don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Domenica, 19 Ottobre 2025 04:12

Donne

1. Quando si parla della dignità e della missione della donna secondo la dottrina e lo spirito della Chiesa, occorre avere gli occhi al Vangelo, alla cui luce il cristiano tutto vede, esamina, giudica.

Nella precedente catechesi abbiamo proiettato la luce della Rivelazione sull’identità e il destino della donna, presentando come segnacolo la Vergine Maria, secondo le indicazioni del Vangelo. Ma in quella stessa fonte divina troviamo altri segni della volontà di Cristo riguardo alla donna. Egli ne parla con rispetto e bontà, mostrando nel suo atteggiamento la volontà di accogliere la donna e di richiedere il suo impegno nell’instaurazione del Regno di Dio nel mondo.

2. Possiamo ricordare anzitutto i numerosi casi di guarigione di donne (cf. Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem, 13). E quegli altri in cui Gesù rivela il suo cuore di Salvatore, pieno di tenerezza negli incontri con coloro che soffrono, siano uomini o donne. “Non piangere!” dice alla vedova di Nain (Lc 7, 13). E poi le restituisce il figlio risuscitato da morte. Questo episodio lascia intravedere quale doveva essere il sentimento intimo di Gesù verso la sua madre, Maria, nella prospettiva drammatica della partecipazione alla propria Passione e Morte. Anche alla figlia morta di Giairo Gesù parla con tenerezza: “Fanciulla, io ti dico, alzati!”. E, risuscitatala, ordina “di darle da mangiare” (Mc 5, 41.43). Ancora, manifesta la sua simpatia per la donna curva, che egli guarisce: e in questo caso, con l’allusione a Satana, fa pensare anche alla salvezza spirituale che arreca a quella donna (cf. Lc 13, 10-17).

3. In altre pagine del Vangelo troviamo espressa l’ammirazione di Gesù per la fede di alcune donne. Ad esempio, nel caso dell’emorroissa: “La tua fede ti ha salvata” (Mc 5, 34), le dice. È un elogio che ha tanto più valore in quanto la donna era stata oggetto della segregazione imposta dalla legge antica. Gesù libera la donna anche da questa oppressione sociale. A sua volta, la cananea riceve da Gesù il riconoscimento: “Donna, davvero grande è la tua fede” (Mt 15, 28). È un elogio che ha un significato tutto particolare, se si pensa che era rivolto ad una straniera per il mondo di Israele. Possiamo ancora ricordare l’ammirazione di Gesù per la vedova che offre il suo obolo nel tesoro del tempio (cf. Lc 21, 1-4); e il suo apprezzamento per il servizio che riceve da Maria di Betania (cf. Mt 26, 6-13; Mc 14, 3-9; Gv 12, 1-8), il cui gesto - egli annuncia - sarà portato a conoscenza di tutto il mondo.

4. Anche nelle sue parabole Gesù non esita a portare similitudini ed esempi tratti dal mondo femminile, a differenza del midrash dei rabbini, dove compaiono solo figure maschili. Gesù si riferisce sia a donne che a uomini. Volendo fare un raffronto, si potrebbe forse dire che il vantaggio è dalla parte delle donne. Ciò significa, quanto meno, che Gesù evita persino l’apparenza di una attribuzione di inferiorità alla donna.

E ancora: Gesù apre l’accesso del suo Regno alle donne come agli uomini. Aprendolo alle donne, egli vuole aprirlo ai bambini. Quando dice: “Lasciate che i bambini vengano a me” (Mc 10, 14), egli reagisce alla sorveglianza dei discepoli che volevano impedire alle donne di presentare i loro figli al Maestro. Si direbbe che egli dia ragione alle donne e al loro amore per i bambini!

Nel suo ministero, Gesù è accompagnato da numerose donne, che lo seguono e rendono servizio a lui e alla comunità dei discepoli (cf. Lc 8, 1-3). È un fatto nuovo, rispetto alla tradizione giudaica. Gesù, che ha attirato quelle donne alla sua sequela, anche in questo modo manifesta il superamento dei pregiudizi diffusi nel suo ambiente, come in buona parte del mondo antico, sull’inferiorità della donna. Nella sua lotta contro le ingiustizie e le prepotenze rientra anche questa sua esclusione delle discriminazioni tra le donne e gli uomini nella sua Chiesa (cf. Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem, 13).

5. Non possiamo non aggiungere che dal Vangelo risulta la benevolenza di Gesù anche verso alcune peccatrici, alle quali chiede il pentimento, ma senza infierire contro di esse per i loro sbagli, tanto più che questi comportano una corresponsabilità dell’uomo. Alcuni episodi sono molto significativi: la donna che si reca nella casa del fariseo Simone (cf. Lc 7, 36-50) non è solo perdonata dei peccati, ma anche elogiata per il suo amore; la samaritana è trasformata in messaggera della nuova fede (cf. Gv 4, 7-37); la donna adultera riceve, col perdono, la semplice esortazione a non peccare più (cf. Gv 8, 3-11); (Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem, 14). Senza dubbio non vi è in Gesù acquiescenza dinanzi al male, al peccato, da chiunque sia commesso: ma quanta comprensione della fragilità umana e quale bontà verso chi già soffre per la propria miseria spirituale, e più o meno coscientemente cerca in lui il Salvatore!

6. Il Vangelo infine attesta che Gesù chiama espressamente le donne a cooperare alla sua opera salvifica. Non solo le ammette a seguirlo per rendere servizio a lui e alla comunità dei discepoli, ma chiede loro altre forme di impegno personale. Così, chiede a Marta l’impegno nella fede (cf. Gv 11, 26-27): ed essa, rispondendo all’invito del Maestro, fa la sua professione di fede prima della risurrezione di Lazzaro. Dopo la Risurrezione, affida alle pie donne che erano andate al sepolcro e a Maria di Magdala l’incarico di trasmettere il suo messaggio agli Apostoli (cf. Mt 28, 8-10; Gv 20,17-18): “Le donne furono così le prime messaggere della Risurrezione di Cristo per gli stessi Apostoli” (Cathechismus Catholicae Ecclesiae, 641). Sono segni abbastanza eloquenti della sua volontà di impegnare anche le donne nel servizio al Regno.

7. Questo comportamento di Gesù ha la sua spiegazione teologica nell’intento di unificare l’umanità. Egli, come dice San Paolo, ha voluto riconciliare tutti gli uomini, mediante il suo sacrificio, “in un solo corpo” e fare di tutti “un solo uomo nuovo” (Ef 2, 15.16), cosicché ora “non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 28). Ed ecco la conclusione della nostra catechesi: se Gesù Cristo ha riunito l’uomo e la donna nell’uguaglianza della condizione di figli di Dio, Egli impegna ambedue nella sua missione, non sopprimendo affatto la diversità, ma eliminando ogni ingiusta ineguaglianza, e tutti riconciliando nell’unità della Chiesa.

8. La storia delle prime comunità cristiane attesta il grande contributo che le donne hanno portato alla evangelizzazione: a cominciare da “Febe, nostra sorella, - come la qualifica San Paolo - diaconessa della Chiesa di Cencre:  . . . anch’essa - egli dice - ha protetto molti, e anche me stesso” (Rm 16, 1-2). Mi è caro rendere qui omaggio alla memoria di lei e delle tante altre collaboratrici degli Apostoli a Cencre, a Roma e in tutte le comunità cristiane. Con esse ricordiamo ed esaltiamo anche tutte le altre donne - religiose e laiche - che nei secoli hanno testimoniato il Vangelo e trasmesso la fede, esercitando un grande influsso sulla fioritura di un clima cristiano nella famiglia e nella società.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 6 luglio 1994]

Domenica, 19 Ottobre 2025 03:59

Vicinanza: toccare la carne dell’altro

Ci sono cinque verbi «di vicinanza» che Gesù vive in prima persona e indicano i criteri del «protocollo finale»: vedere, chiamare, parlare, toccare e guarire. Su questo saranno giudicati non solo i pastori, i primi a correre il rischio di essere «ipocriti», ma tutti gli uomini. Con l’avvertenza che non bastano belle parole e buone maniere, perché Gesù ci chiede di toccare con mano la carne dell’altro, soprattutto se sofferente. È questa «la strada del buon pastore» che il Papa ha indicato nella messa celebrata lunedì 30 ottobre a Santa Marta.

