno diventa precaria, il nocciolo interiore è come costretto a ritrovare la giusta distanza dalle cose di fuori.

Se la realtà costringe a spazzar via tutto, siamo messi in condizione di dover cercare e spalancare nuovi varchi: si affacceranno idee, energie e iniziative impreviste.

Talora sarà il caos stesso a risolvere i veri problemi, generati proprio dallo stile di vita assuefatto (o dal punto di vista) più che dalla realtà.

 

La confusione si affaccia forse troppo spesso - ma affinché possiamo finalmente interrogarci sui nostri reali interessi, su ciò cui non stiamo dando spazio. Ad es.: quale aspetto, inclinazione, filoni di attività, relazioni, corrisponderebbero profondamente, e farebbero stare bene tutti.

Così invece di vivere distratti e come portati da dinamiche che non ci appartengono, apprenderemmo a vivere intensamente nell’adesso. Impareremmoi ad accogliere e leggere ciò che la marea della vita reca in termini di novità, ogni giorno e di volta in volta.

Allentando i controlli, i giudizi, le smanie di progetto, il dirigismo e volontarismo, lasceremmo che sia il Dono a farsi Deposito, il fatto reale a suggerire il percorso, e prendere la guida delle esperienze.

Cedendo, passo dopo passo impareremmo a lasciarci inondare: e sarà quel che invade a farci rifiorire, attraverso processi che elaborano l’impensabile.

Se puta caso avessimo messo in sordina le passioni per non sembrare deboli, o fatto scelte artificiose per privilegiare il consenso attorno - e l’autocontrollo... Se non avessimo ancora imparato a essere diretti, il Paraclito aiuterà a far venire allo scoperto la parte libera, quella in cui si annida la nostra missione - invece che la carriera (anche ecclesiastica) da vetrina.

Più saremo umani nell’armonia dell’Amore ricevuto che si trasforma in amicizia comunicata a se stessi e agli altri, più consentiremmo all’Oro divino di affiorare in noi e nelle sintonie che ci riportano alla casa ch’è davvero nostra.

Vivendo con meno interventismo le emozioni, lavoreremmo con passione, esprimendoci nella nostra vocazione e non come altri si attendono; forse faremmo le cose in modo del tutto contrario alle aspettative e propositi... 

Ma rompendo la monotonia consentiremmo la convivenza tra opposte polarità, e il Cuore sarà sempre più amico del nostro destino.

 

In termini biblici, Spirito (Ruah) non designa un’entità ineffabile, bensì reale: esso è un alito potente, in grado di buttare all’aria tutto ciò che vuol permanere fisso e installato.

Dio è Spirito non in quanto invisibile e irraggiungibile, ma perché nella sua azione si esprime una forza travolgente, incontenibile, impetuosa. È il nostro sogno: partecipare di questo Vento dagli effetti imprevedibili.

Lo Spirito si muove e dà la spinta per mettere in movimento: scaturigine di vita, strumento dell’opera divina nella storia.

La Legge religiosa può anche indicare la direzione giusta, ma non dona convinzione, non fa comprendere l’assurdo dell’amore e la sua incredibile fecondità, né ci trasmette l’energia che porta a destinazione.

Per questo motivo, Gesù non è un modello, ma motivo e motore: non ha insegnato solo una strada, ma ancora ci comunica la sua spinta per centrare l’obbiettivo della vita.

Il suo Spirito donato è chiamato Paraclito (“chiamato accanto”, con termine mediato dal linguaggio forense): una sorta di avvocato che in tribunale si affiancava all’imputato in difficoltà, per scagionarlo - in perfetto silenzio.

 

È lo Spirito del Cristo che riduce all’impotenza il male e rende vane le accuse contro. Di fronte alle difficoltà possiamo procedere senza lasciarci cadere le braccia.

Lo Spirito del Signore è anche a servizio della Verità (teologica): la Fedeltà dell’Amore divino.

In breve: mentre la Chiesa porge risposte nuove a domande nuove, è lo Spirito della Verità a garantire che il Vangelo non venga corrotto, anzi introduca i discepoli nella pienezza della vita e nell’inattesa ricchezza e radicalità del suo stesso Richiamo.

Non diremo mai nulla di nuovo, e neppure il contrario: mantenendoci aperti ai suoi impulsi, coglieremo fino in fondo il Mistero che avvolge il senso della nostra vita in Cristo.

