Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
Solennità di Pentecoste, Tradizione viva
Negli Inni Sacri Manzoni paragona la caduta spirituale dell’umanità al precipitare di una gran pietra lungo uno «scheggiato» pendio; masso che infine «batte sul fondo e sta».
Per natura non abbiamo le capacità di risospingere il nostro macigno, rotolato a valle e «abbandonato all’impeto di rumorosa frana» [né appunto provvedere ai suoi fracassi].
Ma il Signore conosce l’uomo nel suo bisogno, e sa che non di rado - nel tempo del nostro disagio - esprimendoci anche affrettatamente, peggioriamo le situazioni.
È una condizione, più che una colpa.
Il Cielo Viene per aiutarci a interiorizzare; per imboccare la via della Felicità indistruttibile, evitando che le lacerazioni distruggano anche l’anima.
A tale scopo lo Spirito dispone a vivere un’Attinenza eminente, di Dimora e reciprocità, d’interpretazione e Radice.
Il suo vento potente - Ruah - viene chiamato «Santo» sia per la qualità suprema che per la sua attività: «santificare» ossia separare le persone dalla voragine dell’autodistruzione.
E un discernimento profondo sul tema vita-morte non è alla nostra portata.
Per questo ben quattro dei tradizionali sette Doni dello Spirito Santo hanno un carattere di profondo sapere.
La comprensione globale sulle cose è quanto caratterizza il Dono di Sapienza [dal latino sāpere, avere sapore] che trasmette all’esistere concreto il gusto di Dio stesso.
La Sapienza infonde nel credente una comprensione sottile, dal punto di vista divino, sul panorama e sui singoli tratti del nostro percorso: dubbioso, incerto, condizionato da situazioni a contorno.
L’occhio di Dio coglie la persona nella sua radicale indigenza, che cerca un completamento (proprio mentre l’affanno dei tentativi o dei pareri e degli influssi esterni gioca brutti scherzi).
Per questo motivo, nell’ascetica tradizionale la Sapienza - metro di Dio - si considerava recasse a perfezione la virtù teologale della Carità.
Insomma, l’uomo in sé non è autonomo: necessita di essere colmato e salvato.
Sapienza è fonte d’intuito dei nostri limiti: principio di tolleranza altrui.
Essa ci trasmette una equilibrata connaturalità, e un diverso ‘profumo’ nelle relazioni; pilastro d’una vita dedicata al bene.
Il Dono d’Intelletto [intus-lēgere, leggere dentro le cose] fa scoprire la trama di Dio nella storia e aiuta a valutare se stessi.
Decifrando i segni del tempo con acume di vista, scopriamo la dimensione non puramente terrena delle vicende. In tal guisa, grani divini deposti nel creato e negli accadimenti.
Vediamo in profondità: per questo era considerato Dono che porta a perfezione la virtù teologale della Fede: guida al cuore delle cose e non lascia che giudichiamo banalmente.
Il Consiglio conduce in vetta l’esercizio valutativo della virtù cardinale della Prudenza.
Un tempo i padri spirituali lo associavano alla spiegazione del brano dell’adultera: lei salvata dagli ipocriti e i vecchi marpioni resi immediatamente e finalmente coscienziosi.
Dono che ci fa capire il Disegno della Salvezza e aiuta a decidere per il meglio in situazioni d’impellenza imprevista o pericolo immediato.
È capacità di discernimento contro la precipitazione.
Il Consiglio accentua il dialogo e la sinergia in ordine alla pratica e alle prospettive di realizzazione personale.
Ad es: quante volte siamo stati in ascolto dei consigli di genitori e nonni - per capire il mondo e far tesoro delle loro esperienze e competenze!
Per noi che a fatica scopriamo le cose a portata di mano, tale Dono spalanca la Direzione di Dio: cosa è conveniente in ordine alla nostra maturità e al Fine ultimo.
Il Dono di Scienza porta anch’esso a perfezione la virtù di Fede, in quanto fa comprendere il valore (straordinario) e il limite (così ordinario) delle creature.
La Scienza dall’alto non consente di cadere nel materialismo, né nel disprezzo delle cose mondane - che ultimamente è diniego dell’opera ineffabile e suprema del Creatore.
Dall’indescrivibilmente piccolo della Fisica dei Quanti, all’infinitamente grande della Relatività [e il loro strano universo di mancate correlazioni] sbalordiamo di Dio.
Tutto parla di Lui e può condurci all’Eterno. Tuttavia, nulla lo cattura in modo assoluto.
Conoscere la realtà ad ampio spettro - nonché il contributo vitale di differenti punti di vista e culture - può far capire anche il prossimo.
E induce a comportarsi con competenza fra le cose: del pensiero, della psiche, dell’anima.
L’amore non sorretto da una capacità di versato discernimento non di rado va alla deriva.
Nell’era dei finti intenditori e dirigisti, non c’è forse cosa più devastante d’un impreparato scatenato nell’azione.
Mio padre falegname sapeva che il migliore del suo campo non è l’artigiano che fa più trucioli.
Gli antichi padri spirituali ribadivano volentieri: «per Scientiam homo cognoscit defecus suos et rerum mundanarum».
Lo vediamo negli insegnamenti approssimativi e persino nei parossismi delle teologie divorate dalla vanità: intimistiche e chiuse, o praticone ma esterne; disincarnate, favolistiche, o balorde.
Grazie al Dono di Fortezza, riconoscendoci deboli diamo spazio al vigore di Dio, non solo nelle grandi prove.
L’azione di spillo può sgretolare la nostra vita, più di una sciabolata.
E chi non ha forza interiore è malato, nelle difficoltà conformista; si barcamena e se ne lava le mani.
Il minimalismo attenua, snerva, fa diventare uomini-bonsai, che vegetano a lungo - restando rattrappiti.
Costanza, coraggio e tenacia sono un aiuto alla debolezza; solo con grinta diamo il meglio, anche nella relazione con Dio - perfezionando la stessa virtù cardinale della fortezza.
Il Dono di Pietas - virtù famigliare - infonde alla religione il cuore; il carattere d’intimità e tenerezza.
È sentimento figliale che integra e dirada la paura dello schiavo di fronte al padrone.
Un tempo era considerato Dono che portava in vetta la virtù cardinale della Giustizia [verso Dio] non come dovere di culto, bensì espressione di amicizia.
Riconoscimento della Gratuità ricevuta senza merito: creaturale e redentiva.
Il Timore di Dio guidava infine a perfezione la virtù teologale della Speranza, carattere dell’essere vivente che tutto attende dal Padre.
La Pentecoste era una festa ebraica che celebrava il dono della Legge. Il cambio di passo della Fede l’ha trasformata nel compleanno del popolo che dispiega nella storia il Volto amabile del Signore.
Non per una differente dottrina, ma per l’Azione d’un Motivo e Motore che ci porta, e rinnova il mondo in modo che non t’aspetti.
Magari con virtù passive più che attive. Grazie a un Sapere infuso o innato, spontaneo e naturale, più che artificiale.
Dimorando nella Persona ricondotta alla Sorgente e nella trama del Noi, il Padre non si pronuncia emanando leggi come il Dio-padrone delle religioni antiche.
Piuttosto, si esprime nella creatività polifonica della vita e nell’inedito dell’amore - unico linguaggio convincente, in grado di edificare.
Comprensibile a tutti.
Insomma, nella convivialità delle differenze ciascuno è se stesso, in rapporto di scambio arricchente.
Trasparenza nella carne della condizione celeste.
Così l’Incarnazione continua: riflesso nell’umano dell’unità, verità e intensità d’intesa Padre-Figlio.
Qui anche la polvere può diventare Splendore, perché il complesso delle virtù cardinali individuali e teologali viene sublimato e perfezionato nella Relazione: il Noi dello Spirito.
Tale Eros fondante è tutt’Altro: addirittura in grado di trasmutare la nostra incoerenza in stato energetico per Nuovi Orizzonti.
(Gv 14,15-16.23-26)
Chi s’innamora scatena una energia nuova: mai più orfani
(Gv 14,15-21)
Gesù sostituisce i Suoi comandamenti (la sua stessa Persona e i suoi valori) a quelli della religione legalista. Non si può amare Qualcuno abituato a prendere nota.
Le differenti espressioni dell’amore sono infinitamente più importanti di un codice di leggi - quello di Mosè - e della proliferazione di norme tipica della tradizione, se essa ci rendesse nervosi e insoddisfatti (sebbene impiantati).
L’uomo accomodato tende a trascinarsi secondo interpretazioni e modi di stare in campo devianti il suo stesso essere profondo.
Affezionati a rubriche logore e desuete, si continua a dare risposte vecchie a problemi nuovi, a non accettare l’emancipazione, la gioia delle scoperte. Così pure le innovazioni che avvicinano, un nuovo pensiero che consenta di cogliere Dio vivo, Presente sempre, quindi in grado con la sua Azione incessante di farci assumere un volto che umanizza.
Quando si consolidano oltre misura, le consuetudini devianti chiudono agli impulsi dello Spirito della Verità, e proprio in nome di Dio. In tal guisa corrompono e soppiantano la purezza della Sorgente, e (a cascata) l’innata fragranza delle nostre essenze particolari.
Invece il Paraclito in noi ci difende dalle inimicizie esteriori e anche dalle potenze interiori che fanno il male: ad es. timori a corrispondere alla Chiamata autentica, smanie di avere potere apparire, che trascinano lontano dalla vita.
Tentativi d’arricchire sì, cercando tuttavia la reciprocità più variegata delle qualità, e accentuando le stesse risorse del prossimo.
Dio si rivela in un volto personale, quindi lo Spirito è il Difensore che ci permette di sbagliare.
Egli spegne il panico degli inizi inattesi, fa intuire la magia che ci protegge; aiuta a sorvolare l’agguato del perfezionismo, il quale rischia sempre di colpire persino gli esordi delle nostre intraprese vocazionali.
L’Amico innato libera dal personaggio, dalle armature, dall’ansia di prestazioni, dal non voler deludere opinioni e aspettative a contorno.
Riporta coi piedi a terra e costringe il nostro occhio a guardarci dentro. Smarrendo e vagando, in Lui ritroveremo il Centro.
Il nostro Alleato fa penetrare il senso dei momenti no - quelli che sembrano un cumulo di accanimenti della sorte - le brutte figure, i fallimenti, i tempi in cui (ad es. per una catena di lutti e persecuzioni) sembra che stiamo attirando le negatività come una calamita.
Nelle situazioni critiche veniamo guidati a staccarci dall’esteriore che finisce per inaridirci e perdere di vista il nostro stesso Nucleo, lo Spirito celato.
Quando la realtà attorno diventa precaria, il nocciolo interiore è come costretto a ritrovare la giusta distanza dalle cose di fuori.
Se la realtà costringe a spazzar via tutto, siamo messi in condizione di dover cercare e spalancare nuovi varchi: si affacceranno idee, energie e iniziative impreviste.
Talora sarà il caos stesso a risolvere i veri problemi, generati proprio dallo stile di vita assuefatto (o dal punto di vista) più che dalla realtà.
La confusione si affaccia forse troppo spesso - ma affinché possiamo finalmente interrogarci sui nostri reali interessi, su ciò cui non stiamo dando spazio. Ad es.: quale aspetto, inclinazione, filoni di attività, relazioni, corrisponderebbero profondamente, e farebbero stare bene tutti.
Così invece di vivere distratti e come portati da dinamiche che non ci appartengono, apprenderemmo a vivere intensamente nell’adesso. Impareremmoi ad accogliere e leggere ciò che la marea della vita reca in termini di novità, ogni giorno e di volta in volta.
Allentando i controlli, i giudizi, le smanie di progetto, il dirigismo e volontarismo, lasceremmo che sia il Dono a farsi Deposito, il fatto reale a suggerire il percorso, e prendere la guida delle esperienze.