«In questo passo del Vangelo — ha subito fatto notare Francesco riferendosi al passo di Luca (13, 10–17) — troviamo Gesù non sulla strada com’era sua abitudine ma in sinagoga: il sabato la comunità va in sinagoga a pregare, ad ascoltare la parola di Dio e anche la predica; e Gesù era lì, ascoltando la parola di Dio». Ma «insegnava anche, perché siccome aveva un’autorità, autorità morale tanto grande, lo invitavano a dire una parola», proprio per «insegnare alla gente». E «in sinagoga c’era una donna che era curva, completamente curva, poveretta, e non riusciva a esser dritta: una malattia della colonna che da anni la tratteneva così».

E «cosa fa Gesù? A me colpiscono — ha confidato il Papa — i verbi che usa l’evangelista per dire cosa ha fatto Gesù: “vide”, la vide; “chiamò”, la chiamò; “le disse”; “Impose le mani su di lei e la guarì”». Sono «cinque verbi di vicinanza».

Anzitutto, ha spiegato il Pontefice, «Gesù si avvicinò a lei: l’atteggiamento del buon pastore, la vicinanza». Perché «un buon pastore è vicino, sempre: pensiamo alla parabola del buon pastore che Gesù ha predicato», così «vicino» alla pecora «smarrita che lascia le altre e va a cercarla».

Del resto, ha affermato Francesco, «il buon pastore non può essere lontano dal suo popolo e questo è il segnale di un buon pastore: la vicinanza. Invece gli altri, in questo caso il capo della sinagoga, quel gruppetto di chierici, dottori della legge, alcuni farisei, sadducei, gli illustri, vivevano separati dal popolo, rimproverandolo continuamente». Ma, ha rilanciato il Papa, «questi non erano buoni pastori, erano chiusi nel proprio gruppo e non importava loro del popolo: forse importava loro, quando finiva il servizio religioso, andare a vedere quanti soldi c’erano nelle offerte, questo importava loro, ma non erano vicini al popolo, non erano vicini alla gente».

Ecco che «Gesù sempre si presenta così, vicino», ha fatto presente il Pontefice. E «tante volte appare nel Vangelo che la vicinanza viene da quello che Gesù sente nel cuore: “Gesù si commosse”, dice per esempio un passo del Vangelo, sente misericordia, si avvicina». Per questa ragione «Gesù sempre era lì con la gente scartata da quel gruppetto clericale: c’erano lì i poveri, gli ammalati, i peccatori, i lebbrosi: erano tutti lì perché Gesù aveva questa capacità di commuoversi davanti alla malattia, era un buon pastore». E «un buon pastore si avvicina e ha capacità di commuoversi».

«E io dirò — ha affermato Francesco — che il terzo tratto di un buon pastore è non vergognarsi della carne, toccare la carne ferita, come ha fatto Gesù con questa donna: “toccò”, “impose le mani”, toccò i lebbrosi, toccò i peccatori». È «una vicinanza proprio vicina, vicina». Toccare «la carne», dunque. Perché «un buon pastore non dice: “Ma, sì, sta bene, sì sì, io sono vicino a te nello spirito”». In realtà «questa è una distanza» e non vicinanza.

Invece, ha insistito il Papa, «il buon pastore fa quello che ha fatto Dio Padre, avvicinarsi, per compassione, per misericordia, nella carne del suo Figlio, questo è un buon pastore». E «il grande pastore, il Padre, ci ha insegnato come si fa il buon pastore: si abbassò, si svuotò, svuotò se stesso, si annientò, prese condizione di servo».

Proprio «questa è la strada del buon pastore» ha spiegato il Pontefice. E qui ci si può chiedere: «“Ma, e questi altri, quelli che seguono la strada del clericalismo, a chi si avvicinano?». Costoro, ha risposto Francesco, «si avvicinano sempre o al potere di turno o ai soldi e sono i cattivi pastori: loro pensano soltanto come arrampicarsi nel potere, essere amici del potere e negoziano tutto o pensano alle tasche e questi sono gli ipocriti, capaci di tutto». Di sicuro «non importa del popolo a questa gente. E quando Gesù dice loro quel bell’aggettivo che utilizza tante volte con questi — “ipocriti” — loro si sono offesi: “Ma noi, no, noi seguiamo la legge”». Invece «la gente era contenta: è un peccato del popolo di Dio vedere quando i cattivi pastori sono bastonati; è un peccato, sì, ma hanno sofferto tanto che “godono” di questo un pochettino».

«Pensiamo — è il suggerimento del Pontefice — al buon pastore, pensiamo a Gesù che vede, chiama, parla, tocca e guarisce; pensiamo al Padre che si fa nel suo Figlio carne, per compassione». E «questa è la strada del buon pastore, il pastore che oggi vediamo qui, in questo passo del Vangelo: è una grazia per il popolo di Dio avere dei buoni pastori, pastori come Gesù, che non si vergognano di toccare la carne ferita, che sanno che su questo — non solo loro, anche tutti noi — saremo giudicati: ero affamato, ero in carcere, ero ammalato...».

«I criteri del protocollo finale — ha concluso il Papa — sono i criteri della vicinanza, i criteri di questa vicinanza totale» per «toccare, condividere la situazione del popolo di Dio». E «non dimentichiamo questo: il buon pastore si fa vicino sempre alla gente, sempre, come Dio nostro Padre si è fatto vicino a noi, in Gesù Cristo fatto carne».

[Papa Francesco, s. Marta, in L’Osservatore Romano 31/10/2017]

(Lc 18,9-14)

 

Il meccanismo della retribuzione nega l’esperienza essenziale della vita di Fede: ‘lasciarsi salvare, vivendo di Mistero’ - invece del cerchio concluso d’anguste “giustizie” che non sanno dove andare.

Per introdursi nella novità di Cristo basta aver incontrato se stessi ed essere sinceri: strana santità, accessibile a tutti.

Essa giunge alla realtà, anche più intima: non siamo onnipotenti nel bene; non riusciamo a fare granché di buono a partire dalle sofisticazioni, dalle idee, dai muscoli.

Lasciando spazio all’intervento del Padre, impariamo a confidare in ciò che si riceve, assai più che poggiare sulle aspettative anche altrui, o su quel che ci si propone e impone.

La nostra storia concreta può riflettersi in forma di Preghiera. Ma se il dialogo con Dio non affiora da una percezione penetrante e s’accontenta dei traguardi esterni, l’Ascolto diventa vuoto.

Lo spirito di grandezza anche morale e spirituale, sprofonda inesorabile - e nella miseria vera: quella epidermica.

Non vede l’eccezionalità del Padre: Colui che trasmette vita.

Chi vive di paragoni e ha una sprezzante valutazione dei considerati inferiori, non gode di aperture.

Resta senza spazio né tempo per l’azione dell’essere poliedrico, nella varietà di situazioni.

Sbaglia posto davanti a Dio e al prossimo - negandosi la gioia del Gratis e della Novità.

In tal guisa, mai confida in ciò che è più affidabile di una visione del mondo, o delle proprie iniziative dirigiste.

Non coglie nulla che già non sa, perché non legge dentro.

È in costante monologo: con se stesso [mai giungendo sino in fondo di sé] e quelli della propria cerchia.

Così non contagia felicità - che deriva dallo stupore.

Ultimamente, trova solo teatro, un rimbombo d’eco di voci altrui e a contorno.

Non l'intimità di persona eccezionale e amata così com’è.

Il soggetto della vita religiosa arcaica è infatti il “nostro” - l’io.

Se Gesù avesse chiesto chi dei due potesse tornare a casa giustificato, tutti avrebbero immaginato il fariseo, il ritagliato a parte.

Nella vita di Fede il Soggetto è invece il Mistero, l’Eterno, il Vivente.

È Lui che opera, creando: e anche qui agisce solo Lui.

Giustifica, ossia pone giustizia dov’essa non c’è. L’autosufficiente non ha bisogno.

Questo il reale e regale Principio, motore della nostra realizzazione e della preghiera-ascolto autentica, spoglia di meriti e vanto ma capace di recuperare i ‘lati opposti’.

Dio teme le liturgie e le orazioni individuali inappuntabili, in cui non avviene nulla e da cui si esce senza aver sperimentato la sua «Azione Creatrice» e il suo perdono.

