don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

Lunedì, 14 Aprile 2025 04:09

Testimoni che Egli Rimane

2. Cari fratelli e sorelle! Anche noi, in questa ora, preghiamo il Signore: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino” (Lc 24, 29). Questo invito che i discepoli di Emmaus rivolgono al Signore guidi la nostra odierna liturgia festiva; infatti, il Vangelo di questa terza domenica di Pasqua ci conduce sulla via di Emmaus. Questo luogo ha una grande importanza nel contesto degli avvenimenti pasquali: è un luogo d’incontro con Cristo, un luogo dell’apparizione del Signore risorto.

Nell’interpretazione dei popoli veterotestamentari, la festa pasquale ricorda il “passaggio” del Signore, l’esodo degli Israeliti dalla “casa della servitù” dell’Egitto sulla via della terra promessa. Dio stesso guida, libera e salva il suo popolo. All’inizio di quest’esodo vi era stato il segno dell’agnello: il suo sangue avrebbe contraddistinto le case degli Israeliti ed avrebbe salvato i loro abitanti dalla punizione della morte; la sua carne rifocillò gli Israeliti nell’ultima cena prima della partenza.

Animati da questa fede del loro popolo, i due discepoli di Emmaus avevano partecipato alla festa pasquale degli Ebrei di Gerusalemme, ed avevano anche visto la crocifissione di Gesù Cristo. Quando, sulla strada del ritorno, era apparso loro il Signore senza che lo riconoscessero immediatamente, egli spiegò loro in quale modo la festa pasquale della nuova alleanza fosse stata preannunciata negli avvenimenti dell’Antico Testamento; e precisamente nell’esodo dalla servitù verso la libertà. Quest’esodo si compie ora nel passaggio dalla morte alla vita, dal peccato all’amicizia con Dio. E questo nuovamente avviene con l’ausilio di un agnello: l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo, Gesù Cristo, il nostro Redentore. Di lui e del suo destino parlano già Mosè ed i profeti, addirittura l’“intera Scrittura”. Per questo il Signore risorto poté domandare a buon diritto: “Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24, 25s.).

3. In effetti, molte affermazioni contenute nell’Antico Testamento predicono gli eventi dell’Ultima Cena e del Golgota. Questi annunci, però, non si sarebbero adempiuti se gli avvenimenti pasquali non si fossero svolti nei tempi e nei modi prestabiliti da Dio a Gerusalemme. E nonostante tutto ciò, i discepoli di Gesù non hanno riconosciuto l’evento così drammatico e toccante, vissuto con il loro Maestro durante la festa di Pasqua degli Ebrei, immediatamente nel suo vero significato e nella sua più profonda verità. Riuscì loro difficile “credere alla parola dei profeti” (Lc 24, 25s.). Questa verità era così difficile da riconoscere per loro, che erano abituati ad un’altra comprensione delle sacre Scritture. Per quale motivo il Messia avrebbe dovuto soffrire, essere condannato e morire sulla croce, essere disprezzato e schernito come un reietto? Così, in un primo momento, sono come accecati, scoraggiati e tristi, come paralizzati.

Per l’uomo è e rimarrà sempre incomprensibile perché la via della salvezza debba passare attraverso la sofferenza. Per questo l’incontro sulla via da Gerusalemme ad Emmaus è così significativo; non solo in relazione agli eventi pasquali di allora, ma per sempre, per tutti i tempi - anche per noi. Su questa via i discepoli hanno imparato da Gesù un nuovo modo di leggere le sacre Scritture ed a scoprire in esse una testimonianza profetica su di lui, una predizione su di lui, sul suo messaggio e sulla sua missione di salvezza. Attraverso questo insegnamento i discepoli vengono istruiti dal Signore stesso per diventare suoi testimoni. Così Pietro, nella liturgia odierna, rende testimonianza della risurrezione del Signore da questa nuova, più profonda comprensione dell’evento pasquale davanti agli uomini. In questa luce di Cristo, del Risorto, egli comprende ed annuncia anche il salmo di Davide: “Perché tu non abbandonerai l’anima mia negli inferi” (At 2, 27).

Quando Gesù rivela ai due discepoli sulla via di Emmaus il vero senso della sacra Scrittura, gli apostoli che sono a Gerusalemme già sanno, che questo salmo si è realizzato concretamente: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone” (Lc 24, 26).

4. L’incontro sulla via di Emmaus ha una grande importanza anche perché in questo modo Gesù ha sottolineato ai suoi discepoli, dopo la sua morte sulla croce, che egli rimane con loro. Egli è con loro nonostante o proprio a causa del venerdì, di passione e rimarrà per sempre con la sua Chiesa secondo la sua promessa: “Non vi lascerò orfani tornerò da voi” (Gv 14, 18).

Cristo non è solamente colui che è stato, ma molto di più colui che è. Egli fu presente sulla via per Emmaus, ed egli è anche presente su tutte le vie del mondo, per le quali camminano, attraverso le generazioni ed i secoli, i suoi discepoli.

5. Cari fratelli e sorelle! Dall’incontro con il Signore risorto sulla via di Emmaus, nuova luce è scesa per i due discepoli sulle sacre Scritture e sugli avvenimenti del Calvario, nuova luce scese nel buio della loro stessa vita. Luce scende anche sulla storia e sui destini dell’umanità e della Chiesa, e quindi anche sulla Chiesa di Augusta. Cristo ha dimostrato come il Messia “dovesse” soffrire, per poter compiere la sua missione salvifica. Non è forse vero che proprio in questa luce riusciamo a vedere ed a comprendere, a volte, il buio e le sofferenze che i discepoli di Cristo e la Chiesa hanno affrontato nel loro cammino attraverso la storia? Attraverso di essa spesso si riesce a riconoscere, nelle prove e nelle sofferenze, la mano buona e premurosa di Dio, che attraverso l’esperienza della croce ci porta alla salvezza ed alla resurrezione.

[Papa Giovanni Paolo II, omelia in Augusta 3 maggio 1987]

Lunedì, 14 Aprile 2025 03:50

Inizia e finisce in Cammino

Il Vangelo di oggi, ambientato nel giorno di Pasqua, racconta l’episodio dei due discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-35). È una storia che inizia e finisce in cammino. C’è infatti il viaggio di andata dei discepoli che, tristi per l’epilogo della vicenda di Gesù, lasciano Gerusalemme e tornano a casa, a Emmaus, camminando per circa undici chilometri. È un viaggio che avviene di giorno, con buona parte del tragitto in discesa. E c’è il viaggio di ritorno: altri undici chilometri, ma fatti al calare della notte, con parte del cammino in salita dopo la fatica del percorso di andata e tutta la giornata. Due viaggi: uno agevole di giorno e l’altro faticoso di notte. Eppure il primo avviene nella tristezza, il secondo nella gioia. Nel primo c’è il Signore che cammina al loro fianco, ma non lo riconoscono; nel secondo non lo vedono più, ma lo sentono vicino. Nel primo sono sconfortati e senza speranza; nel secondo corrono a portare agli altri la bella notizia dell’incontro con Gesù Risorto.