 

 

Dimora e reciprocità, interpretazione e radice

 

Generatrici dal basso

(Gv 14,21-26)

 

L’amore del Padre ci unisce a Cristo attraverso una chiamata che si manifesta onda su onda. E su tale sentiero il Figlio stesso si rivela, anche grazie alla vita di comunità autentica.

Il passo di Vangelo riflette la catechesi a domande e risposte tipica delle comunità giovannee dell’Asia Minore, impegnate a interrogarsi: stavolta il tema dell’incomprensione è introdotta da Giuda, non l’Iscariota.

Anche i giudei avevano atteso un’uscita pubblica eloquente, per credere alla condizione divina di Gesù di Nazaret. Forse una manifestazione così dimessa non poteva che generare scetticismo.

Come mai in Lui si resta nella sfera del nascondimento, e i suoi stessi intimi non si scatenano nelle reazioni? Non sarebbe opportuno un colpo di scena aperto e sensazionale?

E perché vivere dal di dentro le difficoltà? Poi, come mai le relazioni considerate “importanti” erano valutate con avversione crescente, estranee, irritanti?

Ebbene, il messianismo vulnerabile del Cristo - in apparenza difensivo, evitante - non è del genere che dissipa i dubbi.

Egli permaneva spoglio. Così non ha smarrito la propria naturalità; quasi avesse percepito il pericolo delle aberrazioni altisonanti, tutte esterne.

Il Messia autentico proteggeva la sua identità, il suo carattere umano, spirituale, missionario. In tal guisa ha evitato tutti i titoli gloriosi eccessivi previsti nella cultura teologica nell’antico Israele.

 

La vita di Fede in noi continua anch’essa invisibile: non circondata di miracoli esteriori e sensazioni forti… piuttosto, innervata di convincimenti (riconosciuti in se stessi).

Nel tempo della nuova relazione con Dio e i fratelli, l’antico concetto di Unto del Signore che osserva e impone a tutte le nazioni la Legge del popolo eletto (con forza) non ha alcun rilievo.

In qualsiasi condizione e latitudine, Dio è sempre presente e operante, a partire dal nucleo, per farci ritrovare il respiro dell’essere.

Il Padre, il Figlio e i credenti formano nella mutua conoscenza un circolo di amore, reciprocità e ubbidienza a maglie larghe, mediante risposte libere non stereotipe né paralizzanti.

Non parcellizzate su dettagli e casistiche, bensì centrate su opzioni fondamentali.

 

«I miei comandamenti» [v.21: genitivo soggettivo] è un’espressione teologica che designa la stessa Persona del Risorto in atto.

“Persona” dispiegata nella storia degli uomini grazie al suo Corpo mistico: il variegato Popolo di Dio, la cui poliedricità è valore aggiunto (non limite o contaminazione della purezza).

Beninteso, l’Amore è l’unica realtà che non si può “comandare”.

Ma Gesù lo designa e propugna tale per sottolineare il distacco dal Patto del Sinai, che riassume - ma sostituisce.

La forma plurale «comandamenti» riconosce il ventaglio delle svariate forme di scambievolezza e personalizzazione dell’amore.

Nessun orientamento, dottrina o codice potrà mai superarlo, o viceversa renderlo paludoso.

 

Nei Vangeli si parla di amore non in termini di sentimento [di emozione soggetta a flessioni, o che si regola sulla base delle perfezioni dell’amato] ma come azione reale, gesto che fa sentire l’altro libero e adeguato.

Il Popolo di Dio riflette Cristo nella misura in cui sviluppa il proprio destino vivendo totalmente di dono, risposta, scambio e sovrabbondare nella Gratuità.

Tutto ciò in modo vieppiù inedito per ciascuna persona, per ogni situazione micro o macro-relazionale; età della vita, caratteristiche, tipologia di difetti, o paradigma culturale vigente.

Insomma, il Signore non gradisce che c’innalziamo staccandoci dalla terra e dai fratelli: l’onore dovuto al Padre è quello che porgiamo ai suoi figli.

Quindi non c’è bisogno di sollevarsi per vie di osservanza ascetica [“salire” come al piano superiore: l’ascensore è solo discendente].

 

È Lui che si rivela, proponendosi a noi: questa la sua letizia.

Viene giù dal “cielo”.

Si manifesta in noi stessi e dentro le pieghe della storia, palesando il desiderio di fondersi con la nostra vita (v.21) per accrescerla, completarla e potenziarne le capacità (in termini qualitativi).

