don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Domenica, 22 Giugno 2025 19:25

Ss. Pietro, Paolo, e Francesco

Domenica, 22 Giugno 2025 19:15

Ss. Pietro e Paolo, Apostoli

Piena dedizione, ma per una traversata tutta nostra

(Mt 8,18-22)

 

Continuando a venerare sicurezze, punti di riferimento e abitudini non si fa altro che gestire un mondo di morti (v.22).

Chi accoglie Cristo si apre a una Novità - splendida ma rischiosa - che non sa.

Il credente deve mettere in conto che siamo tutti chiamati a fare traversate faticose verso altre sponde (v.18), rispetto alle solite.

Per superare quest’insicurezza e il naturale timore, non basta l’entusiasmo iniziale.

In vista dei momenti duri dell’evangelizzazione, è bene che il figlio di Dio comprenda le sue forze o inclinazioni - e se esse sono in grado di condurlo fino al punto di trasgredire legami irrinunciabili (v.21).

Non per sforzo e “resilienza”. In tal guisa non dilapidiamo attenzioni ed energie per sorreggere cose che non hanno futuro (v.22).

 

Fin dai primi tempi il Risorto non veniva identificato come un semplice modello di privazioni e umiliazioni, da “imitare”.

Il Signore era un Motivo non esteriore e un Motore (tutto intimo) di vita nuova. Questo il punto.

Nelle religioni si insegna una sola “materia”: la vicenda e lo stile del Fondatore, che ti fa apprendere splendide “nozioni” e gesta eroiche.

Nella spiritualità del Passaggio in Cristo verso altri lidi [v.18] si può solo essere in sinergia con la Sorgente che zampilla dentro.

La crescita sarà fedele al proprio Seme. La fioritura si commisurerà sulle proprie Radici e il fluire della Linfa, non sulla sporgenza delle foglie.

 

Nell’avventura di Fede il nostro Nucleo ci genera e ci porta per introdurre nel rapporto con noi stessi, con gli altri e le cose, nel modo più diverso.

L’amore è spontaneo e rischioso; non ha mai il contorno dei meccanismi standard.

Nella sequela del Signore c’è sobrietà, eppure mancano schemi prestabiliti. Come nell’Amicizia: anch’essa è “malsicura”, ma vi è una Fonte.

È l’inedito personale che nelle fatiche continua a trasmettere Gioia creativa - e ci fa scendere in campo, per rimanere qualitativi e profondi.

La mancanza di binari imposti insegna la Strada della spontaneità che apre brecce sbalorditive.

La natura stessa recupera gli opposti e i lati in penombra, o malfermi, considerati superflui.

Qui si attinge alla genuinità della nostra essenza particolare, in modo incontaminato da tabù cerebrali o di costume.

Scoprendola più sfaccettata di quanto pensavamo.

 

Allontanandosi da giudizi ovvi (e dall’andare d’accordo coi manierismi attorno) veniamo introdotti sulla Via libera dell’indipendenza e ricchezza vocazionale.

Sotto l’azione dello Spirito, sarà proprio nel pericolo reale che ciascuno accederà finalmente alla ‘dimensione mistica della Sequela’.

E se continuassimo a provare la vertigine delle continue traversate - di un compito troppo grande, per un «io» così inferiore, incapace di performance costante, riconosciuta?

Ma proprio qui, senza impalcature, incontrando personalmente il Signore, abbiamo già percepito e sentito con tutto il nostro essere il suo sottile Appello:

«Non ti abbandono; tu non lasciare te stesso: Me in te».

 

 

[Lunedì 13.a sett. T.O.  30 giugno 2025]

Piena dedizione, ma per una traversata tutta nostra

(Mt 8,18-22)

 

Gesù vuole che lasciamo nuovo spazio alla sua Parola; che ascoltandolo, gli permettiamo di parlare. E attraverso le nostre scelte, che Egli ridiventi significativo.

La sua Parola è esigente, ma ci libera dalle zavorre, da cappe mentali che si solidificano nel tempo e nella testa. Il nostro vero sopruso.

La Sequela è semplice ma non facilona. Facile, in fondo; nella gratuità della sintonia profonda e immediata, senza filtri esterni.

 

Continuando a venerare sicurezze, punti di riferimento e abitudini non si fa altro che gestire un mondo di morti (v.22).

Chi accoglie Cristo si apre a una Novità - splendida ma rischiosa - che non sa.

Il credente deve mettere in conto che siamo tutti chiamati a fare traversate faticose verso altre sponde (v.18), rispetto alle solite.

Per superare quest’insicurezza e il naturale timore, non basta l’entusiasmo iniziale.

In vista dei momenti duri dell’evangelizzazione, è bene che il figlio di Dio comprenda le sue forze o inclinazioni - e se esse sono in grado di condurlo fino al punto di trasgredire legami irrinunciabili, interessi di famiglia, doveri “sacri” (v.21).

Ciò per consentire la nascita e fioritura di nuove modalità espressive e forme pastorali. Non per sforzo e “resilienza”.

È inutile continuare a spendere la vita a puntellare rami secchi, tenere in piedi idee sofisticate o tradizioni pur conclamate, dilapidando attenzioni ed energie per sorreggere cose che non hanno futuro (v.22).

 

Come fare per scovare energia in noi stessi quando ad es. veniamo ostacolati e disprezzati?

Fin dai primi tempi il Risorto non veniva identificato come un semplice modello di privazioni e umiliazioni, da “imitare”.

Il Signore era un Motivo non esteriore e un Motore (tutto intimo) di vita nuova. Questo il punto.

Nelle religioni si insegna una sola “materia”: la vicenda e lo stile del Fondatore, che ti fa apprendere splendide “nozioni” e gesta eroiche.

Nella spiritualità del Passaggio in Cristo verso altri lidi [v.18] si può solo essere in sinergia con la Sorgente che zampilla dentro.

La crescita sarà fedele al proprio Seme. La fioritura si commisurerà sulle proprie Radici e il fluire della Linfa, non sulla sporgenza delle foglie.

 

Nell’avventura di Fede il nostro Nucleo ci genera e ci porta per introdurre nel rapporto con noi stessi, con gli altri e le cose, nel modo più diverso.

L’amore è spontaneo e rischioso; non ha mai il contorno dei meccanismi standard.

Nella sequela del Signore c’è sobrietà, eppure mancano schemi prestabiliti. Come nell’Amicizia: anch’essa è “malsicura”, ma vi è una Fonte.

Così non si spreca la vita a imbalsamare chimere da camposanto, o inseguire idee altrui, fantasie disincarnate, (o violenze disumanizzanti) alla moda, che ci sgretolano dentro.

È l’inedito personale che nelle fatiche continua a trasmettere Gioia creativa - e ci fa scendere in campo, per rimanere qualitativi e profondi.

La mancanza di binari imposti - tipici delle religioni - insegna la Strada della spontaneità che apre brecce sbalorditive.

La natura stessa recupera gli opposti e i lati in penombra, o malfermi, considerati superflui.

Qui si attinge alla genuinità della nostra essenza particolare, in modo trasparente e incontaminato da tabù cerebrali o di costume.

Scoprendola più sfaccettata di quanto pensavamo.

 

Allontanandosi da giudizi ovvi (e dall’andare d’accordo coi manierismi attorno) veniamo introdotti sulla Via libera dell’indipendenza e ricchezza vocazionale.

Sotto l’azione dello Spirito, sarà proprio nel pericolo reale che ciascuno accederà finalmente alla dimensione mistica della Sequela.

Lo faremo con smalto e sino a edificare l’impensata completezza e Felicità per sé e per tutti.