I due cammini diversi di quei primi discepoli dicono a noi, discepoli di Gesù oggi, che nella vita abbiamo davanti due direzioni opposte: c’è la via di chi, come quei due all’andata, si lascia paralizzare dalle delusioni della vita e va avanti triste; e c’è la via di chi non mette al primo posto sé stesso e i suoi problemi, ma Gesù che ci visita, e i fratelli che attendono la sua visita, cioè i fratelli che attendono che noi ci prendiamo cura di loro. Ecco la svolta: smettere di orbitare attorno al proprio io, alle delusioni del passato, agli ideali non realizzati, a tante cose brutte che sono accadute nella propria vita. Tante volte noi siamo portati a orbitare, orbitare… Lasciare quello e andare avanti guardando alla realtà più grande e vera della vita: Gesù è vivo, Gesù mi ama. Questa è la realtà più grande. E io posso fare qualcosa per gli altri. È una bella realtà, positiva, solare, bella! L’inversione di marcia è questa: passare dai pensieri sul mio io alla realtà del mio Dio; passare – con un altro gioco di parole – dai “se” al “sì”. Dai “se” al “sì”. Cosa significa? “Se fosse stato Lui a liberarci, se Dio mi avesse ascoltato, se la vita fosse andata come volevo, se avessi questo e quell’altro…”, in tono di lamentela. Questo “se” non aiuta, non è fecondo, non aiuta noi né gli altri. Ecco i nostri se, simili a quelli dei due discepoli. I quali passano però al sì: “sì, il Signore è vivo, cammina con noi. Sì, ora, non domani, ci rimettiamo in cammino per annunciarlo”. “Sì, io posso fare questo perché la gente sia più felice, perché la gente migliori, per aiutare tanta gente. Sì, sì, posso”. Dal se al sì, dalla lamentela alla gioia e alla pace, perché quando noi ci lamentiamo, non siamo nella gioia; siamo in un grigio, in un grigio, quell’aria grigia della tristezza. E questo non aiuta neppure ci fa crescere bene. Dal se al sì, dalla lamentela alla gioia del servizio.

Questo cambio di passo, dall’io a Dio, dai se al sì, com’è accaduto nei discepoli? Incontrando Gesù: i due di Emmaus prima gli aprono il loro cuore; poi lo ascoltano spiegare le Scritture; quindi lo invitano a casa. Sono tre passaggi che possiamo compiere anche noi nelle nostre case: primo, aprire il cuore a Gesù, affidargli i pesi, le fatiche, le delusioni della vita, affidargli i “se”; e poi, secondo passo, ascoltare Gesù, prendere in mano il Vangelo, leggere oggi stesso questo brano, al capitolo ventiquattro del Vangelo di Luca; terzo, pregare Gesù, con le stesse parole di quei discepoli: “Signore, «resta con noi» (v. 29). Signore, resta con me. Signore, resta con tutti noi, perché abbiamo bisogno di Te per trovare la via. E senza di Te c’è la notte”.

Cari fratelli e sorelle, nella vita siamo sempre in cammino. E diventiamo ciò verso cui andiamo. Scegliamo la via di Dio, non quella dell’io; la via del sì, non quella del se. Scopriremo che non c’è imprevisto, non c’è salita, non c’è notte che non si possano affrontare con Gesù. La Madonna, Madre del cammino, che accogliendo la Parola ha fatto di tutta la sua vita un “sì” a Dio, ci indichi la via.

[Papa Francesco, Regina Coeli 26 aprile 2020]

Domenica, 13 Aprile 2025 20:43

Triduo: Giovedì, Venerdì, Veglia di Pasqua

Triduo: Giovedì, Venerdì, Veglia di Pasqua

GIOVEDÌ SANTO [17 aprile 2025]

 

Carissimi Invio un testo per meditare il mistero del Giovedì sacerdotale, uno per contemplare il dono della Croce mistero di passione e di gloria per il Venerdì santo, e una nota che può interessare sulla Veglia pasquale di cui sarebbe importante recuperare il senso e valore teologico e pastorale.

Piuttosto che fornire come di consueto un commento per ogni lettura biblica, preferisco proporre una meditazione su Gesù che lava i piedi ai discepoli perché è un gesto che ci introduce nel cuore del mistero del Giovedì Santo. 

 

1. Eucaristia dono e servizio di amore

Punto di partenza è questo testo di sant’Agostino: “Surge et ambula: homo Christus tua vita est, Deus Christus patria tua est. Alzati e cammina: l’uomo Cristo è la tua vita, Cristo Dio è la tua patria (sant. Agostino, Discorso 375c)

Il quarto vangelo non riferisce l’istituzione dell’Eucaristia, ma approfondisce la testimonianza dei sinottici precisando che cosa Cristo voleva donarci nel mistero-sacramento eucaristico. Al posto delle parole dell’istituzione l’evangelista pone il racconto della lavanda dei piedi per indicare il senso e lo scopo del mistero eucaristico che è vivere nell’amore reciproco sull’esempio di Gesù. La lavanda dei piedi non sostituisce quindi il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia fatta da Matteo, Marco e Luca, ma intende presentarla come dono e servizio d’amore. Benedetto XVI invita a non fermarsi sulle differenze dei vangeli quando narrano l’ultima Cena: “per Giovanni, è Cena d’addio mentre per i sinottici è Cena Pasquale”. Scrive infatti che una cosa è evidente nell’intera tradizione: l’essenziale di questa cena di congedo non è stata l’antica Pasqua, ma Gesù ha rivelato in questo contesto la novità della sua Pasqua. Anche se il convito con gli apostoli non è stato una Cena pasquale secondo le prescrizioni rituali del giudaismo, in retrospettiva si è resa evidente la stretta connessione con la morte e la risurrezione di Cristo. Era la Pasqua di Gesù nella quale ha donato sé stesso e così ha veramente celebrato con loro la Pasqua. In questo modo non è stato negato l’antico, ma l’ha condotto al suo pieno compimento (cf. Gesù di Nazaret, II, p. 130). L’essenziale è fare costante memoria che quella sera Gesù celebrò la sua, la vera Pasqua. Ci aiuta a meglio focalizzare questa verità la liturgia con la sequenza “Lauda Sion” composta da san Tommaso d’Aquino in occasione della festa del Corpus Domini nel 1264: “Novae cenae novus rex, novae paschae novus lex, vetus transit observantia. La prima santa Cena è il banchetto del nuovo Re, nuova Pasqua, nuova legge e l’antico è giunto al termine”. Prosegue poi la sequenza: “Quod in cena Christus gessit - faciendum hoc espressit - in sui memoriam. Cristo lascia in sua memoria ciò che ha fatto nella cena - noi lo rinnoviamo”.