Gli Apostoli, condizionati dalla mentalità religiosa convenzionale - tutta passerelle - s’interrogano circa l’atteggiamento di Gesù, modesto e poco incline allo spettacolo (v.22).

Non accettano un Messia che non s’imponga all’attenzione di tutti, non stupisca il mondo, non urli proclami da forsennato.

Il Maestro preferisce che nella sua Parola riconosciamo una corrispondenza attiva con il desiderio di vita integrale che ci portiamo dentro (vv.23-24).

Tale Logos-evento va assunto nell’essere, quale Richiamo distinto dai luoghi comuni del pensiero diffuso, conformista, altrui.

In detto Appello si annida infatti una simpatia, un’intesa, una freccia, una vigoria efficiente e creatrice, che si rende Fuoco e solidità di Presenza personale, a partire dall’interno - al contempo fievole e squillante.

 

Nella cultura forense antica, «Paraclito» (v.26) era detto il personaggio eminente dell’assemblea - oggi diremmo una sorta di avvocato - che senza nulla dire si poneva accanto per giustificare l’imputato.

[Quest’ultimo poteva essere colpevole, ma meritevole di perdono; però aveva bisogno di una sorta di pubblico garante che ne garantisse la sorte. Ovvero poteva essere innocente, ma impossibilitato o incapace di trovare testimoni a suo favore che lo scagionassero…]

Tale attributo dello Spirito allude a un’intensità, intimo fondamento e reciprocità di Relazione silenziosa che si fa Persona, e sa dove andare; che conduce il cuore, il carattere, la vita stessa, non alla gogna, bensì alla piena fioritura di noi stessi.

Grazie al Suo sostegno non c’incantiamo di ruoli altisonanti, parole forti; formule, impressioni, sentimenti tumultuosi: entriamo nella profondità esigente, compiuta, dell’Amore.

Allarghiamo il campo. Accogliamo una immagine guida diversa, che incalza e coglie di sorpresa, ma sottilmente; non rinfaccia, né ci sgrida.

Esperienza che avviene senza terremoti, tuoni e folgori - parziali - ma attraverso l’azione dello Spirito che interiorizza, accompagna, nutre, rende aggiornata e viva l’interpretazione della Parola (v.26).

Il Messaggio dei Vangeli ha una radice generatrice che non può ridursi a un’esperienza unilaterale e ingombrante, tutta codificata e moralista ma vuota come nelle situazioni settarie, sempre in lotta con se stesse e il mondo. 

Avventurandosi nel proprio Esodo, ciascuno scopre risorse celate e un amplificarsi di prospettive che dilatano e completano l’essere, allargando l’esperienza del carattere vocazionale che gli corrisponde.

Tra vita in cammino e Parola di Dio - regola d’oro che regala autostima - si accende una comprensione impredicibile, versatile, eclettica, non a senso unico, la quale travalica le concatenazioni identitarie.

Nella sua portata, il Richiamo rimane identico, ma nel tempo espande la consapevolezza delle sue sfaccettature - appunto, integrandole.

Espressività ricche e non già ratificate, Creatore e creatura non si esternano autenticamente in modo fisso, sancito, e in riferimento a un codice dottrina-disciplina, ma nella libertà eccedente della vita.

Anche oggi, al soverchiare dei nuovi bisogni e quesiti, si affaccia un sovrabbondare appropriato di nuove risposte - finalmente anche da parte del Magistero.

Plausibili nell’avventura di Fede, ma che farebbero impazzire ogni religione.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Riconosci l’Opera dello Spirito o la rifiuti come una seccatura? Cosa ti colpisce del nuovo Magistero?

Ritrovi questa impostazione nell’Annuncio, nella Catechesi, nell’Animazione, nella Pastorale e nel tuo stesso Cammino?

Incapaci di peccato

(At 2,1-11)

 

Pentecoste è la festa del Dono, semplicemente. Il linguaggio di Atti degli Apostoli è piuttosto impressionante e colorito: infarcisce l’evento con prodigi simbolici che è bene decifrare.

Tuoni, folgori, vento e fuoco erano le immagini che avevano accompagnato la rivelazione della legge antica. Con esse Lc vuol sottolineare la potenza del mondo avvenire.

I rabbini sostenevano che sul Sinai le Parole di Dio avevano preso forma di settanta lingue di fuoco - a dire che l’intera Torah era destinata alle moltitudini, anche ai pagani.

