Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".
«Il brano del Vangelo che abbiamo ascoltato è dal capitolo quattordicesimo di Luca» ha spiegato il Papa, facendo notare che «quasi tutto il capitolo, meno un pezzo alla fine, è intorno a un pranzo, è a tavola, e tutte le cose che accadono lì accadono a tavola». Ecco perciò «l’idea del banchetto alla fine del capitolo», nella parabola raccontata da Gesù in particolare nei versetti 15-24 proposti dalla liturgia del giorno.
Riferendosi all’inizio del capitolo, il Pontefice ha fatto presente che «Gesù si recò a pranzo a casa di un capo dei farisei che lo aveva invitato: Gesù accettava sempre». Ma, «appena entrato, vide un ammalato di idropisìa e subito va a guarirlo: Gesù sempre vuole guarirci, a tutti noi». Però, ha ricordato il Papa, «era sabato, c’erano tutti i dottori della legge lì e chiede il permesso: “Si può guarire il sabato?”». E «questi che mai, mai dicevano quello che pensavano — erano ipocriti — hanno taciuto».
Gesù guarì quell’uomo malato.
[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 07/11/2018]
XXX Domenica Tempo Ordinario (anno C) [26 Ottobre 2025]
Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Ancora un insegnamento sulla preghiera da Gesù nel vangelo e che insegnamento!
Prima Lettura dal libro del Siracide (35, 15b-17.20-22a)
“Dio non giudica dall’apparenza” (Sir 35) Il libro del Siracide, scritto da Ben Sira verso il 180 a.C. a Gerusalemme, nasce in un tempo di pace e di apertura culturale sotto il dominio greco. Tuttavia, questa apparente serenità nasconde un rischio: il contatto tra cultura ebraica e greca minaccia la purezza della fede, e Ben Sira intende trasmettere l’eredità religiosa d’Israele nella sua integrità. La fede ebraica, infatti, non è una teoria, ma un’esperienza di alleanza con il Dio vivente, scoperto progressivamente attraverso le sue opere. Dio non è un’idea umana, ma una rivelazione sorprendente, perché “Dio è Dio e non un uomo” (Os 11,9). Il testo centrale afferma che Dio non giudica secondo le apparenze: mentre gli uomini guardano l’esterno, Dio guarda il cuore. Egli ascolta la preghiera del povero, dell’oppresso, dell’orfano e della vedova, e – in un’immagine meravigliosa – “le lacrime della vedova scorrono sulle guance di Dio”, segno della sua misericordia che vibra di compassione. Ben Sira insegna che la vera preghiera nasce dalla precarietà: quando l’uomo si scopre povero e senza appoggi, il suo cuore si apre davvero a Dio. La precarietà e la preghiera sono della stessa famiglia: solo chi riconosce la propria debolezza prega con sincerità. Infine, il saggio ammonisce che non sono i sacrifici esteriori a piacere a Dio, ma un cuore puro e disposto al bene: Ciò che piace al Signore è anzitutto che ci si tenga lontano dal male. Il Signore è un giudice giusto, che non fa preferenza di persone, ma guarda alla verità del cuore. In sintesi, Ben Sira ci ricorda che Dio non giudica dall’apparenza ma dal cuore, che la preghiera autentica nasce dalla povertà, e che la misericordia divina si manifesta nella sua vicinanza compassionevole ai piccoli e agli umili.
Salmo Responsoriale (33/34, 2-3, 16.18, 19.23)
Ecco un altro salmo alfabetico, cioè ogni versetto segue l’ordine delle lettere dell’alfabeto ebraico. Questo indica che la vera sapienza consiste nel confidare in Dio in tutto, dalla A alla Z. Il testo fa eco alla prima lettura del Siracide, che incoraggiava gli ebrei del II secolo a mantenere la purezza della fede di fronte alle seduzioni della cultura greca.Il tema centrale è la scoperta di un Dio vicino all’uomo, soprattutto a chi soffre: “Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato.” È una delle rivelazioni più grandi della Bibbia: Dio non è un essere distante o geloso, ma un Padre che ama e partecipa al dolore dell’uomo. Ben Sira diceva poeticamente che “le nostre lacrime scorrono sulle guance di Dio”: immagine della sua misericordia tenera e compassionevole. Questa rivelazione si radica nel cammino di Israele. Al tempo di Mosè, i popoli pagani immaginavano dèi rivali e invidiosi. La Genesi corregge questa visione, mostrando che il sospetto verso Dio è un veleno, simbolizzato dal serpente. Israele, attraverso i profeti, ha compreso progressivamente che Dio è un Padre che accompagna, libera e consola, il “Dio-con-noi” (Emmanuele). Il roveto ardente (Es 3) è il fondamento di questa fede: “Ho visto la miseria del mio popolo, ho udito il suo grido, conosco le sue sofferenze” Qui Dio si rivela come Colui che vede, ascolta e agisce. Egli non resta spettatore, ma suscita in Mosè e nei suoi figli la forza di liberare, trasformando la sofferenza in speranza e impegno. Il salmo riflette questa esperienza: il popolo, dopo aver conosciuto la prova, proclama la lode: “Benedirò il Signore in ogni tempo” perché ha fatto esperienza di un Dio che ascolta, libera, guarda, salva e redime. Il nome “YHWH” il “Signore” indica proprio la presenza costante di Dio accanto al suo popolo. Infine, il testo insegna che nella prova non solo è lecito, ma necessario gridare a Dio: Egli è attento al nostro grido e risponde, non sempre eliminando la sofferenza, ma rendendosi presente, risvegliando la fiducia, e donando la forza per affrontare il male. In sintesi, il salmo e la riflessione che lo accompagna ci consegnano tre certezze: Dio è vicino a chi soffre e ascolta il grido dei poveri.La sua presenza non toglie il dolore, ma lo illumina e lo trasforma in speranza. La vera fede nasce dalla fiducia in questo Dio che vede, ascolta, libera e accompagna l’uomo in ogni tempo.
