don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Venerdì, 30 Maggio 2025 05:26

[Veglia di Pentecoste] Scendere a Pentecoste

Anche stasera, vigilia dell’ultimo giorno del tempo di Pasqua, festa di Pentecoste, Gesù è in mezzo a noi e proclama ad alta voce: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva» (Gv 7,37-38).

È “il fiume d’acqua viva” dello Spirito Santo che scaturisce dal grembo di Gesù, dal suo fianco trafitto dalla lancia (cfr Gv 19,36), e che lava e feconda la Chiesa, mistica sposa rappresentata da Maria, nuova Eva, ai piedi della croce.

Lo Spirito Santo sgorga dal grembo di misericordia di Gesù Risorto, riempie il nostro grembo di una “misura buona, pigiata, colma e traboccante” di misericordia (cfr Lc 6,38) e ci trasforma in Chiesa-grembo di misericordia, cioè in una “madre dal cuore aperto” per tutti! Quanto vorrei che la gente che abita a Roma riconoscesse la Chiesa, ci riconoscesse per questo di più di misericordia – non per altre cose –, per questo di più di umanità e di tenerezza, di cui c’è tanto bisogno! Si sentirebbe come a casa, la “casa materna” dove si è sempre benvenuti e dove si può sempre ritornare. Si sentirebbe sempre accolta, ascoltata, ben interpretata, aiutata a fare un passo avanti nella direzione del regno di Dio… Come sa fare una madre, anche con i figli diventati ormai grandi.

Questo pensiero alla maternità della Chiesa mi fa ricordare che 75 anni fa, l’11 giugno del 1944, il Papa Pio XII compì uno speciale atto di ringraziamento e di supplica alla Vergine, per la protezione della città di Roma. Lo fece nella chiesa di Sant’Ignazio, dove era stata portata la venerata immagine della Madonna del Divino Amore. L’Amore Divino è lo Spirito Santo, che scaturisce dal Cuore di Cristo. È Lui la “roccia spirituale” che accompagna il popolo di Dio nel deserto, perché attingendone l’acqua viva possa dissetarsi lungo il cammino (cfr 1 Cor 10,4). Nel roveto che non si consuma, immagine di Maria Vergine e Madre, c’è il Cristo Risorto che ci parla, ci comunica il fuoco dello Spirito Santo, ci invita a scendere in mezzo al popolo per ascoltare il grido, ci invia per aprire il varco a cammini di libertà che portano a terre promesse da Dio.

Lo sappiamo: c’è anche oggi, come in ogni tempo, chi cerca di costruire “una città e una torre che arrivi fino al cielo” (cfr Gen 11,4). Sono i progetti umani, anche i nostri progetti, fatti al servizio di un “io” sempre più grande, verso un cielo dove non c’è più spazio per Dio. Dio ci lascia fare per un po’, in modo da farci sperimentare fino a che punto di male e di tristezza siamo capaci di arrivare senza di Lui… Ma lo Spirito del Cristo, Signore della storia, non vede l’ora di buttare all’aria tutto, per farci ricominciare! Noi siamo sempre un po’ “stretti” di sguardo e di cuore; lasciati a noi stessi finiamo per perdere l’orizzonte; arriviamo a convincerci di aver compreso tutto, di aver preso in considerazione tutte le variabili, di aver previsto cosa accadrà e come accadrà… Sono tutte costruzioni nostre che si illudono di toccare il cielo. Invece lo Spirito irrompe nel mondo dall’Alto, dal grembo di Dio, lì dove il Figlio è stato generato, e fa nuove tutte le cose.

Che cosa celebriamo oggi, tutti insieme, in questa nostra città di Roma? Celebriamo il primato dello Spirito, che ci fa ammutolire di fronte all’imprevedibilità del piano di Dio, e poi trasalire di gioia: “Allora era questo che Dio aveva in grembo per noi!”: questo cammino di Chiesa, questo passaggio, questo Esodo, questo arrivo alla terra promessa, la città-Gerusalemme dalle porte sempre aperte per tutti, dove le varie lingue dell’uomo si compongono nell’armonia dello Spirito, perché lo Spirito è l’armonia.

E se abbiamo presenti le doglie del parto, comprendiamo che il nostro gemito, quello del popolo che abita in questa città e il gemito del creato intero non sono altro che il gemito stesso dello Spirito: è il parto del mondo nuovo. Dio è il Padre e la madre, Dio è la levatrice, Dio è il gemito, Dio è il Figlio generato nel mondo e noi, Chiesa, siamo al servizio di questo parto. Non al servizio di noi stessi, non al servizio delle nostre ambizioni, di tanti sogni di potere, no: al servizio di questo che Dio fa, di queste meraviglie che Dio fa.

«Se l’orgoglio e la presunta superiorità morale non ci ottundono l’udito, ci renderemo conto che sotto il grido di tanta gente non c’è altro che un gemito autentico dello Spirito Santo. È lo Spirito che spinge ancora una volta a non accontentarsi, a cercare di rimettersi in cammino; è lo Spirito che ci salverà da ogni “risistematizzazione” diocesana» (Discorso al Convegno diocesano, 9 maggio 2019). Il pericolo è questa voglia di confondere le novità dello Spirito con un metodo di “risistematizzare” tutto. No, questo non è lo Spirito di Dio. Lo Spirito di Dio sconvolge tutto e ci fa incominciare non da capo, ma da un nuovo cammino.

Lasciamoci allora prendere per mano dallo Spirito e portare in mezzo al cuore della città per ascoltarne il grido, il gemito. A Mosè Dio dice che questo grido nascosto del Popolo è arrivato sino a Lui: Egli lo ha udito, ha visto l’oppressione e le sofferenze… E ha deciso di intervenire inviando Mosè per suscitare e alimentare il sogno di libertà degli Israeliti e rivelare loro che questo sogno è la sua stessa volontà: fare di Israele un Popolo libero, il suo Popolo, legato a Lui da un’alleanza d’amore, chiamato a testimoniare la fedeltà del Signore davanti a tutte le genti.

Ma perché Mosè possa realizzare la sua missione, Dio vuole invece che egli “scenda” con Lui in mezzo agli Israeliti. Il cuore di Mosè deve diventare come quello di Dio, attento e sensibile alle sofferenze e ai sogni degli uomini, a quello che gridano di nascosto quando alzano le mani verso il Cielo, perché non hanno più appigli sulla terra. È il gemito dello Spirito, e Mosè deve ascoltare, non con l’orecchio, con il cuore. Oggi chiede a noi, cristiani, di imparare ad ascoltare con il cuore. E il Maestro di questo ascolto è lo Spirito. Aprire il cuore perché Lui ci insegni ad ascoltare con il cuore. Aprirlo.

E per metterci in ascolto del grido della città di Roma, anche noi abbiamo bisogno che il Signore ci prenda per mano e ci faccia “scendere”, scendere dalle nostre posizioni, scendere in mezzo ai fratelli che abitano nella nostra città, per ascoltare il loro bisogno di salvezza, il grido che arriva fino a Lui e che noi abitualmente non udiamo. Non si tratta di spiegare cose intellettuali, ideologiche. A me fa piangere quando vedo una Chiesa che crede di essere fedele al Signore, di aggiornarsi quando cerca strade puramente funzionalistiche, strade che non vengono dallo Spirito di Dio. Questa Chiesa non sa scendere, e se non si scende non è lo Spirito che comanda. Si tratta di aprire occhi e orecchie, ma soprattutto il cuore, ascoltare con il cuore. Allora ci metteremo in cammino davvero. Allora sentiremo dentro di noi il fuoco della Pentecoste, che ci spinge a gridare agli uomini e alle donne di questa città che è finita la loro schiavitù e che è Cristo la via che porta alla città del Cielo. Per questo ci vuole la fede, fratelli e sorelle. Chiediamo oggi il dono della fede per andare su questa strada.

[Papa Francesco, omelia alla veglia di Pentecoste 8 giugno 2019]

Giovedì, 29 Maggio 2025 03:56

Mi ami? Ti voglio bene

(Gv 21,15-19)

 

Gesù chiama Simone con l’attributo «di Giovanni» perché lo considera ancora spiritualmente allievo del Battista (!).

Malgrado le sue oscillazioni, il Signore lo rimette in piedi.

Anche con noi, il Figlio non si stanca di riproporre un Volto di Dio amabile e invitante, capace di stupire.

Ricordiamo infatti che l’apostolo capo era stato chiamato a libertà e aveva scelto la condizione di lacchè [cf. Gv 21,9 con il «fuoco di brace» in Gv 18,18].

Così, al termine d’un gioco di riproposte, nel dialogo è Gesù stesso che si “accontenta” d’un amore di amicizia [cf. testo greco] modificando la doppia domanda «mi ami?» con la terza: «mi vuoi bene?».

 

L’amore umano attende un minimo di soddisfazione; non riesce a configurarsi in pura perdita. Aspetta qualcosina, almeno un cenno di approvazione e gratitudine.

Nessun riconoscimento? Allora è il più Forte che cede.

‘Attendere’ è l’infinito del verbo amare, perché consente di ‘nascere’ ancora.

Il sentimento umano ha fretta: regola la sua condotta sulla base del successo o delle perfezioni dell’amato.

L’Amore divino recupera, aiuta a diventare un’altra persona - non rompe l’intesa.

La sua Chiamata non è legata a meriti e prestazioni.

 

Anche attraverso le opere, dire «ti amo» è [purtroppo non di rado] una dichiarazione fatua.

O un’espressione sincera, ma spesso animata dall’entusiasmo senza radice profonda, che ad una successiva prova dei fatti trasforma il giuramento di fedeltà in sentimento fragile e incerto.

È la consapevolezza della propria impresentabilità gratuitamente redenta e trasformata in terreno di assurda fiducia che tramuta la presunzione di sé in apostolato!

Per questo Gesù chiede a Pietro d’iniziare cominciando dai piccoli del gregge (v.15).

E «pascere» (vv.15.17) o «pasturiare» (v.16) significa «alimentare»: nutrire, aver cura, proteggere, favorire; avviare, rischiare in prima persona, difendere e metterci la faccia - non “comandare”.

Pascere è farsi presente, in un continuo di rimandi. È questo clima che convince, educa, sfama e sostiene, lasciando crescere e fiorire.