Cedendo, passo dopo passo impareremmo a lasciarci inondare: e sarà quel che invade a farci rifiorire, attraverso processi che elaborano l’impensabile.
Se puta caso avessimo messo in sordina le passioni per non sembrare deboli, o fatto scelte artificiose per privilegiare il consenso attorno - e l’autocontrollo... Se non avessimo ancora imparato a essere diretti, il Paraclito aiuterà a far venire allo scoperto la parte libera, quella in cui si annida la nostra missione - invece che la carriera (anche ecclesiastica) da vetrina.
Più saremo umani nell’armonia dell’Amore ricevuto che si trasforma in amicizia comunicata a se stessi e agli altri, più consentiremmo all’Oro divino di affiorare in noi e nelle sintonie che ci riportano alla casa ch’è davvero nostra.
Vivendo con meno interventismo le emozioni, lavoreremmo con passione, esprimendoci nella nostra vocazione e non come altri si attendono; forse faremmo le cose in modo del tutto contrario alle aspettative e propositi...
Ma rompendo la monotonia consentiremmo la convivenza tra opposte polarità, e il Cuore sarà sempre più amico del nostro destino.
In termini biblici, Spirito (Ruah) non designa un’entità ineffabile, bensì reale: esso è un alito potente, in grado di buttare all’aria tutto ciò che vuol permanere fisso e installato.
Dio è Spirito non in quanto invisibile e irraggiungibile, ma perché nella sua azione si esprime una forza travolgente, incontenibile, impetuosa. È il nostro sogno: partecipare di questo Vento dagli effetti imprevedibili.
Lo Spirito si muove e dà la spinta per mettere in movimento: scaturigine di vita, strumento dell’opera divina nella storia.
La Legge religiosa può anche indicare la direzione giusta, ma non dona convinzione, non fa comprendere l’assurdo dell’amore e la sua incredibile fecondità, né ci trasmette l’energia che porta a destinazione.
Per questo motivo, Gesù non è un modello, ma motivo e motore: non ha insegnato solo una strada, ma ancora ci comunica la sua spinta per centrare l’obbiettivo della vita.
Il suo Spirito donato è chiamato Paraclito (“chiamato accanto”, con termine mediato dal linguaggio forense): una sorta di avvocato che in tribunale si affiancava all’imputato in difficoltà, per scagionarlo - in perfetto silenzio.
È lo Spirito del Cristo che riduce all’impotenza il male e rende vane le accuse contro. Di fronte alle difficoltà possiamo procedere senza lasciarci cadere le braccia.
Lo Spirito del Signore è anche a servizio della Verità (teologica): la Fedeltà dell’Amore divino.
In breve: mentre la Chiesa porge risposte nuove a domande nuove, è lo Spirito della Verità a garantire che il Vangelo non venga corrotto, anzi introduca i discepoli nella pienezza della vita e nell’inattesa ricchezza e radicalità del suo stesso Richiamo.
Non diremo mai nulla di nuovo, e neppure il contrario: mantenendoci aperti ai suoi impulsi, coglieremo fino in fondo il Mistero che avvolge il senso della nostra vita in Cristo.
Dimora e reciprocità, interpretazione e radice
Generatrici dal basso
(Gv 14,21-26)
L’amore del Padre ci unisce a Cristo attraverso una chiamata che si manifesta onda su onda. E su tale sentiero il Figlio stesso si rivela, anche grazie alla vita di comunità autentica.
Il passo di Vangelo riflette la catechesi a domande e risposte tipica delle comunità giovannee dell’Asia Minore, impegnate a interrogarsi: stavolta il tema dell’incomprensione è introdotta da Giuda, non l’Iscariota.
Anche i giudei avevano atteso un’uscita pubblica eloquente, per credere alla condizione divina di Gesù di Nazaret. Forse una manifestazione così dimessa non poteva che generare scetticismo.
Come mai in Lui si resta nella sfera del nascondimento, e i suoi stessi intimi non si scatenano nelle reazioni? Non sarebbe opportuno un colpo di scena aperto e sensazionale?
E perché vivere dal di dentro le difficoltà? Poi, come mai le relazioni considerate “importanti” erano valutate con avversione crescente, estranee, irritanti?
Ebbene, il messianismo vulnerabile del Cristo - in apparenza difensivo, evitante - non è del genere che dissipa i dubbi.
Egli permaneva spoglio. Così non ha smarrito la propria naturalità; quasi avesse percepito il pericolo delle aberrazioni altisonanti, tutte esterne.
Il Messia autentico proteggeva la sua identità, il suo carattere umano, spirituale, missionario. In tal guisa ha evitato tutti i titoli gloriosi eccessivi previsti nella cultura teologica nell’antico Israele.
La vita di Fede in noi continua anch’essa invisibile: non circondata di miracoli esteriori e sensazioni forti… piuttosto, innervata di convincimenti (riconosciuti in se stessi).
Nel tempo della nuova relazione con Dio e i fratelli, l’antico concetto di Unto del Signore che osserva e impone a tutte le nazioni la Legge del popolo eletto (con forza) non ha alcun rilievo.
In qualsiasi condizione e latitudine, Dio è sempre presente e operante, a partire dal nucleo, per farci ritrovare il respiro dell’essere.
Il Padre, il Figlio e i credenti formano nella mutua conoscenza un circolo di amore, reciprocità e ubbidienza a maglie larghe, mediante risposte libere non stereotipe né paralizzanti.
Non parcellizzate su dettagli e casistiche, bensì centrate su opzioni fondamentali.
«I miei comandamenti» [v.21: genitivo soggettivo] è un’espressione teologica che designa la stessa Persona del Risorto in atto.
“Persona” dispiegata nella storia degli uomini grazie al suo Corpo mistico: il variegato Popolo di Dio, la cui poliedricità è valore aggiunto (non limite o contaminazione della purezza).
Beninteso, l’Amore è l’unica realtà che non si può “comandare”.
Ma Gesù lo designa e propugna tale per sottolineare il distacco dal Patto del Sinai, che riassume - ma sostituisce.
La forma plurale «comandamenti» riconosce il ventaglio delle svariate forme di scambievolezza e personalizzazione dell’amore.
Nessun orientamento, dottrina o codice potrà mai superarlo, o viceversa renderlo paludoso.
Nei Vangeli si parla di amore non in termini di sentimento [di emozione soggetta a flessioni, o che si regola sulla base delle perfezioni dell’amato] ma come azione reale, gesto che fa sentire l’altro libero e adeguato.
Il Popolo di Dio riflette Cristo nella misura in cui sviluppa il proprio destino vivendo totalmente di dono, risposta, scambio e sovrabbondare nella Gratuità.
Tutto ciò in modo vieppiù inedito per ciascuna persona, per ogni situazione micro o macro-relazionale; età della vita, caratteristiche, tipologia di difetti, o paradigma culturale vigente.
Insomma, il Signore non gradisce che c’innalziamo staccandoci dalla terra e dai fratelli: l’onore dovuto al Padre è quello che porgiamo ai suoi figli.
Quindi non c’è bisogno di sollevarsi per vie di osservanza ascetica [“salire” come al piano superiore: l’ascensore è solo discendente].
È Lui che si rivela, proponendosi a noi: questa la sua letizia.
Viene giù dal “cielo”.
Si manifesta in noi stessi e dentro le pieghe della storia, palesando il desiderio di fondersi con la nostra vita (v.21) per accrescerla, completarla e potenziarne le capacità (in termini qualitativi).
Gli Apostoli, condizionati dalla mentalità religiosa convenzionale - tutta passerelle - s’interrogano circa l’atteggiamento di Gesù, modesto e poco incline allo spettacolo (v.22).
Non accettano un Messia che non s’imponga all’attenzione di tutti, non stupisca il mondo, non urli proclami da forsennato.
Il Maestro preferisce che nella sua Parola riconosciamo una corrispondenza attiva con il desiderio di vita integrale che ci portiamo dentro (vv.23-24).
Tale Logos-evento va assunto nell’essere, quale Richiamo distinto dai luoghi comuni del pensiero diffuso, conformista, altrui.
In detto Appello si annida infatti una simpatia, un’intesa, una freccia, una vigoria efficiente e creatrice, che si rende Fuoco e solidità di Presenza personale, a partire dall’interno - al contempo fievole e squillante.
Nella cultura forense antica, «Paraclito» (v.26) era detto il personaggio eminente dell’assemblea - oggi diremmo una sorta di avvocato - che senza nulla dire si poneva accanto per giustificare l’imputato.
[Quest’ultimo poteva essere colpevole, ma meritevole di perdono; però aveva bisogno di una sorta di pubblico garante che ne garantisse la sorte. Ovvero poteva essere innocente, ma impossibilitato o incapace di trovare testimoni a suo favore che lo scagionassero…]
Tale attributo dello Spirito allude a un’intensità, intimo fondamento e reciprocità di Relazione silenziosa che si fa Persona, e sa dove andare; che conduce il cuore, il carattere, la vita stessa, non alla gogna, bensì alla piena fioritura di noi stessi.
Grazie al Suo sostegno non c’incantiamo di ruoli altisonanti, parole forti; formule, impressioni, sentimenti tumultuosi: entriamo nella profondità esigente, compiuta, dell’Amore.
Allarghiamo il campo. Accogliamo una immagine guida diversa, che incalza e coglie di sorpresa, ma sottilmente; non rinfaccia, né ci sgrida.
Esperienza che avviene senza terremoti, tuoni e folgori - parziali - ma attraverso l’azione dello Spirito che interiorizza, accompagna, nutre, rende aggiornata e viva l’interpretazione della Parola (v.26).
Il Messaggio dei Vangeli ha una radice generatrice che non può ridursi a un’esperienza unilaterale e ingombrante, tutta codificata e moralista ma vuota come nelle situazioni settarie, sempre in lotta con se stesse e il mondo.
Avventurandosi nel proprio Esodo, ciascuno scopre risorse celate e un amplificarsi di prospettive che dilatano e completano l’essere, allargando l’esperienza del carattere vocazionale che gli corrisponde.
Tra vita in cammino e Parola di Dio - regola d’oro che regala autostima - si accende una comprensione impredicibile, versatile, eclettica, non a senso unico, la quale travalica le concatenazioni identitarie.
Nella sua portata, il Richiamo rimane identico, ma nel tempo espande la consapevolezza delle sue sfaccettature - appunto, integrandole.
Espressività ricche e non già ratificate, Creatore e creatura non si esternano autenticamente in modo fisso, sancito, e in riferimento a un codice dottrina-disciplina, ma nella libertà eccedente della vita.
Anche oggi, al soverchiare dei nuovi bisogni e quesiti, si affaccia un sovrabbondare appropriato di nuove risposte - finalmente anche da parte del Magistero.
Plausibili nell’avventura di Fede, ma che farebbero impazzire ogni religione.
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Riconosci l’Opera dello Spirito o la rifiuti come una seccatura? Cosa ti colpisce del nuovo Magistero?
Ritrovi questa impostazione nell’Annuncio, nella Catechesi, nell’Animazione, nella Pastorale e nel tuo stesso Cammino?
Incapaci di peccato
(At 2,1-11)
Pentecoste è la festa del Dono, semplicemente. Il linguaggio di Atti degli Apostoli è piuttosto impressionante e colorito: infarcisce l’evento con prodigi simbolici che è bene decifrare.
Tuoni, folgori, vento e fuoco erano le immagini che avevano accompagnato la rivelazione della legge antica. Con esse Lc vuol sottolineare la potenza del mondo avvenire.
I rabbini sostenevano che sul Sinai le Parole di Dio avevano preso forma di settanta lingue di fuoco - a dire che l’intera Torah era destinata alle moltitudini, anche ai pagani.