Secondo interpretazione tradizionale, le Parole divine si erano rese visibili [«il popolo vedeva le voci»; testo ebraico] sotto forma di fiamme che avevano scolpito le tavole di pietra preparate da Mosè (Es 20,18).

Su tale sfondo, Lc intende presentare il dono della nuova Legge - quella dello Spirito - e impiega le medesime icone bibliche per farsi capire, non per raccontare cronache di dettaglio.

Le figure vigorose suggeriscono un’esplosione potente, che butta all’aria tutta la vita - questo il punto.

Ciò a dire: per una liberazione radicale dalle vecchie strutture che mascheravano il peccato e (troppe) doppiezze, ossessioni o quietismi, deve giungere lo Spirito divino.

Solo la sua forza inattesa e sconvolgente può cambiare la faccia della terra e far nascere trasformazioni radicali.

Impossibile ottenerlo autenticamente, generando qualsiasi rivolgimento a partire dal limite del nostro genio e muscoli.

 

È fuori dalle nostre capacità far cadere condizionamenti, barriere ataviche, e attivare la Novità poliedrica di Dio che ci umanizza.

Solo una Relazione fondante può ad es. convincere che le iniziative coraggiose e il trionfo della vita passano attraverso una forma di morte. Morte del pensiero comune, del mondo antico, di condizionamenti e mode - e del vuoto di se-stessi-a-modo.

Un’opera essenziale - per incontrare la molteplicità dei volti; propri e altrui.

Le “molte lingue parlate” stanno appunto a indicare l’universalismo ora graffiante del messaggio di Cristo e della sua Chiesa.

Il Dono viene da una Presenza ‘dentro’ noi e gli accadimenti. Ma è destinato appunto alle moltitudini, senza più barriere.

Il disastro di Babele è redento sia dall’alto che dal basso, perché qui e ora le difformità diventano risorse preziose.

Chi si lascia guidare dallo Spirito recupera le tante sfaccettature, anche dei [personali e non] lati in ombra.

In tal guisa si esprime nella lingua che tutti intendono: la Comunione, convivialità delle differenze.

È l’amore che fa tesoro di tutto e riunisce tutti (vv.7-11) facendo sparire le fissazioni idolatriche della religione selettiva - quella delle purità dalle sfumature individualiste o etniche; idolatrie legate all’estrazione culturale.

 

Tutti gli autori del Nuovo Testamento partono dalla realtà della presenza dello Spirito; Lc osa invece ‘descriverla’.

La discesa dello Spirito è dunque collocata nel giorno di Pentecoste, cinquanta giorni dalla Pasqua.

Ma in Gv (20,22) Gesù comunica lo Spirito che anima i credenti e la Chiesa… il medesimo giorno della Risurrezione.

Come la stessa liturgia propone nei suoi segni ed espressioni simboliche, il Mistero della Pasqua è Uno.

A dirla tutta: il Crocifisso «consegnò lo Spirito» già dalla Croce (Gv 19,30).

Lc descrive il denso significato dell’unico Mistero-realtà pasquale in tre “momenti”-aspetti successivi di maturazione dei discepoli.

Essi diventano ‘apostoli’ [Risurrezione, Ascensione, Pentecoste] non per trasmetterci una cronaca di fatti particolari, bensì per aiutare a comprenderne il rilievo e i molteplici aspetti.

Gv invece colloca la consegna dello Spirito dalla Croce e nella sera di Pasqua, per evidenziarlo quale Dono globale del Crocifisso Risorto.

L’autore di At pone emblematicamente tale portato nel giorno di Pentecoste, per sottolineare il rapporto e distacco dalla festività ebraica.

Festa che però forniva uno scenario perfetto: era festa di pellegrinaggio che richiamava in Gerusalemme ebrei sia palestinesi che della diaspora.

 

Le origini “ufficiali” della Comunità resa consapevole del suo compito di «Inviata in uscita» si alimentava - in più - d’un sottile riferimento allo Spirito della Creazione.

L’alito della Ruah - Spirito divino [in ebraico di genere femminile] diventa il soffio vitale e vento impetuoso che investe la «Casa» (v.2) rigenerando e costringendo i timorosi seguaci, ancora seduti al Tempio (Lc 24,53).