 

«Pascere» non è (appunto) dominare, ma alimentare l’ideale. E cominciare dal gregge minuto (v.15).

Insomma, onde assicurarsi l’esito “felice”, il credente vero, l’amico del Signore, il figlio di Dio, non si allea con gente che conta - poi si vedrà...

Neppure deve “pescare” proseliti, bensì dilatare e rallegrare la vita.

La pienezza del “risultato” è la Gioia di ogni singola persona reale - così com’è - non “come dovrebbe essere” secondo opinione.

Infatti Gesù non chiede a Pietro: sei un buon amministratore? sei un bravo organizzatore? sei un abile animatore? sei abbastanza attrezzato, intelligente, furbo e introdotto per tener testa agli avversari?

 

[Una riflessione per il capo scout recita: «Ricorda, capo scout: se tu rallenti, essi si arrestano; se tu cedi, essi indietreggiano; se tu ti siedi, essi si sdraiano. Se tu cammini avanti, essi ti supereranno; se tu dai la tua mano, essi daranno la loro pelle»].

Dunque ‘nemico’ di Dio non è l’incertezza, ma la ricerca della “vita media”. Pantano ove non ci si getta.

 

 

[Venerdì 7.a sett. di Pasqua, 6 giugno 2025]

Giovedì, 29 Maggio 2025 03:52

Mi ami? Ti voglio bene

Mistero dell’Amore e dell’Eros

Gv 21,15-19 (1-19)

 

Il medesimo segno della pesca sovrabbondante, in Lc 5,1-11 non riguarda la vicenda della Chiesa dopo la Pasqua, ma si colloca addirittura nel giorno in cui Gesù invita i primi discepoli a seguirlo per diventare “pescatori” di uomini.

Il prodigio della Vocazione espande il cammino del fedele in Cristo e interessa ogni esperienza che possiamo fare del Risorto nel lavoro ordinario - e quale Missione ci è affidata per sperimentarlo Vivente.

La Chiesa non è composta da fenomeni, ma da un cocciuto e smanioso a capo [Pietro]. Qualcuno sta dentro e fuori [Tommaso], altri restano legati al passato [Natanaele], e non mancano i fanatici [i figli di Zebedeo]; quindi gli anonimi, ossia tutti noi.

Pietro si rende conto che prima di dare ordini deve fare ed esporsi lui: se così, gli altri pur insubordinati decideranno spontaneamente (v.3), dilatando la loro vita.

Ma senza la fiaccola della Parola, nessun risultato. Seguire Pietro non basta e non salva nessuno.

Ecco Gesù: sulla Riva della condizione definitiva ci chiama e ci fa strada, fa da guida all’attività, ed è finalmente Luce - l’Alba.

 

La rete va gettata dalla «parte destra» (v.6), ossia dalla parte buona!

Per tirar su persone da abissi d’acque inquinate e flutti di morte verso una possibilità di respiro o stima di sé e vita piena, bisogna iniziare e puntare al meglio di ciascuno, far emergere il bene che sempre c’è.

Richiamo per noi. Ogni cultura possiede molte qualità: si faccia leva su di esse, invece di approcciare donne e uomini, etnie o situazioni, evidenziando limiti e problemi.

Quindi il Pietro - ciascun responsabile di comunità - non deve avere preconcetti, ma svestirsi della talare di capogruppo e cingersi il grembiule da servo [v.7: il verbo greco è quello della lavanda dei piedi].

Per un lavoro che doni risultato secondo Dio (l’amore) bisogna indossare la stessa veste di Cristo - unico distintivo: l’abito di chi non dà ordini, ma li riceve.

È il tratto della Chiesa autentica - nulla di grande: non arriva su un transatlantico, ma su una «barchetta» [v.8 testo greco].

E resta di bassa misura: come un poco di lievito, per abbracciare tutti.

 

Malgrado le difficoltà a credere, i discepoli vengono costituiti araldi della notizia di Dio favorevole all’umanità che intende viaggiare verso se stessa - senza più il bagaglio dei soverchianti accumuli di maniera.

Per la comunione con Dio e i fratelli, nel cammino della vita e nel senso di rinascita che vi si annida [ad es. dopo un dolore, i travagli, esperienze di rifiuto, pensieri di fallimento e morte...] Gesù aveva fatto emergere il portato delle capacità trasmutative già in dote a ciascuno.

La sua proposta aveva soppiantato il giogo oppressivo delle perfezioni esterne predicate dalla religione, sostituite appunto con le nostre semplici virtù famigliari, colte dal di dentro. Non: combattere, bensì accogliere. Non: obbedire, ma somigliare. E così via.

La chiesa non avrebbe dovuto diventare una comunione etica di santi, ma di peccatori e indecisi. La vicenda degli apostoli increduli ci conforta: siamo già abilitati, e con attitudine alla pienezza. Ma nel suo capovolgimento.

È la risurrezione che ci manda fra gli uomini, appunto da rigenerare; proprio come noi. Quindi la condizione di apostolo non è sottoposta alla solita trafila dottrinale, moralistica, di costume, e religiosa; non tarda più ad essere assunta.

Malgrado il credere in sé rimanga fragile, facciamo di continuo esperienza di risuscitazione dalle nostre macerie - risollevando o nel migliore dei casi rigenerando l’intero organismo dello spirito, e l’universo interiore.

Tutto ciò plasma una coscienza d’inadeguatezza differente: quella nella Fede - solo positiva, perché capisce i fratelli. Li riconosce nell’intimo di sé, e in tal guisa sa giustificare le resistenze all’Annuncio.

Infatti è nel recupero dei lati opposti e nella sinergia delle contraddizioni che siamo diventati - nel proprio - esperti della difficoltà. Più in grado di cogliere i disagi; perfino il sentimento di sentirsi svuotati, che presto o tardi darà spazio al capovolgimento; inedito felice.

Poi abbiamo imparato l’ascolto delle emozioni: l’intuirsi travolti - persino nelle idee. E la necessità di cogliere e perderci nei dolori, assurdi o insopportabili. Lati dignitosi; volti di noi stessi.

Insomma, al fine di una realizzazione vocazionale, ciascuno è già “perfetto”.

Nel suo portato di energie difformi, deve solo imparare a incontrare i rilievi di sé cui ancora non ha fatto largo.

Come se dentro di noi avessimo una molteplicità di aspetti, spesso tutti da scoprire, dietro un qualche guscio che resiste - i quali ci completano e guidano infallibilmente alla fioritura personale e sociale.

 

Così nell’esodo passiamo dall’esperienza di morte-risurrezione alla vera testimonianza - nella spontanea franchezza di venire abilitati come evangelizzatori.

Cosa che ci sorprende. Ma adesso il Messaggio fa corpo con noi stessi.

Diventa Richiamo di pace, però esplosivo - incredibile, e lo si vede più dai limiti (ora nulla da temere) che dall’abilità, o dallo stile esterno, dalla capacità di allestire cattedre sentenziose, nonché vetrine.

Dopo Cristo non bisogna più “migliorare” secondo accezione comune - né attesa, o proposito, che guardino e si abbeverino alla fonte del già detto da altri [in passato, o per la moda] che poi ricolloca nella medesima situazione prevedibile di sempre.

Per i malfermi apostoli, il consenso, la religione antica o glamour, l’identificazione, erano la negazione di se stessi nel cuore.

Viceversa la Chiamata per Nome diveniva lo sviluppo di ciò che ognuno era nel profondo e che non si era dato, manipolandosi.

Strada della realizzazione di sé, anche nel contributo ai fratelli. Anch’essi non intimamente dissociati.

Unica arma convincente, la genuinità - che arde dentro per farci santuari, inconsapevoli e incompleti ma viventi.

Contemplativi e in azione. Sola via per incontrare le anime.

 

Siamo collaboratori del grembiule, per dialogare con chi ha bisogno di recupero, in qualsiasi condizione di vortice o periferia si trovi.

Pertanto, «pascere» (vv.15-17) significa precedere e nutrire, non comandare.

Coloro che guidano devono essere segno di un Dio che non si stufa né ripicca.

Volto amabile e invitante di Colui che è capace di stupire e rimettere in piedi pure Simone. L’apostolo a capo, che era stato chiamato a libertà e aveva scelto la condizione di lacchè [cf. Gv 21,9; con il «fuoco di brace» in Gv 18,18].

 

Al termine d’un gioco di riproposte, nel dialogo con lo stesso Simone - «di Giovanni» perché ancora spiritualmente allievo del Battista (!) - è Gesù che si “accontenta” d’un amore di amicizia [cf. testo greco] modificando la doppia domanda «mi ami?» con la terza: «mi vuoi bene?».

L’amore umano attende un minimo di soddisfazione, non riesce a configurarsi in pura perdita - aspetta qualcosina, almeno un cenno di approvazione e gratitudine.

Nessun riconoscimento? Allora è il più Forte che cede.

‘Attendere’ è l’infinito del verbo ‘amare’, perché consente di nascere ancora.

Il sentimento umano ha fretta: regola la sua condotta sulla base del successo o delle perfezioni dell’amato.

L’Amore divino recupera; aiuta a diventare un’altra ‘persona’, a tutto tondo - non rompe l’intesa.

La sua Chiamata non è legata a meriti e prestazioni: anche attraverso le opere, dire «ti amo» è (purtroppo non di rado) una dichiarazione fatua.

O un’espressione sincera, ma spesso animata dall’entusiasmo senza radice profonda, che ad una successiva prova dei fatti trasforma il giuramento di fedeltà in sentimento fragile e incerto.

È la consapevolezza della propria impresentabilità gratuitamente redenta e trasformata in terreno di assurda fiducia, che tramuta la presunzione di sé in apostolato!

Per questo Gesù chiede a Pietro d’iniziare cominciando dai piccoli del gregge (v.15).

E «pascere» (vv.15.17) o «pasturiare» (v.16) significa «alimentare»: nutrire, aver cura, proteggere, favorire; avviare, rischiare in prima persona, difendere e metterci la faccia - non “comandare”.

Pascere è farsi presente, in un continuo di rimandi. È questo clima che convince, educa, sfama e sostiene, lasciando crescere e fiorire.