Secondo interpretazione tradizionale, le Parole divine si erano rese visibili [«il popolo vedeva le voci»; testo ebraico] sotto forma di fiamme che avevano scolpito le tavole di pietra preparate da Mosè (Es 20,18).
Su tale sfondo, Lc intende presentare il dono della nuova Legge - quella dello Spirito - e impiega le medesime icone bibliche per farsi capire, non per raccontare cronache di dettaglio.
Le figure vigorose suggeriscono un’esplosione potente, che butta all’aria tutta la vita - questo il punto.
Ciò a dire: per una liberazione radicale dalle vecchie strutture che mascheravano il peccato e (troppe) doppiezze, ossessioni o quietismi, deve giungere lo Spirito divino.
Solo la sua forza inattesa e sconvolgente può cambiare la faccia della terra e far nascere trasformazioni radicali.
Impossibile ottenerlo autenticamente, generando qualsiasi rivolgimento a partire dal limite del nostro genio e muscoli.
È fuori dalle nostre capacità far cadere condizionamenti, barriere ataviche, e attivare la Novità poliedrica di Dio che ci umanizza.
Solo una Relazione fondante può ad es. convincere che le iniziative coraggiose e il trionfo della vita passano attraverso una forma di morte. Morte del pensiero comune, del mondo antico, di condizionamenti e mode - e del vuoto di se-stessi-a-modo.
Un’opera essenziale - per incontrare la molteplicità dei volti; propri e altrui.
Le “molte lingue parlate” stanno appunto a indicare l’universalismo ora graffiante del messaggio di Cristo e della sua Chiesa.
Il Dono viene da una Presenza ‘dentro’ noi e gli accadimenti. Ma è destinato appunto alle moltitudini, senza più barriere.
Il disastro di Babele è redento sia dall’alto che dal basso, perché qui e ora le difformità diventano risorse preziose.
Chi si lascia guidare dallo Spirito recupera le tante sfaccettature, anche dei [personali e non] lati in ombra.
In tal guisa si esprime nella lingua che tutti intendono: la Comunione, convivialità delle differenze.
È l’amore che fa tesoro di tutto e riunisce tutti (vv.7-11) facendo sparire le fissazioni idolatriche della religione selettiva - quella delle purità dalle sfumature individualiste o etniche; idolatrie legate all’estrazione culturale.
Tutti gli autori del Nuovo Testamento partono dalla realtà della presenza dello Spirito; Lc osa invece ‘descriverla’.
La discesa dello Spirito è dunque collocata nel giorno di Pentecoste, cinquanta giorni dalla Pasqua.
Ma in Gv (20,22) Gesù comunica lo Spirito che anima i credenti e la Chiesa… il medesimo giorno della Risurrezione.
Come la stessa liturgia propone nei suoi segni ed espressioni simboliche, il Mistero della Pasqua è Uno.
A dirla tutta: il Crocifisso «consegnò lo Spirito» già dalla Croce (Gv 19,30).
Lc descrive il denso significato dell’unico Mistero-realtà pasquale in tre “momenti”-aspetti successivi di maturazione dei discepoli.
Essi diventano ‘apostoli’ [Risurrezione, Ascensione, Pentecoste] non per trasmetterci una cronaca di fatti particolari, bensì per aiutare a comprenderne il rilievo e i molteplici aspetti.
Gv invece colloca la consegna dello Spirito dalla Croce e nella sera di Pasqua, per evidenziarlo quale Dono globale del Crocifisso Risorto.
L’autore di At pone emblematicamente tale portato nel giorno di Pentecoste, per sottolineare il rapporto e distacco dalla festività ebraica.
Festa che però forniva uno scenario perfetto: era festa di pellegrinaggio che richiamava in Gerusalemme ebrei sia palestinesi che della diaspora.
Le origini “ufficiali” della Comunità resa consapevole del suo compito di «Inviata in uscita» si alimentava - in più - d’un sottile riferimento allo Spirito della Creazione.
L’alito della Ruah - Spirito divino [in ebraico di genere femminile] diventa il soffio vitale e vento impetuoso che investe la «Casa» (v.2) rigenerando e costringendo i timorosi seguaci, ancora seduti al Tempio (Lc 24,53).
L’antica Pentecoste celebrava l’arrivo del popolo al monte Sinai e il dono della Legge [che teologizzava la festa agricola del ringraziamento per la raccolta del frumento, la quale a sua volta concludeva il ciclo della natura rinascente che aveva avuto inizio a Pasqua e precedeva la festa delle Capanne poi svolta in occasione della grande raccolta d’autunno; nella tradizione dei pastori, la Pasqua era una teologizzazione del rito apotropaico del sacrificio d’un agnello per propiziarsi l’esito della transumanza primaverile, mentre Pentecoste la sua festa conclusiva sulle alture e che precedeva il ritorno agli ovili nell’autunno successivo].
Lc vuole insegnare che lo Spirito ha sostituito la Torah: è divenuto la nuova norma di comportamento e l’unico criterio non esteriore di comunione con Dio.
L’autore evoca la tradizionale festa ebraica, quasi per comparazione - onde segnare il suo compimento-pienezza. Ma come la Pasqua, anche Pentecoste è tesa all’avvenire.
L’evangelista vuol dimostrare l’ampiezza della destinazione dello Spirito su «dodici» regioni diverse, veicolata dal fuoco della Parola (v.3) la quale abilitava all’Annuncio verso tutte le nazioni sulla terra.
Ma anzitutto Lc ha come intento di farne comprendere la reale incisività.
L’autore del terzo Vangelo e di At si rende conto che per ottenere opere di giustizia e amore, agli uomini non basta indicare la strada giusta.
È l’Eterno stesso che deve diventare Soggetto affidabile della storia, unico propulsore della vita.
Pertanto, Dio ha dovuto cambiare il nostro cuore: precetti e consigli non sono sufficienti a modificare l’istinto profondo di persone e popoli.
La normativa esterna ci fa solo diventare epidermici: non coglie l’intimo, non convince il cuore.
Ogni azione genuina è espressione d’una adesione profonda, d’un desiderio dell’anima, di un impulso intimo coinvolgente.
La legge dello Spirito è una sorta di fantasia al potere, ma non sta al di fuori, né richiede in sé alcuno sforzo contromano con il proprio carattere - in radice.
Il «cuore nuovo» è la vita stessa di Dio che entra in noi per trasformarci, non in termini moralistici o di modello - bensì dilatando l’esistenza in modo genuino, a partire dal seme, dal nostro nucleo.
Quando la Vita dell’Eterno pulsa nell’anima di chiunque, spontaneamente manifesta Dio nella storia degli uomini.
E produce le sue opere vitali - con un’azione impensabile, trasmutandoci da rovi in alberi fecondi.
Senza più artificio e doppiezza, il nostro deserto incerto diventa giardino.
Addirittura iniziamo ad amare con la qualità d’amore stessa di Dio - talora senza neanche il proposito e la disciplina, o la stessa consapevolezza di volerlo fare.
Da quando lo Spirito prende dimora in qualsiasi donna o uomo, essi non hanno più bisogno di farsi ammaestrare dall’opinione altrui: possono finalmente essere se stessi.
«E questa è la Promessa che Egli ci ha fatto: la Vita dell’Eterno. Questo vi ho scritto riguardo a coloro che cercano d’ingannarvi. E quanto a voi, l’unzione che avete ricevuto da Lui rimane in voi e non avete bisogno che qualcuno vi istruisca . Ma come la sua unzione v’insegna ogni cosa ed è veritiera e non mentisce, così ora rimanete in Lui com’essa vi ha istruito» (1Gv 2,25-27).
Tutto quanto resta esterno o lontano, svapora, e senza fatica perde consistenza.
Ciò perché non c’è più legge o pensiero cerebrale che tenga, né obblighi di contorno alcuno.
Diventiamo «incapaci di peccato»: siamo passati dal senso religioso che intimidiva e rendeva proni, alla dignità piena della Fede.
«Chiunque è nato da Dio non commette peccato perché in lui dimora un germe divino e non può peccare, perché è nato da Dio» (1Gv 3,9).
Cari fratelli e sorelle,
nella celebrazione solenne della Pentecoste siamo invitati a professare la nostra fede nella presenza e nell’azione dello Spirito Santo e a invocarne l’effusione su di noi, sulla Chiesa e sul mondo intero. Facciamo nostra, dunque, e con particolare intensità, l’invocazione della Chiesa stessa: Veni, Sancte Spiritus! Un’invocazione tanto semplice e immediata, ma insieme straordinariamente profonda, sgorgata prima di tutto dal cuore di Cristo. Lo Spirito Santo, infatti, è il dono che Gesù ha chiesto e continuamente chiede al Padre per i suoi amici; il primo e principale dono che ci ha ottenuto con la sua Risurrezione e Ascensione al Cielo.
Di questa preghiera di Cristo ci parla il brano evangelico odierno, che ha come contesto l’Ultima Cena. Il Signore Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre» (Gv 14,15-16). Qui ci viene svelato il cuore orante di Gesù, il suo cuore filiale e fraterno. Questa preghiera raggiunge il suo vertice e il suo compimento sulla croce, dove l’invocazione di Cristo fa tutt’uno con il dono totale che Egli fa di se stesso, e così il suo pregare diventa per così dire il sigillo stesso del suo donarsi in pienezza per amore del Padre e dell’umanità: invocazione e donazione dello Spirito s’incontrano, si compenetrano, diventano un’unica realtà. «E io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre». In realtà, la preghiera di Gesù – quella dell’Ultima Cena e quella sulla croce – è una preghiera che permane anche in Cielo, dove Cristo siede alla destra del Padre. Gesù, infatti, vive sempre il suo sacerdozio d’intercessione a favore del popolo di Dio e dell’umanità e quindi prega per tutti noi chiedendo al Padre il dono dello Spirito Santo.
Il racconto della Pentecoste nel libro degli Atti degli Apostoli – lo abbiamo ascoltato nella prima lettura (cfr At 2,1-11) – presenta il “nuovo corso” dell’opera di Dio iniziato con la risurrezione di Cristo, opera che coinvolge l’uomo, la storia e il cosmo. Dal Figlio di Dio morto e risorto e ritornato al Padre spira ora sull’umanità, con inedita energia, il soffio divino, lo Spirito Santo. E cosa produce questa nuova e potente auto-comunicazione di Dio? Là dove ci sono lacerazioni ed estraneità, essa crea unità e comprensione. Si innesca un processo di riunificazione tra le parti della famiglia umana, divise e disperse; le persone, spesso ridotte a individui in competizione o in conflitto tra loro, raggiunte dallo Spirito di Cristo, si aprono all’esperienza della comunione, che può coinvolgerle a tal punto da fare di loro un nuovo organismo, un nuovo soggetto: la Chiesa. Questo è l’effetto dell’opera di Dio: l’unità; perciò l’unità è il segno di riconoscimento, il “biglietto da visita” della Chiesa nel corso della sua storia universale. Fin dall’inizio, dal giorno di Pentecoste, essa parla tutte le lingue. La Chiesa universale precede le Chiese particolari, e queste devono sempre conformarsi a quella, secondo un criterio di unità e universalità. La Chiesa non rimane mai prigioniera di confini politici, razziali e culturali; non si può confondere con gli Stati e neppure con le Federazioni di Stati, perché la sua unità è di genere diverso e aspira ad attraversare tutte le frontiere umane.