Opera non nostra. Energia e pungolo che anche nell’intimo ci porta Alleanza di ‘volti’, convivialità delle differenze.

Nella vita spirituale e sociale del “poliedro” e del sommario, siamo abilitati a tradurre l’esigenza del ‘con-sentimento’, che il Padre comunica in modo largo e dandoci tempo.

Ben più che una lotta fra opposte visioni del mondo: la Giustizia divina è inedita e crescente - non la si compera con le opere di maniera.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quando mi colgo fariseo e quando pubblicano?

Come posso incontrare me stesso contemplando Dio? E incontrando gli altri?

 

 

[30.a Domenica (anno C), 26 Ottobre 2025]

Fariseo-pubblicano: le due anime, e il Mistero essenziale

(Lc 18,9-14)

 

Dice il Tao Tê Ching (x): «Preserva l’Uno dimorando nelle due anime: sei capace di non farle separare?».

Le tante raffigurazioni e interpretazioni convenzionali dell’episodio ci portano fuori strada.

L’unica parabola ambientata nel Tempio è un vulcano di portata paradossale, straordinaria, che non t’aspetti.

Gli Ebrei pregano in piedi, segno della disponibilità a porre immediatamente in atto ciò che il Signore chiede.

Per noi stare in piedi vuol dire che celebriamo come figli risorti.

Ma qui il fenomeno della religiosità e della morale «stando in piedi, pregava così verso se stesso» (v.11): non dialoga con Dio, né si accorge di nulla!

Forse è convinto di pregare, ma sta facendo tutt’altro: non ascolta, non presta attenzione, non percepisce il messaggio e il senso delle presenze, solo ne prende distanza.

Ricordo nel grande salone della Penitenzieria Apostolica l’epigrafe «Pax omnium rerum tranquillitas ordinis».

Mentalità che se mediata da moralismi approssimativi, non sta con noi; non ci porta, né infonde profondità e relazioni.

Su tale base, se in confessione si fossero presentati i due protagonisti del brano, avrei sentenziato: al fariseo manca l’umiltà, l’altro ripaghi i danni.

Persino la testata de L’Osservatore Romano ribadisce il motto-epigrafe «Unicuique Suum» - principio fondamentale del diritto di proprietà nel mondo latino.

Non basta la Giustizia? [Servirebbe Gesù?].

Il punto è: Conoscere l’Amore, realtà ricca: non scambio di favori con Dio. E assumere la posizione che non inquini né corrompa la vita. Questa tutta la partita.

 

«Io rinuncio, io lascio tutto, io parto, io penso, io dico, io progetto, io sarò impeccabile e fedele facendomi vedere dagli altri sempre “a modo” [ossia come non sono]»: è la filastrocca ideale che ribalta l’avventura di Fede.

Il soggetto dell’uomo religioso è se stesso e ciò che lui fa per Dio - nonché come si atteggia (in modo artificioso); così via.

Ridicolo - non solo profondamente riduttivo. Ma da quest’idea scaturisce la considerazione dell’altro e del diverso come un irrecuperabile.

Invece la vita di ciascuno è zeppa d’interiori antinomie e controfigure.

Proviamo a ribaltare la parabola da un livello moralistico a quello teologico, perché Lc - attenzione - mette in scena il meglio della spiritualità e il peggio della morale del tempo.

Ecco il suo boomerang: vuole avviare una riflessione su noi stessi.

 

«Ladri»: Gesù definisce tali proprio i leaders religiosi e i “farisei” [di ritorno], dentro pieni di rapina, sebbene al di fuori sembrino chissà cosa. 

«Ingiusti»: [tanto per capirci in breve] s. Teresina diceva che Dio è giusto perché tiene conto delle nostre difficoltà.

«Adulteri»: ma l’adulterio teologico è proprio accodarsi a un idolo (qui l’io-padreterno che contempla il sé esterno).

Nel concetto biblico «adulterio» indica propriamente un rapporto devoto scorretto, come con un nume inautentico.

In tal guisa, anche una relazione formale impeccabile - e viceversa lo schierarsi dalla parte del feticcio.

Insomma, il “santo” non si rivolge al Padre, ma al Dio-forma che ha in mente lui - sebbene voglia persino stupirlo di esagerazioni (v.12).

Però non è d’accordo col pensiero dell’Eterno.

Non percepisce il progetto dell’Altissimo: edificare Famiglia umana. Soccorrerci, e arricchire insieme, l’un l’altro.

Quindi non si lascerà mai cambiare - addirittura convinto di riprodurre esattamente il suo genio tutelare.

 

Per i professionisti del sacro maniaci di falsa perfezione, la Salvezza è premio finale d’una scalata individuale.

Non l’Opera ri-creatrice e gratuita d’un Genitore che traghetta le nostre vicende complesse, lasciando spazio e modo affinché evolvano in vita da salvati.

Così l'esperienza sia personale che comunitaria incattivisce, perché la “religione” standard inculca e trattiene un’immagine deforme del proprio carattere, e dell’Ideale.

L’Onnipotente nell’Amore assume nell’inconscio le sembianze del Padrone del Cielo, della terra, e del sottoterra - distributore di premi e castighi.

Qui, devozione prima o poi farà rima con “separazione”.

Invece, Giustificazione allude a un più acuto, rispettoso, sapiente assetto.

Posizione verso Dio [che non è un notaio] e verso l’umanità ch’è tutta nostra; sarebbe puerile averne disprezzo.

 

Genuinità e Spirito vanno in sinergia.

A nessuno Cristo raccomanda di “farsi santo” ossia “separato”, come raccomandato dalla Legge antica (Lv 19,2) e da tutta una spiritualità inappuntabile arcaica.

Il nuovo criterio è comprensivo: la convivialità delle differenze e il recupero fecondo degli opposti. Appunto, l’Amore che fiorisce nella naturalezza.

Se proprio vogliamo, il senso del cammino nello Spirito potrebbe essere identificato nel passaggio critico dal Primo al Nuovo Testamento.

Ma sarebbe ancora troppo banale immaginare che nell’Antico Dio è Giudice forense e nel Nuovo “giudice del cuore”.

La Giustificazione che il Padre opera concerne la forma intima di ciò che “muove”, e il senso di quale motivazione e pungolo ci cambia.

 

Gl’inopportuni scienziati della vita pia hanno sempre tratteggiato la Salvezza quale premio finale di un’arrampicata estenuante.

Mi diceva una povera anima ben motivata, eppur plagiata, vessata e mal guidata: ‘chi più si pista di più s’acquista’.

Invece, quando Dio opera, crea, collocandoci nella giusta attitudine e traghettandoci verso una feconda direzione - non è detto in salita.

Tutto al fine di realizzarci e completarci, non per sfiancare e annientare le linee portanti della nostra personalità, irripetibile, impareggiabile.

Configurazione di equilibri che sappiamo bene essere non ordinaria, non meccanica, non prevedibile.

 

Il Padre non è un allenatore che si compiace solo del più forte dei suoi attaccanti.

Non è attratto dalle virtù di pochi, ma dalle molte necessità di tutti.

Nell’attesa di soluzioni irrisolte, non guarda i meriti delle persone, ma il loro bisogno di essere completate.

Pertanto chi fa il bene non merita assolutamente nulla: deve solo ringraziare la Provvidenza, che lo ha condotto anzitempo sulla strada di un’esperienza di pienezza di essere, sulla Via della Gioia.

Rimanendo appiccicato al suo tronetto, l'arrogante veterano del sacro e della disciplina (e dei modi perbene o da reduce) rimane lì.

Impantanato nell’io che si compiace del “suo” - ripiegato sull’ombelico delle opere di legge con cui voleva comprarsi il beneplacito di Dio - mostrandosi artificiosamente suo amico.

E torna a Casa, ossia in comunità (v.14), uguale a prima: unilaterale, come una sfinge.

Sono i sepolcri imbiancati davanti ai quali dobbiamo inchinarci per baciare le sacre pantofole, altrimenti non si passa.

Sono i separati dal resto della folla, perché per loro la gente può solo essere: utile, o seccante.

Non c’è nulla da fare. Certe persone compiaciute e autosufficienti, che non hanno mai fatto l’esperienza dell’humus e del gratis, Dio non riesce a farle giuste.