 

«Pascere» non è [appunto] dominare, ma alimentare l’ideale. E cominciare dal gregge minuto (v.15).

Insomma, onde assicurarsi l’esito “felice”, il credente vero, l’amico del Signore, il figlio di Dio, non si allea con gente che conta, poi si vedrà.

Neppure deve “pescare” proseliti, bensì dilatare e rallegrare la vita.

La pienezza del ‘risultato’ è la Felicità di ogni singola persona reale - così com’è - non come “dovrebbe essere” secondo opinione acclarata.

Infatti Gesù non chiede a Pietro: sei un buon amministratore? sei un bravo organizzatore? sei un abile animatore? sei abbastanza attrezzato, intelligente, furbo e introdotto per tener testa agli avversari?

 

Dunque “nemico” di Dio non è l’incertezza o il peccato - ossessione che genera squilibrati - bensì la ricerca della “vita media”. Pantano ove non ci si getta.

 

[Una riflessione per il capo scout recita: «Ricorda, capo scout: se tu rallenti, essi si arrestano; se tu cedi, essi indietreggiano; se tu ti siedi, essi si sdraiano. Se tu cammini avanti, essi ti supereranno; se tu dai la tua mano, essi daranno la loro pelle»].

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Sei un inviato o un semplice ammiratore?

Qual è la tua personale Sorgente?

Qual è la Fonte delle tue relazioni?

E la radice della fedeltà e di ogni generosità che ti trascina, e mostri?

 

 

Amore totale e non

 

La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà. Anche Pietro deve imparare a essere debole e bisognoso di perdono. Quando finalmente gli cade la maschera e capisce la verità del suo cuore debole di peccatore credente, scoppia in un liberatorio pianto di pentimento. Dopo questo pianto egli è ormai pronto per la sua missione.

In un mattino di primavera questa missione gli sarà affidata da Gesù risorto. L’incontro avverrà sulle sponde del lago di Tiberiade. E’ l’evangelista Giovanni a riferirci il dialogo che in quella circostanza ha luogo tra Gesù e Pietro. Vi si rileva un gioco di verbi molto significativo. In greco il verbo “filéo” esprime l’amore di amicizia, tenero ma non totalizzante, mentre il verbo “agapáo” significa l’amore senza riserve, totale ed incondizionato. Gesù domanda a Pietro la prima volta: «Simone... mi ami tu (agapâs-me)” con questo amore totale e incondizionato (cfr Gv 21,15)? Prima dell’esperienza del tradimento l’Apostolo avrebbe certamente detto: “Ti amo (agapô-se) incondizionatamente”. Ora che ha conosciuto l’amara tristezza dell’infedeltà, il dramma della propria debolezza, dice con umiltà: “Signore, ti voglio bene (filô-se)”, cioè “ti amo del mio povero amore umano”. Il Cristo insiste: “Simone, mi ami tu con questo amore totale che io voglio?”. E Pietro ripete la risposta del suo umile amore umano: “Kyrie, filô-se”, “Signore, ti voglio bene come so voler bene”. Alla terza volta Gesù dice a Simone soltanto: “Fileîs-me?”, “mi vuoi bene?”. Simone comprende che a Gesù basta il suo povero amore, l’unico di cui è capace, e tuttavia è rattristato che il Signore gli abbia dovuto dire così. Gli risponde perciò: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene (filô-se)”. Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù! E’ proprio questo adeguamento divino a dare speranza al discepolo, che ha conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Da qui nasce la fiducia che lo rende capace della sequela fino alla fine: «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: “Seguimi”» (Gv 21,19).

Da quel giorno Pietro ha “seguito” il Maestro con la precisa consapevolezza della propria fragilità; ma questa consapevolezza non l’ha scoraggiato. Egli sapeva infatti di poter contare sulla presenza accanto a sé del Risorto. Dagli ingenui entusiasmi dell’adesione iniziale, passando attraverso l’esperienza dolorosa del rinnegamento ed il pianto della conversione, Pietro è giunto ad affidarsi a quel Gesù che si è adattato alla sua povera capacità d’amore. E mostra così anche a noi la via, nonostante tutta la nostra debolezza. Sappiamo che Gesù si adegua a questa nostra debolezza. Noi lo seguiamo, con la nostra povera capacità di amore e sappiamo che Gesù è buono e ci accetta.

(Papa Benedetto, Udienza Generale 24 maggio 2006)

Giovedì, 29 Maggio 2025 03:44

Amore totale e non

La scuola della fede non è una marcia trionfale, ma un cammino cosparso di sofferenze e di amore, di prove e di fedeltà da rinnovare ogni giorno. Pietro che aveva promesso fedeltà assoluta, conosce l’amarezza e l’umiliazione del rinnegamento: lo spavaldo apprende a sue spese l’umiltà. Anche Pietro deve imparare a essere debole e bisognoso di perdono. Quando finalmente gli cade la maschera e capisce la verità del suo cuore debole di peccatore credente, scoppia in un liberatorio pianto di pentimento. Dopo questo pianto egli è ormai pronto per la sua missione.

In un mattino di primavera questa missione gli sarà affidata da Gesù risorto. L’incontro avverrà sulle sponde del lago di Tiberiade. E’ l’evangelista Giovanni a riferirci il dialogo che in quella circostanza ha luogo tra Gesù e Pietro. Vi si rileva un gioco di verbi molto significativo. In greco il verbo “filéo” esprime l’amore di amicizia, tenero ma non totalizzante, mentre il verbo “agapáo” significa l’amore senza riserve, totale ed incondizionato. Gesù domanda a Pietro la prima volta: «Simone... mi ami tu (agapâs-me)” con questo amore totale e incondizionato (cfr Gv 21,15)? Prima dell’esperienza del tradimento l’Apostolo avrebbe certamente detto: “Ti amo (agapô-se) incondizionatamente”. Ora che ha conosciuto l’amara tristezza dell’infedeltà, il dramma della propria debolezza, dice con umiltà: “Signore, ti voglio bene (filô-se)”, cioè “ti amo del mio povero amore umano”. Il Cristo insiste: “Simone, mi ami tu con questo amore totale che io voglio?”. E Pietro ripete la risposta del suo umile amore umano: “Kyrie, filô-se”, “Signore, ti voglio bene come so voler bene”. Alla terza volta Gesù dice a Simone soltanto: “Fileîs-me?”, “mi vuoi bene?”. Simone comprende che a Gesù basta il suo povero amore, l’unico di cui è capace, e tuttavia è rattristato che il Signore gli abbia dovuto dire così. Gli risponde perciò: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene (filô-se)”. Verrebbe da dire che Gesù si è adeguato a Pietro, piuttosto che Pietro a Gesù! E’ proprio questo adeguamento divino a dare speranza al discepolo, che ha conosciuto la sofferenza dell’infedeltà. Da qui nasce la fiducia che lo rende capace della sequela fino alla fine: «Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: “Seguimi”» (Gv 21,19).

Da quel giorno Pietro ha “seguito” il Maestro con la precisa consapevolezza della propria fragilità; ma questa consapevolezza non l’ha scoraggiato. Egli sapeva infatti di poter contare sulla presenza accanto a sé del Risorto. Dagli ingenui entusiasmi dell’adesione iniziale, passando attraverso l’esperienza dolorosa del rinnegamento ed il pianto della conversione, Pietro è giunto ad affidarsi a quel Gesù che si è adattato alla sua povera capacità d’amore. E mostra così anche a noi la via, nonostante tutta la nostra debolezza. Sappiamo che Gesù si adegua a questa nostra debolezza. Noi lo seguiamo, con la nostra povera capacità di amore e sappiamo che Gesù è buono e ci accetta.

[Papa Benedetto, Udienza Generale 24 maggio 2006]

Giovedì, 29 Maggio 2025 03:41

Più di costoro

1. La promessa fatta da Gesù a Simon Pietro, di costituirlo pietra fondamentale della sua Chiesa, ha riscontro nel mandato che il Cristo gli affida dopo la risurrezione: “Pasci i miei agnelli”, “Pasci le mie pecorelle” (Gv 21, 15-17). Vi è un oggettivo rapporto tra il conferimento della missione attestato dal racconto di Giovanni, e la promessa riferita da Matteo (cf. Mt 16, 18-19). Nel testo di Matteo vi era un annuncio. In quello di Giovanni vi è l’adempimento dell’annuncio. Le parole: “Pasci le mie pecorelle” manifestano l’intenzione di Gesù di assicurare il futuro della Chiesa da lui fondata, sotto la guida di un pastore universale, ossia Pietro, al quale egli ha detto che, per sua grazia, sarà “pietra” e che avrà le “chiavi del regno dei cieli”, col potere “di legare e di sciogliere”. Gesù, dopo la risurrezione, dà una forma concreta all’annuncio e alla promessa di Cesarea di Filippo, istituendo l’autorità di Pietro come ministero pastorale della Chiesa, a raggio universale.

2. Diciamo subito che in tale missione pastorale s’integra il compito di “confermare i fratelli” nella fede, di cui abbiamo trattato nella precedente catechesi. “Confermare i fratelli” e “pascere le pecore” costituiscono congiuntamente la missione di Pietro: si direbbe il proprium del suo ministero universale. Come afferma il Concilio Vaticano I, la costante tradizione della Chiesa ha giustamente ritenuto che il primato apostolico di Pietro “comprende pure la suprema potestà di magistero” (cf. Denz.-S. 3065). Sia il primato che la potestà di magistero sono conferiti direttamente da Gesù a Pietro come persona singolare, anche se ambedue le prerogative sono ordinate alla Chiesa, senza però derivare dalla Chiesa, ma solo da Cristo. Il primato è dato a Pietro (cf. Mt 16, 18) come - l’espressione è di Agostino - “totius Ecclesiae figuram gerenti” (Epist., 53,1.2), ossia in quanto egli personalmente rappresenta la Chiesa intera; e il compito e potere di magistero gli è conferito come fede confermata perché sia confermante per tutti i “fratelli” (cf. Lc 22, 31 s). Ma tutto è nella Chiesa e per la Chiesa, di cui Pietro è fondamento, clavigero e pastore nella sua struttura visibile, in nome e per mandato di Cristo.