Seconda Lettura dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timoteo (4, 6-8.16-18)
“Il buon combattimento” (2Tm 4,6-18). Il testo presenta l’ultimo testamento spirituale di san Paolo, scritto mentre si trova in prigione a Roma, consapevole che presto sarà giustiziato. Le lettere a Timoteo, anche se forse composte o completate da un discepolo, contengono qui le sue parole autentiche di addio, intrise di fede e di serenità. Paolo descrive la sua imminente morte con il verbo greco analuein, che significa “sciogliere le funi”, “levare l’ancora”, “smontare la tenda”: immagini che evocano la partenza per un nuovo viaggio, quello verso l’eternità. Guardandosi indietro, l’apostolo fa il bilancio della sua vita usando la metafora sportiva della corsa e del combattimento: Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede.” Come un atleta che non si arrende, Paolo è arrivato al traguardo e sa che riceverà la “corona di giustizia”, la ricompensa promessa a tutti i fedeli. Non si vanta di sé, perché questa corona non è un privilegio personale, ma un dono offerto a tutti coloro che hanno desiderato con amore la manifestazione di Cristo. Il “giudice giusto”, Dio, non guarda le apparenze ma il cuore — come insegnava il Siracide — e donerà la gloria non solo a Paolo, ma a tutti coloro che vivono nella speranza dell’avvento del Signore. La vita dell’apostolo è stata una corsa costante verso la manifestazione gloriosa di Cristo, orizzonte della sua fede e del suo servizio. Egli riconosce che la forza per perseverare non viene da lui, ma da Dio stesso: “Il Signore mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del vangelo e tutte le genti l’ascoltassero”. Questa forza divina ha sostenuto la sua missione, rendendolo capace di annunciare Cristo fino alla fine. Paolo spiega che la vita cristiana non è una competizione, ma una corsa condivisa, in cui ciascuno è chiamato a correre al proprio ritmo, con lo stesso desiderio ardente della venuta di Cristo. Nella lettera a Tito aveva definito i cristiani come coloro che “attendono la beata speranza e la manifestazione del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo” — parole che la liturgia ripete ogni giorno nella Messa. Nel momento della prova, Paolo confessa anche la solitudine dell’apostolo: La prima volta che ho presentato la mia difesa, nessuno mi ha sostenuto; tutti mi hanno abbandonato. Che ciò non sia loro imputato(v.16). Come Gesù sulla croce e Stefano al momento della lapidazione, egli perdona e trasforma l’abbandono in un’esperienza di intima comunione con il Signore, che diventa la sua unica forza e consolazione. Paolo è il povero di cui parla Ben Sira, quello che Dio ascolta e consola, colui le cui lacrime scorrono sulle guance di Dio. Le sue parole finali rivelano la speranza che supera la morte: “Così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, salverà nel suo regno” (v 17-18). Non parla della liberazione fisica – sa che la morte è imminente – ma della liberazione spirituale, dal pericolo più grande: perdere la fede, smettere di combattere. Il Signore lo ha custodito nella fedeltà e gli ha donato la perseveranza fino alla fine. Per Paolo, la morte non è una sconfitta, ma una traversata verso la gloria. È la nascita alla vera vita, l’ingresso nel Regno dove canterà per sempre: “A lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.”
In sintesi: Il testo ci presenta Paolo come modello del credente fedele fino alla fine. Vive la morte come partenza verso Dio, non come fine. Guarda alla vita come a una corsa sostenuta dalla grazia. Riconosce che la forza e la perseveranza vengono dal Signore. Comprende che la ricompensa è promessa a tutti coloro che desiderano l’avvento di Cristo. Perdona chi lo abbandona e trova la presenza di Dio nella solitudine e nella debolezza. Vede la morte come passaggio nella gloria del Regno. La “buona battaglia” di Paolo diventa così la lotta di ogni cristiano: rimanere fedele, nella prova, fino a correre l’ultimo tratto con lo sguardo fisso su Cristo, fonte di forza, di pace e di speranza.
*Dal Vangelo secondo Luca (18, 9-14)
Una piccola osservazione preliminare prima di entrare nel testo: Luca ci dice chiaramente che si tratta di una parabola… dunque non dobbiamo immaginare che tutti i farisei o tutti i pubblicani del tempo di Gesù fossero come quelli qui descritti. Nessun fariseo, nessun pubblicano corrispondeva perfettamente a questo ritratto: Gesù in realtà ci presenta due atteggiamenti interiori, molto tipici e semplificati, per far risaltare la morale della storia. Egli vuole farci riflettere sulla nostra stessa attitudine, perché probabilmente ci riconosceremo ora nell’uno, ora nell’altro, secondo i giorni. Passiamo alla parabola: la scorsa domenica Luca ci aveva già proposto un insegnamento sulla preghiera; la parabola della vedova e del giudice ingiusto ci insegnava a pregare senza scoraggiarci mai. Oggi, invece, è un pubblicano a essere proposto come esempio. Quale rapporto – si dirà – può esserci tra una vedova povera e un pubblicano ricco? Non è certo il conto in banca il punto in questione, ma le disposizioni del cuore. La vedova è povera e costretta ad umiliarsi davanti a un giudice che la ignora; il pubblicano, forse benestante, porta però sulle spalle il peso della cattiva reputazione, che è un’altra forma di povertà. I pubblicani erano malvisti, e spesso non senza motivo: vivevano infatti in un periodo di occupazione romana, e lavoravano al servizio dell’occupante. Erano considerati dei “collaboratori”. Inoltre, si occupavano di un tema sensibile in ogni epoca: le tasse. Roma fissava la somma dovuta, e i pubblicani la anticipavano, ricevendo poi pieni poteri per recuperarla dai concittadini… spesso con largo margine di guadagno. Quando Zaccheo prometterà a Gesù di restituire quattro volte tanto a chi aveva frodato, il sospetto è confermato. Perciò, quando il pubblicano nella parabola non osa alzare gli occhi al cielo e si batte il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”, forse dice soltanto la pura verità. Essere veri davanti a Dio, riconoscere la propria fragilità: ecco la vera preghiera. È questa sincerità che lo rende “giusto” al ritorno a casa, dice Gesù. I farisei, al contrario, godevano di ottima reputazione: la loro fedeltà scrupolosa alla Legge, il digiuno due volte a settimana (più di quanto la Legge richiedesse!), le elemosine regolari, tutto esprimeva il loro desiderio di piacere a Dio. E tutto ciò che il fariseo dice nella sua preghiera è vero: non inventa nulla. Ma, in realtà, non prega. Si contempla. Si guarda con compiacenza: non ha bisogno di nulla, non chiede nulla. Fa il bilancio dei suoi meriti — e ne ha molti! — ma Dio non ragiona in termini di merito: il suo amore è gratuito, e tutto ciò che chiede è che ci fidiamo di Lui. Immaginiamo un giornalista all’uscita del Tempio che intervista i due uomini: Signor pubblicano, cosa si aspettava da Dio entrando nel Tempio? Sì, mi aspettavo qualcosa. E l’ha ricevuto? Sì, e anche di più. E lei, signor fariseo? No, non ho ricevuto nulla… Un attimo di silenzio, poi aggiunge: Ma non mi aspettavo nulla, del resto. La frase conclusiva della parabola riassume tutto: “Chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato.” Gesù non vuole presentare Dio come un contabile morale, che distribuisce premi e castighi. Egli constata una verità profonda: chi si esalta, cioè chi si crede più grande di ciò che è, come il fariseo, chiude il cuore e guarda gli altri dall’alto in basso. Ma chi si crede superiore perde la ricchezza degli altri e si isola da Dio, che non forza mai la porta del cuore. Si resta così com’eravamo, con la nostra “giustizia” umana, così diversa da quella divina. Al contrario, chi si umilia, chi si riconosce piccolo e povero, vede negli altri una superiorità, e può attingere alla loro ricchezza. Come dice san Paolo: “Considerate gli altri superiori a voi stessi.” E ciò è vero: ogni persona che incontriamo ha qualcosa che noi non abbiamo. Questo sguardo apre il cuore e permette a Dio di riempirci del suo dono. Non si tratta di complesso d’inferiorità, ma di verità del cuore. È proprio quando riconosciamo di non essere “brillanti” che può cominciare la grande avventura con Dio. In fondo, questa parabola è una magnifica illustrazione della prima beatitudine: “Beati i poveri di cuore, perché di essi è il Regno dei cieli.”