 

2. La forza dirompente della nuova Pasqua

La lavanda dei piedi ci aiuta proprio a comprendere la forza dirompente della “nuova Pasqua”. “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1).  Terminata la vita pubblica, Gesù lascia ai suoi avversari la “Pasqua dei giudei” e si prepara a celebrare la “sua” Pasqua con pochi prescelti e fra gli apostoli c’è il traditore. Che momento di grande sofferenza! Eppure Giovanni presenta quest’ora colma di dolore e tragicità come il momento atteso da Cristo, come “l’ora della gloria”. Scrive ancora Benedetto XVI che ciò che costituisce il contenuto di questa ora, Giovanni lo descrive con due parole: passaggio (metàbasis) ed amore (agàpe). Due parole che si interpretano e spiegano a vicenda; ambedue descrivono insieme la Pasqua di Gesù: croce e risurrezione, crocifissione come elevazione, come “passaggio” alla gloria di Dio, come un “passare” dal mondo al Padre. Il passaggio è una trasformazione perché Cristo reca con sé la sua carne, il suo essere uomo. Donando sé stesso sulla croce la trasforma, trasforma l’uccisione in dono d’amore sino al colmo, fino alla fine. Con questa espressione “sino alla fine” Giovanni rimanda in anticipo all’ultima parola di Gesù sulla croce: tutto è stato portato a termine, “è compiuto” (Gv 19, 30). Mediante il suo amore la croce, strumento di morte, diventa metabasis, trasformazione dell’essere uomo nell’essere partecipe della gloria di Dio. In questa trasformazione siamo tutti coinvolti e anche la nostra vita diventa “passaggio”, trasformazione.

Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio di cui si era cinto (cf Gv 13, 2-5). Con piena consapevolezza il Signore si accinge a compiere il grande e umile gesto della lavanda dei piedi. Sull’ultima Cena Giovanni non fornisce molti particolari, annota soltanto mentre cenavano, che è anche traducibile con “quando la cena era pronta”, oppure: “terminata la cena”. L’evangelista non è molto interessato ai dettagli di quel pasto e preferisce sorprenderci con la scelta inaspettata di Gesù. L’interruzione della cena per lavare i piedi è un fatto che disturba e stimola a riflettere per cercare le ragioni di tale scelta. 

 

2. Otto verbi per capire questo rito inusuale e imprevisto

La nostra attenzione è provocata a capire quel suo gesto meditando anche sulla sua minuziosa descrizione compiuta con ben otto verbi: “si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano, se lo cinse attorno alla vita, versò dell’acqua nel catino, cominciò a lavare i piedi, li asciugò, riprese le vesti” dopo di che si siede di nuovo pronto a spiegarne il significato. San Giovanni accumula i verbi senza ripetersi perché il gesto di Gesù rimanga impresso nella mente del lettore dato che intende mostrare che il vero amore si traduce sempre in azioni concrete di gratuito servizio. Ecco allora Gesù che si spoglia e si cinge di un grembiule ricordandoci ciò che leggiamo in san Luca: “Ecco io sto in mezzo voi come uno che serve” (22,27). Il deporre le vesti esprime simbolicamente anche l’imminente dono della vita. Facendo questo vuole coinvolgere, partendo da Pietro, tutti i discepoli e anche ciascun credente: quindi anche noi.

A una prima valutazione questo rito inusuale e imprevisto appare come un invito a lasciarci purificare sempre e di nuovo dall’acqua fresca e salutare della sua parola e del suo amore. Si tratta di un “segno” autorevole perché il gesto e le parole sono sostanziate dal dono di sé stesso fin oltre la morte. Poche ore dopo infatti mentre ormai esanime giace in croce, il colpo di lancia di un soldato farà uscire dal suo costato sangue insieme ad acqua (cf Gv19,34) mostrando il suo corpo trafitto quale dono totale oltre la morte. Le parole di Cristo sono molto più di una semplice comunicazione; sono piuttosto carne e sangue per la vita del mondo poiché Gesù stesso è il Verbo fatto carne (Gv1,14) e la sua parola è vita che si dona, presenza reale, pane che fa vivere. In ogni sacramento celebrato in fedeltà alla sua parola, Cristo s’inginocchia e purifica la nostra vita.

 

3. L’opera di Dio a favore dell’uomo parte dal basso

Nel lavare i piedi Gesù presenta il servizio vicendevole, ispirato dall’amore, come il tramite indispensabile per mantener viva la sua presenza nella nuova Comunità nella quale i discepoli avranno il compito di creare condizioni di libertà e di uguaglianza, ponendosi ognuno a servizio dell’altro. L’opera di Dio a favore dell’uomo non viene dall’alto come un’elemosina, ma parte dal basso per innalzare l’uomo al livello divino. Così fa Gesù, Il leader indiscusso, che abbandona il suo ruolo per mettersi al disotto dei suoi discepoli: “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo diventando simile agli uomini” (Fil 2,6-7). Svuotò sé stesso (ekenosen): Cristo si è spogliato volontariamente della sua gloria divina per farsi servo, per entrare nella condizione umana con umiltà, debolezza e vulnerabilità, “obbediente fino alla morte”. 

Non facciamo fatica a capire Pietro che è disorientato, incapace di accettare quanto il Signore sta compiendo, anzi lo rifiuta del tutto. “Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Gli disse Simon Pietro: «Non mi laverai mai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!” (Gv 13,6-9). Pietro esprime perfettamente l’atteggiamento degli Undici che, dopo essere stati con lui per anni, pensano di conoscere tutto di Gesù. Pietro però, probabilmente interpretando il pensiero degli altri, non sa ancora dove il Maestro vuole arrivare amando “sino alla fine” e per questo Gesù gli ribadisce l’importanza del gesto perché tutti comprendano: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. Nella sua azione educativa il divino Maestro prima insegna con i fatti, poi spiega a parole. Anzi, in verità, non spiega o spiega molto poco procedendo per affermazioni; non condanna, ma fa capire quanto è perdente chi pensa ed agisce come Pietro che non vuole lasciarsi lavare i piedi e quindi non avrà parte con lui.  Che dramma essere separati da Colui che ti ama “fino alla fine”!