Da questo, cari fratelli, deriva un criterio pratico di discernimento per la vita cristiana: quando una persona, o una comunità, si chiude nel proprio modo di pensare e di agire, è segno che si è allontanata dallo Spirito Santo. Il cammino dei cristiani e delle Chiese particolari deve sempre confrontarsi con quello della Chiesa una e cattolica, e armonizzarsi con esso. Ciò non significa che l’unità creata dallo Spirito Santo sia una specie di egualitarismo. Al contrario, questo è piuttosto il modello di Babele, cioè l’imposizione di una cultura dell’unità che potremmo definire “tecnica”. La Bibbia, infatti, ci dice (cfr Gen 11,1-9) che a Babele tutti parlavano una sola lingua. A Pentecoste, invece, gli Apostoli parlano lingue diverse in modo che ciascuno comprenda il messaggio nel proprio idioma. L’unità dello Spirito si manifesta nella pluralità della comprensione. La Chiesa è per sua natura una e molteplice, destinata com’è a vivere presso tutte le nazioni, tutti i popoli, e nei più diversi contesti sociali. Essa risponde alla sua vocazione, di essere segno e strumento di unità di tutto il genere umano (cfr Lumen gentium, 1), solo se rimane autonoma da ogni Stato e da ogni cultura particolare. Sempre e in ogni luogo la Chiesa dev’essere veramente, cattolica e universale, la casa di tutti in cui ciascuno si può ritrovare.
Il racconto degli Atti degli Apostoli ci offre anche un altro spunto molto concreto. L’universalità della Chiesa viene espressa dall’elenco dei popoli, secondo l’antica tradizione: “Siamo Parti, Medi, Elamiti…”, eccetera. Si può osservare qui che san Luca va oltre il numero 12, che già esprime sempre un’universalità. Egli guarda oltre gli orizzonti dell’Asia e dell’Africa nord-occidentale, e aggiunge altri tre elementi: i “Romani”, cioè il mondo occidentale; i “Giudei e prosèliti”, comprendendo in modo nuovo l’unità tra Israele e il mondo; e infine “Cretesi e Arabi”, che rappresentano Occidente e Oriente, isole e terra ferma. Questa apertura di orizzonti conferma ulteriormente la novità di Cristo nella dimensione dello spazio umano, della storia delle genti: lo Spirito Santo coinvolge uomini e popoli e, attraverso di essi, supera muri e barriere.
A Pentecoste lo Spirito Santo si manifesta come fuoco. La sua fiamma è discesa sui discepoli riuniti, si è accesa in essi e ha donato loro il nuovo ardore di Dio. Si realizza così ciò che aveva predetto il Signore Gesù: «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!» (Lc 12,49). Gli Apostoli, insieme ai fedeli delle diverse comunità, hanno portato questa fiamma divina fino agli estremi confini della Terra; hanno aperto così una strada per l’umanità, una strada luminosa, e hanno collaborato con Dio che con il suo fuoco vuole rinnovare la faccia della terra. Com’è diverso questo fuoco da quello delle guerre e delle bombe! Com’è diverso l’incendio di Cristo, propagato dalla Chiesa, rispetto a quelli accesi dai dittatori di ogni epoca, anche del secolo scorso, che lasciano dietro di sé terra bruciata. Il fuoco di Dio, il fuoco dello Spirito Santo, è quello del roveto che divampa senza bruciare (cfr Es 3,2). E’ una fiamma che arde, ma non distrugge; che, anzi, divampando fa emergere la parte migliore e più vera dell’uomo, come in una fusione fa emergere la sua forma interiore, la sua vocazione alla verità e all’amore.
Un Padre della Chiesa, Origene, in una delle sue Omelie su Geremia, riporta un detto attribuito a Gesù, non contenuto nelle Sacre Scritture ma forse autentico, che recita così: «Chi è presso di me è presso il fuoco» (Omelia su Geremia L. I [III]). In Cristo, infatti, abita la pienezza di Dio, che nella Bibbia è paragonato al fuoco. Abbiamo osservato poco fa che la fiamma dello Spirito Santo arde ma non brucia. E tuttavia essa opera una trasformazione, e perciò deve consumare qualcosa nell’uomo, le scorie che lo corrompono e lo ostacolano nelle sue relazioni con Dio e con il prossimo. Questo effetto del fuoco divino però ci spaventa, abbiamo paura di essere “scottati”, preferiremmo rimanere così come siamo. Ciò dipende dal fatto che molte volte la nostra vita è impostata secondo la logica dell’avere, del possedere e non del donarsi. Molte persone credono in Dio e ammirano la figura di Gesù Cristo, ma quando viene chiesto loro di perdere qualcosa di se stessi, allora si tirano indietro, hanno paura delle esigenze della fede. C’è il timore di dover rinunciare a qualcosa di bello, a cui siamo attaccati; il timore che seguire Cristo ci privi della libertà, di certe esperienze, di una parte di noi stessi. Da un lato vogliamo stare con Gesù, seguirlo da vicino, e dall’altro abbiamo paura delle conseguenze che ciò comporta.
Cari fratelli e sorelle, abbiamo sempre bisogno di sentirci dire dal Signore Gesù quello che spesso ripeteva ai suoi amici: “Non abbiate paura”. Come Simon Pietro e gli altri, dobbiamo lasciare che la sua presenza e la sua grazia trasformino il nostro cuore, sempre soggetto alle debolezze umane. Dobbiamo saper riconoscere che perdere qualcosa, anzi, se stessi per il vero Dio, il Dio dell’amore e della vita, è in realtà guadagnare, ritrovarsi più pienamente. Chi si affida a Gesù sperimenta già in questa vita la pace e la gioia del cuore, che il mondo non può dare, e non può nemmeno togliere una volta che Dio ce le ha donate. Vale dunque la pena di lasciarsi toccare dal fuoco dello Spirito Santo! Il dolore che ci procura è necessario alla nostra trasformazione. E’ la realtà della croce: non per nulla nel linguaggio di Gesù il “fuoco” è soprattutto una rappresentazione del mistero della croce, senza il quale non esiste cristianesimo. Perciò, illuminati e confortati da queste parole di vita, eleviamo la nostra invocazione: Vieni, Spirito Santo! Accendi in noi il fuoco del tuo amore! Sappiamo che questa è una preghiera audace, con la quale chiediamo di essere toccati dalla fiamma di Dio; ma sappiamo soprattutto che questa fiamma – e solo essa – ha il potere di salvarci. Non vogliamo, per difendere la nostra vita, perdere quella eterna che Dio ci vuole donare. Abbiamo bisogno del fuoco dello Spirito Santo, perché solo l’Amore redime. Amen.
[Papa Benedetto, omelia 23 maggio 2010]
Lo Spirito e i "semi di verità" del pensiero umano
1. Riprendendo un'affermazione del Libro della Sapienza (1,7), il Concilio Ecumenico Vaticano II ci insegna che "lo Spirito del Signore", il quale colma dei suoi doni il popolo di Dio pellegrino nella storia, "replet orbem terrarum", riempie tutto l'universo (cfr Gaudium et spes, 11). Egli guida incessantemente gli uomini verso la pienezza di verità e di amore che Dio Padre ha comunicato in Cristo Gesù.
Questa profonda consapevolezza della presenza e dell'azione dello Spirito Santo illumina da sempre la coscienza della Chiesa, facendo sì che tutto ciò che è genuinamente umano trovi eco nel cuore dei discepoli di Cristo (cfr ibid., 1).
Già nella prima metà del secondo secolo, il filosofo san Giustino poteva scrivere: "Tutto quanto è stato affermato sempre in modo eccellente e quanto scoprirono coloro che fanno filosofia o istituiscono leggi, è stato compiuto da loro attraverso la ricerca o la contemplazione di una parte del Verbo" (II Apol., 10,1-3).
2. L'apertura dello spirito umano alla verità e al bene si realizza sempre nell'orizzonte della "Luce vera che illumina ogni uomo" (Gv 1,9). Questa luce è lo stesso Cristo Signore, che ha illuminato fin dalle origini i passi dell'uomo ed è entrato nel suo "cuore". Con l'Incarnazione, nella pienezza dei tempi, la Luce è apparsa nel mondo in tutto il suo fulgore, brillando agli occhi dell'uomo come splendore di verità (cfr Gv 14,6).
Preannunciata già nell'Antico Testamento, la manifestazione progressiva della pienezza di verità che è Cristo Gesù si compie lungo il corso dei secoli per opera dello Spirito Santo. Tale specifica azione dello "Spirito della verità" (cfr Gv 14,17; 15,26; 16,13) riguarda non solo i credenti, ma, in modo misterioso, tutti gli uomini che, pur ignorando senza colpa il Vangelo, sinceramente cercano la verità e si sforzano di vivere rettamente (cfr Lumen gentium, 16).
Sulle orme dei Padri della Chiesa, san Tommaso d'Aquino può ritenere che nessuno spirito sia "così tenebroso da non partecipare in nulla alla luce divina. Infatti, ogni verità conosciuta da chicchessia è dovuta totalmente a questa 'luce che brilla nelle tenebre'; giacché ogni verità, chiunque sia che la dica, viene dallo Spirito Santo" (Super Ioannem, 1,5 lect. 3, n.103).
3. Per questo motivo, la Chiesa è amica di ogni autentica ricerca del pensiero umano e stima sinceramente il patrimonio di sapienza elaborato e trasmesso dalle diverse culture. In esso ha trovato espressione l'inesauribile creatività dello spirito umano indirizzato dallo Spirito di Dio verso la pienezza della verità.
L'incontro tra la parola di verità predicata dalla Chiesa e la sapienza espressa dalle culture ed elaborata dalle filosofie, sollecita queste ultime ad aprirsi e a trovare il proprio compimento nella rivelazione che viene da Dio. Come sottolinea il Concilio Vaticano II, tale incontro arricchisce la Chiesa, rendendola capace di penetrare sempre più a fondo nella verità, di esprimerla attraverso i linguaggi delle diverse tradizioni culturali e di presentarla - immutata nella sostanza - nella forma più adatta al mutare dei tempi (cfr Gaudium et spes, 44).
La fiducia nella presenza e nell'azione dello Spirito Santo anche nel travaglio della cultura del nostro tempo, può costituire, all'alba del Terzo Millennio, la premessa per un nuovo incontro tra la verità di Cristo e il pensiero umano.
4. Nella prospettiva del grande Giubileo dell'anno 2000, occorre approfondire l'insegnamento del Concilio a proposito di questo incontro sempre rinnovato e fecondo tra la verità rivelata, custodita e trasmessa dalla Chiesa, e le molteplici forme del pensiero e della cultura umana. Resta purtroppo ancor oggi valida la constatazione di Paolo VI nella lettera Enciclica Evangelii nuntiandi, secondo cui "la rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca" (n. 20).
Per ovviare a questa rottura, che incide con gravi conseguenze sulle coscienze e sui comportamenti, occorre risvegliare nei discepoli di Gesù Cristo quello sguardo di fede capace di scoprire i "semi di verità" diffusi dallo Spirito Santo nei nostri contemporanei. Si potrà contribuire anche alla loro purificazione e maturazione attraverso la paziente arte del dialogo, che mira in particolare alla presentazione del volto di Cristo in tutto il suo splendore.
In particolare è necessario tener ben presente il grande principio formulato dall'ultimo Concilio, che ho voluto richiamare nell'Enciclica Dives in misericordia: "Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e persino a contrapporre il teocentrismo e l'antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell'uomo in maniera organica e profonda" (n. 1).
5. Tale principio si mostra fecondo non solo per la filosofia e la cultura umanistica, ma anche per i settori della ricerca scientifica e dell'arte. Infatti, l'uomo di scienza che "si sforza con umiltà e con perseveranza di scandagliare i segreti della realtà, anche senza avvertirlo viene come condotto dalla mano di Dio, il quale, mantenendo in esistenza tutte le cose, fa che siano quelle che sono" (GS, 36b).
D'altro canto, il vero artista ha il dono di intuire e di esprimere l'orizzonte luminoso e infinito in cui è immersa l'esistenza dell'uomo e del mondo. Se è fedele all'ispirazione che lo abita e lo trascende, egli acquisisce una segreta connaturalità con la bellezza di cui lo Spirito Santo riveste la creazione.