A volte anche noi proseguiamo a chiederci se quella Via che stiamo percorrendo sia effettivamente “la” nostra.

E forse continuiamo a provare la vertigine o lo spavento delle continue traversate - di un compito troppo grande, per un «io» così inferiore, incapace di performance costante, riconosciuta.

Ma proprio qui, senza impalcature, incontrando personalmente il Signore, abbiamo percepito e sentito con tutto il nostro essere il suo sottile Appello:

«Non ti abbandono; tu non lasciare te stesso: Me in te».

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Cosa ti ha spinto a deciderti per la traversata? Come hai lasciato tutto o le opinioni?

Dove condividi la durezza e la gioia dell’apostolato intenso e personale (es. nel chiostro) o della nuova evangelizzazione (es. fra i baraccati)?

Ti prodighi per l’educazione dei giovani con formazione variegata, e l’azione di dialogo e ascolto dei lontani?

Come approcci le fatiche e zone d’ombra che non t’aspetti? Torni alla tana e al nido rassicuranti?

Domenica, 22 Giugno 2025 05:02

Lasciare tutto

Le letture bibliche della santa Messa […] mi danno l’opportunità di riprendere il tema della chiamata di Cristo e delle sue esigenze, tema sul quale mi sono soffermato anche una settimana fa, in occasione delle Ordinazioni dei nuovi presbiteri della Diocesi di Roma. In effetti, chi ha la fortuna di conoscere un giovane o una ragazza che lascia la famiglia di origine, gli studi o il lavoro per consacrarsi a Dio, sa bene di che cosa si tratta, perché ha davanti un esempio vivente di risposta radicale alla vocazione divina. E’ questa una delle esperienze più belle che si fanno nella Chiesa: vedere, toccare con mano l’azione del Signore nella vita delle persone; sperimentare che Dio non è un’entità astratta, ma una Realtà così grande e forte da riempire in modo sovrabbondante il cuore dell’uomo, una Persona vivente e vicina, che ci ama e chiede di essere amata.

L’evangelista Luca ci presenta Gesù che, mentre cammina per la strada, diretto a Gerusalemme, incontra alcuni uomini, probabilmente giovani, i quali promettono di seguirlo dovunque vada. Con costoro Egli si mostra molto esigente, avvertendoli che “il Figlio dell’uomo – cioè Lui, il Messia – non ha dove posare il capo”, vale a dire non ha una propria dimora stabile, e che chi sceglie di lavorare con Lui nel campo di Dio non può più tirarsi indietro (cfr Lc 9,57-58.61-62). Ad un altro invece Cristo stesso dice: “Seguimi”, chiedendogli un taglio netto dei legami familiari (cfr Lc 9,59-60). Queste esigenze possono apparire troppo dure, ma in realtà esprimono la novità e la priorità assoluta del Regno di Dio che si fa presente nella Persona stessa di Gesù Cristo. In ultima analisi, si tratta di quella radicalità che è dovuta all’Amore di Dio, al quale Gesù stesso per primo obbedisce. Chi rinuncia a tutto, persino a se stesso, per seguire Gesù, entra in una nuova dimensione della libertà, che san Paolo definisce “camminare secondo lo Spirito” (cfr Gal 5,16). “Cristo ci ha liberati per la libertà!” – scrive l’Apostolo – e spiega che questa nuova forma di libertà acquistataci da Cristo consiste nell’essere “a servizio gli uni degli altri” (Gal 5,1.13). Libertà e amore coincidono! Al contrario, obbedire al proprio egoismo conduce a rivalità e conflitti.

Cari amici, volge ormai al termine il mese di giugno, caratterizzato dalla devozione al Sacro Cuore di Cristo. Proprio nella festa del Sacro Cuore abbiamo rinnovato con i sacerdoti del mondo intero il nostro impegno di santificazione. Oggi vorrei invitare tutti a contemplare il mistero del Cuore divino-umano del Signore Gesù, per attingere alla fonte stessa dell’Amore di Dio. Chi fissa lo sguardo su quel Cuore trafitto e sempre aperto per amore nostro, sente la verità di questa invocazione: “Sei tu, Signore, l’unico mio bene” (Salmo resp.), ed è pronto a lasciare tutto per seguire il Signore. O Maria, che hai corrisposto senza riserve alla divina chiamata, prega per noi!

[Papa Benedetto, Angelus 27 giugno 2010]

Domenica, 22 Giugno 2025 04:58

Povertà evangelica

1. Tra le richieste di rinunzia, fatte da Gesù ai suoi discepoli, vi è quella che riguarda i beni terreni, ed in particolare la ricchezza (cf. Mt 19, 21; Mc 10, 21; Lc 12, 33; 18, 22). È una richiesta rivolta a tutti i cristiani per ciò che riguarda lo spirito di povertà, cioè il distacco interiore dai beni terreni, distacco che rende generosi nel condividerli con altri. La povertà è un impegno di vita ispirato dalla fede in Cristo e dall’amore per Lui. È uno spirito. che esige anche una pratica, in una misura di rinuncia ai beni corrispondente alla condizione di ciascuno sia nella vita civile, sia nello stato in cui viene a trovarsi nella Chiesa in forza della vocazione cristiana, sia come singolo che come membro di un determinato ceto di persone. Per tutti vale lo spirito di povertà; per ciascuno è necessaria una certa pratica conforme al Vangelo.

2. La povertà richiesta da Gesù agli Apostoli è un filone di spiritualità che non poteva esaurirsi con loro, né ridursi a gruppi particolari: lo spirito di povertà è necessario per tutti, in ogni luogo e in ogni tempo; venirvi meno sarebbe tradire il Vangelo. La fedeltà allo spirito non comporta però, né per i cristiani in generale né per i sacerdoti, la pratica di una povertà radicale con la rinuncia ad ogni proprietà, o addirittura con l’abolizione di questo diritto dell’uomo. Il magistero della Chiesa ha più volte condannato coloro che sostenevano questa necessità (cf. Denz. 760; 930-931; 1097), cercando di condurre su una via di moderazione il pensiero e la prassi. E però confortante constatare che, nella evoluzione dei tempi e sotto l’influsso di tanti Santi antichi e moderni, è maturata sempre più nel clero la coscienza di una chiamata alla povertà evangelica, sia come spirito sia come pratica, in correlazione con le esigenze della consacrazione sacerdotale. Le situazioni sociali ed economiche in cui è venuto a trovarsi il clero in quasi tutti i Paesi del mondo hanno contribuito a rendere effettiva la condizione di povertà reale delle persone e delle istituzioni, anche quando queste per la loro stessa natura hanno bisogno di molti mezzi per poter adempiere i loro compiti. In molti casi è una condizione difficile e affliggente, che la Chiesa cerca di superare in vari modi, e principalmente appellandosi alla carità dei fedeli per avere da loro il contributo necessario per provvedere al culto, alle opere di carità, al mantenimento dei pastori d’anime, alle iniziative missionarie. Ma l’acquisizione di un nuovo senso della povertà è una benedizione per la vita sacerdotale, come per quella di tutti i cristiani, perché permette di meglio adeguarsi ai consigli e alle proposte di Gesù.

3. La povertà evangelica – è opportuno chiarirlo – non comporta disprezzo per i beni terreni, messi da Dio a disposizione dell’uomo per la sua vita e per la sua collaborazione al disegno della creazione. Secondo il Concilio Vaticano II, il Presbitero – come ogni altro cristiano –, avendo una missione di lode e di azione di grazie, deve riconoscere e magnificare la generosità del Padre celeste che si rivela nei beni creati (Presbyterorum Ordinis, 17).