+ Giovanni D’Ercole
Fine di un ordine “sacro”
(Lc 13,31-35)
Il contesto in cui Gesù vive è minaccioso: il potere [anche delle corti di periferia dell’Impero] era assoluto e non rendeva conto a nessuno della gestione spicciola.
Ma l’edificazione del Regno di Dio non dipende da alcuna autorizzazione di governanti rapaci, sul territorio delle province.
Chi vuole adempiere la propria missione non può accontentare le «volpi» che usurpano il potere.
Si tratta di piccoli e dannosi parassiti di situazione, ma svelti - pur non essendo grandi fiere roboanti come nella corte romana e senatoriale.
Col suo atteggiamento scaltro, il re Erode (astuto collaborazionista) era riuscito ad assicurarsi il dominio per diversi decenni, e una vita senza scossoni.
Ogni villaggio della Palestina era presidiato da funzionari e delatori del sovrano, nonché praticanti e subordinati della religione popolare ufficiale [anche farisei, che appunto Gesù rimanda al mittente: v.32].
Antipa riusciva sempre a galleggiare sulle situazioni e starsene in pace.
Ma dopo essersi illuso di aver sistemato il Battista e con lui la sua scuola, eccolo di nuovo allarmato per il sorgere d’un pericolo maggiore.
Il giovane Rabbi diffondeva fiducia profonda non nei forti, bensì nei malfermi. In tal guisa, operava in profondità nelle coscienze, e sembrava potesse surclassare persino i Profeti.
Se dal centro del potere sul territorio erano precipitosamente sopraggiunti gli ispettori (v.31), Gesù doveva averla fatta proprio grossa. Così dimostrando totale libertà da condizionamenti.
Pertanto il successo del suo pensiero avrebbe potuto suscitare disordini nell’assetto del sistema.
Ma i messi di Dio non fuggono dal rischio. Non lo fanno per dovere, ma per fedeltà a se stessi, e per il fatto che sono attratti da una Visione che appartiene a tutti: riescono a cogliere e presentire che i dolori del parto genereranno nuove Nascite.
Insomma, Gesù e i suoi intimi svolgono un’esistenza segnata da una sorta di attrazione della croce - per Amore che va sino in fondo e non disdegna i confronti.
Gerusalemme era centro del popolo dei figli di Dio, “eletti” [solo] per dispiegare il volto del Padre.
Vocazione della città santa era non quella di consegnarsi a una volpe (v.32) bensì farsi chioccia [v.34: propriamente, «gallina»] che non chiude ma allarga le ali per i suoi piccoli, radunando tutti gli innocenti.
Certo, il loro sentimento per le sorti di una patria che si lascia andare alle vanità, all’ideologia di potere e al suo “vantaggio”, intraprendendo il binario dell’autodistruzione, fa piangere di dolore.
Tuttavia - pur defenestrato dalla sua Casa nella città santa, nonché dal cuore di chi pretende solo quietismi - in Cristo il Popolo autentico di amici si riproporrà (v.35) anche sulla via dell’insuccesso.
Non colonizzando le fisionomie, bensì in modo semplice, ma non unilaterale: inclusivo. Dilatando l’orizzonte e distaccando dagli orpelli.
Deviandoci dall’astuzia di Erode e di tutte le «volpi» (v.32).
[Giovedì 30.a sett. T.O. 30 ottobre 2025]
Fine di un ordine “sacro”
(Lc 13,31-35)
Il contesto in cui Gesù vive è minaccioso: il potere [anche delle corti di periferia dell’Impero] era assoluto e non rendeva conto a nessuno della gestione spicciola.
Ma l’edificazione del Regno di Dio non dipende da alcuna autorizzazione, da alcun permesso, da alcuna bonaria concessione da parte dei soliti noti e governanti rapaci, sul territorio delle province.
Chi vuole adempiere la propria missione non può accontentare le «volpi» che usurpano il potere.
Si tratta di piccoli e dannosi parassiti di situazione, ma svelti - pur non essendo grandi fiere roboanti come nella corte romana e senatoriale.
Col suo atteggiamento scaltro, il re Erode (astuto collaborazionista) era riuscito ad assicurarsi il dominio per diversi decenni, e una vita senza scossoni.
Ogni villaggio della Palestina era presidiato da funzionari e delatori del sovrano, nonché praticanti e subordinati della religione popolare ufficiale [anche farisei, che appunto Gesù rimanda al mittente: v.32].
Antipa riusciva sempre a galleggiare sulle situazioni e starsene in pace.
Ma dopo essersi illuso di aver sistemato il Battista e con lui la sua scuola, eccolo di nuovo allarmato per il sorgere d’un pericolo maggiore.
Il giovane Rabbi diffondeva fiducia profonda non nei forti, bensì nei malfermi. In tal guisa, operava in profondità nelle coscienze, e sembrava potesse surclassare persino i Profeti.
Infatti, aveva iniziato a suscitare ben altre emozioni che la solita proposta di purificazione del Tempio e di rabberciamento dello spirito delle origini religiose identitarie, antiche.
Poi, se dal centro del potere sul territorio erano precipitosamente sopraggiunti gli ispettori (v.31), Gesù doveva averla fatta proprio grossa. Così dimostrando totale libertà da condizionamenti.
Pertanto il successo del suo pensiero avrebbe potuto suscitare disordini nell’assetto del sistema.
Ma i messi di Dio non escono dal territorio del rischio, pur sapendo ciò che li attende: il rigetto, e anche peggio.
Gli inviati veri non mollano, non si lasciano travolgere da seduzioni, né ammansire dagli intimidatori.