3. Gesù aveva preannunciato questa missione a Pietro non solo a Cesarea di Filippo, ma anche nella prima pesca miracolosa, quando, a Simone che si riconosceva peccatore, aveva detto: “Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini” (Lc 5, 10). In tale circostanza, Gesù aveva riservato a Pietro personalmente questo annuncio, distinguendolo dai suoi compagni e soci, tra i quali i “figli di Zebedeo”, Giacomo e Giovanni (cf. Lc 5, 10). Anche nella seconda pesca miracolosa, dopo la risurrezione, emerge la persona di Pietro in mezzo agli altri Apostoli, secondo la descrizione dell’avvenimento fatta da Giovanni (Gv 21, 2 ss), quasi a tramandarne il ricordo nel quadro di una simbologia profetica della fecondità della missione affidata da Cristo a quei pescatori.

4. Quando Gesù sta per conferire la missione a Pietro, si rivolge a lui con un appellativo ufficiale: “Simone, figlio di Giovanni” (Gv 21, 15), ma assume poi un tono familiare e d’amicizia: “Mi ami tu più di costoro?”. Questa domanda esprime un interesse per la persona di Simon Pietro e sta in rapporto con la sua elezione per una missione personale. Gesù la formula a tre riprese, non senza un implicito riferimento al triplice rinnegamento. E Pietro dà una risposta che non è fondata sulla fiducia nelle proprie forze e capacità personali, sui propri meriti. Ormai sa bene che deve riporre tutta la sua fiducia soltanto in Cristo: “Signore, tu sai tutto, tu sai che ti amo” (Gv 21, 17). Evidentemente il compito di pastore richiede un amore particolare verso Cristo. Ma è lui, è Dio che dà tutto, anche la capacità di rispondere alla vocazione, di adempiere la propria missione. Sì, bisogna dire che “tutto è grazia”, specialmente a quel livello!

5. E avuta la risposta desiderata, Gesù conferisce a Simon Pietro la missione pastorale: “Pasci i miei agnelli”; “Pasci le mie pecorelle”. È come un prolungamento della missione di Gesù, che ha detto di sé: “Io sono il buon Pastore” (Gv 10, 11). Gesù, che ha partecipato a Simone la sua qualità di “pietra”, gli comunica anche la sua missione di “pastore”. È una comunicazione che implica una comunione intima, che traspare anche dalla formulazione di Gesù: “Pasci i miei agnelli . . . le mie pecorelle”; come aveva già detto: “Su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16, 18). La Chiesa è proprietà di Cristo, non di Pietro. Agnelli e pecorelle appartengono a Cristo, e a nessun altro. Gli appartengono come a “buon Pastore”, che “offre la vita per le sue pecore” (Gv 10, 11). Pietro deve assumersi il ministero pastorale nei riguardi degli uomini redenti “con il sangue prezioso di Cristo” (1 Pt 1, 19). Sul rapporto tra Cristo e gli uomini, diventati sua proprietà mediante la redenzione, si fonda il carattere di servizio che contrassegna il potere annesso alla missione conferita a Pietro: servizio a Colui che solo è “pastore e guardiano delle nostre anime” (1 Pt 2, 25), e nello stesso tempo a tutti coloro che Cristo-buon Pastore ha redento a prezzo del sacrificio della croce. È chiaro, peraltro, il contenuto di tale servizio: come il pastore guida le pecore verso i luoghi in cui possono trovare cibo e sicurezza, così il pastore delle anime deve offrir loro il cibo della parola di Dio e della sua santa volontà (cf. Gv 4, 34), assicurando l’unità del gregge e difendendolo da ogni ostile incursione.

6. Certo, la missione comporta un potere, ma per Pietro - e per i suoi successori - è una potestà ordinata al servizio, a un servizio specifico, un ministerium. Pietro la riceve nella comunità dei Dodici. Egli è uno della comunità degli Apostoli. Ma non c’è dubbio che Gesù, sia mediante l’annuncio (cf. Mt 16, 18-19), sia mediante il conferimento della missione dopo la sua risurrezione, riferisce in modo particolare a Pietro quanto trasmette a tutti gli Apostoli, come missione e come potere. Solo a lui Gesù dice: “Pasci”, ripetendoglielo tre volte. Ne deriva che, nell’ambito del comune compito dei Dodici, si delineano per Pietro una missione e un potere, che toccano soltanto a lui.

7. Gesù si rivolge a Pietro come a persona singola in mezzo ai Dodici, non soltanto come a un rappresentante di questi Dodici: “Mi ami tu più di costoro?” (Gv 21, 15). A questo soggetto - il tu di Pietro - è chiesta la dichiarazione d’amore ed è conferita questa missione e autorità singolare. Pietro è dunque distinto tra gli altri Apostoli. Anche la triplice ripetizione della domanda sull’amore di Pietro, probabilmente in rapporto con il suo triplice rinnegamento di Cristo, accentua il fatto del conferimento a lui di un particolare ministerium, come decisione di Cristo stesso, indipendentemente da qualunque qualità o merito dell’Apostolo, e anzi nonostante la sua momentanea infedeltà.

8. La comunione nella missione messianica, stabilita da Gesù con Pietro mediante quel mandato: “Pasci i miei agnelli . . .”, non può non comportare una partecipazione dell’Apostolo-Pastore allo stato sacrificale di Cristo-buon Pastore “che offre la vita per le sue pecore”. Questa è la chiave di interpretazione di molte vicende, che si ritrovano nella storia del pontificato dei successori di Pietro. Su tutto l’arco di questa storia aleggia quella predizione di Gesù: “Quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21, 18). Era la predizione della conferma che Pietro avrebbe dato al suo ministero pastorale con la morte per martirio. Come dice Giovanni, con tale morte Pietro “avrebbe glorificato Dio” (Gv 21, 19). Il servizio pastorale, affidato a Pietro nella Chiesa, avrebbe avuto la sua consumazione nella partecipazione al sacrificio della croce, offerto da Cristo per la redenzione del mondo. La croce, che aveva redento Pietro, sarebbe così diventata per lui il mezzo privilegiato per esercitare fino in fondo il suo compito di “Servo dei servi di Dio”.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 9 dicembre 1992]

Giovedì, 29 Maggio 2025 03:34

Come mi guarda?

«Come mi guarda oggi Gesù?». La domanda suggerita da Francesco raggiunge e interpella direttamente ciascun cristiano con la stessa forza dei «tre sguardi che il Signore ha avuto per Pietro». Sguardi che raccontano «l’entusiasmo della vocazione, il pentimento e la missione», ha spiegato il Papa nella messa celebrata venerdì 22 maggio, nella cappella della Casa Santa Marta.

Il brano che racconta il dialogo tra Gesù e Pietro, ha fatto notare il Pontefice, «è quasi alla fine» del vangelo di Giovanni» (21, 15-19) «Ricordiamo sempre — ha proseguito — la storia di quella notte di pesca», quando «i discepoli non hanno preso alcun pesce, niente». E per questo «erano un po’ arrabbiati». Perciò «quando si avvicinarono alla riva» e si sentirono domandare da un uomo se avessero «qualcosa da mangiare», ecco che «loro arrabbiati» risposero: «No!». Perché veramente «non avevano pescato niente». Ma quest’uomo gli disse di gettare la rete dall’altra parte: i discepoli l’hanno fatto «e la rete si riempì di pesce».

È «Giovanni, l’amico più vicino, a riconoscere il Signore». Da parte sua «Pietro, l’entusiasta, si butta in mare per arrivare prima dal Signore». Questa è davvero «una pesca miracolosa», ha osservato Francesco, ma «quando sono arrivati — qui incomincia il passo di oggi del Vangelo — trovano che Gesù aveva preparato la colazione: sulla griglia c’era il pesce». Così mangiano insieme. Poi «dopo aver mangiato, incomincia il dialogo fra Gesù e Pietro».

«Oggi nella preghiera — ha confidato il Papa — mi veniva al cuore, mi tornava com’era lo sguardo di Gesù su Pietro». E nel Vangelo, ha aggiunto, «ho trovato tre differenti sguardi di Gesù su Pietro».

«Il primo sguardo», ha fatto notare Francesco, si incontra «all’inizio del vangelo di Giovanni, quando Andrea va da suo fratello Pietro e gli dice: “Abbiamo trovato il Messia”». E «lo porta da Gesù», il quale «fissa il suo sguardo su di lui e dice: “Tu sei Simone, figlio di Giona. Sarai chiamato Pietro”». È «il primo sguardo, lo sguardo della missione che, più avanti a Cesarea di Filippo, spiega la missione: “Tu sei Pietro, e sopra questa pietra io edificherò la mia Chiesa”: questa sarà la tua missione».

«Nel frattempo — ha affermato il Pontefice — Pietro era diventato un entusiasta di Gesù: seguiva Gesù. Ricordiamo quel passo del sesto capitolo del vangelo di Giovanni, quando Gesù parla del mangiare il suo corpo e tanti discepoli in quel momento dicevano: “Ma è duro questo, questa parola è difficile”». Tanto che «incominciarono a tirarsi indietro». Allora «Gesù guarda i discepoli e dice: “Anche voi volete andarvene”?». Ed «è l’entusiasmo di Pietro che risponde: “No! Ma dove andremo? Tu solo hai parole di vita eterna!”». Dunque, ha spiegato Francesco, «c’è il primo sguardo: la vocazione e un primo annuncio della missione». E «com’è l’anima di Pietro in quel primo sguardo? Entusiasta». È «il primo tempo di andare con il Signore».

Poi, ha aggiunto il Papa, «ho pensato al secondo sguardo». Lo troviamo «la tarda notte del Giovedì santo, quando Pietro vuol seguire Gesù e si avvicina dove lui è, nella casa del sacerdote, in prigione, ma viene riconosciuto: “No, io questo non lo conosco!”». Lo rinnega «per tre volte». Poi «sente il canto del gallo e si ricorda: ha rinnegato il Signore. Ha perso tutto. Ha perso il suo amore». Proprio «in quel momento Gesù è portato in un’altra stanza, attraverso il cortile, e fissa lo sguardo su Pietro». Il vangelo di Luca dice che «Pietro pianse amaramente». Così «quell’entusiasmo di seguire Gesù è diventato pianto, perché lui ha peccato, lui ha rinnegato Gesù». Però «quello sguardo cambia il cuore di Pietro, più di prima». Dunque «il primo cambiamento è il cambio di nome e anche di vocazione». Invece «questo secondo sguardo è uno sguardo che cambia il cuore ed è un cambio di conversione all’amore».