Lo Spirito Santo, Luce che illumina le menti e divino "artista del mondo" (S. Bulgakov, Il Paraclito, Bologna 1971, p. 311), guidi la Chiesa e l'umanità del nostro tempo lungo i sentieri di un nuovo sorprendente incontro con lo splendore della Verità!
[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 16 settembre 1998]
Pentecoste arrivò, per i discepoli, dopo cinquanta giorni incerti. Da un lato Gesù era Risorto, pieni di gioia lo avevano visto e ascoltato, e avevano pure mangiato con Lui. Dall’altro lato, non avevano ancora superato dubbi e paure: stavano a porte chiuse (cfr Gv 20,19.26), con poche prospettive, incapaci di annunciare il Vivente. Poi arriva lo Spirito Santo e le preoccupazioni svaniscono: ora gli Apostoli non hanno timore nemmeno davanti a chi li arresta; prima preoccupati di salvarsi la vita, ora non hanno più paura di morire; prima rinchiusi nel Cenacolo, ora annunciano a tutte le genti. Fino all’Ascensione di Gesù attendevano un Regno di Dio per loro (cfr At 1,6), ora sono impazienti di raggiungere confini ignoti. Prima non avevano quasi mai parlato in pubblico e quando l’avevano fatto avevano spesso combinato guai, come Pietro rinnegando Gesù; ora parlano con parresia a tutti. La vicenda dei discepoli, che sembrava al capolinea, viene insomma rinnovata dalla giovinezza dello Spirito: quei giovani, che in preda all’incertezza si sentivano arrivati, sono stati trasformati da una gioia che li ha fatti rinascere. Lo Spirito Santo ha fatto questo. Lo Spirito non è, come potrebbe sembrare, una cosa astratta; è la Persona più concreta, più vicina, quella che ci cambia la vita. Come fa? Guardiamo agli Apostoli. Lo Spirito non ha reso loro le cose più facili, non ha fatto miracoli spettacolari, non ha tolto di mezzo problemi e oppositori, ma lo Spirito ha portato nelle vite dei discepoli un’armonia che mancava, la sua, perché Egli è armonia.
Armonia dentro l’uomo. Dentro, nel cuore i discepoli avevano bisogno di essere cambiati. La loro storia ci dice che persino vedere il Risorto non basta, se non Lo si accoglie nel cuore. Non serve sapere che il Risorto è vivo se non si vive da Risorti. Ed è lo Spirito che fa vivere e rivivere Gesù in noi, che ci risuscita dentro. Per questo Gesù, incontrando i suoi, ripete: «Pace a voi!» (Gv 20,19.21) e dona lo Spirito. La pace non consiste nel sistemare i problemi di fuori – Dio non toglie ai suoi tribolazioni e persecuzioni – ma nel ricevere lo Spirito Santo. In questo consiste la pace, quella pace data agli Apostoli, quella pace che non libera dai problemi ma nei problemi, è offerta a ciascuno di noi. È una pace che rende il cuore simile al mare profondo, che è sempre tranquillo anche quando in superficie le onde si agitano. È un’armonia così profonda che può trasformare persino le persecuzioni in beatitudini. Quante volte, invece, rimaniamo in superficie! Anziché cercare lo Spirito tentiamo di rimanere a galla, pensando che tutto andrà meglio se passerà quel guaio, se non vedrò più quella persona, se migliorerà quella situazione. Ma questo è rimanere in superficie: passato un problema ne arriverà un altro e l’inquietudine ritornerà. Non è prendendo le distanze da chi non la pensa come noi che saremo sereni, non è risolvendo il guaio del momento che staremo in pace. La svolta è la pace di Gesù, è l’armonia dello Spirito.
Oggi, nella fretta che il nostro tempo ci impone, sembra che l’armonia sia emarginata: tirati da mille parti rischiamo di scoppiare, sollecitati da un nervosismo continuo che fa reagire male a ogni cosa. E si cerca la soluzione rapida, una pastiglia dietro l’altra per andare avanti, un’emozione dietro l’altra per sentirsi vivi. Ma abbiamo soprattutto bisogno dello Spirito: è Lui che mette ordine nella frenesia. Egli è pace nell’inquietudine, fiducia nello scoraggiamento, gioia nella tristezza, gioventù nella vecchiaia, coraggio nella prova. È Colui che, tra le correnti tempestose della vita, fissa l’ancora della speranza. È lo Spirito che, come dice oggi San Paolo, ci impedisce di ricadere nella paura perché ci fa sentire figli amati (cfr Rm 8,15). È il Consolatore, che ci trasmette la tenerezza di Dio. Senza lo Spirito la vita cristiana è sfilacciata, priva dell’amore che tutto unisce. Senza lo Spirito Gesù rimane un personaggio del passato, con lo Spirito è persona viva oggi; senza lo Spirito la Scrittura è lettera morta, con lo Spirito è Parola di vita. Un cristianesimo senza lo Spirito è un moralismo senza gioia; con lo Spirito è vita.
Lo Spirito Santo non porta solo armonia dentro, ma anche fuori, tra gli uomini. Ci fa Chiesa, compone parti diverse in un unico edificio armonico. Lo spiega bene San Paolo che, parlando della Chiesa, ripete spesso una parola, “diversi”: «diversi carismi, diverse attività, diversi ministeri» (1 Cor 12,4-6). Siamo diversi, nella varietà delle qualità e dei doni. Lo Spirito li distribuisce con fantasia, senza appiattire, senza omologare. E, a partire da queste diversità, costruisce l’unità. Fa così, fin dalla creazione, perché è specialista nel trasformare il caos in cosmo, nel mettere armonia. È specialista nel creare le diversità, le ricchezze; ognuno la sua, diversa. Lui è il creatore di questa diversità e, allo stesso tempo, è Colui che armonizza, che dà l’armonia e dà unità alla diversità. Soltanto Lui può fare queste due cose.
Oggi nel mondo le disarmonie sono diventate vere e proprie divisioni: c’è chi ha troppo e c’è chi nulla, c’è chi cerca di vivere cent’anni e chi non può venire alla luce. Nell’era dei computer si sta a distanza: più “social” ma meno sociali. Abbiamo bisogno dello Spirito di unità, che ci rigeneri come Chiesa, come Popolo di Dio, e come umanità intera. Che ci rigeneri. Sempre c’è la tentazione di costruire “nidi”: di raccogliersi attorno al proprio gruppo, alle proprie preferenze, il simile col simile, allergici a ogni contaminazione. E dal nido alla setta il passo è breve, anche dentro la Chiesa. Quante volte si definisce la propria identità contro qualcuno o contro qualcosa! Lo Spirito Santo, invece, congiunge i distanti, unisce i lontani, riconduce i dispersi. Fonde tonalità diverse in un’unica armonia, perché vede anzitutto il bene, guarda all’uomo prima che ai suoi errori, alle persone prima che alle loro azioni. Lo Spirito plasma la Chiesa, plasma il mondo come luoghi di figli e di fratelli. Figli e fratelli: sostantivi che vengono prima di ogni altro aggettivo. Va di moda aggettivare, purtroppo anche insultare. Possiamo dire che noi viviamo una cultura dell’aggettivo che dimentica il sostantivo delle cose; e anche in una cultura dell’insulto, che è la prima risposta ad un’opinione che io non condivido. Poi ci rendiamo conto che fa male, a chi è insultato ma anche a chi insulta. Rendendo male per male, passando da vittime a carnefici, non si vive bene. Chi vive secondo lo Spirito, invece, porta pace dov’è discordia, concordia dov’è conflitto. Gli uomini spirituali rendono bene per male, rispondono all’arroganza con mitezza, alla cattiveria con bontà, al frastuono col silenzio, alle chiacchiere con la preghiera, al disfattismo col sorriso.
Per essere spirituali, per gustare l’armonia dello Spirito, occorre mettere il suo sguardo davanti al nostro. Allora le cose cambiano: con lo Spirito la Chiesa è il Popolo santo di Dio, la missione il contagio della gioia, non il proselitismo, gli altri fratelli e sorelle amati dallo stesso Padre. Ma senza lo Spirito la Chiesa è un’organizzazione, la missione propaganda, la comunione uno sforzo. E tante Chiese fanno azioni programmatiche in questo senso di piani pastorali, di discussioni su tutte le cose. Sembra che sia quella strada ad unirci, ma questa non è la strada dello Spirito, è la strada della divisione. Lo Spirito è il bisogno primo e ultimo della Chiesa (cfr S. Paolo VI, Udienza generale, 29 novembre 1972). Egli «viene dov’è amato, dov’è invitato, dov’è atteso» (S. Bonaventura, Sermone per la IV Domenica dopo Pasqua). Fratelli e sorelle, preghiamolo ogni giorno. Spirito Santo, armonia di Dio, Tu che trasformi la paura in fiducia e la chiusura in dono, vieni in noi. Dacci la gioia della risurrezione, la perenne giovinezza del cuore. Spirito Santo, armonia nostra, Tu che fai di noi un corpo solo, infondi la tua pace nella Chiesa e nel mondo. Spirito Santo, rendici artigiani di concordia, seminatori di bene, apostoli di speranza.
[Papa Francesco, omelia 9 giugno 2019]
Confronti no, Eccezionalità sì
(Gv 21,20-25)
Ancora una volta nel quarto Vangelo si fronteggiano il passo e il carattere petrino [incerto] con quello del discepolo amato dal Signore.
Ma la pienezza di Dio traspare dall’intera Chiesa, se genuina. Le Vocazioni sono diverse. Nessuna in sé sufficiente.
Ciascuno sente l’Appello a portare avanti la propria Chiamata per Nome secondo carattere diretto, confidenziale, proprio, e passo dopo passo, senza arenarsi nei confronti.
Nessuno è modello superiore, o viceversa destinato a facsimile: l’amore erompe in modo personale, sempre libero, inedito.
L’opinione, la vicenda o curiosità altrui, è un veleno, sia per la realizzazione che per la dimensione missionaria.
Attenzione dunque alle dicerie, alle congetture, all’immagine, anche diffuse sul territorio.
Soprattutto in situazioni di monopolio, porterebbero all’omologazione, alla “vita media”, al collasso.
Bando ai paragoni:
«Me, segui» (v.22) significa aderire a un Cielo che abita ciascun figlio - e in Comunione, non in branco.
A ogni energia, storia, e sensibilità esclusiva, corrisponde un modo riservato, irripetibile, di essere discepoli.
Differenze e legami si ricompongono nello Spirito, che sa dove andare - chiamando ogni personalità singolare a dimensioni d’esistenza raccolta o estroversa - nella propria Radice.
Chi è spinto più all’azione [o riflessione] non deve indugiare, né volgersi indietro; piuttosto, immergersi.
Ciascuno è nel punto giusto. Non deve smarrire la strada unica.
Insomma, l’amore autentico non ha fondamenta generiche, bensì impredicibili, singolari, insolite; di rilievo comunque, sebbene “scorrette”.
Non dobbiamo distrarci dal nostro scopo naturale e spirituale innato.
Il mistero che avvolge Cristo dispiegato nel suo Popolo è inesauribile, e anche noi siamo chiamati in prima persona a ‘scrivere’ senza timori un caratteristico Vangelo (v.25) [cf. Gv 20,29-30].
La differenza tra religiosità antica e vita di Fede? Non siamo fotocopie d’una condotta persistente, bensì inventori e battistrada.
Cristo vuol essere reinterpretato in prima persona e nella convivialità delle differenze.
A ciascuno il Maestro riconosce un suo agire. Il consenso non c’entra con la Vocazione.
Invece spesso ci sediamo in armature esterne, e forse misuriamo anche il progetto di vita, il segno dei tempi, il dono, lo stimolo, il Segreto dei fratelli, con la stessa miopia di programmi commisurati.