Non lo fanno per dovere, ma per fedeltà a se stessi, e per il fatto che sono attratti da una Visione che appartiene a tutti.
Essi riescono a cogliere la paradossale fecondità del Mistero, e appunto presentire che i dolori del parto genereranno nuove Nascite.
Allora senza più indugio salgono alla città che martirizza i non mediocri (v.33).
Tutto ciò, affrontando faccia a faccia l’opposizione delle arcigne e ben organizzate autorità ufficiali, le quali sanno come svilire l’effervescenza della vita della gente.
Gesù e i suoi intimi, se autentici seguaci, svolgono un’esistenza segnata da una sorta di attrazione della croce - per Amore che va sino in fondo e non disdegna i confronti [non perché animati da masochismi doloristi].
Certo, il loro sentimento per le sorti di una patria che si lascia andare alle vanità, all’ideologia di potere e al suo “vantaggio”, intraprendendo il binario dell’autodistruzione, fa piangere di dolore.
Gerusalemme era centro del popolo dei figli di Dio, “eletti” [solo] per dispiegare il volto del Padre.
Vocazione della città santa era non quella di consegnarsi a una volpe (v.32) bensì farsi chioccia [v.34: propriamente, «gallina»] che non chiude ma allarga le ali per i suoi piccoli, radunando tutti gli innocenti.
Gli “animali” che Cristo nei suoi richiami ci propone a modello non sono quelli regali e predominanti come l’aquila, il toro o il leone, bensì i domestici, subalterni e insignificanti: agnello, gallina, asinello, puledro [es. Ingresso messianico (Lc 19,28-40) cui segue il Pianto su Gerusalemme (vv.41-44)].
Per timore di non riconoscergli sufficiente dignità, il suo “bestiario” tradizionale (da trionfatore e Altissimo quale doveva essere inculcato alle masse inconsapevoli) spesso non ha nulla avuto a che fare, purtroppo, col dato evangelico.
Tuttavia - pur defenestrato dalla sua Casa nella città santa, nonché dal cuore di chi pretende solo quietismi - in Cristo il Popolo autentico di amici si riproporrà (v.35) anche sulla via dell’insuccesso.
Non per buonismo affettato: nel frattempo avrà allargato l’orizzonte della sua paternità ad altri popoli, in favore d’un coinvolgimento concreto.
Ciò senza - mai più - i paludosi confini della cultura locale, specifica, talora usurpante, che ovunque produce alienazioni e disgregazione.
In linea di massima, le cose sono andate come sottilmente denuncia l’enciclica Fratelli Tutti (parafrasando). Insomma, il modo migliore per avanzare è stato ritenuto nella storia [dal convincimento dirigista prevalente] non quello d’integrare, bensì di soggiogare - suscitando disperazione e sfiducia costante nello sviluppo del bene comune. Disperazione e sfiducia, mascherate «con la difesa di alcuni valori» [n.15].
L’ecclesiologia del trionfo faceva un tempo da spalla al tipo di mondo che tendeva a dissolvere le consapevolezze particolari.
In tali procedure dall’alto, si trasferivano le tensioni esacerbando i conflitti anche “orizzontali” - quindi colonizzando le fisionomie; infine mettendole a tacere [FT nn.14-15].
Parola viva e storia attuale, cui prima o poi bisognerà porre rimedio. In modo semplice, ma non unilaterale: inclusivo.
Grazie a una migliore consapevolezza biblica e con il contributo di un nuovo Magistero, ecco farsi carne il Gesù vivente e cosmico.
Egli via via ci distacca dall’orpello d’un regno che sembrava accontentasse le coscienze con lo schema dell’ordine… deviandoci sull’astuzia di Erode e delle «volpi» (v.32).
Per interiorizzare e vivere il messaggio:
Come vivi i momenti critici della Redenzione? Ti accodi agli ispettori normalizzanti che tentano d’incutere paura, o segui la tua missione profetica?
Cosa pensi della rivoluzione culturale in atto nella Chiesa? Ti sollecita - reca disturbo - conferma il tuo essere figlio e fratello? Speriamo di sì.
Ma di quale direzione si tratta? Come la si trova? La frase del nostro Vangelo offre due indicazioni al riguardo. In primo luogo dice che si tratta di un’ascesa. Ciò ha innanzitutto un significato molto concreto. Gerico, dove ha avuto inizio l’ultima parte del pellegrinaggio di Gesù, si trova a 250 metri sotto il livello del mare, mentre Gerusalemme – la meta del cammino – sta a 740-780 metri sul livello del mare: un’ascesa di quasi mille metri. Ma questa via esteriore è soprattutto un’immagine del movimento interiore dell’esistenza, che si compie nella sequela di Cristo: è un’ascesa alla vera altezza dell’essere uomini. L’uomo può scegliere una via comoda e scansare ogni fatica. Può anche scendere verso il basso, il volgare. Può sprofondare nella palude della menzogna e della disonestà. Gesù cammina avanti a noi, e va verso l’alto. Egli ci conduce verso ciò che è grande, puro, ci conduce verso l’aria salubre delle altezze: verso la vita secondo verità; verso il coraggio che non si lascia intimidire dal chiacchiericcio delle opinioni dominanti; verso la pazienza che sopporta e sostiene l’altro. Egli conduce verso la disponibilità per i sofferenti, per gli abbandonati; verso la fedeltà che sta dalla parte dell’altro anche quando la situazione si rende difficile. Conduce verso la disponibilità a recare aiuto; verso la bontà che non si lascia disarmare neppure dall’ingratitudine. Egli ci conduce verso l’amore – ci conduce verso Dio.
“Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme”. Se leggiamo questa parola del Vangelo nel contesto della via di Gesù nel suo insieme – una via che, appunto, prosegue sino alla fine dei tempi – possiamo scoprire nell’indicazione della meta “Gerusalemme” diversi livelli. Naturalmente innanzitutto deve intendersi semplicemente il luogo “Gerusalemme”: è la città in cui si trovava il Tempio di Dio, la cui unicità doveva alludere all’unicità di Dio stesso. Questo luogo annuncia quindi anzitutto due cose: da un lato dice che Dio è uno solo in tutto il mondo, supera immensamente tutti i nostri luoghi e tempi; è quel Dio a cui appartiene l’intera creazione. È il Dio di cui tutti gli uomini nel più profondo sono alla ricerca e di cui in qualche modo tutti hanno anche conoscenza. Ma questo Dio si è dato un nome. Si è fatto conoscere a noi, ha avviato una storia con gli uomini; si è scelto un uomo – Abramo – come punto di partenza di questa storia. Il Dio infinito è al contempo il Dio vicino. Egli, che non può essere rinchiuso in alcun edificio, vuole tuttavia abitare in mezzo a noi, essere totalmente con noi.