Non sono abituate a guardare la realtà, neppure la propria - ma a sottolineare ogni separazione che disdegna. E unicamente ciò ch’è prescritto; da cui non si esce.

 

Sembrano uomini tutti d’un pezzo e che posseggono un elevato senso della esclusività divina.

Tuttavia in loro non esistono energie spirituali profonde - quelle che sanno vedere oltre, sino a cogliere le fragranze più variegate.

Primi a non sapersi affidare al Mistero, continuano ad appestare l’aria, certissimi del loro rango spirituale e dei riconoscimenti - pretendendo (ovviamente) dazi ovunque si concedano.

Neppure il Padre riesce a giustificarli, ossia a collocarli nel punto giusto di fronte a Lui e ai fratelli.

Il senso di santità da cui si sentono ammantati li porta al disdegno altrui, e non c’è verso.

 

Come discernere anche in noi le tracce della presunzione religiosa? È il tema rilevante della parabola (v.9).

Dalla stessa Preghiera si capisce che il nostro stesso volto possiede un’immagine martellante e diabolica dell’Eterno.

Come fosse uno che fa il contabile, ossia che paga secondo i meriti e castiga secondo colpe.

Mentre il Dio biblico dona in pura perdita. Perché?

Nello Spirito cogliamo in noi un’energia che deve realizzare la sua opera nell’attimo [così frequentemente senza eguali], o nel ritmo anche sconnesso degli accadimenti molteplici e delle relazioni.

Qui intuiamo la deità parziale e paradossale dei ‘compagni di viaggio’ - come l’irreprensibile e il peccatore, che ci ricordano la Missione.

Personaggi compresenti nell’anima: deviazioni uniche, che integrano e perfezionano, diventando la nostra irripetibile Originalità.

 

La vita di Fede e la Preghiera portano sì a guarigione, ma talora paiono scomparire, come se ci avvicinassimo al trasgressore del Vangelo.

Danno risposte, ma a volte esse sembrano anche fortuite.

Hanno il medesimo passo disorganico e interrotto (il reale cambiamento arriva inaspettato) ma stessa composizione simbiotica, struttura, figura complessa, di un arbusto e dell’amore.

Una pianta bella rigogliosa ha le sue stagioni; neppure si sogna di possedere una connotazione senza sfumature e lati opposti.

Può sconcertare, ma le realtà di natura non fanno a meno delle radici per il fatto che queste parti basse si mescolano con il letame, la melma, il buio e i vermi - parassiti striscianti; come il pubblicano, immerso nel peccato fino al collo.

Se una rosa volesse tagliare le basi nascoste e infestate da cui sorge, tutta la pianta collasserebbe, perdendo anche la sua spettacolare individualità.

È la confusione - anche fetida e nauseante - che crea una terra feconda accogliente tutti i ruoli, e lo spazio di maturazione non monocromatico aperto a ogni filone di vita.

Ci sono fasi e presenze in apparenza oscuranti, di cui prendere atto, sulle quali siamo come seduti.

Quasi in un ribaltamento di piani, è l’incontro con le nostre ombre che ci fa svettare e affermare.

Merito del fariseo, e bisogno del pubblicano, sono aspetti in simbiosi.

 

Per antica educazione al credere ai codici, siamo quasi frastornati dalle novità.

Ma possiamo piantare il seme della crescita solo abbracciando la vita senza presuntuose aspettative.

Da certezze discriminanti, propositi maniacali indotti, ovvietà di luoghi comuni, non deriva sviluppo, realizzazione, fioritura con risultato esponenziale - in tutti i nostri lati.

Anche nell’amore ad es. non vogliamo fissarci su un’idea finta, fatta di pregiudizi, schemi ideologici, e divise.

Allora - ma proprio per salvarci - affiorano le fragilità.

Esse ci possono sì portare a dipendere, ma anche a cercare nuova comunicazione, per una migliore completezza.

 

Se il passato resta un totem primordiale, artificioso al pari delle ideologie sofisticate, disincarnate - tutto diventa fantasia, rimpianto, confusione, disastro.

Nel cammino spirituale, guai a rivolgersi ai grandi amori artefatti, col loro fascino avvolgente e straripante, ma asettico.

Frenesia che invade e occupa la vita, blocca e ripudia ogni progetto; non libera l’anima dai distinguo.

Non consente di notare nuovi destini. Fa abdicare. Ci assesta in superficie e non rovescia le sorti (cf. v.14).

Così il nostro organismo naturale, emotivo e sovrannaturale: convinto solo di qualcosa e incapace di rompere quei compartimenti.

Esso morirebbe - se perdesse la completezza delle polarità, la spontaneità più ovvia, e fosse sterilizzato. Trasmettendo la sua stessa morte, attorno.

 

Come nelle realtà create, anche nella vicenda spirituale sono i versanti contraddittori a comporre la ricchezza di facoltà, inclinazioni, destini, volti, e capacità.

A volte saranno proprio le crisi particolari da affrontare appunto con qualità speciali e risorse specifiche non in linea con le inclinazioni consuete o imperative - a riportarci sul nostro vero percorso.

È nell’incessante Incontro con la folla di personaggi a noi intima, e nel voltarsi attorno per accorgersi e percepire, che si decanta il caduco limitante, e si unifica l’uomo.

Tutto ciò affinché diventi solido e aperto, affidabile e creativo, capace di stare sia dentro che fuori casa.

E il Padre ci concede tempo per una formazione variegata, per attendere che nelle ambivalenze del processo incontriamo ogni sfaccettatura.

I troppi filtri, le censure, i molti freni, non preparerebbero la metamorfosi evolutiva che ci appartiene: quella in grado di superare i momenti difficili non con un faticoso pertugio o un sudato varco, bensì col sogno, e con la carezza d’un vero colpo di scena.

 

Nell’orazione-monologo, il narcisista che talora siamo noi, non fa che informare il Principio immobile delle sue conquiste, perché non vede altro che se stesso.

Ma non regge né regola quanto è umano o divino.

Neppure si chiede a quale Dio si stia rivolgendo, e in che posa si collochi.

Non ha pregato, non ha sintonizzato i propri pensieri su quelli del Padre. Ha solo stancato le anime, spento e rovinato i rapporti.

È in una posizione di cinismo e incapacità a cogliere la distanza fra l’uomo vero e il Creatore.

Ciò gl’impedisce di abbandonarsi a Lui, e il non cedere fa impallidire la capacità di recepire una nuova Vocazione all’interno della Vocazione [che non è mai “a posto” e soddisfacente].

Crede la perfezione come un porto sicuro; immagina di riflettere Dio sulla terra, di avere la medesima mentalità e le Sue stesse relazioni…

Del resto, gli amici poco benevoli, risoluti e a circolo chiuso che frequenta sarebbero gli stessi del suo Totem, ben foggiato ma senza valore.

 

Come lui, anch’essi restano nella sfera statica, priva di desiderio - però con una montagna di scrupoli. O senza un principio di realtà.

Un ambiente di gretti e ridicoli: uomini a misura, infantili come il loro oggetto (soggetto) di culto, ossia il - che non vede oltre lo stagno di acque morte a portata di mano.

Il “fariseo” da salotto o devoto è nemmeno sfiorato dal dubbio.

Posizione pericolosa, che mai consentirà di riflettere sui paradossi più intimi che avviano e riavviano l’Esodo, attivando nuove passioni.

Temendo ciò che finisce, mai proverà la Gioia ineffabile del Dono adesso, che accende la storia e cambia la vita.

Nulla in termini di stupore s’inaugura, sulla base di un'identità di caratteristiche o di vedute.

 

Ciò soprattutto se le linee distintive restano imprigionate nel passato (o futuro). Se permangono, nel modo di vivere e capire “di prima” (o “di poi”) che torna a dirigerci.

E non si fida dell’Amore che prepara il frutto dello Spirito: sta per arrivare; così com’è.

Chi non ha certezze lapidarie, non si fa guidare in modo artificioso.

Piuttosto, si lascia prendere come da una corrente d’insicurezza, che tuttavia lo porterà a conoscere la Felicità profonda, le grandi fioriture.

La rottura delle acque d’un parto ulteriore: la vita a tutto tondo.