Tuttavia, aggiunge il Concilio, i Presbiteri, pur vivendo in mezzo al mondo devono avere sempre presente che, come ha detto il Signore, non appartengono al mondo (cf. Gv 17,14-16), e devono perciò liberarsi da ogni disordinato attaccamento, per acquistare “la discrezione spirituale che consente di mettersi nel giusto rapporto con il mondo e le realtà terrestri” (Ivi; cf. Pastores dabo vobis, 30). Occorre riconoscere che si tratta di un problema delicato. Da una parte, “la missione della Chiesa si svolge in mezzo al mondo, e i beni creati sono del tutto necessari per lo sviluppo personale dell’uomo”. Gesù non ha vietato ai suoi Apostoli di accettare i beni necessari per la loro esistenza terrena. Anzi egli ha affermato il loro diritto in proposito quando ha detto in un discorso di missione: “Mangiate e bevete di quello che hanno, perché l’operaio è degno della sua mercede” (Lc 10, 7; cf. Mt 10, 10). San Paolo rammenta ai Corinzi che “il Signore ha disposto che quelli che annunziano il Vangelo vivano del Vangelo” (1 Cor 9, 14). Egli stesso prescrive con insistenza che “chi viene istruito nella dottrina faccia parte di quanto possiede a chi lo istruisce” (Gal 6, 6). È giusto dunque che i Presbiteri abbiano dei beni terreni e ne usino “per quei fini ai quali possono essere destinati, d’accordo con la dottrina di Cristo Signore e gli orientamenti della Chiesa” (PO 17). Il Concilio non ha mancato di proporre, al riguardo, concrete indicazioni.

Anzitutto, l’amministrazione dei beni ecclesiastici propriamente detti deve essere assicurata “a norma delle leggi ecclesiastiche, e possibilmente con l’aiuto di esperti laici”. Tali beni devono essere sempre impiegati per “l’ordinamento del culto divino, il dignitoso mantenimento del clero, il sostenimento delle opere di apostolato e di carità, specialmente per i poveri” (Ivi).

I beni procurati dall’esercizio di qualche ufficio ecclesiastico devono essere impiegati prima di tutto “per il proprio onesto mantenimento e per l’assolvimento dei doveri del proprio stato; il rimanente sarà bene destinarlo per il bene della Chiesa e per le opere di carità”. Questo va particolarmente sottolineato: l’ufficio ecclesiastico non può essere per i Presbiteri – e neppure per i Vescovi – occasione di arricchimento personale né di profitti per la propria famiglia. “I sacerdoti, quindi, senza affezionarsi in modo alcuno alle ricchezze, debbono evitare ogni bramosia e astenersi da qualsiasi tipo di commercio” (Ivi). In ogni caso si dovrà tener presente che tutto, nell’uso dei beni, deve svolgersi alla luce del Vangelo.

4. Lo stesso si deve dire circa l’impegno del Presbitero nelle attività profane, ossia attinenti la trattazione di affari terreni fuori dell’ambito religioso e sacro. Il Sinodo dei Vescovi del 1971 ha dichiarato che, “come norma ordinaria, si deve attribuire tempo pieno al ministero sacerdotale... Per nulla, infatti, è da considerare quale fine principale la partecipazione alle attività secolari degli uomini, né può essa bastare ad esprimere la specifica responsabilità dei Presbiteri” (Ench. Vat., IV, 1191).Era una presa di posizione di fronte alla tendenza, apparsa qua e là, alla secolarizzazione dell’attività del Sacerdote, nel senso che egli potesse impegnarsi, come i laici, nell’esercizio di un mestiere o d’una professione secolare.

È vero che ci sono circostanze in cui il solo modo efficace di ricollegare con la Chiesa un ambiente di lavoro che ignora Cristo può essere la presenza di Sacerdoti che esercitano un mestiere in tale ambiente, facendosi, ad esempio, operai con gli operai. La generosità di questi Sacerdoti è degna di elogio. Occorre tuttavia osservare che, assumendo compiti e posti profani e laicali, il Sacerdote rischia di ridurre ad un ruolo secondario o addirittura di elidere il proprio ministero sacro. In ragione di questo rischio, che aveva avuto riscontro nell’esperienza, già il Concilio aveva sottolineato la necessità dell’approvazione dell’autorità competente per esercitare un mestiere manuale, condividendo la condizioni di vita degli operai (cf. PO 8). Il Sinodo del 1971 diede, come regola da seguire, la convenienza, o meno, di un certo impegno di lavoro profano con le finalità del sacerdozio “a giudizio del Vescovo locale col suo presbiterio, e dopo aver consultato – in quanto è necessario – la Conferenza episcopale” (Ench. Vat., IV, 1192).

D’altronde è chiaro che si possono dare oggi, come in passato, casi speciali nei quali qualche Presbitero, particolarmente dotato e preparato, può svolgere un’attività in campi di lavoro o di cultura non direttamente ecclesiali. Si dovrà tuttavia fare il possibile perché restino casi eccezionali. E anche allora il criterio fissato dal Sinodo sarà sempre da applicare se si vorrà essere fedeli al Vangelo e alla Chiesa.

5. Concluderemo questa catechesi col rivolgerci ancora una volta alla figura di Gesù Cristo, Sacerdote Sommo, Pastore buono e supremo esemplare dei Sacerdoti. Egli è il modello della spoliazione dei beni terreni per il presbitero che vuole conformarsi all’esigenza della povertà evangelica. Gesù infatti è nato e vissuto nella povertà. Ammoniva San Paolo: “Da ricco che era, si è fatto povero per voi” (2 Cor 8, 9). Gesù stesso, ad uno che voleva seguirlo, disse di sé: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli dell’aria i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Lc 9, 57). Queste parole manifestano un distacco completo da tutte le comodità terrene. Non se ne deve concludere, tuttavia, che Gesù vivesse nella miseria. Altri passi dei Vangeli riferiscono che egli riceveva ed accettava inviti a casa di gente ricca (cf. Mt 9, 10-11; Mc 2, 15-16; Lc 5, 29; 7, 36; 19, 5-6), aveva collaboratrici che lo sostenevano nelle necessità economiche (Lc 8, 2-3; cf. Mt 27, 55; Mc 15, 40; Lc 23, 55-56) ed era in grado di fare l’elemosina ai poveri (cf. Gv 13,29). Non vi è dubbio tuttavia sulla vita e sullo spirito di povertà che Lo contraddistinguevano.

Lo stesso spirito di povertà dovrà animare il comportamento del Sacerdote, connotandone l’atteggiamento, la vita e la stessa figura di pastore e uomo di Dio. Esso si tradurrà in disinteresse e distacco nei riguardi del denaro, nella rinuncia ad ogni avidità di possesso dei beni terreni, in uno stile di vita semplice, nella scelta di un’abitazione modesta e accessibile a tutti, nel rifiuto di tutto quello che è o anche solo appare come lussuoso, in una tendenza crescente alla gratuità della dedizione al servizio di Dio e dei fedeli.