Gesù però è paziente nell’attesa, sa che può essere lungo il tempo necessario per comprendere e mettere in pratica il suo vangelo. Osservando come educa Pietro possiamo imparare ad agire come lui desidera, restando alla sua scuola da discepoli umili e fedeli.

 

4. L’esempio di Cristo fonda e accompagna la nostra azione educativa

La lavanda dei piedi è per noi il modello da ben intteriorizzre e mettere in pratica. Questo perché siamo in presenza di un sacramentum che è al tempo stesso exemplum. Sacramentum cioè mistero di Cristo e forza che ci trasforma in una nuova forma di essere, rinvigorendoci con energia di vita nuova. Exemplum perché Cristo resta colui che si dona e sempre continuamente ci precede. La radice dell’etica cristiana non sta anzitutto nella nostra capacità morale, ma nel dono di Dio a noi. Sta nel dono gratuito di Dio la ragione per la quale l’atto centrale del nostro essere cristiani è l’Eucaristia: cioè gratitudine infinita per la vita nuova che la Santissima Trinità ci comunica con la  morte e risurrezione di Cristo. Ne consegue che il Mandatum Novum consiste nell’amare insieme a colui che ci ha amati per primo e mai prescindendo da questa verità. Come per Pietro, anche a ognuno di noi tocca imparare che la grandezza di Dio è diversa dalla nostra immagine di grandezza e che essa consiste proprio nel discendere, nell’umiltà del servizio, nella radicalità dell’amore fino alla totale spoliazione del proprio io. E questo va sempre di nuovo ribadito perché siamo costantemente tentati di cercare il Dio del potere e del successo, o addirittura dei compromessi, e non quello della Passione. E’ sempre faticoso e difficile, come osservava Benedetto XVI, rendersi conto che il Pastore viene come un Agnello immolato che si dona e, con questo stile, ci conduce al pascolo giusto.

Giovanni Papini, uno scrittore convertito del XX secolo, nella sua geniale e dallo stile vibrante e viscerale  “Vita di Cristo” mette in luce un collegamento tra la lavanda dei piedi e la missione degli apostoli. Egli scrive: «Gli Undici, al di là della sorda natura, avevano qualche diritto al beneficio della lavanda. Per settimane di mesi quei piedi avevano camminato le polverose, le fangose, le merdose strade della Giudea per seguire colui che dava la vita. E dopo la sua morte dovranno camminare, anni ed anni, su strade più lunghe, più malnote, in paesi de’ quali non sanno, oggi, neppure il nome. E la mota straniera lorderà, attraverso i calzari, i piedi di coloro che andranno, come pellegrini e forestieri a ripeter la chiamata del Crocifisso». Probabilmente Papini si collega ad Agostino che in modo più elegante e pacato, aveva presentato la lavanda dei piedi come un diritto e una necessità per tutti gli evangelizzatori. Per Agostino la lavanda, oltre ad essere un gesto esemplare per educare i discepoli, è anche un aiuto per gli apostoli nel loro compito di evangelizzatori. Scrive in proposito: «Quando noi, chiesa, annunciamo il vangelo, o Cristo, camminiamo sulla terra e ci sporchiamo i piedi per venire ad aprirti la porta [per farti entrare nel cuore delle persone che ci hai affidate]. Quando ti predichiamo, camminiamo con i piedi in terra per venire ad aprirti la porta. Lava i nostri piedi che...si sono sporcati camminando sulla terra per venire ad aprirti» (Omelia 57 su Gv).

 

5. Il Giovedì Santo occasione per purificare il servizio sacerdotale

In definitiva per noi sacerdoti il Giovedì Santo è occasione quanto mai propizia per domandare a Gesù di purificare il nostro servizio sacerdotale. Alla fine di faticose giornate di lavoro apostolico ci accorgiamo di esserci “sporcati i piedi” per aver dato troppa importanza a noi stessi così da rendere più difficile l’incontro di Cristo con le persone. Sentiamo risuonare in noi le sue parole: “Vi ho dato l’esempio perché come (kathòs) ho fatto io, facciate anche voi” (Gv13,13). Kathòs si può tradurre come, ma qui ha un significato speciale: indica un’azione che produce un effetto voluto ed è come se Gesù dicesse: facendo questo io rendo possibile anche a voi di agire come me nel servire i fratelli. Mentre i sinottici hanno trasmesso il suo comando “Fate questo in memoria di me”, riferendosi al gesto della “consacrazione” (Lc22,19; Mt26,26; Mc14,22), Giovanni ricorda che la nuova comunità dei suoi discepoli dovrà rendere presente il suo Signore anche nel servizio reciproco oltre che nel culto eucaristico: “Sapendo queste cose siete beati se le mettete in pratica” (Gv 13,17). Nel quarto vangelo troviamo scritte soltanto due beatitudini: questa è la prima rivolta direttamente agli apostoli presenti; l’altra sarà proclamata otto giorni dopo la risurrezione e riguarda specialmente i futuri discepoli: “Beati quelli che pur non avendo visto, crederanno” (Gv 20, 29). Entrambe sono necessarie soprattutto per noi, sacerdoti, scelti da lui per proseguirne la missione: saremo beati solo se uniremo la pratica della carità alla saldezza della fede. 

In sintesi, il gesto di Cristo della lavanda dei piedi mostra in maniera visibile che l'amore deve tradursi in accoglienza fraterna, ospitalità e perdono conservando sempre lo stile e lo spirito del servizio da lui affidato agli apostoli, un ministero d’amore umile, gratuito fondato sempre su di lui. In definitiva si tratta di una vocazione a “lavare i piedi” nel cuore del mondo. 

Origene, vissuto tra il 185 e il 253/254, Padre della Chiesa di lingua greca, maestro di teologia spirituale e allegorica scrive in una sua omelia: «Gesù, vieni, ho i piedi sporchi. Per me fatti servo, versa l'acqua nel bacile; vieni, lavami i piedi. Lo so, è temerario quel che ti dico, ma temo la minaccia delle tue parole: Se non ti laverò, non avrai parte con me. Lavami dunque i piedi, perché abbia parte con te» (Omelia 5 su Isaia). E sant’Ambrogio, vescovo di Milano (339-397) e uno dei più importanti Padri della Chiesa latina, teologo dal taglio pastorale e spirituale, c’insegna a pregare così: «O mio signore Gesù, lasciami lavare i tuoi sacri piedi; te li sei sporcati da quando cammini nella mia anima... Ma dove prenderò l'acqua della fonte per lavarti i piedi? In mancanza di essa mi restano gli occhi per piangere: bagnando i tuoi piedi con le mie lacrime, fa' che io stesso rimanga purificato» (La penitenza, II, cap. 7). Infine, Jacques Dupont, monaco certosino, priore della certosa di Serra san Bruno e procuratore generale dell’ordine certosino (1993-2014), morto il 13 gennaio 2019 osserva: «Solo chi accetta di farsi lavare i piedi può farlo ad un altro senza atteggiamento di superiorità».