«Non sappiamo come sia stato lo sguardo in quell’incontro, da soli, dopo la risurrezione» ha affermato Francesco. «Sappiamo che Gesù ha incontrato Pietro, dice il Vangelo, ma non sappiamo cosa hanno detto». E così quello raccontato nella liturgia di oggi «è un terzo sguardo: la conferma della missione; ma anche lo sguardo nel quale Gesù chiede conferma dell’amore di Pietro». Infatti «per tre volte — tre volte! — Pietro aveva rinnegato»; e ora il Signore «per tre volte chiede la manifestazione del suo amore». E «quando Pietro, ogni volta, dice di sì, che gli vuole bene, che lo ama, lui dà la missione: “Pasci i miei agnelli, pascola le mie pecore”». Di più, alla terza domanda — «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?» — Pietro «rimase addolorato, quasi piange». È dispiaciuto perché «per la terza volta» il Signore «gli domandava “Mi vuoi bene?”». E gli risponde: «Signore, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene». E di rimando Gesù: «Pasci le mie pecore». Ecco «il terzo sguardo: lo sguardo della missione».

Francesco ha quindi riproposto l’essenza dei «tre sguardi» del Signore su Pietro: «Il primo, lo sguardo della scelta, con l’entusiasmo di seguire Gesù; il secondo, lo sguardo del pentimento nel momento di quel peccato tanto grave di avere rinnegato Gesù; il terzo sguardo è lo sguardo della missione: “Pasci i miei agnelli, pascola le mie pecore, pasci le mie pecore”». Ma «non finisce lì. Gesù va più avanti: tu fai tutto questo per amore e poi? Sarai incoronato re? No». Anzi, il Signore afferma chiaramente: «Ti dico: quando eri più giovane, ti vestivi da solo e andavi dove volevi. Ma quando sarai vecchio, tenderai le tue mani e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Come a dire: «Anche tu, come me, sarai in quel cortile nel quale io ho fissato il mio sguardo su di te: vicino alla croce».

Proprio su questo il Papa ha proposto un esame di coscienza. «Anche noi possiamo pensare: qual è oggi lo sguardo di Gesù su me? Come mi guarda Gesù? Con una chiamata? Con un perdono? Con una missione?». Siamo certi che «sulla strada che lui ha fatto, tutti noi siamo sotto lo sguardo di Gesù: lui ci guarda sempre con amore, ci chiede qualcosa, ci perdona qualcosa e ci dà una missione».

Prima di proseguire la celebrazione — «adesso Gesù viene sull’altare» ha ricordato — Francesco ha invitato a pregare: «Signore, tu sei qui, tra noi. Fissa il tuo sguardo su me e dimmi cosa debbo fare; come devo piangere i miei sbagli, i miei peccati; quale sia il coraggio con il quale devo andare avanti sulla strada che tu hai fatto per primo». E «durante questo sacrificio eucaristico», è opportuno «che ci sia questo nostro dialogo con Gesù». Poi, ha concluso, «ci farà bene pensare durante tutta la giornata allo sguardo di Gesù su di me».

[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano  23/05/2015]

Sacerdotale, diversa resilienza

(Gv 17,20-26)

 

Per tutelare i suoi da timori di rappresaglie, Gesù si preoccupa di far comprendere a quale livello di realizzazione e considerazione guidasse i discepoli.

L'Unità prioritaria cui tiene è quella che s’introduce trasmettendo la reciprocità divina tra Padre e Figlio.

Essa affiora proprio mentre lasciamo agire in noi il fermento che ci costituisce sorelle e fratelli, suo Corpo.

Se la Chiesa contempla e mostra la Gloria del Cristo, è perché ha saputo collocarsi nel punto che gli spetta, sino a dare vita e sostanze: ‘giudicando’ pure la realtà, ma dal criterio della Croce (cf. v.24).

Così, l’esperienza dell’Unità in Dio - segno più inconfutabile della sua Presenza - fu davvero profonda nelle comunità giovannee.

Senza preclusioni, nelle assemblee dell’Asia Minore si svelava il fascino di quei versanti dell’Unicità che dal mondo consuetudinario venivano valutati al pari di squilibri e difetti.

Le prime comunità erano un ambiente che aiutava a valorizzare i lati nascosti: opportunità di arricchimento e vocazioni personali.

In tal guisa, al termine della Preghiera sacerdotale, in Gesù emerge una preoccupazione saliente: quella ‘eucaristica’ per eccellenza.

L’attesa ebraica del Messia diventa attesa dell’Unità [non psicologica e banale, bensì Dono dall’alto].

Sul tema della Gloria, gli apostoli non devono fare confusione.

Veicolo della Gloria è l’amore e l’ineludibile fare festa insieme - proprio come nella Eucaristia: lo stesso Oro divino che torna ad affiorare ed essere offerto ancora.

In forma orante, il Signore fa memoriale di tutti coloro che nel corso della storia crederanno in Lui, attraverso la parola e la testimonianza dei discepoli, i quali si faranno centro d’attrazione e unione.

A differenza delle religioni antiche, Egli vuole che la vita di Fede si caratterizzi non per una “verità” che si ha, ma per la “verità” che si fa. E non imponga una tabula rasa delle eccentricità sognanti.

Non testimoniamo l’Immenso sulla terra nelle capacità d’intendere e volere coerenti secondo procedura.

Per formulare definizioni basta mettere in campo energie intellettuali. 

Per difendere, promuovere e rallegrare la vita, bisogna essere animati dallo stesso Spirito di Dio, nella sua opera d’Unità primaria.

L’amore terreno che la riflette non è più capacità, bensì possibilità.

Nel suo peso specifico il Nucleo divino non ha nulla d’immediatamente appagante e trionfale; viceversa, molto di servizievole e liberante.

L’amicizia insomma che svela ciò ch’è celeste e primale [non passeggero e causale] non sta nel sapere, concatenare, riprodurre; nell’affermare, o rinunciare; neanche nel farcela… a parare i colpi e avanzare.

Non basta neppure una forma di Giustizia che dia a ciascuno il suo. Essa recupera gli opposti.

Padre «giusto» (v.25) si riferisce alla distinzione tra mondo e le piccole assemblee di adesione scambievole dei primi tempi, unici luoghi in cui si poteva percepire vita.

Solo nella reciprocità riflesso dell’Uno sorgivo si viveva intensamente la Gloria divina, dei primordi.

Ed anche per i futuri pellegrini in Lui, Cristo chiede a Dio la Comunione - convivialità delle differenze: non nella forma unilaterale, ma da cui prendere senso.

Ecco la ‘preghiera sacerdotale’ di Gesù - che genuinamente travalica i secoli; contemporanea senza ruga alcuna.

 

 

[Giovedì 7.a sett. di Pasqua, 5 giugno 2025]

Sacerdotale, diversa resilienza

(Gv 17,20-26)

 

Gv cerca di chiarire la nostra aspirazione universale, e penetrare il modo in cui il Signore si fa presente nei discepoli dopo la Pasqua, affinché il mondo di lassù si avvicini e inondi, irrompa nel nostro.

Il Cielo ha influsso, esorta e trasforma radicalmente l’esistenza pratica. 

Sulla terra possiamo avere un’esperienza diretta e tutta reale di Dio, nella vetta del discepolato e della sequela, anche non immediati.

Al termine della Preghiera sacerdotale, in Gesù emerge una preoccupazione saliente: quella ‘eucaristica’ per eccellenza.

L’attesa ebraica del Messia diventa attesa dell’Unità [non psicologica e banale, bensì Dono dall’alto].

Sul tema della Gloria, gli apostoli non devono fare confusione.

Veicolo della Gloria è l’amore e l’ineludibile fare festa insieme - proprio come nella Eucaristia: lo stesso Oro divino che torna ad affiorare ed essere offerto ancora.

In forma orante, il Signore fa memoriale di tutti coloro che nel corso della storia crederanno in Lui, attraverso la parola e la testimonianza dei discepoli, i quali si faranno centro d’attrazione e unione.

A differenza delle religioni antiche, Egli vuole che la vita di Fede si caratterizzi non per una “verità” che si ha, ma per la “verità” che si fa.

Il peso della manifestazione divina non dev’esser più rintracciato in formule e dogmi corretti: le dispute inaspriscono.

La dimostrazione di Dio di fronte all’umanità non può stare in un codice esterno che renda tutti dipendenti, facendo tabula rasa delle eccentricità sognanti.

Non testimoniamo l’Immenso sulla terra nelle capacità d’intendere e volere coerenti secondo procedura.

Per formulare definizioni basta mettere in campo energie intellettuali. 

Per difendere, promuovere e rallegrare la vita, bisogna essere animati dallo stesso Spirito di Dio, nella sua opera d’Unità primaria.

L’amore terreno che la riflette non è più capacità, bensì possibilità.

In tal guisa, il Nucleo divino nel suo peso specifico non ha nulla d’immediatamente appagante e trionfale; viceversa, molto di servizievole e liberante.

Se la Chiesa contempla e mostra la Gloria del Cristo, è perché ha saputo collocarsi nel punto che gli spetta, sino a dare vita e sostanze: ‘giudicando’ pure la realtà, ma dal criterio della Croce (cf. v.24).

L’amicizia insomma che svela ciò ch’è celeste e primale [non passeggero e causale] non sta nel sapere, concatenare, riprodurre; nell’affermare, o rinunciare; neanche nel farcela… a parare i colpi e avanzare.

Non basta neppure una forma di “giustizia” che dia a ciascuno il suo - perché di divisione in divisione essa infrangerebbe la concordia: summum jus summa iniuria; jus summum saepe summa est malitia.

Ciò sgretolerebbe ogni salda intesa poliedrica - e se portata sino in fondo, condurrebbe alle peggiori ingiustizie.

Anche per i futuri pellegrini in Lui, Cristo chiede a Dio la Comunione - convivialità delle differenze: non nella forma unilaterale, ma da cui prendere senso.