Se Gesù insieme con l’Israele peregrinante sale verso Gerusalemme, Egli ci va per celebrare con Israele la Pasqua: il memoriale della liberazione di Israele – memoriale che, allo stesso tempo, è sempre speranza della libertà definitiva, che Dio donerà. E Gesù va verso questa festa nella consapevolezza di essere Egli stesso l’Agnello in cui si compirà ciò che il Libro dell’Esodo dice al riguardo: un agnello senza difetto, maschio, che al tramonto, davanti agli occhi dei figli d’Israele, viene immolato “come rito perenne” (cfr Es 12,5-6.14). E infine Gesù sa che la sua via andrà oltre: non avrà nella croce la sua fine. Sa che la sua via strapperà il velo tra questo mondo e il mondo di Dio; che Egli salirà fino al trono di Dio e riconcilierà Dio e l’uomo nel suo corpo. Sa che il suo corpo risorto sarà il nuovo sacrificio e il nuovo Tempio; che intorno a Lui, dalla schiera degli Angeli e dei Santi, si formerà la nuova Gerusalemme che è nel cielo e tuttavia è anche già sulla terra, perché nella sua passione Egli ha aperto il confine tra cielo e terra. La sua via conduce al di là della cima del monte del Tempio fino all’altezza di Dio stesso: è questa la grande ascesa alla quale Egli invita tutti noi. Egli rimane sempre presso di noi sulla terra ed è sempre già giunto presso Dio, Egli ci guida sulla terra e oltre la terra.
Così, nell’ampiezza dell’ascesa di Gesù diventano visibili le dimensioni della nostra sequela – la meta alla quale Egli vuole condurci: fino alle altezze di Dio, alla comunione con Dio, all’essere-con-Dio. È questa la vera meta, e la comunione con Lui è la via. La comunione con Lui è un essere in cammino, una permanente ascesa verso la vera altezza della nostra chiamata. Il camminare insieme con Gesù è al contempo sempre un camminare nel «noi» di coloro che vogliono seguire Lui. Ci introduce in questa comunità. Poiché il cammino fino alla vita vera, fino ad un essere uomini conformi al modello del Figlio di Dio Gesù Cristo supera le nostre proprie forze, questo camminare è sempre anche un essere portati. Ci troviamo, per così dire, in una cordata con Gesù Cristo – insieme con Lui nella salita verso le altezze di Dio. Egli ci tira e ci sostiene. Fa parte della sequela di Cristo che ci lasciamo integrare in tale cordata; che accettiamo di non potercela fare da soli. Fa parte di essa questo atto di umiltà, l’entrare nel «noi» della Chiesa; l’aggrapparsi alla cordata, la responsabilità della comunione – il non strappare la corda con la caparbietà e la saccenteria. L’umile credere con la Chiesa, come essere saldati nella cordata dell’ascesa verso Dio, è una condizione essenziale della sequela. Di questo essere nell’insieme della cordata fa parte anche il non comportarsi da padroni della Parola di Dio, il non correre dietro un’idea sbagliata di emancipazione. L’umiltà dell’«essere-con» è essenziale per l’ascesa. Fa anche parte di essa che nei Sacramenti ci lasciamo sempre di nuovo prendere per mano dal Signore; che da Lui ci lasciamo purificare e corroborare; che accettiamo la disciplina dell’ascesa, anche se siamo stanchi.
[Papa Benedetto, omelia delle Palme 28 marzo 2010]
5. Una delle parabole narrate da Gesù sulla crescita del regno di Dio sulla terra ci fa scoprire con molto realismo il carattere di lotta che il regno comporta, per la presenza e l'azione di un “nemico”, che “semina la zizzania (o gramigna) in mezzo al grano”. Dice Gesù che, quando “la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania”. I servi del padrone del campo vorrebbero strapparla, ma il padrone non glielo consente, “perché non succeda che... sradichiate anche il grano. Lasciate che l'una e l'altra crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio” (Mt 13,29-30). Questa parabola spiega la coesistenza e spesso l'intreccio del bene e del male nel mondo, nella nostra vita, nella stessa storia della Chiesa. Gesù ci insegna a veder le cose con realismo cristiano e a trattare ogni problema con chiarezza di principi, ma anche con prudenza e con pazienza. Ciò suppone una visione trascendente della storia, nella quale si sa che tutto appartiene a Dio e ogni esito finale è opera della sua Provvidenza. Non è però nascosta la sorte finale - di dimensione escatologica - dei buoni e dei cattivi: la simboleggiano la raccolta del grano nel deposito e la bruciatura della zizzania.
[Papa Giovanni Paolo II, La crescita del Regno,
Oggi Dio continua a piangere — con lacrime di padre e di madre — davanti alle calamità, alle guerre scatenate per adorare il dio denaro, a tanti innocenti uccisi dalle bombe, a un’umanità che sembra non volere la pace. È un forte invito alla conversione quello rilanciato da Francesco nella messa celebrata giovedì mattina, 27 ottobre, nella cappella della Casa Santa Marta. Un invito che il Pontefice ha motivato ricordando che Dio si è fatto uomo proprio per piangere con e per i suoi figli.
Nel passo del vangelo di Luca (13, 31-35) proposto dalla liturgia, ha spiegato il Papa, «sembra che Gesù avesse perso la pazienza e usa anche parole forti: non è un insulto ma non è fare un complimento dire “volpe” a una persona». Per la precisione dice ai farisei che gli hanno parlato di Erode: «Andate a dire a quella volpe». Ma già «in altre occasioni Gesù ha parlato duro»: ad esempio, ha detto «generazione perversa e adultera». E ha chiamato i discepoli «duri di cuore» e «stolti». Luca riporta le parole con cui Gesù fa un vero e proprio «riassunto di quello che dovrà accadere: “è necessario che io prosegua il mio cammino perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme”». In pratica il Signore «dice quello che succederà, si prepara a morire».
Ma «poi subito Gesù cambia i toni», ha evidenziato Francesco. «Dopo questo scoppio tanto forte», infatti, «cambia tono e guarda il suo popolo, guarda la città di Gerusalemme: “Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te!”». Egli guarda «la Gerusalemme chiusa, che non ha sempre ricevuto i messaggeri del Padre». E «il cuore di Gesù incomincia a parlare con tenerezza: “Gerusalemme, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una chioccia i suoi pulcini!”». Ecco «la tenerezza di Dio, la tenerezza di Gesù». Quel giorno egli «pianse su Gerusalemme». Ma «quel pianto di Gesù — ha spiegato il Papa — non è il pianto dell’amico davanti alla tomba di Lazzaro. Quello è il pianto di un amico davanti alla morte dell’altro»; invece «questo è il pianto di un padre che piange, è Dio Padre che piange qui nella persona di Gesù».