 

L’antica Pentecoste celebrava l’arrivo del popolo al monte Sinai e il dono della Legge [che teologizzava la festa agricola del ringraziamento per la raccolta del frumento, la quale a sua volta concludeva il ciclo della natura rinascente che aveva avuto inizio a Pasqua e precedeva la festa delle Capanne poi svolta in occasione della grande raccolta d’autunno; nella tradizione dei pastori, la Pasqua era una teologizzazione del rito apotropaico del sacrificio d’un agnello per propiziarsi l’esito della transumanza primaverile, mentre Pentecoste la sua festa conclusiva sulle alture e che precedeva il ritorno agli ovili nell’autunno successivo].

Lc vuole insegnare che lo Spirito ha sostituito la Torah: è divenuto la nuova norma di comportamento e l’unico criterio non esteriore di comunione con Dio.

L’autore evoca la tradizionale festa ebraica, quasi per comparazione - onde segnare il suo compimento-pienezza. Ma come la Pasqua, anche Pentecoste è tesa all’avvenire.

L’evangelista vuol dimostrare l’ampiezza della destinazione dello Spirito su «dodici» regioni diverse, veicolata dal fuoco della Parola (v.3) la quale abilitava all’Annuncio verso tutte le nazioni sulla terra.

Ma anzitutto Lc ha come intento di farne comprendere la reale incisività.

 

L’autore del terzo Vangelo e di At si rende conto che per ottenere opere di giustizia e amore, agli uomini non basta indicare la strada giusta.

È l’Eterno stesso che deve diventare Soggetto affidabile della storia, unico propulsore della vita.

Pertanto, Dio ha dovuto cambiare il nostro cuore: precetti e consigli non sono sufficienti a modificare l’istinto profondo di persone e popoli.

La normativa esterna ci fa solo diventare epidermici: non coglie l’intimo, non convince il cuore.

Ogni azione genuina è espressione d’una adesione profonda, d’un desiderio dell’anima, di un impulso intimo coinvolgente.

La legge dello Spirito è una sorta di fantasia al potere, ma non sta al di fuori, né richiede in sé alcuno sforzo contromano con il proprio carattere - in radice.

Il «cuore nuovo» è la vita stessa di Dio che entra in noi per trasformarci, non in termini moralistici o di modello - bensì dilatando l’esistenza in modo genuino, a partire dal seme, dal nostro nucleo.

 

Quando la Vita dell’Eterno pulsa nell’anima di chiunque, spontaneamente manifesta Dio nella storia degli uomini.

E produce le sue opere vitali - con un’azione impensabile, trasmutandoci da rovi in alberi fecondi.

Senza più artificio e doppiezza, il nostro deserto incerto diventa giardino.

Addirittura iniziamo ad amare con la qualità d’amore stessa di Dio - talora senza neanche il proposito e la disciplina, o la stessa consapevolezza di volerlo fare.

Da quando lo Spirito prende dimora in qualsiasi donna o uomo, essi non hanno più bisogno di farsi ammaestrare dall’opinione altrui: possono finalmente essere se stessi.

«E questa è la Promessa che Egli ci ha fatto: la Vita dell’Eterno. Questo vi ho scritto riguardo a coloro che cercano d’ingannarvi. E quanto a voi, l’unzione che avete ricevuto da Lui rimane in voi e non avete bisogno che qualcuno vi istruisca . Ma come la sua unzione v’insegna ogni cosa ed è veritiera e non mentisce, così ora rimanete in Lui com’essa vi ha istruito» (1Gv 2,25-27).

 

Tutto quanto resta esterno o lontano, svapora, e senza fatica perde consistenza.

Ciò perché non c’è più legge o pensiero cerebrale che tenga, né obblighi di contorno alcuno.

Diventiamo «incapaci di peccato»: siamo passati dal senso religioso che intimidiva e rendeva proni, alla dignità piena della Fede.

«Chiunque è nato da Dio non commette peccato perché in lui dimora un germe divino e non può peccare, perché è nato da Dio» (1Gv 3,9).

Cari fratelli e sorelle,

nella celebrazione solenne della Pentecoste siamo invitati a professare la nostra fede nella presenza e nell’azione dello Spirito Santo e a invocarne l’effusione su di noi, sulla Chiesa e sul mondo intero. Facciamo nostra, dunque, e con particolare intensità, l’invocazione della Chiesa stessa: Veni, Sancte Spiritus! Un’invocazione tanto semplice e immediata, ma insieme straordinariamente profonda, sgorgata prima di tutto dal cuore di Cristo. Lo Spirito Santo, infatti, è il dono che Gesù ha chiesto e continuamente chiede al Padre per i suoi amici; il primo e principale dono che ci ha ottenuto con la sua Risurrezione e Ascensione al Cielo.