6. Aggiungiamo infine che, essendo chiamati da Gesù e secondo il suo esempio, ad “evangelizzare i poveri”, “i Presbiteri – come pure i Vescovi – cercheranno di evitare tutto ciò che possa in qualsiasi modo indurre i poveri ad allontanarsi” (PO 17). Nutrendo invece in loro stessi lo spirito evangelico di povertà, essi si troveranno in condizione di mostrare la propria opzione preferenziale per i poveri, traducendola in condivisione, in opere personali e comunitarie di aiuto anche materiale ai bisognosi. È una testimonianza al Cristo Povero che viene oggi da tanti sacerdoti, poveri e amici dei poveri. È una grande fiamma d’amore accesa nella vita del clero e della Chiesa. Se mai il clero poté apparire talvolta in alcuni luoghi tra le categorie dei ricchi, oggi esso si sente onorato, con tutta la Chiesa, di trovarsi in prima fila tra i “nuovi poveri”. È un grande progresso nella sequela di Cristo sulla via del Vangelo.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 21 luglio 1993]

Domenica, 22 Giugno 2025 04:51

La casa di Gesù è la gente

Sono lieto di accogliervi in questa mia prima Udienza generale. Con grande riconoscenza e venerazione raccolgo il “testimone” dalle mani del mio amato predecessore Benedetto XVI. Dopo la Pasqua riprenderemo le catechesi dell’Anno della fede. Oggi vorrei soffermarmi un po’ sulla Settimana Santa. Con la Domenica delle Palme abbiamo iniziato questa Settimana – centro di tutto l’Anno Liturgico – in cui accompagniamo Gesù nella sua Passione, Morte e Risurrezione.

Ma che cosa può voler dire vivere la Settimana Santa per noi? Che cosa significa seguire Gesù nel suo cammino sul Calvario verso la Croce e la Risurrezione? Nella sua missione terrena, Gesù ha percorso le strade della Terra Santa; ha chiamato dodici persone semplici perché rimanessero con Lui, condividessero il suo cammino e continuassero la sua missione; le ha scelte tra il popolo pieno di fede nelle promesse di Dio. Ha parlato a tutti, senza distinzione, ai grandi e agli umili, al giovane ricco e alla povera vedova, ai potenti e ai deboli; ha portato la misericordia e il perdono di Dio; ha guarito, consolato, compreso; ha dato speranza; ha portato a tutti la presenza di Dio che si interessa di ogni uomo e ogni donna, come fa un buon padre e una buona madre verso ciascuno dei suoi figli. Dio non ha aspettato che andassimo da Lui, ma è Lui che si è mosso verso di noi, senza calcoli, senza misure. Dio è così: Lui fa sempre il primo passo, Lui si muove verso di noi. Gesù ha vissuto le realtà quotidiane della gente più comune: si è commosso davanti alla folla che sembrava un gregge senza pastore; ha pianto davanti alla sofferenza di Marta e Maria per la morte del fratello Lazzaro; ha chiamato un pubblicano come suo discepolo; ha subito anche il tradimento di un amico. In Lui Dio ci ha dato la certezza che è con noi, in mezzo a noi. «Le volpi – ha detto Lui, Gesù – le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Mt 8,20). Gesù non ha casa perché la sua casa è la gente, siamo noi, la sua missione è aprire a tutti le porte di Dio, essere la presenza di amore di Dio.

Nella Settimana Santa noi viviamo il vertice di questo cammino, di questo disegno di amore che percorre tutta la storia dei rapporti tra Dio e l’umanità. Gesù entra in Gerusalemme per compiere l’ultimo passo, in cui riassume tutta la sua esistenza: si dona totalmente, non tiene nulla per sé, neppure la vita. Nell’Ultima Cena, con i suoi amici, condivide il pane e distribuisce il calice “per noi”. Il Figlio di Dio si offre a noi, consegna nelle nostre mani il suo Corpo e il suo Sangue per essere sempre con noi, per abitare in mezzo a noi. E nell’Orto degli Ulivi, come nel processo davanti a Pilato, non oppone resistenza, si dona; è il Servo sofferente preannunciato da Isaia che spoglia se stesso fino alla morte (cfr Is 53,12).

Gesù non vive questo amore che conduce al sacrificio in modo passivo o come un destino fatale; certo non nasconde il suo profondo turbamento umano di fronte alla morte violenta, ma si affida con piena fiducia al Padre. Gesù si è consegnato volontariamente alla morte per corrispondere all’amore di Dio Padre, in perfetta unione con la sua volontà, per dimostrare il suo amore per noi. Sulla croce Gesù «mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). Ciascuno di noi può dire: Mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. Ciascuno può dire questo “per me”.

Che cosa significa tutto questo per noi? Significa che questa è anche la mia, la tua, la nostra strada. Vivere la Settimana Santa seguendo Gesù non solo con la commozione del cuore; vivere la Settimana Santa seguendo Gesù vuol dire imparare ad uscire da noi stessi - come dicevo domenica scorsa - per andare incontro agli altri, per andare verso le periferie dell’esistenza, muoverci noi per primi verso i nostri fratelli e le nostre sorelle, soprattutto quelli più lontani, quelli che sono dimenticati, quelli che hanno più bisogno di comprensione, di consolazione, di aiuto. C’è tanto bisogno di portare la presenza viva di Gesù misericordioso e ricco di amore!

Vivere la Settimana Santa è entrare sempre più nella logica di Dio, nella logica della Croce, che non è prima di tutto quella del dolore e della morte, ma quella dell’amore e del dono di sé che porta vita. E’ entrare nella logica del Vangelo. Seguire, accompagnare Cristo, rimanere con Lui esige un “uscire”, uscire. Uscire da se stessi, da un modo di vivere la fede stanco e abitudinario, dalla tentazione di chiudersi nei propri schemi che finiscono per chiudere l’orizzonte dell’azione creativa di Dio. Dio è uscito da se stesso per venire in mezzo a noi, ha posto la sua tenda tra noi per portarci la sua misericordia che salva e dona speranza. Anche noi, se vogliamo seguirlo e rimanere con Lui, non dobbiamo accontentarci di restare nel recinto delle novantanove pecore, dobbiamo “uscire”, cercare con Lui la pecorella smarrita, quella più lontana. Ricordate bene: uscire da noi, come Gesù, come Dio è uscito da se stesso in Gesù e Gesù è uscito da se stesso per tutti noi.

Qualcuno potrebbe dirmi: “Ma, padre, non ho tempo”, “ho tante cose da fare”, “è difficile”, “che cosa posso fare io con le mie poche forze, anche con il mio peccato, con tante cose? Spesso ci accontentiamo di qualche preghiera, di una Messa domenicale distratta e non costante, di qualche gesto di carità, ma non abbiamo questo coraggio di “uscire” per portare Cristo. Siamo un po’ come san Pietro. Non appena Gesù parla di passione, morte e risurrezione, di dono di sé, di amore verso tutti, l’Apostolo lo prende in disparte e lo rimprovera. Quello che dice Gesù sconvolge i suoi piani, appare inaccettabile, mette in difficoltà le sicurezze che si era costruito, la sua idea di Messia. E Gesù guarda i discepoli e rivolge a Pietro forse una delle parole più dure dei Vangeli: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8,33). Dio pensa sempre con misericordia: non dimenticate questo. Dio pensa sempre con misericordia: è il Padre misericordioso! Dio pensa come il padre che attende il ritorno del figlio e gli va incontro, lo vede venire quando è ancora lontano… Questo che significa? Che tutti i giorni andava a vedere se il figlio tornava a casa: questo è il nostro Padre misericordioso. E’ il segno che lo aspettava di cuore nella terrazza della sua casa. Dio pensa come il samaritano che non passa vicino al malcapitato commiserandolo o guardando dall’altra parte, ma soccorrendolo senza chiedere nulla in cambio; senza chiedere se era ebreo, se era pagano, se era samaritano, se era ricco, se era povero: non domanda niente. Non domanda queste cose, non chiede nulla. Va in suo aiuto: così è Dio. Dio pensa come il pastore che dona la sua vita per difendere e salvare le pecore.

La Settimana Santa è un tempo di grazia che il Signore ci dona per aprire le porte del nostro cuore, della nostra vita, delle nostre parrocchie - che pena tante parrocchie chiuse! - dei movimenti, delle associazioni, ed “uscire” incontro agli altri, farci noi vicini per portare la luce e la gioia della nostra fede. Uscire sempre! E questo con amore e con la tenerezza di Dio, nel rispetto e nella pazienza, sapendo che noi mettiamo le nostre mani, i nostri piedi, il nostro cuore, ma poi è Dio che li guida e rende feconda ogni nostra azione.