 

 

VENERDÌ SANTO [18 Aprile 2025]

Per quest’oggi ecco una riflessione su “La croce, unica speranza del mondo” 

1. Cronaca di una morte violenta

Ogni Venerdì Santo la liturgia ripropone la proclamazione della Passione di Cristo secondo san Giovanni. A ben vedere è in ultima analisi la cronaca di una morte violenta ed episodi del genere, all’epoca come a oggi, fanno parte della cronaca quotidiana. Uccisioni di criminali, persone vittime di attentati, gente innocente colpita da disgrazie, incidenti d’auto o sul lavoro con perdite di vite umane, disastri creati da calamità naturali come il recente devastante sisma in Myanmar, uno dei più forti registrati nel paese in oltre un secolo, persone uccise a causa della loro fede. Sono tutte notizie che si susseguono rapidamente e durano poco nel panorama rapido quotidiano della pubblica opinione. Al contrario la crocifissione di Gesù di Nazaret, avvenuta oltre due millenni fa, continua ad essere un evento vivo come se avviene oggi e questo perché la sua morte ha cambiato per sempre il volto della morte; anzi ha dato un nuovo significato e senso alla morte. Vale la pena allora fermarsi a meditare su questa morte che ha vinto per sempre la morte.

 

2. Dal tempio distrutto sgorga sangue e acqua

Un giorno Gesù a Gerusalemme, rispondendo a chi chiedeva con quale autorità cacciasse i mercanti dal tempio, rispose: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. “Egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2, 19. 21), commenta l’evangelista Giovanni, ma i suoi interlocutori non capirono. Era in verità un segno anticipatore d’un altro evento che nel racconto della passione di Giovanni trova piena comprensione. A crocifissione compiuta, vedendo che era già morto, non spezzarono le gambe a Gesù come agli altri due crocifissi, ma “uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco e subito uscì sangue e acqua” (Gv19, 32-34). Si coglie qui il riferimento alla profezia di Ezechiele che parlava del futuro tempio di Dio, dal fianco del quale sgorga un filo d’acqua che diventa un ruscello, quindi un fiume navigabile e intorno a cui fiorisce ogni forma di vita (cf. Ez 47, 1 ss.). Quel tempio “distrutto” da cui sgorgano acqua e sangue è il cuore di Cristo trafitto, sorgente di un “fiume di acqua viva” (Gv 7, 38). Il cuore di Cristo già morto è vivo perché ha vinto la morte; il Cristo risorto dalla morte è vivo e anche il suo cuore vive in una nuova dimensione non fisica ma mistica. Facile pure il rimando all'Agnello che vive in cielo “immolato, ma in piedi” di cui parla l’Apocalisse (5, 6). Cristo è l’Agnello di Dio che si è sacrificato, ma ora vive risorto e glorificato “in piedi come immolato”. Il suo cuore trafitto é vivente, anzi “eternamente trafitto, proprio perché eternamente vivente”. In ogni Venerdì Santo, a conclusione della celebrazione della Passione di Cristo, dopo il suo “consummatum est - è compiuto” Gesù chinato il capo consegna lo spirito (Gv19,30). L’espressione “Consummatum est” (dal greco Τετέλεσται, Tetélestai) è densa di significato: è il compimento totale della missione di Gesù che ha portato a termine l’opera affidatagli dal Padre, realizzando le Scritture e il piano della salvezza.

 

3. Cristo consegna lo spirito 

L’espressione latina “tradidit spiritum” (Gv19, 30) nella versione greca originale del Nuovo Testamento in greco koinè “παρέδωκεν τ πνεμα” (parédōken tò pneûma) significa “egli consegnò”, “egli affidò”. È il verbo παραδίδωμι, che implica un atto volontario di consegna, mentre τ πνεμα (tò pneûma) = “lo spirito” può significare sia il respiro vitale sia, in senso più profondo, lo Spirito Santo. Tutto ciò si compie perché Gesù offre la sua vita liberamente per la salvezza dell’intera umanità. Da qui ha origine la saldezza della speranza dei cristiani che non teme ostacolo e resiste a ogni contrasto da allora fino alla fine del mondo: nonostante l’ammassarsi nel cuore degli uomini e nelle strutture nel mondo una mole crescente del male che fa sembrare l’umanità abitata da un “cuore di tenebra”, il sacrifico di Cristo fa palpitare nell’universo un cuore vivo di luce: il suo Cuore. “Ora si compie il disegno del Padre –dice un’antifona della Liturgia delle ore -, fare di Cristo il cuore del mondo”: proprio da questa certezza prende vigore l’ottimismo di noi cristiani. Illuminati dalla parola di Dio scrutiamo la realtà con il metro della saggezza dello Spirito e, certi della vittoria di Cristo, possiamo proclamare con la beata Giuliana di Norwich: “Il peccato è inevitabile, ma tutto sarà bene e tutto sarà bene e ogni specie di cosa sarà bene” (Giuliana di Norwich).

 