Dio si riserva appunto d’indicarlo Lui a ciascuno. Oltre ogni ‘mappa’ e organigramma.
Poi, anche le “stabilità” sono parziali, attendono un compimento.
Chi scommette sulla Via della Fede sa di doversi allontanare dallo spirito di unilateralità.
Lo stesso vigore del cammino chiede la sosta quieta e il convergere.
Anche il “restare” lancia infine una sua energia tranquilla proprio alle iniziative... così via.
I modi della sequela che risuonano in fondo al cuore sono tanto vari quante le persone, gli accadimenti, i ritmi commisurati all’anima, le età.
Essi abbracciano la medesima Proposta - senza che in tale poliedricità si perda il Mistero perdurante, né alcun legame.
Solo qui, Mondo reale, Persona, Natura ed Eternità si alleano.
[Sabato 7.a sett. di Pasqua, 7 giugno 2025]
Confronti no, Eccezionalità sì
(Gv 21,20-25)
Ancora una volta nel quarto Vangelo si fronteggiano il passo e il carattere petrino (incerto) con quello del discepolo amato dal Signore.
In lui anche noi siamo chiamati a una personalità sciolta e liberale [più tipica delle comunità giovannee dell’Asia Minore] che rifletta un animo meno rigido e profeticamente superiore rispetto alla chiesa apostolica ufficiale - ancora giudaizzante.
I primi cristiani attendevano imminente la cosiddetta seconda Venuta del Signore.
Alcune chiese, di fronte al decesso dei seguaci, iniziarono a immaginare che almeno alcuni di loro sarebbero sopravvissuti fino alla Parusia del Cristo.
Col passare del tempo e la morte non solo degli apostoli, ma anche dei discepoli di seconda e terza generazione, sorgevano dissidi sulle precedenze e l’interpretazione delle Scritture.
Tutto ciò, malgrado Gv abbia insistito sulla Presenza sempre attuale del Risorto, e la storicità della Vita dell’Eterno [cosiddetta ‘vita eterna’].
In aggiunta a ciò, il quarto Vangelo ribadisce l’attualità delle realtà ultime e del Giudizio.
Viceversa, permaneva diffusa l’idea del loro carattere di futurità.
Ma la morte dello stesso evangelista scosse non poco le comunità, sconcertando molti fedeli che immaginavano quel discepolo dovesse - almeno lui - essere presente al cosiddetto «Ritorno» [termine che nei Vangeli - in lingua originale - non esiste].
Questo il motivo dell’aggiunta di una “seconda conclusione” a Gv 20,30-31.
È ciò che designiamo «capitolo 21» - opera di scuola giovannea, che tenta di chiarire la Vicinanza del Signore, il senso delle «Manifestazioni» del Risorto, il servizio dell’autorità, la testimonianza del “discepolo amato”.
La pienezza di Dio traspare dall’intera Chiesa, se genuina. Le Vocazioni sono diverse. Nessuna in sé sufficiente.
Ciascuno sente l’Appello a portare avanti la propria Chiamata per Nome secondo carattere diretto, confidenziale, proprio, e passo dopo passo, senza arenarsi nei confronti.
L’opinione, la vicenda o curiosità altrui, è un veleno, sia per la realizzazione che per la dimensione missionaria.
Attenzione dunque alle dicerie, alle congetture, all’immagine, anche diffuse sul territorio.
Soprattutto in situazioni di monopolio culturale, spirituale, o semplicemente denominazionale [come ancora in Italia] dette convinzioni normalizzate porterebbero all’omologazione, alla “vita media”, al collasso.
Bando ai paragoni:
«Me, segui» (v.22 testo greco) significa aderire a un Cielo che abita ciascun figlio - e in Comunione, non in branco.
A ogni energia, storia, e sensibilità esclusiva, corrisponde un modo riservato, irripetibile, di essere discepoli.
Nessuno è modello superiore, o viceversa destinato a facsimile: l’amore erompe in modo personale, sempre libero, inedito.
La via della sequela additata, il rimanere o trattenere indeterminato, sono caratteristiche o polarità correlative e plasmabili: proprio da esse sorgono risposte inattese a questioni vere, e la Novità di Dio.
Differenze e legami si ricompongono nello Spirito, che sa dove andare - chiamando ogni personalità singolare a dimensioni d’esistenza raccolta o estroversa - nella propria Radice.
Chi è spinto più all’azione [o riflessione] non deve indugiare, né volgersi indietro; piuttosto, immergersi.
Ciascuno è nel punto giusto. Non deve smarrire la strada unica.
Nel mio giardino ho dei pini grossi che danno ombra, ma uno di essi all’improvviso è seccato irreparabilmente. Sembrava chissà cosa; in un attimo è precipitato. Da non credere. Succede anche nella vita religiosa.
Fra la mia erba campagnola noto fiorire - senza mai averle curate - diverse pianticelle che prive d’artificio scacciano gli insetti, offrendo al terreno una trama variegata e uno spettacolo cromatico delicato.
Se imponessi al sottobosco di crescer su per dare ombra, si ammalerebbe. Il tutto non diventerebbe neanche un rovo; piuttosto, un intreccio innaturale di disagi (imposti di testa mia) che mai sfumerebbero.
A ogni seme corrisponde un suo sviluppo e una propria unicità, anche in rapporto con la situazione differente a contorno - alla luce o meno.
Insomma, l’amore autentico non ha fondamenta generiche, bensì impredicibili, singolari, insolite; di rilievo comunque, sebbene “scorrette”.
Si narra che s. Antonio Abate si arrovellasse sul Giudizio finale [chi si salva e chi no?]. La risposta gli venne perentoria: «Antonio, bada a te stesso!» - a dire che l’interesse per le inclinazioni e preferenze altrui è ambiguo. Non sempre buono; talora inutile. Spesso funesto e letale.
Se a qualcuno è proposta in dono una vocazione di carità speciale - persino di sangue - ad altri è riservato un diverso genere di testimonianza irripetibile; es. martirio sapienziale o critico [degli osteggiati e pionieri].
Invece di perdere il pondus e carattere della propria Chiamata per Nome, lasciandosi travolgere dalla prepotenza di forze in campo - anche nella vita ecclesiale viene spontaneo annunciare un altro regno rispetto a quello del pensiero unico, del consenso, dei furbetti del quartierino.
Non c’entrano con la Vocazione.
Non dobbiamo distrarci dal nostro scopo naturale e spirituale innato.
Il mistero che avvolge Cristo dispiegato nel suo Popolo è inesauribile. E anche noi siamo chiamati in prima persona a scrivere senza timori un caratteristico Vangelo (v.25) [cf. Gv 20,29-30].
La differenza tra religiosità antica e vita di Fede? Non siamo le fotocopie d’una condotta persistente, bensì inventori e battistrada.
Cristo vuol essere reinterpretato in prima persona e nella convivialità delle differenze.
A ciascuno il Maestro riconosce un suo agire.
Invece spesso ci sediamo in armature esterne, e forse misuriamo anche il progetto di vita, il segno dei tempi, il dono, lo stimolo, il Segreto dei fratelli, con la stessa miopia di programmi commisurati.
Dio si riserva appunto d’indicarlo Lui a ciascuno. Oltre ogni ‘mappa’ e organigramma.
Poi, anche le “stabilità” sono parziali, attendono un compimento.
Chi scommette sulla Via della Fede sa di doversi allontanare dallo spirito di unilateralità.
Lo stesso vigore del cammino chiede la sosta quieta e il convergere.
Anche il “restare” lancia infine una sua energia tranquilla proprio alle iniziative... così via.
I modi della sequela che risuonano in fondo al cuore sono tanto vari quante le persone, gli accadimenti, i ritmi commisurati all’anima, le età.
Essi abbracciano la medesima Proposta - senza che in tale poliedricità si perda il Mistero perdurante, né alcun legame.
Solo qui, Mondo reale, Persona, Natura ed Eternità si alleano.
«Quando il tessitore alza un piede, l’altro si abbassa. Quando il movimento cessa e uno dei piedi si ferma, il tessuto non si fa più. Le sue mani lanciano la spola che passa dall’una all’altra; ma nessuna mano può sperare di tenerla. Come i gesti del tessitore, è l’unione dei contrari a tessere la nostra vita» (Tradizione orale africana Peul).
«Siamo assolutamente perduti se ci viene a mancare questa particolare individualità, l’unica cosa che possiamo dire veramente nostra - e la cui perdita costituisce anche una perdita per il mondo intero. Essa è preziosissima anche perché non è universale» (Rabindranath Tagore).
«La Verità non è affatto ciò che ho. Non è affatto ciò che hai. Essa è ciò che ci unisce nella sofferenza, nella gioia. Essa è figlia della nostra Unione, nel dolore e nel piacere partoriti. Né io né Te. E io e Te. La nostra opera comune, stupore permanente. Il suo nome è Saggezza» (Irénée Guilane Dioh).
«Lo smarrimento e la perdita di ogni certezza e riparo è insieme una sorta di prova e una sorta di guarigione» (Pema Chödrön).
«Quando patiamo una grave delusione, non sappiamo mai se si tratta della conclusione della vicenda che stiamo vivendo: potrebbe essere anche l’inizio di una grande avventura» (Pema Chödrön).
«Crescere significa superare ciò che siete oggi. Non imitate. Non pretendete d’avere raggiunto lo scopo e non cercate di bruciare le tappe. Cercate solo di crescere» (Svami Prajnanapada).
«La vera moralità non consiste nel seguire la via battuta, ma nel trovare il sentiero vero per noi e nel seguirlo senza paura» (Gandhi).
«La verità risiede in ogni cuore umano, e qui bisogna cercarla; bisogna lasciarsi guidare dalla verità quale ciascuno la vede. Ma nessuno ha il diritto di costringere gli altri ad agire secondo la propria visione della verità» (Gandhi).
«Ti devi oppone al mondo intero anche a costo di rimanere solo. Devi fissare il mondo negli occhi, anche se può succedere che il mondo ti guardi con occhi iniettati di sangue. Non temere. Credi in quella piccola cosa dentro di te che risiede nel cuore e dice: abbandona amici, moglie, tutto; ma porta testimonianza a quello per cui sei vissuto e per cui devi morire» (Gandhi).
«Nel Benin, se vedi una giara d’acqua posata sotto un albero davanti a una casa, sappi che è per te, straniero di passaggio; non c’è bisogno di bussare alla porta per chiedere da bere, ti basta aprire la giara, prendere la zucca, bere l’acqua e proseguire per la tua strada se non c’è nessuno» (Raymond Johnson).
«Dobbiamo imparare ad abbandonare le nostre difese e il nostro bisogno di controllare, e fidarci totalmente della guida dello spirito» (Sobonfu Somé).
«Osservare e ascoltare sono una grande arte. Dall’osservazione e dall’ascolto impariamo infinitamente più che non dai libri. I libri sono necessari, ma l’osservazione e l’ascolto ti affinano i sensi» (Krishnamurti).
«Il Fuoco è legato al Sogno, al mantenimento del nostro legame con noi stessi e con gli antenati, e all’arte di mantenere vive le nostre visioni» (Griot dell’Africa centrale).
«Come nella vita, i contrari coesistono ovunque: nell’organizzazione sociale e nella vita affettiva, negli scambi fra individui. Vivere e realizzare la contraddizione, ecco l’essenziale» (Alassane Ndaw).
«Il processo ai crimini è istruito, ma cosa ne pensa la giuria? Chi sono i giurati? Chi è il sostituto procuratore generale dell’umanità?» (Djibril Tamsir Niane).
«L’uomo deve assumersi la responsabilità dei legami, visibili e invisibili, il cui insieme conferisce un senso alla vita» (Aminata Traoré).