Auguro a tutti di vivere bene questi giorni seguendo il Signore con coraggio, portando in noi stessi un raggio del suo amore a quanti incontriamo.

[Papa Francesco, Udienza Generale 27 marzo 2013]

(Mt 16,13-19)

 

A oltre metà della sua vita pubblica Gesù non ha ancora dato formule, ma fa una domanda impegnativa - che ha la pretesa di chiederci molto più delle usuali espressioni con struttura di legge.

Globalmente la folla può averlo accostato a personaggi eminenti come il Battista [colui che ha dimostrato di essere estraneo alle cortigianerie] o Elia [per la sua attività di denuncia degli idoli] o Geremia [l’oppositore della compravendita di benedizioni].

Ma Egli non è venuto - come i profeti antichi - a migliorare la situazione o rabberciare devozioni, né a purificare il Tempio, bensì a sostituirlo!

Le immagini della tradizione raffigurano Cristo in molti modi (per gli atei un filantropo), il più diffuso dei quali è ancora quello di un Signore antico, garante di comportamenti convenzionali.

Egli invece - per farci riflettere - porta i discepoli in un ambiente di cantiere [a nord della Palestina, Cesarea di Filippo era in costruzione], lontano dalla nomenclatura interessata della Città “santa”.

 

La mentalità comune valutava la riuscita della vita - e la verità di una religione - sulla base del successo, del dominio, dell’arricchimento, delle sicurezze in genere.

Il quesito che Gesù pone ai suoi fa trapelare una novità che soppianta tutto il sistema: la Chiamata si rivolge a ogni singola persona.

È una proposta di confine, al pari del luogo geografico simbolico della capitale del regno di Filippo, uno dei tre figli eredi di Erode il Grande: in Palestina, il punto più lontano dal centro della religiosità conformista.

Il Volto del «Figlio dell’uomo» è riconoscibile solo ponendo la massima distanza da schemi politici e veterani - altrimenti anche noi non saremmo in grado di percepirne la ‘luce’ personale.

Nella comunità di Mt si stava appunto facendo esperienza di una sempre più larga partecipazione di pagani, che prima si sentivano degli esclusi e man mano si integravano.

 

Per la nostra mentalità, le chiavi di casa servono a chiudere e serrare il portone, per non far entrare i malintenzionati.

In quella semitica, erano piuttosto icona dell’apertura dell’uscio.

 

Nel celebre capolavoro del Perugino sulla parete nord della Cappella Sistina, Gesù consegna al capo della Chiesa due chiavi: quella d’oro del Paradiso e quella d’argento del Purgatorio.

Ma il senso del brano non è l’Aldilà - anzi, non è neppure istituzionale. In ebraico il termine ‘chiave’ è derivante dal verbo ‘aprire’!

Massimo compito missionario dei responsabili di comunità è tenere il Regno dei Cieli spalancato, ossia garantire una Chiesa accogliente!

Pietro non deve ricalcare il tipo del monarca arrogante, immagine dell’autorità; sostitutiva dell’imperatore.

Simone deve farsi primo responsabile dell’accettazione di coloro che sono fuori.

Sembra strano per qualsiasi proposta antica, ove si supponeva che Dio temesse di rendersi impuro nel contatto col mondo.

Il Padre è Colui che osa di più.

Questo il motivo per cui Gesù impone severamente un totale silenzio messianico (v.20) alle labbra e al cervello antico degli Apostoli.

 

Pietro e i discepoli volevano tornare all’idea consueta de «il» Messia [cf. testo greco] atteso da tutti.

Un canovaccio troppo normale, incapace di rigenerarci.

 

 

[Ss. Pietro e Paolo, 29 giugno]

 

Solennità dei Ss. Pietro e Paolo,  29 giugno

 

Dissimili: differenza fra religiosità e Fede (la Chiesa che verrà)

 

In un’identica data la Chiesa celebra Discepoli dissimili.

Entrambi del tutto lontani da modelli di santità conforme e non eccentrica - anzi divagante, non rassicurante né quieta.

Uno cresce accumulando esperienze incerte: un po’ Pietro (testardo e ostile), un po’ Simone (discepolo, ma raramente), un po’ Simon Pietro (pro e contro, coi piedi in due staffe).

L’altro cresce sì, ma per caduta immediata dall’ideologia dello stare e sentirsi più puro e in alto degli altri:

in un attimo, dal “destriero” focoso dei capi e giudicanti, al ceto popolare capace di ascolto e benevolenza.

D’improvviso, da Saulo a Paolo.

Il primo, Apostolo per smania e lunga consuetudine [nell’andirivieni], l’altro per Chiamata diretta. Non per imposizione di mani da parte di superiori dalla vita pia che avrebbero dovuto saperla più lunga di lui.

Vocazione immediata - essa sconvolge, capovolge il modo di vedere.

Nessuno dei due Protagonisti, figlio devoto e obbediente: entrambi piuttosto cocciuti e smaniosi, ma ciascuno a modo suo; in maniera incerta e diplomatica, o tagliente.

A lungo inquieti e persino oppositori del Cristo.

 

Anche nell’Annuncio, nella Catechesi, nell’Animazione, nella Pastorale e nelle opere di carità iniziamo ad accorgerci che il punto di partenza dell’Evangelizzazione non è quello solito, rassicurante, che solo insegna agli altri [e trasmette finte sicurezze].

L’input è suscitare interrogativi, che coinvolgono in prima persona.

E qualsiasi iniziativa è utile in primo luogo a migliorare chi la propone - non le folle che non avrebbero consapevolezze.

Questo il perno dell’atteggiamento verso il bene pieno e la realizzazione di ogni essere umano.

 

Nell’unità della Fede confluiscono diversità di Doni.

Non siamo chiamati a fare i paternalisti, né i pompieri: subito a spegnere fuocherelli che neppure conosciamo ma ardono bene (solo oltre la cappa del camino di casa nostra).

La Chiesa che verrà dipende anche dalla nostra forma mentis.

Cardine della Tradizione viva è credere nel mondo a venire - non malgrado, bensì grazie alle sue difformità.

L’amore divino si manifesta, si fa presente, interviene in molti modi.

Le scintille che alimentano la Fiamma dello Spirito sono variegate: tutte illuminano e riscaldano il mondo... a meno che non le si costruisca attorno un muro di refrattari.

Ciò talora capita sul territorio, ad opera di cordate. Con giovani astuzie già normalizzate, o parrucconi timorosi di perdere privilegi sui quali galleggiano.

Un panorama di astuzie e acque chete, già morta.

 

Ma nel Cristo personale anche la nostra insicurezza apre sentieri inesplorati verso nuovi mondi.

Ogni missionario conosce la sua ‘certezza’ qual frutto d’un punto interrogativo.

Valore aggiunto che non sa; prodotto d’una forza primordiale che sorge dal caos delle sue o altrui prevedibilità.

La formazione variegata e persino lo scompiglio delle sfaccettature diventano luogo della Pace.

Possibilità d’Immenso, invece che appiglio per un arretramento sotto pena di castigo tipico di condanne religiose.

 

Mentre dottrina e disciplina inoculano certezze e aspettative ostinate che ci farebbero viaggiare solo su binari già tracciati, la Fede si lascia guidare dalla Provvidenza manifestata nella vita reale, che sorprende.

Un’adesione, una Relazione creativa - la Fede - dalla misteriosa Energia, sempre pura, nitida, trasparente, intatta, incontaminata.