«Qualcuno ha detto che Dio si è fatto uomo per poter piangere quello che avevano fatto i suoi figli» ha affermato il Pontefice. E così «il pianto davanti alla tomba di Lazzaro è il pianto dell’amico». Ma quello che racconta Luca «è il pianto del Padre». A questo proposito Francesco ha voluto riproporre anche l’atteggiamento del «padre del figliol prodigo, quando il figlio più piccolo gli ha chiesto i soldi dell’eredità e se ne è andato via». E «quel padre è sicuro, non è andato dai suoi vicini a dire: “guarda cosa mi è accaduto, ma questo povero disgraziato cosa mi ha fatto, io maledico questo figlio!”. No, non ha fatto questo». Invece, ha detto il Papa, «sono sicuro» che quel padre «se ne è andato a piangere da solo».
È vero, il Vangelo non rivela questo particolare — ha proseguito Francesco — però racconta «che quando il figlio tornò vide il padre da lontano: questo significa che il padre continuamente saliva sul terrazzo a guardare il cammino per vedere se il figlio tornava». E «un padre che fa questo è un padre che vive nel pianto, aspettando che il figlio torni». Proprio questo è «il pianto di Dio Padre; e con questo pianto il Padre ricrea nel suo Figlio tutta la creazione».
«Quando Gesù andava con la croce al Calvario — ha ricordato il Pontefice — le pie donne piangevano e ha detto loro: “No, non piangete su di me, piangete per i vostri figli”». È il «pianto di padre e di madre che Dio anche oggi continua a fare: anche oggi davanti alle calamità, alle guerre che si fanno per adorare il dio denaro, a tanti innocenti uccisi dalle bombe che gettano giù gli adoratori dell’idolo denaro». E così «anche oggi il Padre piange, anche oggi dice: “Gerusalemme, Gerusalemme, figlioli miei, cosa state facendo?”». E «lo dice alle vittime poverette e anche ai trafficanti delle armi e a tutti quelli che vendono la vita della gente».
In conclusione Francesco ha suggerito di «pensare che Dio si è fatto uomo per poter piangere. E ci farà bene pensare che nostro Padre Dio oggi piange: piange per questa umanità che non finisce di capire la pace che lui ci offre, la pace dell’amore».
[Papa Francesco, omelia a s. Marta, in L’Osservatore Romano 28/10/2016]
Porta stretta: non perché oppressiva
(Lc 13,22-30)
Il senso della prima domanda è: «La Salvezza è esclusiva?» (v.23). Certo che no - e neppure dispotica. Ma non basta dichiararsi “Amici”.
A mezzo secolo dalla crocifissione di Gesù, nelle comunità iniziano a manifestarsi i primi segni di rilassamento.
I privilegiati sono già fuori Casa [vv.25ss].
La loro vicenda mette in guardia dall’illusione di sentirsi “eletti”. E interroga i credenti. Come fare per collocarsi sulla strada giusta?
Occasione per capire se siamo sui passi che davvero ci appartengono è la revisione costante del rapporto con la Persona “inadeguata” del Cristo [la «Porta stretta»: v.24].
Secondo il Maestro non si diventa “migliori” ricalcando cliché abitudinari ostentati, scarsamente convinti e adempiuti per tran tran.
Insomma, chi opera molte cose per Dio (v.26) e non per i fratelli - o neppure si accorge che esistono - in realtà non rende onore al Padre.
Coloro che non si “sgonfiano”, non solo mancano di umiltà per farsi servitori, ma neppure attraversano gli interstizi dei muri in cui s’incunea lo Spirito.
Ci chiediamo però ancora sorpresi come può il Padre trascurare proprio i suoi che hanno tanto creduto in Lui, e prediligere addirittura i lontani, provenienti non si sa bene da dove.
Forse hanno amato come Lui. Non hanno avuto una “corretta” relazione con Dio, ma una giusta relazione con gli altri, sì.
È nel loro intimo che hanno conosciuto il Signore. Personalmente. E trasmigrando, hanno compiuto il loro Esodo.
Andando direttamente all’obiettivo, si sono interessati del frutto: ascolto, compassione, condivisione generosa dei beni - invece delle molte foglie.
Con gli occhi dell’anima, in queste persone del tutto prive di supponenza spirituale, la percezione degli orientamenti interiori ha vinto i pensieri e gl’idoli del costume a portata di mano.
Essi sono coloro che non si sono mai considerati troppo grandi.
Vale per noi: non sentirsi eccellenti e non avere pretese è dal Cristo valutato assai più delle carte in regola.
Egli definisce costoro «facitori di cose vane, facitori di cose morte» [Lc 13,27; il testo greco ha un sottofondo semita del genere: Sal 6,9 testo ebraico].
Si riferisce ai ‘tiepidi’ che vanno avanti per inerzia e ancora oggi partecipano alle manifestazioni esteriori con estrema superficialità.
Fanno corpo, ma personalmente non mettono in moto nulla. Non sono passati per la «Porta stretta» che è Gesù stesso.
Costringendolo a dire: «Non so ‘da’ dove voi siete» (vv.25-27).
I veri discepoli partecipano del Banchetto senza finzioni: non hanno fuggito il mondo, hanno lottato (v. 24) per farsi capaci di amare. Si sono compromessi.
In tal modo hanno saputo incontrare gli stati profondi di se stessi e accompagnare le eccentricità altrui, recuperandone gli opposti (v.30).
«Porta stretta»: non perché oppressiva.
[Mercoledì 30.a sett. T.O. 29 ottobre 2025]
Porta stretta: non perché oppressiva
(Lc 13,22-30)
Il senso della prima domanda è: «La Salvezza è esclusiva?» (v.23). Certo che no - e neppure oppressiva.
Ma non basta dichiararsi “Amici” [qua e là proclamazione di maniera, divenuta patente d’immunità per condurre una doppia vita].
A mezzo secolo dalla crocifissione di Gesù nelle comunità iniziano a manifestarsi i primi segni di rilassamento, vezzo e confusione.
Infatti, proprio i lontani, nuovi e respinti dai veterani, manifestano di essere credenti che riconoscono il Signore più degli abitudinari di comunità (v.25).
Taluni di essi, praticanti ormai inautentici della sua Mensa e della Parola (v.26).
Come mai il Figlio indulgente di Lc finisce per sbattere la porta in faccia ai suoi vecchi devoti?
Perché sono diventati manieristi fasulli, teatranti come quelli della religione antica, manipolatori dell’immagine di Dio dell’Esodo.