Insomma, una volta messe sullo sfondo le abitudini, le idee astratte, le identificazioni, le opinioni comuni, le mode anche glamour, l’Eros fondante della nostra Chiamata personale potrà ancora scendere in campo.

Ottenendo migrazioni, manifestando tutto il suo Fuoco.

 

Nella vita siamo stati vittime, talora anche carnefici.

Dio lo sa e permette che la nostra libertà possa emergere: viceversa, in ogni recinto, in qualsivoglia scelta cadenzata, le possibilità del mondo interiore restano chiuse.

Allora - per rimetterci in discussione - dona i momenti no, le presenze e le preferenze contrapposte, nonché le voci dell’interno più inattese.

Altri profili, che pure ci appartengono; tutt’altro, rispetto ai modi di essere che già conosciamo [non si sono ancora espressi, ma prima o poi vorranno trovare spazio].

Semplicemente, è bene assumerne i tratti - e in noi ospitarli in modo assolutamente onesto.

Affinché non diventino disturbi laceranti, o da integrare con perversioni, affarismo, esercizio del potere, atteggiamenti settari: pessime abitudini, appena coperte da stilemi affabili.

 

I lati sepolti e forse ancora sconosciuti non vogliono disturbare l’opzione fondamentale al bene, ma l’esistenza inutile, tutta pronosticabile.

Essi sono altrettante Chiamate, sorprendenti, ma che per forza innata sanno dove condurci.

Esistono percorsi che ci appartengono e che non sono ancora emersi, o di cui abbiamo perso memoria.

Così, proprio in forza di tanta congerie interiore - fase dopo fase - il personaggio che è pertinente alla persona… traccia spontaneamente e provvidenzialmente la sua rotta.

Solo se saremo impregnati di ciò che è infinito e al contempo di quant’è sdraiato alla base dell’anima, il nostro io fariseo non si distaccherà dall’io pubblicano.

Energie plasmabili, volti che ci corrispondono profondamente e di fatto; maestri di pratica e di concetto; non di maniere.

Sono in varia miscela e secondo le età della vita, le reali sfaccettature della nostra variegata essenza spirituale.

Binari che corrono sottotraccia o paralleli, ma che talora s’intersecano e surclassano a vicenda, creando un magma che attende istante per istante di venire performato.

 

Per realizzare la Destinazione che è tutta nostra ci sono già state molte porte da aprire.

E abbiamo di frequente verificato che il Fiore cercato si nascondeva proprio fra i nostri disturbi.

Altro che già ritenersi vicini al Paradiso!

Bene: Dio c’introduce in un altro genere di coesistenza, dentro e fuori: equilibrio, serenità, Comunione.

Perché in ciò che davvero spinge all’eterno, tutto si recupera. Nella Pienezza, nulla si separa da nulla.

È l’autentica svolta, che dona dignità a ciò che accade. E apre la porta al Completamento.

 

Ribadisce il Tao (xxvii):

«Per questo il santo sempre ben soccorre gli uomini e perciò non vi son uomini respinti, sempre ben soccorre le creature e perciò non vi son creature respinte; ciò si chiama trasfondere l’illuminazione. Così l’uomo che è buono è maestro dell’uomo non buono, l’uomo che non è buono è profitto all’uomo buono. Chi non apprezza un tal maestro, chi non ha caro un tal profitto, anche se è sapiente cade in grave inganno: questo si chiama il mistero essenziale».

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quando mi colgo fariseo e quando pubblicano?

Come posso incontrare me stesso contemplando Dio? E incontrando gli altri?

Quando Dio ti viene vicino, ti abbandoni o temi ciò che finisce?

Quali sono state le esperienze di amore immeritato che ti hanno cambiato la vita?

Hai trovato maggiore comprensione dentro o fuori la Chiesa? Da parte di amici e conoscenti o di supertitolati del sacro? Come mai?

Sabato, 18 Ottobre 2025 04:21

Venuto per salvare. Uomini della Speranza

«Due uomini salirono al tempio a pregare»; di là, uno «tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro» (Lc 18, 10.14). Quest’ultimo aveva esposto tutti i suoi meriti davanti a Dio, quasi facendo di Lui un suo debitore. In fondo, egli non sentiva il bisogno di Dio, anche se Lo ringraziava per avergli concesso di essere così perfetto e «non come questo pubblicano». Eppure sarà proprio il pubblicano a scendere a casa sua giustificato. Consapevole dei suoi peccati, che lo fanno rimanere a testa bassa – in realtà però egli è tutto proteso verso il Cielo –, egli aspetta ogni cosa dal Signore: «O Dio, abbi pietà di me peccatore» (Lc 18, 13). Egli bussa alla porta della Misericordia, la quale si apre e lo giustifica, «perché – conclude Gesù – chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18, 14).

Di questo Dio, ricco di Misericordia, ci parla per esperienza personale san Paolo, patrono della città di Luanda e di questa stupenda chiesa, edificata quasi cinquant’anni fa. Ho voluto sottolineare il bimillenario della nascita di san Paolo con il Giubileo paolino in corso, allo scopo di imparare da lui a conoscere meglio Gesù Cristo. Ecco la testimonianza che egli ci ha lasciato: «Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo io ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, affinché «fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in Lui per avere la vita eterna» (1 Tm 1, 15-16). E, con il passare dei secoli, il numero dei raggiunti dalla grazia non ha cessato di aumentare. Tu ed io siamo di loro. Rendiamo grazie a Dio perché ci ha chiamati ad entrare in questa processione dei tempi per farci avanzare verso il futuro. Seguendo coloro che hanno seguito Gesù, con loro seguiamo lo stesso Cristo e così entriamo nella Luce.

[Papa Benedetto, omelia Luanda 21 marzo 2009]

 

E’ il suo Amore che vince la morte e ci dona l’eternità, ed è questo amore che chiamiamo «cielo»: Dio è così grande da avere posto anche per noi. E l’uomo Gesù, che è al tempo stesso Dio, è per noi la garanzia che essere-uomo ed essere-Dio possono esistere e vivere eternamente l’uno nell’altro. Questo vuol dire che di ciascuno di noi non continuerà ad esistere solo una parte che ci viene, per così dire, strappata, mentre altre vanno in rovina; vuol dire piuttosto che Dio conosce ed ama tutto l’uomo, ciò che noi siamo. E Dio accoglie nella Sua eternità ciò che ora, nella nostra vita, fatta di sofferenza e amore, di speranza, di gioia e di tristezza, cresce e diviene. Tutto l’uomo, tutta la sua vita viene presa da Dio ed in Lui purificata riceve l’eternità. Cari Amici! Io penso che questa sia una verità che ci deve riempire di gioia profonda. Il Cristianesimo non annuncia solo una qualche salvezza dell’anima in un impreciso al di là, nel quale tutto ciò che in questo mondo ci è stato prezioso e caro verrebbe cancellato, ma promette la vita eterna, «la vita del mondo che verrà»: niente di ciò che ci è prezioso e caro andrà in rovina, ma troverà pienezza in Dio. Tutti i capelli del nostro capo sono contati, disse un giorno Gesù (cfr Mt 10,30). Il mondo definitivo sarà il compimento anche di questa terra, come afferma san Paolo: «la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). Allora si comprende come il cristianesimo doni una speranza forte in un futuro luminoso ed apra la strada verso la realizzazione di questo futuro. Noi siamo chiamati, proprio come cristiani, ad edificare questo mondo nuovo, a lavorare affinché diventi un giorno il «mondo di Dio», un mondo che sorpasserà tutto ciò che noi stessi potremmo costruire. In Maria Assunta in cielo, pienamente partecipe della Risurrezione del Figlio, noi contempliamo la realizzazione della creatura umana secondo il «mondo di Dio».

Preghiamo il Signore affinché ci faccia comprendere quanto è preziosa ai Suo occhi tutta la nostra vita; rafforzi la nostra fede nella vita eterna; ci renda uomini della speranza, che operano per costruire un mondo aperto a Dio, uomini pieni di gioia, che sanno scorgere la bellezza del mondo futuro in mezzo agli affanni della vita quotidiana e in tale certezza vivono, credono e sperano.

Amen!