Appello per Nome che porta a tu per tu con noi stessi e Dio, senza mai spersonalizzare.

Solo così rendendo concordi. È la chiesa che verrà.

Infatti, gli incerti che non sanno tirare subito le somme vanno sino in fondo: non abbandonano, non emarginano, non tradiscono; non usano la posizione religiosa come un’arma di ricatto.

Non fanno il male.

 

«Quando il tessitore alza un piede, l’altro si abbassa. Quando il movimento cessa e uno dei piedi si ferma, il tessuto non si fa più. Le sue mani lanciano la spola che passa dall’una all’altra; ma nessuna mano può sperare di tenerla. Come i gesti del tessitore, è l’unione dei contrari a tessere la nostra vita».

[Tradizione orale africana Peul]

 

Omaggio al Poliedro e non allo Sfero. Diversità e Pluralità significa spazio per ciascuno di noi, così com’è. Dilatato, non “migliore”.

Non omogeneo, non regolare, non omologato. Anche se la catena di comando locale non vuole.

Omaggio alla chiesa? Non quella uniforme e standard. La strana coppia Pietro e Paolo non lo è stata.

 

Omaggio alla Chiesa, Omaggio alla vita.

Sabato, 21 Giugno 2025 03:11

Chi Sono, le Chiavi, la Fede, il Nome

Chi sono per voi, e le Chiavi della comunità aperta

(Mt 16,13-23)

 

A oltre metà della sua vita pubblica Gesù non ha ancora dato formule, ma fa una domanda impegnativa - che ha la pretesa di chiederci molto più delle usuali espressioni con struttura di legge.

Globalmente la folla può averlo accostato a personaggi eminenti come il Battista [colui che ha dimostrato di essere estraneo alle cortigianerie] o Elia [per la sua attività di denuncia degli idoli] o Geremia [l’oppositore della compravendita di benedizioni].

Ma Egli non è venuto - come i profeti antichi - a migliorare la situazione o rabberciare devozioni, né a purificare il Tempio, bensì a sostituirlo!

Le immagini della tradizione raffigurano Cristo in molti modi (per gli atei un filantropo), il più diffuso dei quali è ancora quello di un Signore antico, garante di comportamenti convenzionali.

Egli invece - per farci riflettere - porta i discepoli in un ambiente di cantiere [a nord della Palestina, Cesarea di Filippo era in costruzione], lontano dalla nomenclatura interessata della Città “santa”.

 

La mentalità comune valutava la riuscita della vita - e la verità di una religione - sulla base del successo, del dominio, dell’arricchimento, delle sicurezze in genere.

Il quesito che Gesù pone ai suoi fa trapelare una novità che soppianta tutto il sistema: la Chiamata si rivolge a ogni singola persona.

È una proposta di confine, al pari del luogo geografico simbolico della capitale del regno di Filippo, uno dei tre figli eredi di Erode il Grande: in Palestina, il punto più lontano dal centro della religiosità conformista.

Il Volto del «Figlio dell’uomo» è riconoscibile solo ponendo la massima distanza da schemi politici e veterani - altrimenti anche noi non saremmo in grado di percepirne la ‘luce’ personale.

Nella comunità di Mt si stava appunto facendo esperienza di una sempre più larga partecipazione di pagani, che prima si sentivano degli esclusi e man mano si integravano.

 

Per la nostra mentalità, le chiavi di casa servono a chiudere e serrare il portone, per non far entrare i malintenzionati.

In quella semitica, erano piuttosto icona dell’apertura dell’uscio.

 

Nel celebre capolavoro del Perugino sulla parete nord della Cappella Sistina, Gesù consegna al capo della Chiesa due chiavi: quella d’oro del Paradiso e quella d’argento del Purgatorio.

Ma il senso del brano non è l’Aldilà - anzi, non è neppure istituzionale. In ebraico il termine ‘chiave’ è derivante dal verbo ‘aprire’!

Massimo compito missionario dei responsabili di comunità è tenere il Regno dei Cieli spalancato, ossia garantire una Chiesa accogliente!

Pietro non deve ricalcare il tipo del monarca arrogante, immagine dell’autorità; sostitutiva dell’imperatore.

Simone deve farsi primo responsabile dell’accettazione di coloro che sono fuori.

Sembra strano per qualsiasi proposta antica, ove si supponeva che Dio temesse di rendersi impuro nel contatto col mondo.

Il Padre è Colui che osa di più.

Questo il motivo per cui Gesù impone severamente un totale silenzio messianico (v.20) alle labbra e al cervello antico degli Apostoli.

 

Pietro e i discepoli volevano tornare all’idea consueta de «il» Messia [cf. testo greco] atteso da tutti.

Un canovaccio troppo normale, incapace di rigenerarci.

 

 

Ma voi chi dite che io sia? La Fede di Pietro

 

Prendere distanza da ciò che si spera

 

Gesù guida i suoi lontano dal territorio dell’ideologia di potere e dal centro sacro dell’istituzione religiosa ufficiale - la Giudea.

Il Signore vuole che i suoi intimi prendano distanza da limitazioni e apprezzamenti.

Il relativo successo ottenuto dal Maestro in Galilea aveva infatti ravvivato le speranze di gloria (unilaterale) degli apostoli.

Il territorio di Cesarea di Filippo, all’estremo nord della Palestina, era incantevole; celebre per fertilità e pascoli rigogliosi. Zona famosa per la bellezza del contesto e la fecondità di greggi e armenti.

Anche i discepoli restano affascinati dal paesaggio e dalla vita agiata degli abitanti della regione; per non dire della magnificenza dei palazzi.

Il richiamo del contesto allude alle agiatezze che la religione pagana in genere propone; prosperità eccessiva che incantava i Dodici.

Cristo chiede agli apostoli - in pratica - cosa la gente si aspettasse da Lui. Così vuole si rendano conto degli effetti nefasti della loro stessa predicazione.

“Annuncio” che volentieri confondeva benedizioni materiali e spirituali.

 

Mentre gli Dei mostrano di saper colmare di beni i loro devoti - e una sfarzosa vita di corte che (appunto) ammaliava tutti - Cristo cosa offre?

Il Maestro si accorge che i discepoli erano ancora fortemente condizionati dalla propaganda del governo politico e religioso [vv.6.11] che assicurava benessere [vv.5-12; cf. Mt 15,32-38].

E Gesù li istruisce ancora, affinché almeno i suoi inviati possano superare la cecità e la crisi prodotta dalla sua Croce (v.21), dall’impegno richiesto nell’ottica del dono di sé.

Egli non è solo un continuatore dell’atteggiamento limpido del Battista, mai incline al compromesso nei confronti delle corti e dell’opulenza; né uno dei tanti restauratori della legge di Mosè, con lo zelo di Elia.

Neppure voleva limitarsi a purificare la religione da elementi spuri, ma addirittura sostituirsi al Tempio [Mt 21,12-17.18-19.42; 23,2.37-39; 24,30] - luogo dell’incontro tra il Padre e i suoi figli.

 

Su tale questione, in quel momento erano particolarmente vive le distanze non solo col paganesimo, ma anche le contrapposizioni tra giudei convertiti al Signore e osservanti secondo tradizione.

Infatti, nei libri sacri del giudaismo tardivo si parlava di grandi personaggi che avevano lasciato un’impronta nella storia d’Israele, e avrebbero dovuto riapparire per inaugurare i tempi messianici.

Anche all’interno delle comunità perseguitate di Galilea e Siria, Mt constata una scarsa capacità di comprensione, e tutta la difficoltà di abbracciare la nuova proposta - la quale non garantiva successo e riconoscimenti, né traguardi immediati.