4. Stat crux dum volvitur orbis. “La Croce sta salda mentre il mondo gira”

I monaci certosini hanno adottato uno stemma che figura all’ingresso dei loro monasteri, come nei loro documenti ufficiali. In questo stemma è disegnato il globo terrestre, sormontato da una croce e contornato da questa frase: “Stat crux dum volvitur orbis”: resta immobile la croce tra gli sconvolgimenti del mondo. L’affermazione “Stat crux dum volvitur orbis” contiene una verità spirituale confortante: in mezzo al vortice del tempo, del caos, dell’instabilità del mondo, la Croce rimane l’unico punto fermo, l’asse attorno al quale ruota tutto. La Croce è veramente come l’albero maestro della nave nella tempesta del mondo e diversi autori cristiani hanno usato immagini navali proprio parlando della Croce: San Colombano (VI-VII sec.) scriveva: “Il mondo è come un mare in tempesta: se vuoi arrivare al porto, attacca il tuo sguardo al legno della Croce.” Origene (III sec.) commentando l’Arca di Noè, vede in essa un’immagine della salvezza e della Chiesa, e nel legno un riferimento alla Croce. Chi vi si aggrappa, non affonda nel diluvio del mondo. Sant’Ambrogio nella sua esegesi della vicenda di Noè e della traversata del Mar Rosso, parla della Croce come timone e vela della Chiesa: è la Croce che guida, orienta. In verità l’albero maestro, la struttura centrale che sostiene la vela di una nave, è figura perfetta della Croce perché tiene insieme la nave della vita: permette orientamento anche nella burrasca; essendo verticale, unisce terra e cielo e porta la vela dello Spirito, che soffia dove vuole (cf. Gv 3,8). “Stat Crux, dum volvitur orbis” ci ricorda che la Croce non è un simbolo di sconfitta, ma di stabilità, direzione e speranza. Anche se tutto gira, anche se la vita è scossa dalle onde, la Croce è il centro fermo del mondo, l’asse del senso  di tutta la storia. Lo scrittore giapponese Shusaku Endõ, nel suo romanzo “Silenzio “(Chinmoku, 1966), ambientato nel contesto delle persecuzioni del XVI secolo, mostra la croce come paradosso vivente: strumento di morte, ma anche emblema di salvezza e di pace. La Croce di Cristo è il “No” definitivo e irreversibile di Dio alla violenza, all’ingiustizia, all’odio, alla menzogna, a tutto ciò che chiamiamo “il male”. Al tempo stesso è il “Si” totale e irreversibile all’amore, alla verità, al bene. “No” chiaro al peccato e “Si” al peccatore: questo è lo stile della vita e dell’azione di Gesù durante tutta la sua vita e che ora consacra definitivamente con la sua morte. Di tutto ciò è dimostrazione vivente il buon ladrone, a cui Gesù morente promette il paradiso. Bisogna aver sempre chiara questa distinzione: il peccatore è creatura di Dio e conserva la sua dignità, nonostante tutti i propri traviamenti, mentre il peccato è frutto delle passioni e istinti e della “invidia del demonio” (Sap 2, 24) e per questo incarnandosi, il Verbo ha assunto tutto dell’uomo, eccetto il peccato. Davanti al Cristo crocifisso tutti, ma veramente tutti anche i più disperati, possono recuperare la fiducia e nessuno dica come Caino: “Troppo grande è la mia colpa per ottenere il perdono” (Gen 4, 13). La croce di Cristo non “sta” contro il mondo, ma per il mondo: dà senso e persino valore a ogni tipo di sofferenza umana. All’anziano Nicodemo Gesù confida che “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3, 17) e la croce proclama in maniera viva la vittoria finale dell’Amore. Non vince chi è dominatore degli altri, ma chi trionfa su sé stesso, non chi ferisce e fa soffrire, ma chi soffre anche ingiustamente e perdona.

 

 5. La Croce speranza certa nell’era digitale e volatile

La Croce di Cristo resta segno di speranza certa “dum volvitur orbis”. Il mondo, fin dalla sua origine, è segnato da costanti e mutevoli sconvolgimenti. Dalla primitiva età della pietra siamo ora all’era del digitale e del numerico, dove i dati numerici sono diventati il cuore della comunicazione, della conoscenza, dell’economia e persino della cultura. Domina così la digitalizzazione massiva: ogni informazione (testi, immagini, suoni, azioni) è convertita in dati numerici (bit), l’automazione e algoritmi. Dalla finanza alla salute, tutto è gestito da sistemi numerici e intelligenze artificiali per cui il dato numerico è il nuovo “petrolio”, usato per profilare, prevedere, influenzare, molte anzi quasi tutte le attività: comunicazione, lavoro, relazioni. Ci si muove ovunque in ambienti digitali non fisici e l’interconnessione globale, grazie a reti digitali, crea un mondo istantaneamente connesso, ma purtroppo estremamente fragile. L’uomo rischia di essere ridotto a dato, a comportamento misurabile. La verità è ciò che può essere quantificato, calcolato e controllato. La libertà è sotto minaccia dalla sorveglianza algoritmica e l’idea di transizione non basta più a descrivere la realtà in atto. All’idea di mutazione oggi si associa quella di frantumazione in una società “liquida” cui si associa l’acronimo VUCA (volatilità, incertezza, complessità, ambiguità), dove non esistono punti fermi, valori indiscussi. Il risultato è che purtroppo non c’è nulla di stabile a cui aggrapparsi: si ci perde nel “nulla” che non è solo assenza, ma un vuoto esistenziale che spesso si riempie di ansia, disorientamento, oppure con un’attività frenetica che serve solo a mascherarlo. L’oceano digitale resta una realtà complessa, per alcuni versi affascinante ma pericolosa: offre possibilità e rischi imprevisti, per questo richiede attenzione, prudenza e responsabilità. Padre Cantalamessa, in una sua predicazione del Venerdì Santo in San Pietro, ha così descritto la nostra era: “ Tutto è fluttuante, anche la distinzione dei sessi. Si è realizzata la peggiore delle ipotesi che il filosofo aveva previsto come effetto della morte di Dio, quella che l’avvento del super-uomo avrebbe dovuto impedire, ma che non ha impedito: “Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?” (F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125).  E aggiungeva l’ex predicatore della casa Pontificia: “È stato detto che “uccidere Dio è il più orrendo dei suicidi”, ed è quello che in parte stiamo vedendo. Non è vero che “dove nasce Dio, muore l’uomo” (J.-P. Sartre); è vero il contrario: dove muore Dio, muore l’uomo. Salvador Dalì ha dipinto un crocifisso che sembra una profezia di questa situazione. Una croce immensa, cosmica, con sopra un Cristo, altrettanto monumentale, visto dall’alto, con il capo reclinato verso il basso. Sotto di lui, però, non c’è la terra ferma, ma l’acqua. Il Crocifisso non è sospeso tra cielo e terra, ma tra il cielo e l’elemento liquido del mondo. Questa immagine tragica contiene però anche una consolante certezza: c’è speranza anche per una società liquida come la nostra perché sopra di essa “sta la croce di Cristo”.