Di questa preghiera di Cristo ci parla il brano evangelico odierno, che ha come contesto l’Ultima Cena. Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre» (Gv 14,15-16). Qui ci viene svelato il cuore orante di Gesù, il suo cuore filiale e fraterno. Questa preghiera raggiunge il suo vertice e il suo compimento sulla croce, dove l’invocazione di Cristo fa tutt’uno con il dono totale che Egli fa di se stesso, e così il suo pregare diventa per così dire il sigillo stesso del suo donarsi in pienezza per amore del Padre e dell’umanità: invocazione e donazione dello Spirito s’incontrano, si compenetrano, diventano un’unica realtà. «E io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre». In realtà, la preghiera di Gesù – quella dell’Ultima Cena e quella sulla croce – è una preghiera che permane anche in Cielo, dove Cristo siede alla destra del Padre. Gesù, infatti, vive sempre il suo sacerdozio d’intercessione a favore del popolo di Dio e dell’umanità e quindi prega per tutti noi chiedendo al Padre il dono dello Spirito Santo.

Il racconto della Pentecoste nel libro degli Atti degli Apostoli – lo abbiamo ascoltato nella prima lettura (cfr At 2,1-11) – presenta il “nuovo corso” dell’opera di Dio iniziato con la risurrezione di Cristo, opera che coinvolge l’uomo, la storia e il cosmo. Dal Figlio di Dio morto e risorto e ritornato al Padre spira ora sull’umanità, con inedita energia, il soffio divino, lo Spirito Santo. E cosa produce questa nuova e potente auto-comunicazione di Dio? Là dove ci sono lacerazioni ed estraneità, essa crea unità e comprensione. Si innesca un processo di riunificazione tra le parti della famiglia umana, divise e disperse; le persone, spesso ridotte a individui in competizione o in conflitto tra loro, raggiunte dallo Spirito di Cristo, si aprono all’esperienza della comunione, che può coinvolgerle a tal punto da fare di loro un nuovo organismo, un nuovo soggetto: la Chiesa. Questo è l’effetto dell’opera di Dio: l’unità; perciò l’unità è il segno di riconoscimento, il “biglietto da visita” della Chiesa nel corso della sua storia universale. Fin dall’inizio, dal giorno di Pentecoste, essa parla tutte le lingue. La Chiesa universale precede le Chiese particolari, e queste devono sempre conformarsi a quella, secondo un criterio di unità e universalità. La Chiesa non rimane mai prigioniera di confini politici, razziali e culturali; non si può confondere con gli Stati e neppure con le Federazioni di Stati, perché la sua unità è di genere diverso e aspira ad attraversare tutte le frontiere umane.

Da questo, cari fratelli, deriva un criterio pratico di discernimento per la vita cristiana: quando una persona, o una comunità, si chiude nel proprio modo di pensare e di agire, è segno che si è allontanata dallo Spirito Santo. Il cammino dei cristiani e delle Chiese particolari deve sempre confrontarsi con quello della Chiesa una e cattolica, e armonizzarsi con esso. Ciò non significa che l’unità creata dallo Spirito Santo sia una specie di egualitarismo. Al contrario, questo è piuttosto il modello di Babele, cioè l’imposizione di una cultura dell’unità che potremmo definire “tecnica”. La Bibbia, infatti, ci dice (cfr Gen 11,1-9) che a Babele tutti parlavano una sola lingua. A Pentecoste, invece, gli Apostoli parlano lingue diverse in modo che ciascuno comprenda il messaggio nel proprio idioma. L’unità dello Spirito si manifesta nella pluralità della comprensione. La Chiesa è per sua natura una e molteplice, destinata com’è a vivere presso tutte le nazioni, tutti i popoli, e nei più diversi contesti sociali. Essa risponde alla sua vocazione, di essere segno e strumento di unità di tutto il genere umano (cfr Lumen gentium, 1), solo se rimane autonoma da ogni Stato e da ogni cultura particolare. Sempre e in ogni luogo la Chiesa dev’essere veramente, cattolica e universale, la casa di tutti in cui ciascuno si può ritrovare.