L'Unità prioritaria cui tiene, è quella che s’introduce trasmettendo la reciprocità divina tra Padre e Figlio.

Essa affiora proprio mentre lasciamo agire in noi il fermento che ci costituisce fratelli, suo Corpo.

 

Affinché il mondo creda che Gesù è l’Inviato, gli amici devono essere nel Figlio e nel Padre - come il Figlio è nel Padre e il Padre nel Figlio. 

Da tale relazione, cementata d’intima immanenza, tutte le nostre unioni prendono il loro vero senso; peso, trasparenza, passaggio, e sviluppo.

Fraternità che realizzano Redenzione nella storia, grazie a una sinergia tollerante.

Ogni persona può essere nell’altra, solo nella condivisione d’amore “artigianale”.

Questa è la manifestazione [gloria] del divino: una mutua inabitazione, che faccia Corpo Unico - altrimenti non si è credibili. Come non sarebbe credibile l’incarnazione di Dio nel Cristo.

La fede è trasmissione della gloria autentica: Fede e Gloria commisurano tale concatenazione di partecipazioni.

E Padre «giusto» (v.25) si riferisce alla distinzione tra mondo e le piccole assemblee di adesione scambievole dei primi tempi, unici luoghi in cui si poteva percepire vita.

Solo nella reciprocità riflesso dell’Uno sorgivo si viveva intensamente.

 

L’esperienza dell’Unità in Dio - segno più inconfutabile della sua Presenza - fu davvero profonda nelle comunità giovannee.

Quelle assemblee autentiche erano un ambiente che aiutava a valorizzare i lati nascosti.

In tali chiese senza preclusioni si svelava il fascino di quei versanti dell’Unicità che dal mondo consuetudinario venivano valutati al pari di squilibri e difetti, invece che opportunità di arricchimento particolare: umano, culturale, spirituale - e Chiamate personali.

La nota che rende riconoscibile l’assemblea dei figli è appunto il divenire Uno nella Sorgente dell’essere - non il permanere uniformi.

Gloria dei primordi.

Una Gloria diversa, che recupera gli opposti e non persegue doppiezze (magari utilizzando il nome di Dio a paravento e voltagabbana).

Per tutelare i suoi da timori di rappresaglie organizzate e persino sacrali [cartina al tornasole della bontà di valori e scelte] Gesù si preoccupa di far comprendere a quale livello di realizzazione e considerazione guidasse i discepoli.

 

La Trinità è unica Fonte zampillante; motivo, energia, e motore - vero punto di forza, che dà stimolo, forma, colore, alle situazioni più svariate e persino al rifiuto.

È da mettere in conto che sorgano antipatie, tentativi d’irrisione e peggio, verso chi estende l’orizzonte.

Superficiali e vanitosi installati non meritano credibilità alcuna. Ma non ci stanno a farsi smascherare. E certo non rinunciano a posizioni contraffatte, sulle quali viceversa insistono volentieri.

Vale anche per gli steccati costruiti ad arte in secoli di lotte, addirittura fra denominazioni cristiane.

Comparandone la storia di assurdi conflitti, questo Vangelo sembra dire: nessuna di loro ha davvero fatto esperienza del Padre.

Nessuna di loro ha visto e capito il volto dell’altra, se non per l’allestimento d’una identità do norma artificiosa, costruita sulla più banale contrapposizione.

Come ha suggerito Papa Francesco, tutto ciò a copertura d’interessi venali e fatue superbie; null’altro.

D’altro canto, gli uomini di oggi come di allora - vedendo una Chiesa non conflittuale, serva e povera - contemplerebbero il Crocifisso.

Avrebbero esperienza della Gloria divina.

 

Ecco la preghiera sacerdotale di Gesù - che genuinamente travalica i secoli; contemporanea senza ruga alcuna.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa pensi del dialogo ecumenico e interreligioso? Ti arricchisce o demoralizza?

Ritieni che sia la Chiesa opaca e trionfante a farci contemplare il Crocifisso, o quella trasparente e povera?

Mercoledì, 28 Maggio 2025 13:27

L’Unità non si fa con la colla

L’unità nella Chiesa è stata al centro della riflessione di Papa Francesco nella messa celebrata a Santa Marta giovedì 21 maggio. Rileggendo il brano del vangelo di Giovanni (17, 20-26) proposto dalla liturgia del giorno, il Pontefice ha innanzitutto sottolineato come «consola tutti sentire questa parola: “Padre, non prego solo per questi ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola”». È quanto detto da Gesù nell’atto di congedarsi dagli apostoli. In quel momento Gesù prega il Padre per i discepoli e «prega anche per noi».

Francesco ha fatto notare che «Gesù ha pregato per noi, in quel momento, e continua a farlo». Si legge infatti nel Vangelo: «Padre, prego per questi ma per tanti altri che verranno». Un dettaglio non irrilevante verso il quale, forse, non si è abbastanza attenti. Eppure, ha ribadito il Papa, «Gesù ha pregato per me» e questo «è proprio fonte di fiducia». Potremmo immaginare «Gesù davanti al Padre, in cielo», che prega per noi. E «cosa vede il Padre? Le piaghe», ovvero il prezzo che Gesù «ha pagato per noi».

Con questa immagine il Pontefice è entrato nel cuore della sua riflessione. Infatti, si è domandato, «cosa chiede al Padre Gesù in questa preghiera?». Dice forse: «Prego per loro perché la vita sia buona, perché abbiano i soldi, perché siano tutti felici, perché non manchi niente a loro?...». No, Gesù «prega perché tutti siano una sola cosa: “Come tu sei in me e io in te”». In quel momento egli prega «per l’unità nostra. Per l’unità del suo popolo, per l’unità della sua Chiesa».

Gesù, ha spiegato Francesco, sa bene che «lo spirito del mondo, che è proprio lo spirito del padre della divisione, è uno spirito di divisione, di guerra, di invidie, di gelosie», e che questo è presente «anche nelle famiglie, anche nelle famiglie religiose, anche nelle diocesi, anche nella Chiesa tutta: è la grande tentazione». Perciò «la grande preghiera di Gesù» è quella di «assomigliare» al Padre: ovvero, «come tu Padre sei in me e io in te», nella «unità che lui ha con il Padre».

Qualcuno potrebbe allora chiedere: «Ma, padre, con questa preghiera di Gesù se noi vogliamo essere fedeli, noi non possiamo chiacchierare uno contro l’altro?». Oppure: «Non possiamo etichettare questo di..., questo è così, questo è ...?». E «quell’altro, che è stato bollato come rivoluzionario...?». La risposta del Papa è stata chiara: «No». Perché, ha aggiunto, «dobbiamo essere uno, una sola cosa, come Gesù e il Padre sono una sola cosa». Ed è proprio questa «la sfida di tutti noi cristiani: non lasciare posto alla divisione fra noi, non lasciare che lo spirito di divisione, il padre della menzogna entri in noi». Dobbiamo, ha insistito il Papa, «cercare sempre l’unità». Ognuno naturalmente «è come è», ma deve cercare di vivere nell’unità: «Gesù ti ha perdonato? Perdona tutti quanti».

Il Signore prega perché riusciamo in questo. Ha spiegato il Pontefice: «La Chiesa ha tanto bisogno, tanto, di questa preghiera di unità, non solo quella di Gesù; anche noi dobbiamo unirci a questa preghiera». Del resto, sin dagli inizi la Chiesa ha manifestato questa necessità: «Se cominciamo a leggere il libro degli Atti degli Apostoli dall’inizio — ha detto Francesco — vedremo che lì incominciano le liti, anche le truffe. Uno vuole truffare l’altro, pensate Anania e Saffira...». Già nel corso di quei primi anni si incontrano le divisioni, gli interessi personali, gli egoismi. Fare l’unità è stato ed è una vera e propria «lotta».

Bisogna tuttavia rendersi conto che «da soli non possiamo» raggiungere l’unità: questa infatti «è una grazia». Perciò, ha ribadito il Pontefice, «Gesù prega, ha pregato quel tempo, prega per la Chiesa, ha pregato per me, per la Chiesa, perché io vada su questa strada».

L’unità è talmente importante che, ha fatto notare il Papa, «nel brano che abbiamo letto» questa parola è ripetuta «quattro volte in sei versetti». Un’unità che «non si fa con la colla». Non esiste infatti «la Chiesa fatta con la colla»: la Chiesa è resa una dallo Spirito. Ecco allora che «dobbiamo fare spazio allo Spirito, perché ci trasformi come il Padre è nel Figlio, in una sola cosa».

Per raggiungere tale obiettivo, ha aggiunto Francesco, c’è un consiglio dato dallo stesso Gesù: «Rimanete in me». Anche questa è una grazia. Nella sua preghiera Gesù chiede: «Padre, voglio che quelli che mi hai dato, anch’essi siano con me dove sono io» perché «contemplino la mia gloria».

Da questa meditazione è scaturito un consiglio: quello di rileggere i versetti 20-26 del capitolo 17 del Vangelo di Giovanni e pensare: «Gesù prega, prega per me, ha pregato e prega per me ancora. Prega con le sue piaghe, davanti al Padre». E lo fa «perché tutti noi siamo una sola cosa, come lui è con il Padre, per l’unità». Questo «ci deve spingere a non fare giudizi», a non fare «cose che vadano contro l’unità», e a seguire il consiglio di Gesù «di rimanere in lui in questa vita perché possiamo rimanere con lui nell’eternità».

Questi insegnamenti, ha concluso il Papa, si trovano nel discorso di Gesù durante l’ultima cena. Nella messa «noi riviviamo» quella cena e Gesù ci ripete quelle parole. Durante l’Eucaristia, perciò, «lasciamo posto perché le parole di Gesù entrino nel nostro cuore e tutti noi siamo capaci di essere testimoni di unità nella Chiesa e di gioia nella speranza della contemplazione della gloria di Gesù».