 

6. O crux, ave spes unica 

In ogni Venerdì Santo la Chiesa proclama la sua speranza, consapevolmente certa, con le parole del poeta Venanzio Fortunato: “O crux, ave spes unica”, Salve, o croce, unica speranza del mondo. Il Figlio di Dio che si è fatto uomo è morto ma non è più nella tomba: è risorto. Il giorno di Pentecoste Pietro proclama con forza alla folla: “Voi l’avete crocifisso ma Dio l’ha risuscitato!” (Atti 2, 23-24), Colui che “era morto, ora vive nei secoli” (Ap 1, 18). La croce non “sta” immobile in mezzo agli sconvolgimenti del mondo come ricordo di un evento passato o come un semplice simbolo, ma resta ben piantata nella storia come un evento di oggi, anzi di ogni istante perché Cristo vive con noi. Abbiamo tutti qualcosa di quel cuore di pietra di cui parla il profeta Ezechiele: “Strapperò da loro il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne” (Ez 36, 26). Sì, è di pietra il cuore quando si chiude all’amore di Dio e diventa insensibile ai bisogni e alla sofferenza dei fratelli; quando si lascia sedurre dall’avidità di beni materiali ed è sordo al grido di chi non ha nemmeno un soldo per campare. Cuore di pietra è il mio quando mi lascio dominare dalle passioni e vivo di compromessi, falsità, violenza e impurità. S’indurisce il mio cuore, quando ripiegato su me stesso, m’impedisce di vivere per Cristo, che mi ha amato morendo per me. Il cuore mi fa tremare dinanzi alle tempeste improvvise che m’invadono e rischiano di precipitarmi nel buio della paura e dello scoraggiamento. In queste situazione può avvenire ciò che successe in contemporanea con la morte di Cristo: ”il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono” (Mt 27,51s.). Anche in situazioni complesse come questa emerge un invito al coraggio della speranza. In una liturgia del Venerdì Santo, il papa san Leone Magno esortava così i fedeli: “Tremi la natura umana di fronte al supplizio del Redentore, si spezzino le rocce dei cuori infedeli e quelli che erano chiusi nei sepolcri della loro mortalità vengano fuori, sollevando la pietra che gravava su di loro” (Sermo 66, 3; PL 54, 366).  Il cuore di carne preannunciato dai profeti, è il Cuore di Cristo trafitto sulla croce, “il Sacro Cuore” che continua a vivere nel nostro cuore quando lo riceviamo nell’Eucarestia. Annota l’arcivescovo Fulton Sheen: “Per il paradosso più straordinario della storia del mondo, crocifiggendo Cristo hanno dimostrato che Lui aveva ragione e loro avevano torto, e sconfiggendolo hanno perso. Uccidendolo lo hanno trasformato: per la potenza di Dio hanno cambiato la mortalità in immortalità…Lo hanno umiliato sul Calvario, ed Egli è stato esaltato e si è innalzato sopra un sepolcro vuoto. Hanno seminato il Suo corpo nel disonore ed è risorto nella gloria; Lo hanno seminato nella debolezza ed è risorto nella potenza. Nel togliergli la vita, Gli hanno dato Nuova Vita…Rifate l’uomo e rifarete il mondo! (Fulton J. Sheen, da “Justice and Charity”)

 

 

VEGLIA PASQUALE [19 Aprile 2025]

Spero possa esservi utile questa breve ricerca sulla Veglia Pasquale che rischia di perdere il suo significato e diventare quasi come la messa anticipata alla sera del sabato. Ma così non deve essere almeno per la Veglia di Pasqua.  

 

La Veglia pasquale nella storia 

La Veglia pasquale ha una storia bimillenaria, pur con vicende alterne nei tre periodi della sua vita. Ecco un suo rapido excursus storico per capirne sempre più il valore e l’importanza. La sua storia nella tradizione secolare della Chiesa, da un lato esprime una continuità celebrativa costante, non venendo mai a mancare, dall’altro subisce un’ampia oscillazione di orario, che la rende per lunghi secoli priva di coerenza tra il suo simbolismo e l’ora in cui avrebbe dovuto essere celebrata. 

 

1. Primo periodo: la grande notte di Veglia

Ecco le principali tappe: - Primo periodo (II – IV sec.): la Veglia pasquale è la celebrazione base della Chiesa, la grande notte di Veglia in onore del Signore. Da essa si svilupperà in seguito tutto l’Anno Liturgico, come da sua sorgente e spartiacque. La Veglia antica occupa tutta l’estensione della notte: dal lucernale dei vespri alle prime luci dell’alba, quando con l’Eucaristia si compirà il Mistero e si realizzarà l’incontro sacramentale col Risorto, che in quell’ora apparve ai primi testimoni. È la pannukia pasquale, nella quale sono proclamate le principali pagine scritturistiche, delineando così una ampia panoramica della storia della salvezza, che avrà in Cristo morto e risorto il suo vertice e il suo compimento. In essa si conclude anche l’istruzione battesimale dei catecumeni con la proclamazione dei grandi eventi biblici, che richiamano il mistero della rigenerazione. È così che il Battesimo trova nella Veglia il luogo più adatto: si tratta di morire e risorgere con Cristo nel mistero dei segni sacramentali. In tal modo la Pasqua del Signore diventa anche la Pasqua dei cristiani, che passano dalla morte del peccato alla vita della grazia. Fin dai primi tempi, quindi la Veglia pasquale ospita i tre elementi fondamentali, che costituiranno una costante permanente in tutti i secoli: la Parola profetica, i Sacramenti della Iniziazione, il Sacrificio eucaristico. Il giorno domenicale successivo sarà senza liturgia, in quanto tutto si è concentrato nella celebrazione notturna, così solenne e prolungata. Del resto prima del secolo IV tale giorno è lavorativo e non consente celebrazioni. 

 

2. Secondo periodo: la Veglio pasquale slitta al pomeriggio

Secondo periodo (sec. IV – XVI). Con la libertà religiosa la Veglia pasquale tende ad uscire sempre più dalla notte e slittare gradualmente nel pomeriggio del Sabato santo. Sul versante opposto l’Eucaristia solenne di Pasqua entra nel pieno giorno della domenica, ormai riconosciuta come festiva, originando una seconda e più solenne messa, quella ‘ del giorno’, mentre l’antica Messa della Veglia fa corpo con i riti notturni e scende con essi verso la vigilia. Inizialmente i Padri tendono ad assicurare che il popolo non sia congedato prima della mezzanotte, intesa come ora discriminante per l’autenticità e verità della stessa Veglia pasquale. Tuttavia, nella concreta celebrazione, l’orario si sposta sempre più al pomeriggio del Sabato santo, anche se permane la raccomandazione di non dimettere il popolo prima della mezzanotte e che il Gloria in excelsis non sia intonato prima del comparire delle prime stelle. Gradualmente la Veglia si fissa tra l’ora sesta e il Vespro e in tal modo viene recepita giuridicamente dal Messale di Pio V, che prevede che la Veglia inizi dopo l’ora Sesta e si concluda col Vespro. Tuttavia fin da san Pio V nella pratica, anche in seguito all’abolizione delle Messe vespertine (1566) la Veglia è di fatto celebrata al mattino del sabato santo. La prassi è recepita dal Cerimoniale dei Vescovi ed è definita nel Codice di diritto Canonico del 1917, che fisserà che il termine del digiuno pasquale col mezzogiorno del sabato santo. Con queste indicazioni la Veglia arriva fino alla sua grande riforma con Pio XII nel 1951. “Non si può negare che queste successive anticipazioni avevano creato, se non una incrinatura nella compagine  unitaria del Triduo sacro, almeno uno stridente contrasto fra il mistero del giorno e le formule liturgiche che lo esprimono e che vi si sono sovrapposte. Ciò malgrado, la Chiesa manteneva i suoi riti, i quali conservano sempre per i fedeli la loro ragione storica-commemorativa e tutto il loro valore di simbolo e di mistero” (Righetti, vol. II, p. 252). Finché i tre santi giorni (Giovedì, Venerdì e Sabato Santo) erano civilmente festivi - anche se i riti erano ormai da secoli celebrati in orario mattutino e incompatibile con le Ore relative ai Misteri ricordati - continuarono ad essere frequentati dai fedeli, ma quando nel 1642 il Papa Urbano VIII dovette riconoscere questi giorni come lavorativi non fu più possibile la partecipazione del popolo cristiano ai riti del Triduo pasquale, che finirono per essere celebrati unicamente dal clero, con un’assolvenza più giuridica che pastorale. - Terzo periodo (dal 1955 ad oggi). 