[Papa Benedetto, omelia 15 agosto 2010]

Sabato, 18 Ottobre 2025 04:14

Spazio sacro e spazio interiore

6. “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano” (Lc 18, 10). Tuttavia soltanto uno tornò a casa giustificato. E fu proprio il pubblicano (cf. Lc 18, 14). Questo vuol dire che soltanto lui raggiunse il mistero interiore del tempio, il mistero unito alla sua consacrazione. Soltanto lui, benché tutti e due vi si fossero recati a pregare.

Così dunque risulta che lo stesso spazio sacro, il tempio, la cattedrale, deve essere ulteriormente riempito con un altro spazio totalmente interiore e spirituale: “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo spirito di Dio abita in voi?” - scrive san Paolo (1 Cor 3, 16).

Di fatto la vostra cattedrale, come tante altre nel mondo, si riempie con un numero quasi infinito di quei templi interiori, che sono i “cuori” umani. A chi rassomigliano maggiormente questi “cuori” umani? Al fariseo oppure al pubblicano? Il tempio è segno della riconciliazione dell’uomo con Dio in Gesù Cristo. Tuttavia la realtà di tale riconciliazione - che è indicata dal segno esterno del tempio - in definitiva passa attraverso il cuore umano, attraverso questo santuario della giustificazione e della santità.

7. Il fariseo tornò “non giustificato” perché era “pieno di se stesso”. Nello “spazio” del suo cuore non c’era posto per Dio. Il fariseo era presente nel tempio materiale; ma Dio non era presente nel tempio del suo cuore. Perché invece, è tornato “giustificato” il pubblicano? Per il fatto che - a differenza del fariseo - egli riconosce umilmente di aver bisogno di essere giustificato. Egli non giudica gli altri. Giudica se stesso.

Il pubblicano “se ne sta a distanza”, eppure - e forse non se ne rende esattamente conto - è più che mai vicino al Signore, perché “il Signore, come dice il Salmo (33, 19), è vicino a chi ha il cuore ferito”. Dio non è affatto lontano dal peccatore, se questo peccatore ha il “cuore ferito”, cioè pentito, e confida, come il pubblicano, nella misericordia divina: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Il pubblicano, dunque, non si gloria in se stesso, ma nel Signore. Non si esalta. Non si mette al primo posto, ma riconosce a Dio la sua maestà, la sua trascendenza. Egli sa che Dio è grande e misericordioso, e che si piega al grido del povero e dell’umile.

Il pubblicano “sta a distanza”, ma nello stesso tempo confida. Ecco l’atteggiamento giusto verso Dio. Sentirsi indegni di lui, a causa dei propri peccati; ma confidare nella sua misericordia, proprio perché egli ama il peccatore pentito.

[Papa Giovanni Paolo II, omelia Perugia 26 ottobre 1986]

Sabato, 18 Ottobre 2025 03:57

Quanto e come

Gesù vuole insegnarci qual è l’atteggiamento giusto per pregare e invocare la misericordia del Padre; come si deve pregare; l’atteggiamento giusto per pregare. E’ la parabola del fariseo e del pubblicano (cfr Lc 18,9-14).

Entrambi i protagonisti salgono al tempio per pregare, ma agiscono in modi molto differenti, ottenendo risultati opposti. Il fariseo prega «stando in piedi» (v. 11), e usa molte parole. La sua è, sì, una preghiera di ringraziamento rivolta a Dio, ma in realtà è uno sfoggio dei propri meriti, con senso di superiorità verso gli «altri uomini», qualificati come «ladri, ingiusti, adulteri», come, ad esempio, - e segnala quell’altro che era lì – «questo pubblicano» (v. 11). Ma proprio qui è il problema: quel fariseo prega Dio, ma in verità guarda a sé stesso. Prega se stesso! Invece di avere davanti agli occhi il Signore, ha uno specchio. Pur trovandosi nel tempio, non sente la necessità di prostrarsi dinanzi alla maestà di Dio; sta in piedi, si sente sicuro, quasi fosse lui il padrone del tempio! Egli elenca le buone opere compiute: è irreprensibile, osservante della Legge oltre il dovuto, digiuna «due volte alla settimana» e paga le “decime” di tutto quello che possiede. Insomma, più che pregare, il fariseo si compiace della propria osservanza dei precetti. Eppure il suo atteggiamento e le sue parole sono lontani dal modo di agire e di parlare di Dio, il quale ama tutti gli uomini e non disprezza i peccatori. Al contrario, quel fariseo disprezza i peccatori, anche quando segnala l’altro che è lì. Insomma, il fariseo, che si ritiene giusto, trascura il comandamento più importante: l’amore per Dio e per il prossimo.

Non basta dunque domandarci quanto preghiamo, dobbiamo anche chiederci come preghiamo, o meglio, com’è il nostro cuore: è importante esaminarlo per valutare i pensieri, i sentimenti, ed estirpare arroganza e ipocrisia. Ma, io domando: si può pregare con arroganza? No. Si può pregare con ipocrisia? No. Soltanto, dobbiamo pregare ponendoci davanti a Dio così come siamo. Non come il fariseo che pregava con arroganza e ipocrisia. Siamo tutti presi dalla frenesia del ritmo quotidiano, spesso in balìa di sensazioni, frastornati, confusi. È necessario imparare a ritrovare il cammino verso il nostro cuore, recuperare il valore dell’intimità e del silenzio, perché è lì che Dio ci incontra e ci parla. Soltanto a partire da lì possiamo a nostra volta incontrare gli altri e parlare con loro. Il fariseo si è incamminato verso il tempio, è sicuro di sé, ma non si accorge di aver smarrito la strada del suo cuore.

Il pubblicano invece – l’altro – si presenta nel tempio con animo umile e pentito: «fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto» (v. 13). La sua preghiera è brevissima, non è così lunga come quella del fariseo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Niente di più. Bella preghiera! Infatti, gli esattori delle tasse – detti appunto, “pubblicani” – erano considerati persone impure, sottomesse ai dominatori stranieri, erano malvisti dalla gente e in genere associati ai “peccatori”. La parabola insegna che si è giusti o peccatori non per la propria appartenenza sociale, ma per il modo di rapportarsi con Dio e per il modo di rapportarsi con i fratelli. I gesti di penitenza e le poche e semplici parole del pubblicano testimoniano la sua consapevolezza circa la sua misera condizione. La sua preghiera è essenziale. Agisce da umile, sicuro solo di essere un peccatore bisognoso di pietà. Se il fariseo non chiedeva nulla perché aveva già tutto, il pubblicano può solo mendicare la misericordia di Dio. E questo è bello: mendicare la misericordia di Dio! Presentandosi “a mani vuote”, con il cuore nudo e riconoscendosi peccatore, il pubblicano mostra a tutti noi la condizione necessaria per ricevere il perdono del Signore. Alla fine proprio lui, così disprezzato, diventa un’icona del vero credente.

Gesù conclude la parabola con una sentenza: «Io vi dico: questi – cioè il pubblicano –, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato» (v. 14). Di questi due, chi è il corrotto? Il fariseo. Il fariseo è proprio l’icona del corrotto che fa finta di pregare, ma riesce soltanto a pavoneggiarsi davanti a uno specchio. E’ un corrotto e fa finta di pregare. Così, nella vita chi si crede giusto e giudica gli altri e li disprezza, è un corrotto e un ipocrita. La superbia compromette ogni azione buona, svuota la preghiera, allontana da Dio e dagli altri. Se Dio predilige l’umiltà non è per avvilirci: l’umiltà è piuttosto condizione necessaria per essere rialzati da Lui, così da sperimentare la misericordia che viene a colmare i nostri vuoti. Se la preghiera del superbo non raggiunge il cuore di Dio, l’umiltà del misero lo spalanca. Dio ha una debolezza: la debolezza per gli umili. Davanti a un cuore umile, Dio apre totalmente il suo cuore. E’ questa umiltà che la Vergine Maria esprime nel cantico del Magnificat: «Ha guardato l’umiltà della sua serva. […] di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono» (Lc 1,48.50). Ci aiuti lei, la nostra Madre, a pregare con cuore umile. E noi, ripetiamo per tre volte, quella bella preghiera: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.

(Papa Francesco, Udienza Generale 1 giugno 2016)

Venerdì, 17 Ottobre 2025 04:26

La Fede del quarto anno

Conversione e Tempi

(Lc 13,1-9)

 

Conversione si riferisce a un processo che scuote l’anima, a motivo di un Incontro. Un ‘ritrovarsi’ che apre alla conoscenza di noi stessi.