[Papa Francesco, omelia s. Marta, in L’Osservatore Romano 22/05/2015]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga! Per la festa dell’Ascensione, la prima lettura e il Salmo sono comuni agli anni A, B, C mentre cambiano la seconda lettura e il vangelo 

 

*Prima Lettura dagli Atti degli Apostoli (1,1-11)

Questi primi versetti degli Atti degli Apostoli richiamano la conclusione del vangelo di Luca, anch’esso indirizzato a un certo Teofilo ed è interessante notare che l’uno inizi là dove l’altro finisce, cioè con il racconto dell’Ascensione di Gesù, anche se le due narrazioni non combaciano perfettamente come si nota leggendo i testi dell’Anno C. Il vangelo narra la missione e la predicazione di Gesù, gli Atti degli Apostoli si dedicano all’attività missionaria degli apostoli, da cui il titolo. Il vangelo di Luca inizia e termina a Gerusalemme, cuore del mondo ebraico e della Prima Alleanza; gli Atti partono da Gerusalemme, perché la Nuova Alleanza prosegue la Prima ma si concludono a Roma, crocevia di tutte le strade del mondo e la Nuova Alleanza travalica i confini di Israele. Per Luca è chiaro che questa espansione è frutto dello Spirito Santo, l’ispiratore degli apostoli dalla Pentecoste, tanto che gli Atti sono spesso chiamati “il vangelo dello Spirito”. Gesù, dopo il battesimo, si preparò alla sua missione con quaranta giorni di deserto, così egli prepara la Chiesa a questa nuova fase missionaria apparendo agli apostoli per quaranta giorni e “parlando delle cose riguardanti il regno di Dio”. Infatti, “mentre si trovava a tavola con loro”, dunque durante ancora un’ultima cena, da agli apostoli alcune istruzioni che si riassumono in: un ordine, una promessa e un invio in missione.

L’ordine: non allontanarsi da Gerusalemme, ma attendere l’adempimento della promessa del Padre che deve compiersi a Gerusalemme dato che tutta la predicazione dei profeti, soprattutto d’Isaia, attribuisce a Gerusalemme un ruolo centrale nel progetto di Dio (cf Is 60,1-3; 62,1-2). La promessa: “Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo”. Anche questo era noto agli apostoli, che ricordavano la profezia di Gioele: «Spanderò il mio spirito su ogni creatura» (Gl 3,1), e le profezie di Zaccaria: (Za 13,1; 12,10), e di Ezechiele: «Spanderò su di voi acqua purificatrice e sarete purificati… Metterò in voi uno spirito nuovo… Metterò in voi il mio spirito» (Ez 36,25-27). Quado gli apostoli chiedono “se questo è il tempo nel quale ricostruirà il regno per Israele” mostrano di aver compreso che è sorto “il Giorno del Signore” e il progetto di Dio domanda ora la collaborazione dell’uomo: Con Cristo infatti è giunto il Salvatore promesso, ora tocca alla libertà umana accoglierlo e per questo è necessario l’annuncio da parte degli apostoli. Da qui la missione responsabile degli apostoli che ricevono lo Spirito Santo: “Riceverete la forza dello Spirito Santo che scenderà su di voi e di me sarete testimoni… fino ai confini della terra”. Il piano che il libro degli Atti segue è infatti questo: anzitutto l’annuncio a Gerusalemme, poi in tutta la Giudea con la Samaria e infine deve diffondersi fino ai confini del mondo. Come al mattino di Pasqua due uomini in vesti splendenti avevano destato le donne dicendo: “Perché cercate il Vivente tra i morti? Non è qui, è risorto”, così, il giorno dell’Ascensione, “due uomini in bianche vesti” fanno lo stesso con gli apostoli: “Uomini di Galilea perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (1,11). Gesù tornerà, ne siamo certi, e lo proclamiamo in ogni eucaristia quando diciamo “Nella beata speranza dell’avvento di Gesù Cristo nostro Salvatore”. Infine nna nube sottrae Gesù alla vista umana: cessa la sua presenza carnale per inaugurare quella spirituale. Segno visibile di questa presenza di Dio è la nube già presente nel passaggio del Mar Rosso (Es 13,21) e nella Trasfigurazione (Lc 9,34).

 

NOTA. Non si possono ricostruire esattamente gli eventi tra la Risurrezione e l’Ascensione. Nei testi di Luca (vangelo e Atti) la narrazione è sostanzialmente identica: Gesù parte da Betania e porta i discepoli sul Monte degli Ulivi raccomandando di non lasciare Gerusalemme finché non abbiano ricevuto lo Spirito Santo. L’unica differenza riguarda la durata: nel vangelo sembra che l’Ascensione avvenga la sera stessa di Pasqua, mentre negli Atti è chiarito che tra Pasqua e Ascensione trascorrono quaranta giorni — da qui la festa quaranta giorni dopo. Negli altri vangeli si trova poco sull’Ascensione: Matteo non ne parla affatto, riferisce solo l’apparizione alle donne e l’invio in Galilea (Mt 28,18-20). Giovanni narra diverse apparizioni, ma omette l’Ascensione. Marco menziona l’Ascensione brevemente alla fine (Mc 16,19). Le differenze dimostrano che i vangeli non mirano a un resoconto geografico preciso ma a sottolineare aspetti teologici: Matteo insiste sulla Galilea, Luca su Gerusalemme. Infatti, è a Gerusalemme che Gesù aveva ordinato di attendere lo Spirito: “Ecco io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città finché non siate rivestiti di potenza dall’alto” (Lc 24,49).

 

*Salmo responsoriale (46 (47),2-3,6-7,8-9)

In questo salmo Israele canta e acclama Dio non solo come suo re, ma come re di tutta la terra. Prima dell’esilio a Babilonia nessun re di Israele aveva immaginato che Dio potesse essere il Signore dell’intero universo e perciò il salmo data di un’epoca tarda della storia d’Israele. Dio è il re d’Israele e per questo in Israele il re non deteneva ogni potere perché il vero re era Dio stesso. Il re non poteva disporre della legge a suo piacimento e, come tutti, doveva sottomettersi alla Torah, vale a dire alle norme che Dio aveva dato a Mosè sul Sinai. Anzi, secondo il libro del Deuteronomio, egli doveva leggere l’intera Legge ogni giorno e, anche seduto sul trono, non era (in linea di principio) che un esecutore degli ordini di Dio, a lui trasmessi dai profeti. Nei Libri dei Re, i re domandano il parere del profeta in carica prima di intraprendere una campagna militare o, nel caso di Davide, prima di iniziare la costruzione del Tempio così che i profeti intervenivano liberamente nella vita dei re, criticando con forza le loro azioni. Una tale concezione della sovranità di Dio fu persino un ostacolo all’istituzione della monarchia, come avvenne quando il profeta Samuele, al tempo dei Giudici, reagì con forza verso i capi delle tribù che chiedevano un re per essere come tutte le altre nazioni. Desiderare di essere come gli altri popoli, quando si è il popolo eletto da Dio e in alleanza con Lui, era qualcosa di blasfemo e, se Samuele cedette alle pressioni, non mancò di avvertire  però della rovina che stavano  procurando a se stessi. Quando consacrò il primo re, Saul, si premurò di precisare che questi diventava il custode del patrimonio di Dio perché il popolo rimaneva il popolo di Dio, non del re, e il re stesso era solo un servitore di Dio. Durante gli anni della monarchia, i profeti furono incaricati di ricordare ai re questa verità essenziale. Si comprende allora che in onore di Dio questo salmo utilizza il vocabolario che altrove era riservato ai re. Anche “terribile” è un’espressione tipica del gergo di corte che va inteso così: il re  (Dio) non spaventa i suoi sudditi, ma li rassicura e per questo si avvertono i nemici che il “nostro re” sarà invincibile. Il Dio re dell’universo, “il grande re su tutta la terra” (v. 3), acclamato in ogni verso del salmo è proprio il Dio del Sinai, il “Signore” e a questa festa tutti i popoli partecipano: “Popoli tutti battete le mani, acclamate Dio con grida di gioia!” così che la dimensione universale pervade profondamente il salmo fino a dire “Dio regna sulle genti” (v. 9) riconoscendolo come unico Dio dell’intero universo.

 

NOTA. La vera scoperta del monoteismo avvenne soltanto con l’esilio babilonese: fino ad allora Israele non era monoteista nel senso pieno del termine, bensì monolatra, ossia riconosceva come proprio un solo Dio—quello dell’Alleanza del Sinai—ma ammetteva che i popoli confinanti avessero ciascuno il proprio dio, sovrano nella loro terra e difensore in battaglia. Questo salmo fu dunque probabilmente composto dopo il ritorno dall’esilio non nella sala del trono, ma nel Tempio ricostruito di Gerusalemme, in un contesto liturgico in cui si evocava il grande progetto di Dio sull’umanità, anticipando il giorno in cui finalmente Dio sarà riconosciuto come Padre di ogni bene. Noi cristiani facciamo nostro questo salmo e l’espressione “ascende Dio tra le acclamazioni” sembra ben adatta per l’odierna celebrazione dell’Ascensione di Gesù. Tributando a Cristo re dell’universo questo splendido omaggio, anticipiamo il canto che nell’ultimo giorno i figli di Dio finalmente riuniti intoneranno insieme: “Popoli tutti, battete le mani! Acclamate Dio con grida di gioia”.