(Sin dalle prime generazioni ci si rendeva conto che la Fede non si accorda facilmente con i primi impulsi umani: è invece sconcertante, per le vedute ovvie e le sue pulsioni).

Così il Maestro contraddice lo stesso Pietro [vv.20.23] la cui opinione restava legata all’idea conformista e popolaresca de «il» [vv.16.20: «quel»] Messia atteso.

 

Insomma, il capo degli apostoli - così debole nella Fede - può smetterla di indicare a Cristo quale strada percorrere «dietro» a lui [v.23] deviandolo!

Simone deve ricominciare a fare l’allievo; piantarla di tracciare a tutti vie riconosciute e opportuniste, sequestrando Dio in nome di Dio.

Il Signore è Colui che osa di più.

 

 

Una speciale nota sul tema del Nome:

 

Mentre per la nostra cultura è spesso un’etichetta, fra i popoli orientali il nome è tutt’uno con la persona, e la designa in modo speciale.

Per quanto si evince ad es. nel “secondo” comandamento, la forza del Nome ha un grande peso: è un conoscere il Soggetto (divino) nell’essenza e nel senso dell’agire; quasi un impossessarsi del suo potere.

Anche nella nostra tradizione orante, spirituale e mistica, il Nome proprio (es. Gesù) è stato spesso considerato quasi un’icona acustica della persona, comprensiva delle sue virtù; evocativa della sua presenza e potenza.

Nelle culture antiche, pronunciare il nome significava riuscire a cogliere il seme, il nucleo pregnante e globale della figura di riferimento.

Non di rado, anche nella nostra mentalità ha voluto esprimere un presagio, un mandato, un augurio, una benedizione, una vocazione, un destino, un compito, una chiamata, una missione [nomen (est) omen].

Ma qui si misura la differenza tra mentalità sacrale e Fede. Nelle religioni il nome proprio che il maestro o fondatore dona al discepolo è una sorta di cartello: colui il quale non avesse acume o fortuna, forza e coraggio di realizzarlo, sminuirebbe in dignità.

Invece Cristo coi suoi appellativi ci chiama a percorrere una strada,  certo - ma profondamente commisurata all’essenza.

Egli stimola all’esodo - non secondo modelli - perché prima fa rientrare la persona in se stessa. Affinché tutti ci mettiamo in gioco nel profondo e sino all’estremo che corrisponde.

Primo passo: incontrarci a tutto tondo; nei diversi versanti, anche sorprendenti, inespressi o sconosciuti - in genere, caratteri inimmaginabili secondo regola e nomenclature.

Persino i nostri modi di essere eccentrici, ambigui, in ombra o addirittura rifiutati in prima persona: si riveleranno lungo la Via i lati migliori di noi stessi.

Solo in questo binario plurale troviamo la strada per un’avventura densa di senso; non meccanica, né ripetitiva - bensì somigliante alla vita: sempre nuova e autentica.

Non a partire dalle esteriorità di facciata o di calcolo: c’è una firma d’Autore che precede, nella edificazione di noi stessi e del mondo.

 

Passando fra i diversi cantieri della città di Filippo, Gesù ha invece voluto paragonare Simone ai materiali inerti e accatastati (in modo anche confusionario) che si trovava di fronte.

Quella condizione coglieva la radice delle aspettative apostoliche!

I discepoli non davano ancora spazio al Mistero in loro stessi, all’idea di una salvezza segreta, che erompe con energia propria, innata; che supera i sogni comuni.

Cefa deriva infatti dall’aramaico Kefas: pietra da costruzione; qualcosa di duro: praticamente, un testardo come tanti; nulla di speciale, anzi. Gesù affibbia a Simone un soprannome negativo!

Infatti il termine greco «petros» [v.18] non è nome proprio: indica un sasso (raccolto da terra) che può essere sì utile a una costruzione - se ovviamente si lascia compaginare. E che non solo sostiene, ma è sostenuto; che non solo aggrega, ma viene aggregato.

Attenzione: il termine greco «petra» [v.18] non è il femminile di «petros»: indica «roccia», e si riferisce alla Persona di Cristo unica sicurezza (assieme alla Fede in Lui).

Appellativo che cambia imprevedibilmente tutta una vita. Solo l’Amico interiore infatti trae dal nostro [anche cattivo] bagaglio l’imprevedibile che sgorga.

 

Ciascuno viene cesellato dal Signore secondo il nome Pietro, nel senso di tassello particolare, elemento individuo e speciale.

Collocato in modo singolare ma in un grande mosaico: quello della storia della salvezza, dove ciascuno è contemporaneamente se stesso e in continua fase di rigenerazione.

Unico sentimento di appartenenza delle molte pietre da costruzione (tutte viventi): la convivialità delle differenze, la comunione delle disparate membra fraterne nella Chiesa ministeriale.

Nessuna per sempre, ma ovunque (incessantemente) nuclei pulsanti di un’istituzione sommaria e tutta raccolta da terra... Liberata gratis.

 

 

Solennità dei Ss. Pietro e Paolo,  29 giugno

 

Dissimili: differenza fra religiosità e Fede (la Chiesa che verrà)

 

In un’identica data la Chiesa celebra Discepoli dissimili.

Entrambi del tutto lontani da modelli di santità conforme e non eccentrica - anzi divagante, non rassicurante né quieta.

Uno cresce accumulando esperienze incerte: un po’ Pietro (testardo e ostile), un po’ Simone (discepolo, ma raramente), un po’ Simon Pietro (pro e contro, coi piedi in due staffe).

L’altro cresce sì, ma per caduta immediata dall’ideologia dello stare e sentirsi più puro e in alto degli altri:

in un attimo, dal “destriero” focoso dei capi e giudicanti, al ceto popolare capace di ascolto e benevolenza.

D’improvviso, da Saulo a Paolo.

Il primo, Apostolo per smania e lunga consuetudine [nell’andirivieni], l’altro per Chiamata diretta. Non per imposizione di mani da parte di superiori dalla vita pia che avrebbero dovuto saperla più lunga di lui.

Vocazione immediata - essa sconvolge, capovolge il modo di vedere.

Nessuno dei due Protagonisti, figlio devoto e obbediente: entrambi piuttosto cocciuti e smaniosi, ma ciascuno a modo suo; in maniera incerta e diplomatica, o tagliente.

A lungo inquieti e persino oppositori del Cristo.

 

Anche nell’Annuncio, nella Catechesi, nell’Animazione, nella Pastorale e nelle opere di carità iniziamo ad accorgerci che il punto di partenza dell’Evangelizzazione non è quello solito, rassicurante, che solo insegna agli altri [e trasmette finte sicurezze].

L’input è suscitare interrogativi, che coinvolgono in prima persona.

E qualsiasi iniziativa è utile in primo luogo a migliorare chi la propone - non le folle che non avrebbero consapevolezze.

Questo il perno dell’atteggiamento verso il bene pieno e la realizzazione di ogni essere umano.

 

Nell’unità della Fede confluiscono diversità di Doni.

Non siamo chiamati a fare i paternalisti, né i pompieri: subito a spegnere fuocherelli che neppure conosciamo ma ardono bene (solo oltre la cappa del camino di casa nostra).

La Chiesa che verrà dipende anche dalla nostra forma mentis.

Cardine della Tradizione viva è credere nel mondo a venire - non malgrado, bensì grazie alle sue difformità.

L’amore divino si manifesta, si fa presente, interviene in molti modi.

Le scintille che alimentano la Fiamma dello Spirito sono variegate: tutte illuminano e riscaldano il mondo... a meno che non le si costruisca attorno un muro di refrattari.