Un dialogo che proietta mente e azioni sulla realtà e sul Mistero, i quali rimandano incessantemente a un nuovo Esodo.

Ancora oggi, la controparte paludosa della vita di Fede s’incunea come un tarlo costante, ed è simboleggiata da un confronto arido, espresso nell’assenza di frutti sopra un albero inutilmente frondoso.

La ‘vigna’ è icona del popolo eletto e il ‘fico’ della sua prosperità centrale. Qui evoca il Tempio, in particolare il suo nucleo liturgico: il Santuario.

Il culto che si svolgeva nella zona sacra della vasta area del monte Sion doveva esprimere la lode d’un popolo in continuo ascolto, chiamato a una vita di condivisione e fraternità.

I frutti deliziosi che il Signore attendeva avrebbero dovuto essere dolci e teneri (come fichi), viceversa risultavano duri e immangiabili. Il suo Appello era stato lasciato cadere nel vuoto.

Le tante e vistose “foglie” del rito devotissimo non celebravano una vita di accoglienza e comprensione, bensì tendevano proprio a nascondere le bacche amare d’uno stile in nulla conforme al progetto divino.

 

Ci chiediamo: quanto tempo abbiamo a disposizione per emendarci e non regredire, vivendo appieno il presente?

L’azione di governo del Padre è punitiva o solo responsabile e vivificante?

 

Nella parabola del fico sterile apprendiamo: unica condizione che può mutare una storia d’infertilità e squallore - nonché il pericolo del formalismo - è il tempo ancora necessario per assimilare la Parola.

Processo in avanti, legato all’imprevedibile modalità in cui il Richiamo vitale del Seme e il particolare protendersi delle sue radici s’intreccia alla terra dell’anima, quindi trabocca in relazione agli accadimenti.

Appello che non cessa, nel cui riverbero si elabora e rafforza il cambiamento di mentalità che introduce nel reciproco ospitale delle convivialità e nel disegno di liberazione per un mondo alternativo: il Regno di Dio.

Dopo i tre anni di vita pubblica del Figlio, c’è un ‘quarto anno’ che si estende alla storia della Chiesa (vv.7-9).

Essa non vuole celare il rigoglio della vita ma farla sbocciare, e senza posa richiama una crescita fiorente; per un sentimento di Famiglia dal frutto dolcissimo, che non s’accontenta di pratiche esteriori.

Come sottolinea l’enciclica Fratelli Tutti, il Signore sogna ancora un progetto «con grandi obiettivi, per lo sviluppo di tutta l'umanità (n.16)».

A tale scopo «abbiamo bisogno di costituirci in un “noi” che abita la Casa comune. Tale cura non interessa ai poteri economici che hanno bisogno di entrate veloci» (n.17).

La logica precipitosa - come pure la fretta epidermica della società degli eventi - crea sperequazioni, non solo in campo mercantile.

Insomma, tutto diventa opportunità di fioritura e terreno d’azione dell’Eterno, storia davvero nostra: magistero di teologia autentica e umanizzazione - se la vicenda del popolo si dispiega ‘in cammino’.

 

Il Dio della religione ha le sue pretese e non appare longanime. Il Padre di Gesù sa attendere. Non s’irrita, non cede alla frenesia del colpo su colpo. Non si disinteressa, però non si lagna; né si vendica.

Propone soluzioni.

In tal modo non provoca guai irreparabili - anzi ci sbalordirà. Per una nuova Primavera, in cui il fico dia il suo irripetibile frutto zuccherino, succoso e altamente energetico - prima delle molte foglie.

Affinché la ‘fraternità’ non permanga «tutt’al più come un’espressione romantica» (FT, 109).

 

 

[Sabato 29.a sett. T.O.  25 ottobre 2025]

Venerdì, 17 Ottobre 2025 04:23

La Fede del quarto anno

Conversione e Tempi

(Lc 13,1-9)

 

Conversione si riferisce a un processo che scuote l’anima, a motivo di un Incontro. Un ritrovarsi che apre alla conoscenza di noi stessi.

Un dialogo che proietta mente e azioni sulla realtà e sul Mistero, i quali rimandano incessantemente a un nuovo Esodo.

Ancora oggi, la controparte paludosa della vita di Fede s’incunea come un tarlo costante, ed è simboleggiata da un confronto arido, espresso nell’assenza di frutti sopra un albero inutilmente frondoso.

La vigna è icona del popolo eletto e il fico della sua prosperità centrale. Qui evoca il Tempio, in particolare il suo nucleo liturgico: il Santuario.

Secondo pregiudizi religiosi - di ceto, condizioni di purità, ministero, scremature progressive - all’interno di perimetri rigorosamente delimitati si rendeva omaggio al Dio d’Israele.

Il culto che si svolgeva nella zona sacra della vasta area del monte Sion doveva esprimere la lode d’un popolo in continuo ascolto, chiamato a una vita di condivisione e fraternità.

I frutti deliziosi che il Signore attendeva avrebbero dovuto essere dolci e teneri (come fichi), viceversa risultavano duri e immangiabili. Il suo Appello era stato lasciato cadere nel vuoto.

Le tante e vistose “foglie” del rito devotissimo non celebravano una vita di accoglienza e comprensione, bensì tendevano proprio a nascondere le bacche amare d’uno stile in nulla conforme al progetto divino.

 

Ci chiediamo: quanto tempo abbiamo a disposizione per emendarci e non regredire, vivendo appieno il presente? L’azione di governo del Padre è punitiva o solo responsabile e vivificante?

Nella parabola del fico sterile apprendiamo: unica condizione che può mutare una storia d’infertilità e squallore - nonché il pericolo del formalismo - è il tempo ancora necessario per assimilare la Parola.

Processo in avanti, legato all’imprevedibile modalità in cui il Richiamo vitale del Seme e il particolare protendersi delle sue radici s’intreccia alla terra dell’anima, quindi trabocca in relazione agli accadimenti.

Appello che non cessa; nel cui riverbero si elabora e rafforza il cambiamento di mentalità che introduce nel reciproco ospitale delle convivialità e nel disegno di liberazione per un mondo alternativo: il Regno di Dio.

Ormai in mano a una casta inutile e corrotta che aveva lasciato spegnere il rapporto vitale, i fili dell’ignorato disegno di Salvezza e Giustizia (nel senso anzitutto di autentiche posizioni Dio-uomo e rapporti giusti) vengono riannodati dall’intensità di relazione Padre-Figlio.

 

Dopo i tre anni di vita pubblica, c’è un “quarto anno” che si estende alla storia della Chiesa (vv.7-9).

Essa non vuole celare il rigoglio della vita ma farla sbocciare, e senza posa richiama una crescita fiorente; per un sentimento di Famiglia dal frutto dolcissimo, che non s’accontenta di pratiche esteriori.

Onde superare condizionamenti, sospetti, blocchi, insuccessi, c’è bisogno di respiro: si tratta di calcare una lunga via di esplorazioni.

Non esistono scorciatoie, né utili conversioni a U secondo il codice di autorità ufficiali, perennemente impegnate ad attenuare e omologare i picchi carismatici.

Gesù aveva infatti invitato le folle ad avere capacità di pensiero e giudizio autonomi (Lc 12,57: «Ora, perché non giudicate anche da voi stessi quel ch’è giusto?»).

Guai a farsi assoggettare, accettando l’omertà per calcolo o paura. Ne va della nostra dignità e della ricchezza missionaria cui Dio chiama.

Per questo motivo le autorità consideravano Gesù alla stregua d’un galileo: sovversivo e rivoltoso.

Egli subisce un’altra intimidazione da parte di mandatari dei capi religiosi (Lc 13,1). Sembra di assistere a una sceneggiata di prevaricazioni che forse conosciamo.

 

Come sottolinea l’enciclica Fratelli Tutti, il Signore sogna ancora un progetto «con grandi obiettivi, per lo sviluppo di tutta l'umanità (n.16)».

A tale scopo «abbiamo bisogno di costituirci in un “noi” che abita la Casa comune. Tale cura non interessa ai poteri economici che hanno bisogno di entrate veloci» (n.17).