 

*Seconda Lettura dalla Lettera agli Ebrei (9, 24-28 ; 10,19-23)     

Nella prima parte di questo testo l’autore medita sul mistero di Cristo; nella seconda ne ricava le conseguenze per la vita di fede con l’intento di rassicurare i suoi lettori, i cristiani di origine ebraica, che provavano una certa nostalgia del culto antico dato che nella pratica cristiana non c’è più il tempio, né più sacrifici di sangue e si domandavano se davvero fosse questo ciò che Dio vuole. L’autore ripercorre tutti i riti e le realtà della religione ebraica dimostrando che sono ormai superati. Ttratta soprattutto del Tempio, chiamato santuario, e chiarisce che bisogna distinguere il vero santuario in cui Dio dimora — il cielo stesso — dal tempio costruito dagli uomini, che ne è solo una pallida immagine. Gli ebrei erano giustamente orgogliosi del Tempio di Gerusalemme, ma non dimenticavano che ogni costruzione umana, per definizione, resta debole, imperfetta e destinata a perire. Inoltre, nessuno in Israele sosteneva che si potesse rinchiudere la presenza di Dio in un edificio, per quanto maestoso. Lo aveva già detto il primo costruttore del Tempio, il re Salomone: “Forse che Dio dimorerebbe sulla terra? I cieli e i cieli dei cieli non ti possono contenere; figuriamoci questa Casa che io ho edificato!” (1 Re 8,27).  Per i cristiani il vero Tempio — il luogo dell’incontro con Dio — non è più un edificio, perché l’Incarnazione del Verbo ha cambiato tutto. Il luogo d’incontro tra Dio e l’uomo è Cristo, il Dio fatto uomo e san Giovanni lo spiegha quando narra Gesù che caccia  dal Tempio i cambiamonete e venditori di animali. A coloro che gli chiesero: “Quale segno ci mostrerai per fare questo?”, (cioè «in nome di chi fai questa rivoluzione? rispose: “Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo ristabilirò”. Solo dopo la risurrezione i discepoli capiranno che parlava del suo corpo (Gv 2,13-21). Qui, nella Lettera agli Ebrei, si afferma la stessa cosa: solo restando innestati in Cristo, nutriti del suo corpo, entriamo nel mistero del Dio che “non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo” (Eb 9,24). Questo avvenne con la morte di Cristo rendendo chiara la centralità della Croce nel mistero cristiano, come confermano tutti gli autori del Nuovo Testamento. L’autore della Lettera agli Ebrei precisa più avanti che il culmine dell’offerta della vita di Cristo è la sua morte ma il suo sacrificio abbraccia l’intera sua esistenza non solo quindi la sua Passione (cp10). Nel passo che leggiamo oggi l’attenzione si concentra sul sacrificio della Passione, contrapposto a quello che ogni anno offriva il sommo sacerdote nel Giorno dell’Espiazione (Yom Kippur). Entrava da solo nel Santo dei Santi, pronunciava l’indicibile nome di Dio (YHVH), spargeva il sangue di un toro per i propri peccati e quello di un capro per quelli del popolo, rinnovando così solennemente l’Alleanza e, quando usciva, il popolo sapeva che i suoi peccati erano perdonati. Quell’alleanza andava rinnovata ogni anno, invece la nuova Alleanza stabilita con il Padre è definitiva in Cristo crocifisso e risorto. Sulla croce si rivela il vero volto di Dio, che ci ama fino all’estremo, padre di ognuno di noi per cui non c’è più da temere il giudizio di Dio. Quando nel Credo proclamiamo che Gesù verrà a giudicare i vivi e i morti, sappiamo che, in Dio giudizio significa salvezza, come leggiamo qui: “Cristo dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato a coloro che lo aspettano per la loro salvezza” (Eb 9,28). Questa certezza della fede ci permette di vivere il rapporto con Dio in piena serenità e azione di grazie. Ma è importante testimoniarlo, come ci esorta questo testo: “Continuiamo senza esitare a professare la nostra speranza, perché Colui che ha promesso è fedele» (Eb. 10,23). Gesù Cristo è “il sommo sacerdote dei beni futuri” (Eb 9,11).

 

*Dal Vangelo secondo san Luca (24, 46-53)

I sinottici, Matteo, Marco, Luca si differenziano nel racconto dell’Ascensione del Signore, 

Matteo lo colloca su un monte in Galilea, dove Gesù aveva fissato il suo appuntamento con gli apostoli; Marco non fornisce alcuna indicazione geografica; Luca, al contrario, situa l’evento sul Monte degli Ulivi verso Betania. In tal modo conclude il vangelo là dove era iniziato, a Gerusalemme: la città santa del popolo eletto da cui la rivelazione del Dio unico si era irradiata al mondo; la città del tempio-segno della presenza di Dio fra gli uomini. Ma anche la città dell’adempimento della salvezza per mezzo della morte e risurrezione di Cristo, e la città del dono dello Spirito. Infine la città da cui deve irradiarsi sull’universo l’ultima rivelazione e Luca fa risuonare nelle nostre orecchie le parole di Gesù: “Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26). Ciò che è nuovo qui, rispetto alle tre profezie della sua passione pronunciate da Gesù prima degli eventi e alle due affermazioni subito dopo la risurrezione e sul cammino di Emmaus, è la conclusione della frase, che assume la forma di un invio missionario degli apostoli: “ Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni (Lc 24, 46-49) Per i primi cristiani era difficile spiegare quale passo delle Scritture aveva annunciato le sofferenze del Messia e la sua risurrezione il terzo giorno; fra gli ultimi profeti dell’Antico Testamento erano molto più diffuse le profezie sulla conversione di tutte le nazioni, cominciando da Gerusalemme, come leggiamo in Geremia: “In quel giorno chiameranno Gerusalemme trono del Signore; tutte le nazioni vi si troveranno affluire, al nome del Signore, a Gerusalemme» (3,17); e nel terzo Isaia: “La casa mia sarà chiamata casa di preghiera per tutti i popoli” (56,7); “Di luna in luna, di sabato in sabato, verrà ogni creatura a prostrarsi davanti a me” (66,23). Zaccaria poi sviluppa questo tema: “In quel giorno molte nazioni si raccoglieranno al Signore e saranno per me un popolo” (Za 2,15), “Molti popoli e nazioni potenti verranno a Gerusalemme a cercare il Signore degli eserciti” (8,22).Gli esegeti affermano che, anche se queste riflessioni sono presenti in numerosi salmi, furono soprattutto i canti del Servo nei DeuteroIsaia (Is 42; 49; 50; 52-53) a ispirare la meditazione degli evangelisti e a chiarire l’espressione di Gesù “Bisognava che:::” perché in questi quattro cantici emerge la figura del Messia sofferente e glorificato e l’annuncio del bene per tutte le nazioni: “Io, il Signore”, ti ho chiamato con giustizia, ti ho preso per mano, ti ho formato; ti ho fatto alleanza del popolo, luce delle nazioni» (Is 42,6);

“Il giusto, mio servo, giustificherà le moltitudini” (Is 53,11). Questa conclusione del vangelo di Luca assume dunque i toni della liturgia: Gesù, vero sommo sacerdote, benedice i suoi e li invia nel mondo e il popolo adora e rende grazie: “Alzate le mani, li benedisse. E mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio” (Lc 24, 50-53). Il vangelo di Luca si chiude tornando al suo inizio, quando Zaccaria, sacerdote dell’Antica Alleanza, aveva udito l’annuncio della salvezza di Dio (Lc 1,5-19 e l’ultima immagine che i discepoli custodirono del Maestro è un gesto di benedizione. Per questo si capisce perché tornano a Gerusalemme con grande gioia. In quest’immagine conclusiva è racchiuso il mistero della luce e della gioia dell’Ascensione, una partenza che non è abbandono, ma certezza di una presenza diversa, invisibile ma ancor più potente ed efficace.

+Giovanni D’Ercole

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If penance today moves from the material to the spiritual side, let's say, from the body to the soul, from the outside to the inside, it is no less necessary and less feasible (Pope Paul VI)
Se la penitenza si sposta oggi dalla parte, diciamo, materiale a quella spirituale, dal corpo all’anima, dall’esterno all’interno, non è meno necessaria e meno attuabile (Papa Paolo VI)
“Love is an excellent thing”, we read in the book the Imitation of Christ. “It makes every difficulty easy, and bears all wrongs with equanimity…. Love tends upward; it will not be held down by anything low… love is born of God and cannot rest except in God” (III, V, 3) [Pope Benedict]
«Grande cosa è l’amore – leggiamo nel libro dell’Imitazione di Cristo –, un bene che rende leggera ogni cosa pesante e sopporta tranquillamente ogni cosa difficile. L’amore aspira a salire in alto, senza essere trattenuto da alcunché di terreno. Nasce da Dio e soltanto in Dio può trovare riposo» (III, V, 3) [Papa Benedetto]
For Christians, non-violence is not merely tactical behaviour but a person's way of being (Pope Benedict)
La nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere (Papa Benedetto)
But the mystery of the Trinity also speaks to us of ourselves, of our relationship with the Father, the Son and the Holy Spirit (Pope Francis)
Ma il mistero della Trinità ci parla anche di noi, del nostro rapporto con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo (Papa Francesco)
Jesus contrasts the ancient prohibition of perjury with that of not swearing at all (Matthew 5: 33-38), and the reason that emerges quite clearly is still founded in love: one must not be incredulous or distrustful of one's neighbour when he is habitually frank and loyal, and rather one must on the one hand and on the other follow this fundamental law of speech and action: "Let your language be yes if it is yes; no if it is no. The more is from the evil one" (Mt 5:37) [John Paul II]
Gesù contrappone all’antico divieto di spergiurare, quello di non giurare affatto (Mt 5, 33-38), e la ragione che emerge abbastanza chiaramente è ancora fondata nell’amore: non si deve essere increduli o diffidenti col prossimo, quando è abitualmente schietto e leale, e piuttosto occorre da una parte e dall’altra seguire questa legge fondamentale del parlare e dell’agire: “Il vostro linguaggio sia sì, se è sì; no, se è no. Il di più viene dal maligno” (Mt 5, 37) [Giovanni Paolo II]
And one thing is the woman before Jesus, another thing is the woman after Jesus. Jesus dignifies the woman and puts her on the same level as the man because he takes that first word of the Creator, both are “God’s image and likeness”, both; not first the man and then a little lower the woman, no, both. And the man without the woman next to him - both as mother, as sister, as bride, as work partner, as friend - that man alone is not the image of God (Pope Francis)
E una cosa è la donna prima di Gesù, un’altra cosa è la donna dopo Gesù. Gesù dignifica la donna e la mette allo stesso livello dell’uomo perché prende quella prima parola del Creatore, tutti e due sono “immagine e somiglianza di Dio”, tutti e due; non prima l’uomo e poi un pochino più in basso la donna, no, tutti e due. E l’uomo senza la donna accanto – sia come mamma, come sorella, come sposa, come compagna di lavoro, come amica – quell’uomo solo non è immagine di Dio (Papa Francesco)
Only one creature has already scaled the mountain peak: the Virgin Mary. Through her union with Jesus, her righteousness was perfect: for this reason we invoke her as Speculum iustitiae. Let us entrust ourselves to her so that she may guide our steps in fidelity to Christ’s Law (Pope Benedict)

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