«Introdurre lo spirito di altre persone nella nostra vita ci dà più occhi per vedere e ci consente di superare i nostri limiti» (Sobonfu Somé).
«Nella foresta, quando i rami litigano, le radici si abbracciano»(Proverbio Africano).
Infatti persino in un rapporto d’amore profondo e coesistenza «c’è bisogno di liberarsi dall’obbligo di essere uguali» (Amoris Laetitia, n.139).
«Le onde si sollevano ciascuna alla sua altezza, quasi gareggiando incessantemente tra loro, ma giungono solo fino a un dato punto; in tal modo conducono la nostra mente alla grande calma del mare, di cui anch’esse sono parte e alla quale dovranno ritornare con un ritmo di meravigliosa bellezza» (Rabindranath Tagore).
Non siamo “massa”, “moltitudine”, per Gesù! Siamo “persone” singole con un valore eterno, sia come creature sia come persone redente! lui ci conosce! lui mi conosce, e mi ama e ha dato se stesso per me! (Gal 2,20) [Giovanni Paolo II]
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Quale Vangelo senti di dover scrivere con la tua vita?
Unicità
11. «Ognuno per la sua via», dice il Concilio. Dunque, non è il caso di scoraggiarsi quando si contemplano modelli di santità che appaiono irraggiungibili. Ci sono testimonianze che sono utili per stimolarci e motivarci, ma non perché cerchiamo di copiarle, in quanto ciò potrebbe perfino allontanarci dalla via unica e specifica che il Signore ha in serbo per noi. Quello che conta è che ciascun credente discerna la propria strada e faccia emergere il meglio di sé, quanto di così personale Dio ha posto in lui (cfr 1 Cor 12,7) e non che si esaurisca cercando di imitare qualcosa che non è stato pensato per lui. Tutti siamo chiamati ad essere testimoni, però esistono molte forme esistenziali di testimonianza. Di fatto, quando il grande mistico san Giovanni della Croce scriveva il suo Cantico spirituale, preferiva evitare regole fisse per tutti e spiegava che i suoi versi erano scritti perché ciascuno se ne giovasse «a modo suo». Perché la vita divina si comunica ad alcuni in un modo e ad altri in un altro.
[Papa Francesco, Gaudete et Exsultate]
Cari fratelli e sorelle,
dedichiamo l'incontro di oggi al ricordo di un altro membro molto importante del collegio apostolico: Giovanni, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo. Il suo nome, tipicamente ebraico, significa “il Signore ha fatto grazia”. Stava riassettando le reti sulla sponda del lago di Tiberìade, quando Gesù lo chiamò insieme con il fratello (cfr Mt 4,21; Mc 1,19). Giovanni fa sempre parte del gruppo ristretto, che Gesù prende con sé in determinate occasioni. E’ insieme a Pietro e a Giacomo quando Gesù, a Cafarnao, entra in casa di Pietro per guarirgli la suocera (cfr Mc 1,29); con gli altri due segue il Maestro nella casa dell'archisinagògo Giàiro, la cui figlia sarà richiamata in vita (cfr Mc 5,37); lo segue quando sale sul monte per essere trasfigurato (cfr Mc 9,2); gli è accanto sul Monte degli Olivi quando davanti all’imponenza del Tempio di Gerusalemme pronuncia il discorso sulla fine della città e del mondo (cfr Mc 13,3); e, finalmente, gli è vicino quando nell'Orto del Getsémani si ritira in disparte per pregare il Padre prima della Passione (cfr Mc 14,33). Poco prima della Pasqua, quando Gesù sceglie due discepoli per mandarli a preparare la sala per la Cena, a lui ed a Pietro affida tale compito (cfr Lc 22,8).
Questa sua posizione di spicco nel gruppo dei Dodici rende in qualche modo comprensibile l’iniziativa presa un giorno dalla madre: ella si avvicinò a Gesù per chiedergli che i due figli, Giovanni appunto e Giacomo, potessero sedere uno alla sua destra e uno alla sua sinistra nel Regno (cfr Mt 20,20-21). Come sappiamo, Gesù rispose facendo a sua volta una domanda: chiese se essi fossero disposti a bere il calice che egli stesso stava per bere (cfr Mt 20,22). L’intenzione che stava dietro a quelle parole era di aprire gli occhi dei due discepoli, di introdurli alla conoscenza del mistero della sua persona e di adombrare loro la futura chiamata ad essergli testimoni fino alla prova suprema del sangue. Poco dopo infatti Gesù precisò di non essere venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita in riscatto per la moltitudine (cfr Mt 20,28). Nei giorni successivi alla risurrezione, ritroviamo “i figli di Zebedeo” impegnati con Pietro ed alcuni altri discepoli in una notte infruttuosa, a cui segue per intervento del Risorto la pesca miracolosa: sarà “il discepolo che Gesù amava” a riconoscere per primo “il Signore” e a indicarlo a Pietro (cfr Gv 21,1-13).
All'interno della Chiesa di Gerusalemme, Giovanni occupò un posto di rilievo nella conduzione del primo raggruppamento di cristiani. Paolo infatti lo annovera tra quelli che chiama le “colonne” di quella comunità (cfr Gal 2,9). In realtà, Luca negli Atti lo presenta insieme con Pietro mentre vanno a pregare nel Tempio (cfr At 3,1-4.11) o compaiono davanti al Sinedrio a testimoniare la propria fede in Gesù Cristo (cfr At 4,13.19). Insieme con Pietro viene inviato dalla Chiesa di Gerusalemme a confermare coloro che in Samaria hanno accolto il Vangelo, pregando su di loro perché ricevano lo Spirito Santo (cfr At 8,14-15). In particolare, va ricordato ciò che afferma, insieme con Pietro, davanti al Sinedrio che li sta processando: “Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato” (At 4,20). Proprio questa franchezza nel confessare la propria fede resta un esempio e un monito per tutti noi ad essere sempre pronti a dichiarare con decisione la nostra incrollabile adesione a Cristo, anteponendo la fede a ogni calcolo o umano interesse.
Secondo la tradizione, Giovanni è “il discepolo prediletto”, che nel Quarto Vangelo poggia il capo sul petto del Maestro durante l'Ultima Cena (cfr Gv 13,21), si trova ai piedi della Croce insieme alla Madre di Gesù (cfr Gv 19, 25) ed è infine testimone sia della Tomba vuota che della stessa presenza del Risorto (cfr Gv 20,2; 21,7). Sappiamo che questa identificazione è oggi discussa dagli studiosi, alcuni dei quali vedono in lui semplicemente il prototipo del discepolo di Gesù. Lasciando agli esegeti di dirimere la questione, ci contentiamo qui di raccogliere una lezione importante per la nostra vita: il Signore desidera fare di ciascuno di noi un discepolo che vive una personale amicizia con Lui. Per realizzare questo non basta seguirlo e ascoltarlo esteriormente; bisogna anche vivere con Lui e come Lui. Ciò è possibile soltanto nel contesto di un rapporto di grande familiarità, pervaso dal calore di una totale fiducia. E’ ciò che avviene tra amici; per questo Gesù ebbe a dire un giorno: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici ... Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,13.15).
Negli apocrifi Atti di Giovanni l'Apostolo viene presentato non come fondatore di Chiese e neppure alla guida di comunità già costituite, ma in continua itineranza come comunicatore della fede nell'incontro con “anime capaci di sperare e di essere salvate” (18,10; 23,8). Tutto è mosso dal paradossale intento di far vedere l'invisibile. E infatti dalla Chiesa orientale egli è chiamato semplicemente “il Teologo”, cioè colui che è capace di parlare in termini accessibili delle cose divine, svelando un arcano accesso a Dio mediante l'adesione a Gesù.
Il culto di Giovanni apostolo si affermò a partire dalla città di Efeso, dove, secondo un’antica tradizione, avrebbe a lungo operato, morendovi infine in età straordinariamente avanzata, sotto l'imperatore Traiano. Ad Efeso l'imperatore Giustiniano, nel secolo VI, fece costruire in suo onore una grande basilica, di cui restano tuttora imponenti rovine. Proprio in Oriente egli godette e gode tuttora di grande venerazione. Nell’iconografia bizantina viene spesso raffigurato molto anziano – secondo la tradizione morì sotto l’imperatore Traiano - e in atto di intensa contemplazione, quasi nell’atteggiamento di chi invita al silenzio.
In effetti, senza adeguato raccoglimento non è possibile avvicinarsi al mistero supremo di Dio e alla sua rivelazione. Ciò spiega perché, anni fa, il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Atenagora, colui che il Papa Paolo VI abbracciò in un memorabile incontro, ebbe ad affermare: “Giovanni è all'origine della nostra più alta spiritualità. Come lui, i ‘silenziosi’ conoscono quel misterioso scambio dei cuori, invocano la presenza di Giovanni e il loro cuore si infiamma” (O. Clément, Dialoghi con Atenagora, Torino 1972, p. 159). Il Signore ci aiuti a metterci alla scuola di Giovanni per imparare la grande lezione dell’amore così da sentirci amati da Cristo “fino alla fine” (Gv 13,1) e spendere la nostra vita per Lui.
[Papa Benedetto, Udienza Generale 5 luglio 2006]
VEGLIA DI PENTECOSTE
1. "Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi... Ricevete lo Spirito Santo"! (Gv 20, 21-22).
In questa vigilia di Pentecoste, la Chiesa che è in Roma si trova radunata come gli Apostoli nel Cenacolo, dopo gli eventi del triduo pasquale. Essi sapevano che il Signore era risorto ed era apparso a Simone. Ma Gesù in persona venne in mezzo a loro ed offrì il saluto di pace. Mostrò poi le mani ed il costato trafitti, con i segni visibili della passione. Sì! È proprio Lui. È lo stesso Gesù, prima crocifisso ed ora risorto. "I discepoli gioirono al vedere il Signore" ( Gv 20, 20 ).
Fin dalla sera del giorno di Pasqua, però, Gesù anticipò l’evento della Pentecoste: "Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi... Ricevete lo Spirito Santo".
2.
Carissimi Fratelli e Sorelle della Diocesi di Roma! Mediante una veglia di preghiera, che richiama quella pasquale, ci siamo qui riuniti per prepararci alla solennità della discesa dello Spirito Santo.
La lettura tratta dagli Atti degli Apostoli, che abbiamo poc’anzi ascoltata, ricorda quanto accadde a Gerusalemme nel giorno di Pentecoste: l’improvviso vento impetuoso, l’apparizione delle lingue di fuoco, gli Apostoli che, pieni di Spirito Santo, cominciano ad annunciare il Vangelo in lingue a loro sconosciute.
Persone appartenenti a varie nazioni, e che usano linguaggi diversi, ascoltano parlare nelle loro proprie lingue gli Apostoli, che erano Galilei (cf. At 1, 11 ): "Li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio" ( At 2, 11 ).
È l’inizio solenne della missione degli Apostoli, missione ricevuta cinquanta giorni prima dal Risorto, che aveva ordinato loro: "Io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo" ( Gv 20, 21 . 22 ).
3.
"Emitte Spiritum tuum et creabuntur": "manda il tuo Spirito e saranno creati" (cf. Sal 103, 30 ).
Dicendo: "Ricevete lo Spirito Santo", Cristo rivela la potenza creatrice dello Spirito di Dio che, effuso sopra ogni uomo (cf. Gl 3, 1 ), ristabilisce quell’unità del genere umano infranta, a causa del peccato, presso la torre di Babele.
Babele è diventata il simbolo della disgregazione e della dispersione (cf. Gen 11,1-9 ). La Pentecoste costituisce invece il compimento pieno dell’unità che, per la potenza dello Spirito di verità, viene ricostruita a partire proprio dalla molteplicità dell’esistenza e delle esperienze umane.