Ormai incapaci [v.24 testo greco] di orientarsi secondo il disegno del Padre, e dispotici, solo perché rivestiti di lunghe pratiche di rito. Stilemi esterni, adempiuti per usanza e a scapito della vita piena - ossia, messa a disposizione dei fratelli.
I privilegiati sono già fuori Casa [vv.25ss].
La loro vicenda mette in guardia dall’illusione di sentirsi “eletti”, ed essere a posto, sulla strada giusta.
Insomma, bisogna evitare di atteggiarsi a fenomeni (cristologici) per routine - a buon mercato - invece che a servizio dell’umanizzazione.
Un’occasione per capire se siamo sui passi che davvero ci appartengono è la revisione costante del rapporto con la Persona “inadeguata” - del Cristo (la «Porta stretta»: v.24).
Secondo il Maestro non si diventa “migliori” ricalcando cliché abitudinari ostentati, scarsamente convinti e adempiuti per tran tran.
C’è dunque un punto critico nella sua clemenza? Di che genere è la sua inflessibilità? Perché il discrimine è nella sua cerchia?
Chi opera molte cose per Dio (v.26) e non per i fratelli - o neppure si accorge che esistono - in realtà non rende onore al Padre.
Coloro che non si “sgonfiano”, non solo mancano di umiltà per farsi servitori, ma neppure attraversano gli interstizi dei muri di pietra (o di gomma, più diplomatici) in cui s’incunea lo Spirito.
Ci chiediamo però ancora sorpresi come può il Padre trascurare proprio i suoi che hanno tanto creduto in Lui, e prediligere addirittura i lontani, provenienti non si sa bene da dove.
Forse hanno amato come Lui.
Hanno spontaneamente operato quel cambiamento di rotta e di sorte che la Chiesa istituzione [riflesso del Regno] è chiamata da sempre a incarnare.
E come sono riusciti a trovare il modo per passare?
Non hanno avuto una “corretta” relazione con Dio - probabilmente - ma una giusta relazione con gli altri, sì.
È nel loro intimo che hanno conosciuto il Signore. Personalmente - anche quelli che neppure ne hanno sentito parlare direttamente.
E trasmigrando, hanno compiuto il loro Esodo.
Andando direttamente all’obiettivo, si sono interessati del frutto: ascolto, compassione, condivisione generosa dei beni - invece delle molte foglie (di stendardo, rito e formula).
Con gli occhi dell’anima, in queste persone del tutto prive di supponenza spirituale, la percezione degli orientamenti interiori ha vinto i pensieri e gl’idoli del costume a portata di mano.
Essi sono coloro che non si sono mai considerati troppo grandi.
Il non sentirsi eccellenti e il non avere pretese è e sarà valutato assai più della giusta osservanza e dell’esatto stendardo.
Caratteristiche fatue, addirittura (!) - che il nuovo Rabbi attribuisce proprio agli habitué che sembrano avere le carte in regola.
Li definisce «facitori di cose vane, facitori di cose morte» [Lc 13,27; il testo greco ha un sottofondo semita del genere: Sal 6,9 testo ebraico].
Si riferisce ai tiepidi che vanno avanti per inerzia e ancora oggi partecipano alle manifestazioni esteriori con estrema superficialità.
Fanno corpo, ma personalmente non mettono in moto nulla.
Il Signore non vuole umiliare, ma invitarci a ripensare i motivi e le modalità della nostra sequela.
Ricevere il suo Pane significa accettare di diventare alimento in favore della vita del mondo.
Accogliere la sua Parola è gesto che denota il desiderio ardente di viverla, non un’abitudine, né modo per lasciarsi apprezzare e fare slalom.
Eppure Cristo si vede costretto a dire: «Non so “da” dove voi siete» (vv.25-27).
Mentre alcuni che neppure hanno conosciuto il Signore, sono misteriosamente passati per la «Porta stretta» che è appunto Gesù stesso - senz’accorgersi.
Privi dell’ipocrisia di reputarsi grandi Apostoli, ovvero coloro che sanno stare al mondo.
Il loro segreto è quello di un’esperienza convinta e di una pratica fraterna che ha diradato l’inganno spirituale delle parentesi (teatrali) in società.
Non hanno partecipato a passerelle (sacre) per poi trascorrere la vita additando, mortificando, rendendo inferma l’esistenza di tutti ed in specie dei malfermi.
Gente che si è dedicata al bene - quindi non è affogata nell’angoscia stantia delle culture devote e moraliste locali. Magari bloccati per timore di contaminarsi.
Anime le quali non sono vissute sotto una cappa di morbose ossessioni, tipiche di chi si fissa sui comportamenti altrui [e in modo inespresso li coltiva dentro].
I veri discepoli partecipano del Banchetto perché non hanno fuggito il mondo, hanno lottato (v. 24) per farsi capaci di amare.
Si sono compromessi coi vili limiti delle periferie esistenziali, proprie e dei fratelli.
Hanno dedicato l’esistenza all’inclusione sociale e all’accoglienza dei sentimenti, a riconoscere il legittimo desiderio di vita di ciascuno.
Si sono sradicati dall’idea che l’appartenenza religiosa porgesse una patente d’immunità (o addirittura di sacralizzazione) alla tiepidezza.
Con tutte le loro imperfezioni, hanno desiderato Felicità, non la banale allegria che copre il niente delle scelte.
Sono già persone complete, che hanno colmato anche la nostra esistenza, e per questo “entrate” sotto la luce di Dio.
Hanno avuto rispetto del loro Nucleo infallibile e della natura delle cose del mondo, che chiamano a Comunione.
Se sono state donne e uomini di preghiera, hanno ascoltato la voce della propria essenza.
Hanno saputo accogliere come ospite di riguardo qualsiasi stato d’animo (e intuizione) di partenza. Si sono accorti.
Hanno percepito ed espresso, non solo pensato e soffocato.
E scavando, si sono chiesti: cosa significa questa gioia o questa tristezza per me? Perché le mie calme e le mie angosce?
In tal modo hanno imparato a incontrare se stessi in tutto, e ad accompagnare le eccentricità altrui, recuperandone gli opposti (v.30).
Angeli rimasti in sintonia col Mistero di Dio che si annida nelle pieghe della storia personale e dell’altrui vicenda, giorno per giorno - nel genio del tempo.
Hanno colto il Segreto di Dio perché non hanno trascurato nulla come fosse un inganno, né tacitato le inquietudini.
L’insegnamento del Signore ha trasformato la loro esistenza: la conoscenza di Dio è diventata compassione ed empatia.
Così non hanno scambiato per pace l’indifferenza, per quiete l’opportunismo, per tranquillità il fallimento dei “meticci”.