La logica precipitosa - come pure la fretta epidermica della società degli eventi - crea sperequazioni, non solo in campo mercantile.

Insomma, tutto diventa opportunità di fioritura e terreno d’azione dell’Eterno, storia davvero nostra: magistero di teologia autentica e umanizzazione - se la vicenda del popolo si dispiega in cammino.

Nei processi che innescano una storia di redenzione secondo logica evangelica, la memoria del passato non estrania ma interpella: non fornisce banalmente inerti criteri indefettibili per giudicare il presente e ottenere ripercussioni o capacità di pronostico per il futuro.

Il credo dell’idealismo filosofico-religioso può essere un bozzolo in cui cullarsi, ma dalla Fede attenta e propulsiva scaturisce una vita d’amore anche imprevedibile, capace di recuperi inspiegabili: esige giudizio personale e nuova grinta in situazione.

Dannoso rispolverare e riadattare cose antiche o sogni unilaterali.

È necessario avere occhi aperti e insieme dare tempo, affinché superiamo i fatalismi del monoteismo arcaico, i sentimenti che confondono l’emotivismo intimista con la passione per le cose di Dio, i fondamentalismi riduzionisti e schematici, le illusioni di essere già a posto sul sentiero della conversione.

Il Dio della religione antica ha le sue pretese e non appare longanime. Il Padre di Gesù sa attendere. Tollera sia la cocciutaggine che le incaute accelerazioni.

Non s’irrita, non cede alla frenesia del colpo su colpo. Non si disinteressa, però non si lagna; né si vendica.

Propone soluzioni.

Ribadisce occasioni che sciolgano la dura tempra dei nostri idoli - per una evoluzione verso un rinnovato capolavoro di celestiale Pazienza.

Ha lo stile della mamma o comunque del genitore - parente stretto - che a furia di carezze e baci convince il ragazzino capriccioso affinché si nutra di quel cibo che lo farà crescere (con calma) e così superarsi.

In tal modo non provoca guai irreparabili - anzi ci sbalordirà.

Per una nuova Primavera, in cui il fico dia il suo irripetibile frutto zuccherino [mai già asciutto o essiccato] succoso e altamente energetico - prima delle molte foglie.

Affinché la fraternità non permanga «tutt’al più come un’espressione romantica» (FT, 109).

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

Come tuteli in Cristo il vissuto comunitario e le tue trasposizioni di Fede? Qual è il punto di omologazione nelle soddisfazioni, e dove collochi la tua Preziosità?

Venerdì, 17 Ottobre 2025 04:18

Ci si crede al riparo

“Convertitevi, dice il Signore, il regno dei cieli è vicino” abbiamo proclamato prima del Vangelo […] che ci presenta il tema fondamentale di questo ‘tempo forte’ dell'anno liturgico: l'invito alla conversione della nostra vita ed a compiere degne opere di penitenza. Gesù, come abbiamo ascoltato, evoca due episodi di cronaca: una repressione brutale della polizia romana all’interno del tempio (cfr Lc 13,1) e la tragedia dei diciotto morti per il crollo della torre di Siloe (v. 4). La gente interpreta questi fatti come una punizione divina per i peccati di quelle vittime, e, ritenendosi giusta, si crede al riparo da tali incidenti, pensando di non avere nulla da convertire nella propria vita. Ma Gesù denuncia questo atteggiamento come un’illusione: “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” (vv. 2-3). Ed invita a riflettere su quei fatti, per un maggiore impegno nel cammino di conversione, perché è proprio il chiudersi al Signore, il non percorrere la strada della conversione di se stessi, che porta alla morte, quella dell’anima. In Quaresima, ciascuno di noi è invitato da Dio a dare una svolta alla propria esistenza pensando e vivendo secondo il Vangelo, correggendo qualcosa nel proprio modo di pregare, di agire, di lavorare e nelle relazioni con gli altri. Gesù ci rivolge questo appello non con una severità fine a se stessa, ma proprio perché è preoccupato del nostro bene, della nostra felicità, della nostra salvezza. Da parte nostra, dobbiamo rispondergli con un sincero sforzo interiore, chiedendogli di farci capire in quali punti in particolare dobbiamo convertirci.

La conclusione del brano evangelico riprende la prospettiva della misericordia, mostrando la necessità e l’urgenza del ritorno a Dio, di rinnovare la vita secondo Dio. Riferendosi ad un uso del suo tempo, Gesù presenta la parabola di un fico piantato in una vigna; questo fico, però, risulta sterile, non dà frutti (cfr Lc 13,6-9). Il dialogo che si sviluppa tra il padrone e il vignaiolo, manifesta, da una parte, la misericordia di Dio, che ha pazienza e lascia all’uomo, a tutti noi, un tempo per la conversione; e, dall’altra, la necessità di avviare subito il cambiamento interiore ed esteriore della vita per non perdere le occasioni che la misericordia di Dio ci offre per superare la nostra pigrizia spirituale e corrispondere all’amore di Dio con il nostro amore filiale.

[Papa Benedetto, omelia parrocchia s. Giovanni della Croce, 7 marzo 2010]

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Christianity cannot be, cannot be exempt from the cross; the Christian life cannot even suppose itself without the strong and great weight of duty [Pope Paul VI]
Il Cristianesimo non può essere, non può essere esonerato dalla croce; la vita cristiana non può nemmeno supporsi senza il peso forte e grande del dovere [Papa Paolo VI]
The horizon of friendship to which Jesus introduces us is the whole of humanity [Pope Benedict]
L’orizzonte dell’amicizia in cui Gesù ci introduce è l’umanità intera [Papa Benedetto]
However, the equality brought by justice is limited to the realm of objective and extrinsic goods, while love and mercy bring it about that people meet one another in that value which is man himself, with the dignity that is proper to him (Dives in Misericordia n.14)
L'eguaglianza introdotta mediante la giustizia si limita però all’ambito dei beni oggettivi ed estrinseci, mentre l'amore e la misericordia fanno si che gli uomini s'incontrino tra loro in quel valore che è l'uomo stesso, con la dignità che gli è propria (Dives in Misericordia n.14)
The Church invites believers to regard the mystery of death not as the "last word" of human destiny but rather as a passage to eternal life (Pope John Paul II)
La Chiesa invita i credenti a guardare al mistero della morte non come all'ultima parola sulla sorte umana, ma come al passaggio verso la vita eterna (Papa Giovanni Paolo II)
The saints: they are our precursors, they are our brothers, they are our friends, they are our examples, they are our lawyers. Let us honour them, let us invoke them and try to imitate them a little (Pope Paul VI)
I santi: sono i precursori nostri, sono i fratelli, sono gli amici, sono gli esempi, sono gli avvocati nostri. Onoriamoli, invochiamoli e cerchiamo di imitarli un po’ (Papa Paolo VI)
Man rightly fears falling victim to an oppression that will deprive him of his interior freedom, of the possibility of expressing the truth of which he is convinced, of the faith that he professes, of the ability to obey the voice of conscience that tells him the right path to follow [Dives in Misericordia, n.11]
L'uomo ha giustamente paura di restar vittima di una oppressione che lo privi della libertà interiore, della possibilità di esternare la verità di cui è convinto, della fede che professa, della facoltà di obbedire alla voce della coscienza che gli indica la retta via da seguire [Dives in Misericordia, n.11]
We find ourselves, so to speak, roped to Jesus Christ together with him on the ascent towards God's heights (Pope Benedict)
Ci troviamo, per così dire, in una cordata con Gesù Cristo – insieme con Lui nella salita verso le altezze di Dio (Papa Benedetto)
Church is a «sign». That is, those who looks at it with a clear eye, those who observes it, those who studies it realise that it represents a fact, a singular phenomenon; they see that it has a «meaning» (Pope Paul VI)
La Chiesa è un «segno». Cioè chi la guarda con occhio limpido, chi la osserva, chi la studia si accorge ch’essa rappresenta un fatto, un fenomeno singolare; vede ch’essa ha un «significato» (Papa Paolo VI)
Let us look at them together, not only because they are always placed next to each other in the lists of the Twelve (cf. Mt 10: 3, 4; Mk 3: 18; Lk 6: 15; Acts 1: 13), but also because there is very little information about them, apart from the fact that the New Testament Canon preserves one Letter attributed to Jude Thaddaeus [Pope Benedict]

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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