Cristo è posto a capo del popolo della Nuova Alleanza: Egli è l’atteso grande Profeta. Attorno a Lui devono riunirsi "i figli e le figlie" del nuovo Israele (cf. Lumen gentium, n. 9), i quali, animati dallo Spirito che dà la vita (cf. Ez 37, 14 ), prendono personalmente parte alla missione salvifica di Cristo, Sacerdote, Profeta e Re, seguendo le sue orme, lungo i secoli ed i millenni.
4.
Il secondo millennio cristiano volge ormai al termine.
Consapevoli del "Tertio Millennio adveniente", del Terzo Millennio che si sta avvicinando, siamo riuniti in questo particolare Cenacolo della Chiesa, costituito questa sera presso la tomba di san Pietro. Ci guardano i quasi due millenni trascorsi, testimoniati in modo singolare da questo luogo, segnato dalle tombe di Martiri e di Confessori della fede. Qui siamo presso le reliquie degli Apostoli, colonne della Chiesa che è in Roma.
E si ripete in mezzo a noi, adesso, ciò che accadde la sera di Pasqua. Cristo, mediante l’Eucaristia, oltrepassa lo spazio e il tempo e si rende presente fra noi, come fece allora con gli Apostoli riuniti nel Cenacolo. Ci rivolge le stesse parole: "Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’ io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo".
5.
Ricevete lo Spirito Santo!
Siamo riuniti per invocare insieme il dono dello Spirito Santo per l’intera Comunità ecclesiale di Roma, chiamata a compiere un’impegnativa missione cittadina. Con questa iniziativa apostolica, la Chiesa che è in Roma intende spalancare le braccia ad ogni persona e famiglia della Città e penetrare come lievito in ogni ambito sociale, di lavoro, di sofferenza, di arte e di cultura, annunciando e testimoniando ai vicini e ai lontani il Signore risorto.
Carissimi Fratelli e Sorelle, vivendo in questa metropoli, che purtroppo non sfugge alle tentazioni del secolarismo, si è come sottilmente minacciati dalla stanchezza, dall’indifferenza, dal torpore spirituale e da quel relativismo in cui tutto si annacqua e si confonde. Ecco perché la grande missione cittadina, che con questa Veglia solennemente inauguriamo, è rivolta in primo luogo ai credenti. Essa è anzitutto implorazione allo Spirito Santo perché rinsaldi la nostra fede, rinnovi il nostro fervore, accenda la nostra carità.
Non si lasci turbare il nostro cuore dai timori e dalle perplessità. Al contrario, contando non sulle forze umane ma sulla grazia che viene da Dio, portiamo, quali testimoni della verità e dell’amore di Cristo, il Vangelo della speranza ad ogni abitante di Roma. Potremo così anche incidere sulla cultura, sui modi di vivere, sulle attese e i progetti dell’intera comunità cittadina.
6.
Chiesa che sei in Roma, il Signore ti ha amata con un amore incondizionato. Per questo sei ricca di energie spirituali e missionarie e molte di più lo Spirito, proprio attraverso la missione, ne susciterà in te.
Mi rivolgo anzitutto a voi, cari fratelli nel sacerdozio, consacrati per essere i primi testimoni del Vangelo e gli apostoli di verità e unità: siate i primi operatori instancabili della missione, siate santi per poter essere docili strumenti attraverso cui Dio opera la santificazione del suo popolo. È dalle parrocchie che deve partire questa missione e voi delle comunità parrocchiali siete i responsabili e i qualificati animatori.
E voi, cari religiosi e religiose, chiamati ad essere il segno profetico della presenza di Dio, donatevi con slancio, mediante la preghiera e le attività apostoliche, a questa Chiesa in missione. Troverete proprio in questo donarvi il gusto della vostra vocazione.
Penso a voi, cari fratelli e sorelle che operate pazientemente nelle parrocchie e formate il solido tessuto dell’attività pastorale quotidiana, della catechesi e del servizio della carità. Attraverso la missione potrete trovare un rinnovato vigore spirituale per trasmettere il Vangelo di Cristo nelle vostre famiglie e negli ambienti in cui lavorate. Voi, cari membri dei numerosi movimenti, organismi ed associazioni ecclesiali, assicurate alla missione cittadina la piena e fedele collaborazione, in stretta intesa con i Pastori, le parrocchie e l’intera realtà diocesana.
Voi, cari giovani, mettete le vostre fresche energie al servizio di questa grande impresa spirituale, superando ogni eventuale timore o rispetto umano. Proclamate con franchezza e coraggio la vostra fede in Cristo tra i vostri coetanei ed amici. Anche da voi, cari ammalati e sofferenti, e da voi che vi sentite emarginati, la missione cittadina attende un contributo in un certo senso determinante per il suo successo. Accogliendo la vostra condizione ed offrendola al Padre celeste insieme a Cristo, potete diventare una via provvidenziale e misteriosa di salvezza per Roma.
La missione vi appartiene, cari membri della Curia Romana e miei collaboratori al servizio della Chiesa universale, chiamati a dare il vostro qualificato contributo alla vita della Comunità cristiana, che è in Roma, ed alla preparazione del Grande Giubileo dell’Anno Duemila. Anche il vostro apporto sarà quanto mai importante per la buona riuscita di questa vasta azione evangelizzatrice.
La missione è fatta pure per voi, cari fratelli e sorelle giunti a Roma dalle più diverse parti del mondo. Voi ormai siete parte integrante della nostra Comunità diocesana. Grazie di essere qui con noi, questa sera, a pregare.
Possa la missione cittadina, dopo il Sinodo diocesano, segnare un ulteriore passo in avanti nel cammino di crescita spirituale e di comunione fra tutti i cristiani che vivono nella nostra Città.
7.
Il nostro sguardo, questa sera, non può non allargarsi alle attese della Chiesa universale, in cammino verso il Grande Giubileo del Duemila. La Chiesa cerca di prendere una coscienza più viva della presenza dello Spirito che agisce in lei, per il bene della sua comunione e missione, mediante doni sacramentali, gerarchici e carismatici.
Uno dei doni dello Spirito al nostro tempo è certamente la fioritura dei movimenti ecclesiali, che sin dall’inizio del mio Pontificato continuo a indicare come motivo di speranza per la Chiesa e per gli uomini. Essi "sono un segno della libertà di forme, in cui si realizza l’unica Chiesa, e rappresentano una sicura novità, che ancora attende di essere adeguatamente compresa in tutta la sua positiva efficacia per il Regno di Dio all’opera nell’oggi della storia" (Insegnamenti, VII 2[1984], p. 696). Nel quadro delle celebrazioni del Grande Giubileo, soprattutto quelle dell’anno 1998, dedicato in modo particolare allo Spirito Santo e alla sua presenza santificatrice all’interno della Comunità dei discepoli di Cristo (cf. Tertio millennio adveniente, n. 44), conto sulla comune testimonianza e sulla collaborazione dei movimenti. Confido che essi, in comunione con i Pastori ed in collegamento con le iniziative diocesane, vorranno portare nel cuore della Chiesa la loro ricchezza spirituale, educativa e missionaria, quale preziosa esperienza e proposta di vita cristiana.
8.
"Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi... Ricevete lo Spirito Santo".
Cristo, anche nel segno dell’Evangeliario che questa sera affido al Cardinale Vicario perché sia solennemente esposto nella Basilica di san Giovanni in Laterano, è presente e sostiene il cammino della grande missione cittadina che condurrà la Comunità ecclesiale di Roma alle soglie del terzo millennio.
"Anch’io mando voi... ".
Signore, come avvenne agli inizi della missione della Chiesa, all’alba del primo millennio, tu oggi ci invii per una nuova missione evangelizzatrice.
Ci affidi il compito di portare la Buona Novella nelle strade e nelle piazze di questa Città; tu vuoi che la tua Chiesa sia pellegrina di speranza e di pace nelle vie del mondo.
Sostieni il nostro cammino con la forza del tuo Spirito; rendici apostoli coraggiosi del Vangelo e costruttori di una nuova umanità.
Maria, Salus Populi Romani, che accompagnerai con la tua venerata icona il pellegrinaggio di questa notte, guida i nostri passi; ottienici la pienezza dei doni dello Spirito Santo.
"Emitte Spiritum tuum et creabuntur". Amen!
[Papa Giovanni Paolo II, Omelia per l’Inaugurazione della Missione cittadina, in preparazione al Grande Giubileo, 25 maggio 1996]
If penance today moves from the material to the spiritual side, let's say, from the body to the soul, from the outside to the inside, it is no less necessary and less feasible (Pope Paul VI)
Se la penitenza si sposta oggi dalla parte, diciamo, materiale a quella spirituale, dal corpo all’anima, dall’esterno all’interno, non è meno necessaria e meno attuabile (Papa Paolo VI)
“Love is an excellent thing”, we read in the book the Imitation of Christ. “It makes every difficulty easy, and bears all wrongs with equanimity…. Love tends upward; it will not be held down by anything low… love is born of God and cannot rest except in God” (III, V, 3) [Pope Benedict]
«Grande cosa è l’amore – leggiamo nel libro dell’Imitazione di Cristo –, un bene che rende leggera ogni cosa pesante e sopporta tranquillamente ogni cosa difficile. L’amore aspira a salire in alto, senza essere trattenuto da alcunché di terreno. Nasce da Dio e soltanto in Dio può trovare riposo» (III, V, 3) [Papa Benedetto]
For Christians, non-violence is not merely tactical behaviour but a person's way of being (Pope Benedict)
La nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere (Papa Benedetto)
But the mystery of the Trinity also speaks to us of ourselves, of our relationship with the Father, the Son and the Holy Spirit (Pope Francis)
Ma il mistero della Trinità ci parla anche di noi, del nostro rapporto con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo (Papa Francesco)
Jesus contrasts the ancient prohibition of perjury with that of not swearing at all (Matthew 5: 33-38), and the reason that emerges quite clearly is still founded in love: one must not be incredulous or distrustful of one's neighbour when he is habitually frank and loyal, and rather one must on the one hand and on the other follow this fundamental law of speech and action: "Let your language be yes if it is yes; no if it is no. The more is from the evil one" (Mt 5:37) [John Paul II]
Gesù contrappone all’antico divieto di spergiurare, quello di non giurare affatto (Mt 5, 33-38), e la ragione che emerge abbastanza chiaramente è ancora fondata nell’amore: non si deve essere increduli o diffidenti col prossimo, quando è abitualmente schietto e leale, e piuttosto occorre da una parte e dall’altra seguire questa legge fondamentale del parlare e dell’agire: “Il vostro linguaggio sia sì, se è sì; no, se è no. Il di più viene dal maligno” (Mt 5, 37) [Giovanni Paolo II]
And one thing is the woman before Jesus, another thing is the woman after Jesus. Jesus dignifies the woman and puts her on the same level as the man because he takes that first word of the Creator, both are “God’s image and likeness”, both; not first the man and then a little lower the woman, no, both. And the man without the woman next to him - both as mother, as sister, as bride, as work partner, as friend - that man alone is not the image of God (Pope Francis)
E una cosa è la donna prima di Gesù, un’altra cosa è la donna dopo Gesù. Gesù dignifica la donna e la mette allo stesso livello dell’uomo perché prende quella prima parola del Creatore, tutti e due sono “immagine e somiglianza di Dio”, tutti e due; non prima l’uomo e poi un pochino più in basso la donna, no, tutti e due. E l’uomo senza la donna accanto – sia come mamma, come sorella, come sposa, come compagna di lavoro, come amica – quell’uomo solo non è immagine di Dio (Papa Francesco)
Only one creature has already scaled the mountain peak: the Virgin Mary. Through her union with Jesus, her righteousness was perfect: for this reason we invoke her as Speculum iustitiae. Let us entrust ourselves to her so that she may guide our steps in fidelity to Christ’s Law (Pope Benedict)
don Giuseppe Nespeca
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