Non sono stati tanto presuntuosi da ritenersi in diritto. Non hanno chiamato vittoria la subordinazione degli ultimi e degli esclusi.
«Porta stretta»: non perché oppressiva.
Anche l'odierna liturgia ci propone una parola di Cristo illuminante e al tempo stesso sconcertante. Durante la sua ultima salita verso Gerusalemme, un tale gli chiede: "Signore, sono pochi quelli che si salvano?". E Gesù risponde: "Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno" (Lc 13, 23-24). Che significa questa "porta stretta"? Perché molti non riescono ad entrarvi? Si tratta forse di un passaggio riservato solo ad alcuni eletti? In effetti, questo modo di ragionare degli interlocutori di Gesù, a ben vedere è sempre attuale: è sempre in agguato la tentazione di interpretare la pratica religiosa come fonte di privilegi o di sicurezze. In realtà, il messaggio di Cristo va proprio in senso opposto: tutti possono entrare nella vita, ma per tutti la porta è "stretta". Non ci sono privilegiati. Il passaggio alla vita eterna è aperto a tutti, ma è "stretto" perché è esigente, richiede impegno, abnegazione, mortificazione del proprio egoismo.
Ancora una volta, come nelle scorse domeniche, il Vangelo ci invita a considerare il futuro che ci attende e al quale ci dobbiamo preparare durante il nostro pellegrinaggio sulla terra. La salvezza, che Gesù ha operato con la sua morte e risurrezione, è universale. Egli è l'unico Redentore e invita tutti al banchetto della vita immortale. Ma ad un'unica e uguale condizione: quella di sforzarsi di seguirlo ed imitarlo, prendendo su di sé, come Lui ha fatto, la propria croce e dedicando la vita al servizio dei fratelli. Unica e universale, dunque, è questa condizione per entrare nella vita celeste. Nell'ultimo giorno - ricorda ancora Gesù nel Vangelo - non è in base a presunti privilegi che saremo giudicati, ma secondo le nostre opere. Gli "operatori di iniquità" si troveranno esclusi, mentre saranno accolti quanti avranno compiuto il bene e cercato la giustizia, a costo di sacrifici. Non basterà pertanto dichiararsi "amici" di Cristo vantando falsi meriti: "Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze" (Lc 13, 26). La vera amicizia con Gesù si esprime nel modo di vivere: si esprime con la bontà del cuore, con l'umiltà, la mitezza e la misericordia, l'amore per la giustizia e la verità, l'impegno sincero ed onesto per la pace e la riconciliazione. Questa, potremmo dire, è la "carta d'identità" che ci qualifica come suoi autentici "amici"; questo è il "passaporto" che ci permetterà di entrare nella vita eterna.
Cari fratelli e sorelle, se vogliamo anche noi passare per la porta stretta, dobbiamo impegnarci ad essere piccoli, cioè umili di cuore come Gesù. Come Maria, sua e nostra Madre. Lei per prima, dietro il Figlio, ha percorso la via della Croce ed è stata assunta nella gloria del Cielo, come abbiamo ricordato qualche giorno fa. Il popolo cristiano la invoca quale Ianua Caeli, Porta del Cielo. Chiediamole di guidarci, nelle nostre scelte quotidiane, sulla strada che conduce alla "porta del Cielo".
[Papa Benedetto, Angelus 26 agosto 2007]
Christianity cannot be, cannot be exempt from the cross; the Christian life cannot even suppose itself without the strong and great weight of duty [Pope Paul VI]
Il Cristianesimo non può essere, non può essere esonerato dalla croce; la vita cristiana non può nemmeno supporsi senza il peso forte e grande del dovere [Papa Paolo VI]
The horizon of friendship to which Jesus introduces us is the whole of humanity [Pope Benedict]
L’orizzonte dell’amicizia in cui Gesù ci introduce è l’umanità intera [Papa Benedetto]
However, the equality brought by justice is limited to the realm of objective and extrinsic goods, while love and mercy bring it about that people meet one another in that value which is man himself, with the dignity that is proper to him (Dives in Misericordia n.14)
L'eguaglianza introdotta mediante la giustizia si limita però all’ambito dei beni oggettivi ed estrinseci, mentre l'amore e la misericordia fanno si che gli uomini s'incontrino tra loro in quel valore che è l'uomo stesso, con la dignità che gli è propria (Dives in Misericordia n.14)
The Church invites believers to regard the mystery of death not as the "last word" of human destiny but rather as a passage to eternal life (Pope John Paul II)
La Chiesa invita i credenti a guardare al mistero della morte non come all'ultima parola sulla sorte umana, ma come al passaggio verso la vita eterna (Papa Giovanni Paolo II)
The saints: they are our precursors, they are our brothers, they are our friends, they are our examples, they are our lawyers. Let us honour them, let us invoke them and try to imitate them a little (Pope Paul VI)
I santi: sono i precursori nostri, sono i fratelli, sono gli amici, sono gli esempi, sono gli avvocati nostri. Onoriamoli, invochiamoli e cerchiamo di imitarli un po’ (Papa Paolo VI)
Man rightly fears falling victim to an oppression that will deprive him of his interior freedom, of the possibility of expressing the truth of which he is convinced, of the faith that he professes, of the ability to obey the voice of conscience that tells him the right path to follow [Dives in Misericordia, n.11]
L'uomo ha giustamente paura di restar vittima di una oppressione che lo privi della libertà interiore, della possibilità di esternare la verità di cui è convinto, della fede che professa, della facoltà di obbedire alla voce della coscienza che gli indica la retta via da seguire [Dives in Misericordia, n.11]
We find ourselves, so to speak, roped to Jesus Christ together with him on the ascent towards God's heights (Pope Benedict)
Ci troviamo, per così dire, in una cordata con Gesù Cristo – insieme con Lui nella salita verso le altezze di Dio (Papa Benedetto)
Church is a «sign». That is, those who looks at it with a clear eye, those who observes it, those who studies it realise that it represents a fact, a singular phenomenon; they see that it has a «meaning» (Pope Paul VI)
La Chiesa è un «segno». Cioè chi la guarda con occhio limpido, chi la osserva, chi la studia si accorge ch’essa rappresenta un fatto, un fenomeno singolare; vede ch’essa ha un «significato» (Papa Paolo VI)
Let us look at them together, not only because they are always placed next to each other in the lists of the Twelve (cf. Mt 10: 3, 4; Mk 3: 18; Lk 6: 15; Acts 1: 13), but also because there is very little information about them, apart from the fact that the New Testament Canon preserves one Letter attributed to Jude Thaddaeus [Pope Benedict]
don Giuseppe Nespeca
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