Il racconto degli Atti degli Apostoli ci offre anche un altro spunto molto concreto. L’universalità della Chiesa viene espressa dall’elenco dei popoli, secondo l’antica tradizione: “Siamo Parti, Medi, Elamiti…”, eccetera. Si può osservare qui che san Luca va oltre il numero 12, che già esprime sempre un’universalità. Egli guarda oltre gli orizzonti dell’Asia e dell’Africa nord-occidentale, e aggiunge altri tre elementi: i “Romani”, cioè il mondo occidentale; i “Giudei e prosèliti”, comprendendo in modo nuovo l’unità tra Israele e il mondo; e infine “Cretesi e Arabi”, che rappresentano Occidente e Oriente, isole e terra ferma. Questa apertura di orizzonti conferma ulteriormente la novità di Cristo nella dimensione dello spazio umano, della storia delle genti: lo Spirito Santo coinvolge uomini e popoli e, attraverso di essi, supera muri e barriere.

A Pentecoste lo Spirito Santo si manifesta come fuoco. La sua fiamma è discesa sui discepoli riuniti, si è accesa in essi e ha donato loro il nuovo ardore di Dio. Si realizza così ciò che aveva predetto il Signore Gesù: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12,49). Gli Apostoli, insieme ai fedeli delle diverse comunità, hanno portato questa fiamma divina fino agli estremi confini della Terra; hanno aperto così una strada per l’umanità, una strada luminosa, e hanno collaborato con Dio che con il suo fuoco vuole rinnovare la faccia della terra. Com’è diverso questo fuoco da quello delle guerre e delle bombe! Com’è diverso l’incendio di Cristo, propagato dalla Chiesa, rispetto a quelli accesi dai dittatori di ogni epoca, anche del secolo scorso, che lasciano dietro di sé terra bruciata. Il fuoco di Dio, il fuoco dello Spirito Santo, è quello del roveto che divampa senza bruciare (cfr Es 3,2). E’ una fiamma che arde, ma non distrugge; che, anzi, divampando fa emergere la parte migliore e più vera dell’uomo, come in una fusione fa emergere la sua forma interiore, la sua vocazione alla verità e all’amore.

Un Padre della Chiesa, Origene, in una delle sue Omelie su Geremia, riporta un detto attribuito a Gesù, non contenuto nelle Sacre Scritture ma forse autentico, che recita così: «Chi è presso di me è presso il fuoco» (Omelia su Geremia L. I [III]). In Cristo, infatti, abita la pienezza di Dio, che nella Bibbia è paragonato al fuoco. Abbiamo osservato poco fa che la fiamma dello Spirito Santo arde ma non brucia. E tuttavia essa opera una trasformazione, e perciò deve consumare qualcosa nell’uomo, le scorie che lo corrompono e lo ostacolano nelle sue relazioni con Dio e con il prossimo. Questo effetto del fuoco divino però ci spaventa, abbiamo paura di essere “scottati”, preferiremmo rimanere così come siamo. Ciò dipende dal fatto che molte volte la nostra vita è impostata secondo la logica dell’avere, del possedere e non del donarsi. Molte persone credono in Dio e ammirano la figura di Gesù Cristo, ma quando viene chiesto loro di perdere qualcosa di se stessi, allora si tirano indietro, hanno paura delle esigenze della fede. C’è il timore di dover rinunciare a qualcosa di bello, a cui siamo attaccati; il timore che seguire Cristo ci privi della libertà, di certe esperienze, di una parte di noi stessi. Da un lato vogliamo stare con Gesù, seguirlo da vicino, e dall’altro abbiamo paura delle conseguenze che ciò comporta.