Ciò talora capita sul territorio, ad opera di cordate. Con giovani astuzie già normalizzate, o parrucconi timorosi di perdere privilegi sui quali galleggiano.

Un panorama di astuzie e acque chete, già morta.

 

Ma nel Cristo personale anche la nostra insicurezza apre sentieri inesplorati verso nuovi mondi.

Ogni missionario conosce la sua ‘certezza’ qual frutto d’un punto interrogativo.

Valore aggiunto che non sa; prodotto d’una forza primordiale che sorge dal caos delle sue o altrui prevedibilità.

La formazione variegata e persino lo scompiglio delle sfaccettature diventano luogo della Pace.

Possibilità d’Immenso, invece che appiglio per un arretramento sotto pena di castigo tipico di condanne religiose.

 

Mentre dottrina e disciplina inoculano certezze e aspettative ostinate che ci farebbero viaggiare solo su binari già tracciati, la Fede si lascia guidare dalla Provvidenza manifestata nella vita reale, che sorprende.

Un’adesione, una Relazione creativa - la Fede - dalla misteriosa Energia, sempre pura, nitida, trasparente, intatta, incontaminata.

Appello per Nome che porta a tu per tu con noi stessi e Dio, senza mai spersonalizzare.

Solo così rendendo concordi. È la chiesa che verrà.

Infatti, gli incerti che non sanno tirare subito le somme vanno sino in fondo: non abbandonano, non emarginano, non tradiscono; non usano la posizione religiosa come un’arma di ricatto.

Non fanno il male.

 

«Quando il tessitore alza un piede, l’altro si abbassa. Quando il movimento cessa e uno dei piedi si ferma, il tessuto non si fa più. Le sue mani lanciano la spola che passa dall’una all’altra; ma nessuna mano può sperare di tenerla. Come i gesti del tessitore, è l’unione dei contrari a tessere la nostra vita».

[Tradizione orale africana Peul]

 

Omaggio al Poliedro e non allo Sfero. Diversità e Pluralità significa spazio per ciascuno di noi, così com’è. Dilatato, non “migliore”.

Non omogeneo, non regolare, non omologato. Anche se la catena di comando locale non vuole.

Omaggio alla chiesa? Non quella uniforme e standard. La strana coppia Pietro e Paolo non lo è stata.

 

Omaggio alla Chiesa, Omaggio alla vita.

 

Sabato, 21 Giugno 2025 03:07

Molteplicità che diventa Unità

Cattolicità significa universalità – molteplicità che diventa unità; unità che rimane tuttavia molteplicità. Dalla parola di Paolo sulla universalità della Chiesa abbiamo già visto che fa parte di questa unità la capacità dei popoli di superare se stessi, per guardare verso l’unico Dio. Il vero fondatore della teologia cattolica, sant'Ireneo di Lione, ha espresso questo legame tra cattolicità e unità in modo molto bello: "Questa dottrina e questa fede la Chiesa disseminata in tutto il mondo custodisce diligentemente formando quasi un'unica famiglia: la stessa fede con una sola anima e un solo cuore, la stessa predicazione, insegnamento, tradizione come avesse una sola bocca. Diverse sono le lingue secondo le regioni, ma unica e medesima è la forza della tradizione. Le Chiese di Germania non hanno una fede o tradizione diversa, come neppure quelle di Spagna, di Gallia, di Egitto, di Libia, dell'Oriente, del centro della terra; come il sole creatura di Dio è uno solo e identico in tutto il mondo, così la luce della vera predicazione splende dovunque e illumina tutti gli uomini che vogliono venire alla cognizione della verità" (Adv. haer. I 10,2). L'unità degli uomini nella loro molteplicità è diventata possibile perché Dio, questo unico Dio del cielo e della terra, si è mostrato a noi; perché la verità essenziale sulla nostra vita, sul nostro "di dove?" e "verso dove?", è diventata visibile quando Egli si è mostrato a noi e in Gesù Cristo ci ha fatto vedere il suo volto, se stesso. Questa verità sull’essenza del nostro essere, sul nostro vivere e sul nostro morire, verità che da Dio si è resa visibile, ci unisce e ci fa diventare fratelli. Cattolicità e unità vanno insieme. E l’unità ha un contenuto: la fede che gli Apostoli ci hanno trasmesso da parte di Cristo.

[Papa Benedetto, 29 giugno 2005]

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Are we not perhaps all afraid in some way? If we let Christ enter fully into our lives, if we open ourselves totally to him, are we not afraid that He might take something away from us? Are we not perhaps afraid to give up something significant, something unique, something that makes life so beautiful? Do we not then risk ending up diminished and deprived of our freedom? (Pope Benedict)
Non abbiamo forse tutti in qualche modo paura - se lasciamo entrare Cristo totalmente dentro di noi, se ci apriamo totalmente a lui – paura che Egli possa portar via qualcosa della nostra vita? Non abbiamo forse paura di rinunciare a qualcosa di grande, di unico, che rende la vita così bella? Non rischiamo di trovarci poi nell’angustia e privati della libertà? (Papa Benedetto)
For Christians, volunteer work is not merely an expression of good will. It is based on a personal experience of Christ (Pope Benedict)
Per i cristiani, il volontariato non è soltanto espressione di buona volontà. È basato sull’esperienza personale di Cristo (Papa Benedetto)
"May the peace of your kingdom come to us", Dante exclaimed in his paraphrase of the Our Father (Purgatorio, XI, 7). A petition which turns our gaze to Christ's return and nourishes the desire for the final coming of God's kingdom. This desire however does not distract the Church from her mission in this world, but commits her to it more strongly [John Paul II]
‘Vegna vêr noi la pace del tuo regno’, esclama Dante nella sua parafrasi del Padre Nostro (Purgatorio XI,7). Un’invocazione che orienta lo sguardo al ritorno di Cristo e alimenta il desiderio della venuta finale del Regno di Dio. Questo desiderio però non distoglie la Chiesa dalla sua missione in questo mondo, anzi la impegna maggiormente [Giovanni Paolo II]
Let our prayer spread out and continue in the churches, communities, families, the hearts of the faithful, as though in an invisible monastery from which an unbroken invocation rises to the Lord (John Paul II)
La nostra preghiera si diffonda e continui nelle chiese, nelle comunità, nelle famiglie, nei cuori credenti, come in un monastero invisibile, da cui salga al Signore una invocazione perenne (Giovanni Paolo II)
"The girl is not dead, but asleep". These words, deeply revealing, lead me to think of the mysterious presence of the Lord of life in a world that seems to succumb to the destructive impulse of hatred, violence and injustice; but no. This world, which is yours, is not dead, but sleeps (Pope John Paul II)
“La bambina non è morta, ma dorme”. Queste parole, profondamente rivelatrici, mi inducono a pensare alla misteriosa presenza del Signore della vita in un mondo che sembra soccombere all’impulso distruttore dell’odio, della violenza e dell’ingiustizia; ma no. Questo mondo, che è vostro, non è morto, ma dorme (Papa Giovanni Paolo II)
Today’s Gospel passage (cf. Lk 10:1-12, 17-20) presents Jesus who sends 72 disciples on mission, in addition to the 12 Apostles. The number 72 likely refers to all the nations. Indeed, in the Book of Genesis 72 different nations are mentioned (cf. 10:1-32) [Pope Francis]
L’odierna pagina evangelica (cfr Lc 10,1-12.17-20) presenta Gesù che invia in missione settantadue discepoli, in aggiunta ai dodici apostoli. Il numero settantadue indica probabilmente tutte le nazioni. Infatti nel libro della Genesi si menzionano settantadue nazioni diverse (cfr 10,1-32) [Papa Francesco]

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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