Cari fratelli e sorelle, abbiamo sempre bisogno di sentirci dire dal Signore Gesù quello che spesso ripeteva ai suoi amici: “Non abbiate paura”. Come Simon Pietro e gli altri, dobbiamo lasciare che la sua presenza e la sua grazia trasformino il nostro cuore, sempre soggetto alle debolezze umane. Dobbiamo saper riconoscere che perdere qualcosa, anzi, se stessi per il vero Dio, il Dio dell’amore e della vita, è in realtà guadagnare, ritrovarsi più pienamente. Chi si affida a Gesù sperimenta già in questa vita la pace e la gioia del cuore, che il mondo non può dare, e non può nemmeno togliere una volta che Dio ce le ha donate. Vale dunque la pena di lasciarsi toccare dal fuoco dello Spirito Santo! Il dolore che ci procura è necessario alla nostra trasformazione. E’ la realtà della croce: non per nulla nel linguaggio di Gesù il “fuoco” è soprattutto una rappresentazione del mistero della croce, senza il quale non esiste cristianesimo. Perciò, illuminati e confortati da queste parole di vita, eleviamo la nostra invocazione: Vieni, Spirito Santo! Accendi in noi il fuoco del tuo amore! Sappiamo che questa è una preghiera audace, con la quale chiediamo di essere toccati dalla fiamma di Dio; ma sappiamo soprattutto che questa fiamma – e solo essa – ha il potere di salvarci. Non vogliamo, per difendere la nostra vita, perdere quella eterna che Dio ci vuole donare. Abbiamo bisogno del fuoco dello Spirito Santo, perché solo l’Amore redime. Amen.

[Papa Benedetto, omelia 23 maggio 2010]

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Jesus contrasts the ancient prohibition of perjury with that of not swearing at all (Matthew 5: 33-38), and the reason that emerges quite clearly is still founded in love: one must not be incredulous or distrustful of one's neighbour when he is habitually frank and loyal, and rather one must on the one hand and on the other follow this fundamental law of speech and action: "Let your language be yes if it is yes; no if it is no. The more is from the evil one" (Mt 5:37) [John Paul II]
Gesù contrappone all’antico divieto di spergiurare, quello di non giurare affatto (Mt 5, 33-38), e la ragione che emerge abbastanza chiaramente è ancora fondata nell’amore: non si deve essere increduli o diffidenti col prossimo, quando è abitualmente schietto e leale, e piuttosto occorre da una parte e dall’altra seguire questa legge fondamentale del parlare e dell’agire: “Il vostro linguaggio sia sì, se è sì; no, se è no. Il di più viene dal maligno” (Mt 5, 37) [Giovanni Paolo II]
And one thing is the woman before Jesus, another thing is the woman after Jesus. Jesus dignifies the woman and puts her on the same level as the man because he takes that first word of the Creator, both are “God’s image and likeness”, both; not first the man and then a little lower the woman, no, both. And the man without the woman next to him - both as mother, as sister, as bride, as work partner, as friend - that man alone is not the image of God (Pope Francis)
E una cosa è la donna prima di Gesù, un’altra cosa è la donna dopo Gesù. Gesù dignifica la donna e la mette allo stesso livello dell’uomo perché prende quella prima parola del Creatore, tutti e due sono “immagine e somiglianza di Dio”, tutti e due; non prima l’uomo e poi un pochino più in basso la donna, no, tutti e due. E l’uomo senza la donna accanto – sia come mamma, come sorella, come sposa, come compagna di lavoro, come amica – quell’uomo solo non è immagine di Dio (Papa Francesco)
Only one creature has already scaled the mountain peak: the Virgin Mary. Through her union with Jesus, her righteousness was perfect: for this reason we invoke her as Speculum iustitiae. Let us entrust ourselves to her so that she may guide our steps in fidelity to Christ’s Law (Pope Benedict)
Una sola creatura è già arrivata alla cima della montagna: la Vergine Maria. Grazie all’unione con Gesù, la sua giustizia è stata perfetta: per questo la invochiamo Speculum iustitiae. Affidiamoci a lei, perché guidi anche i nostri passi nella fedeltà alla Legge di Cristo (Papa Benedetto)
Jesus showed us with a new clarity the unifying centre of the divine laws revealed on Sinai […]  Indeed, in his life and in his Paschal Mystery Jesus brought the entire law to completion.  Uniting himself with us through the gift of the Holy Spirit, he carries with us and in us the “yoke” of the law, which thereby becomes a “light burden” (Pope Benedict)
Gesù ci ha mostrato con una nuova chiarezza il centro unificante delle leggi divine rivelate sul Sinai […] Anzi, Gesù nella sua vita e nel suo mistero pasquale ha portato a compimento tutta la legge. Unendosi con noi mediante il dono dello Spirito Santo, porta con noi e in noi il "giogo" della legge, che così diventa un "carico leggero" (Papa Benedetto)
The light of our faith, in giving of oneself, does not fade but strengthens. However it can weaken if we do not nourish it with love and with charitable works. In this way the image of light complements that of salt. The Gospel passage, in fact, tells us that, as disciples of Christ, we are also “the salt of the earth” (Pope Francis)

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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