 

3. La Veglia pasquale torna al suo tempo

Con la riforma di Pio XII la Veglia pasquale ritorna al suo tempo conveniente con indicazioni precise, che ne garantiscono la coerenza celebrativa. Infatti il Decreto di restauro della Veglia pasquale, Dominicae Resurrectionis vigiliam (9 febbraio1951) al n. 9 afferma: “La solenne veglia pasquale si deve tenere all’ora competente, tale cioè che permetta di cominciare la messa solenne della stessa veglia verso la mezzanotte tra il sabato santo e la domenica di Risurrezione”. La fermezza di questa disposizione, che avrebbe assicurato una sicura riuscita in quanto ad orario alla celebrazione del solenne rito, è stata purtroppo stemperata, fin dall’inizio, nel medesimo decreto, da una concessione, che si rivelerà in seguito riduttiva del carattere notturno della Veglia, consentendo la sua celebrazione alla sera del Sabato santo. “Però dove, date le condizioni del luogo e dei fedeli, a giudizio dell’Ordinario, convenga anticipare l’ora della veglia pasquale, questa non si cominci prima del crepuscolo, mai comunque prima del tramonto del sole” (Idem n. 9). Tale disposizione influisce negativamente ancor oggi su una Veglia pasquale che di fatto non è mai stata notturna, ma semplicemente serale. Infatti, dalla prassi celebrativa risulta che già nei primi anni (1951-1955) nelle parrocchie si fa uso della facoltà di anticipare la Veglia alla sera. Con la riforma del Vaticano II e in particolare con l’Istruzione Paschalis Sollemnitatis del 16 gennaio 1988, si cerca di insistere maggiormente su una Veglia che sia veramente notturna e si afferma: “L’intera celebrazione della veglia pasquale si svolge di notte; essa quindi deve o cominciare dopo l’inizio della notte o terminare prima dell’alba della domenica’. Gli abusi e le consuetudini contrarie, che talvolta si verificano, così da anticipare l’ora della celebrazione della veglia pasquale nelle ore in cui di solito si celebrano le messe prefestive della domenica, non possono essere ammessi. Le motivazioni addotte da alcuni per anticipare la veglia pasquale, come ad es. l’insicurezza pubblica, non sono fatte valere nel caso della notte di Natale o per altri convegni che si svolgono di notte”. Tuttavia non si determina l’ora di mezzanotte come discriminante. Così in questa ulteriore incertezza la Veglia pasquale oggi tende a non decollare dal comodo orario serale. Come per la Messa di mezzanotte di Natale, anche per la Veglia Pasquale ha avuto grande influsso l’estensione del precetto festivo ai primi vespri, per cui la Veglia pasquale viene ritenuta legittima a partire dal tramonto del Sabato santo, come una messa ‘prefestiva’. Ciò non succedeva prima di questa disposizione, quando chi anticipava la Veglia alla sera sapeva anche che la Messa della notte assolveva il precetto, solo se celebrata dopo la mezzanotte. Per un efficace decollo della Veglia come celebrazione notturna, sarebbe oggi auspicabile una precisa indicazione di orario discriminante da parte dell’autorità della Chiesa, ritornando a stabilire in modo inequivocabile la mezzanotte come ora della liturgia eucaristica della Veglia stessa nella quale si entra col canto solenne del Gloria. Non si dovrebbero ammettere eccezioni, in quanto la Veglia si celebra solo nelle parrocchie o comunità ad esse assimilate, come atto corale, unico, e quindi irripetibile nella notte santa. Abbiamo visto come le concessioni in tal senso sono diventate la regola, perdendo di fatto la celebrazione notturna. 

 

4. La Domenica di risurrezione inizia a mezzanotte

Per di più il terzo giorno del Triduo pasquale, ossia la Domenica di risurrezione, non inizia all’ora dei vespri del Sabato santo, quasi fossero i primi vespri della domenica, come è norma per il sabato ordinario e le vigilie. Il tempo della Domenica di risurrezione inizia alla mezzanotte, in quanto il Sabato santo è giorno della medesima solennità, come anche il Venerdì santo. I tre santi giorni, infatti, hanno il medesimo grado di solennità. Si capisce allora che, nel rito romano, non è possibile trattare l’ora serale del Sabato santo come tempo già appartenente alla Domenica di risurrezione.

La mezzanotte viene presa come l’ora di riferimento per unire le due parti della Veglia pasquale: la liturgia della Parola e la liturgia sacramentale. L’ora della risurrezione non ci è riferita dalla Sacra Scrittura. Essa appartiene al mistero di Dio. La Chiesa esprime questa consapevolezza quando nell’Exultet canta: “O notte beata, tu sola hai meritato di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi”. Per questo la tradizione liturgica sospinge la Chiesa a trascorre le ore notturne della notte santa nella veglia. Anzi la notte pasquale è, fin dall’antichità, una notte di veglia completa, fino all’alba, l’ora in cui il sepolcro è ritrovato aperto e vuoto. Tra le varie ore notturne, tuttavia, trova una considerazione specialissima l’ora di mezzanotte. Essa è legata a precisi eventi biblici, che costituiscono il fondamento della celebrazione notturna della Pasqua. 

 

5. L’importanza della mezzanotte, l’Ora della Pasqua 

La mezzanotte è la grande Ora a lungo preparata da Dio per salvare il suo popolo: “A mezzanotte il Signore percosse ogni primogenito nel paese d’Egitto… Notte di veglia fu questa per il Signore per farli uscire dal paese d’Egitto. Questa sarà una notte di veglia in onore del Signore per tutti gli Israeliti, di generazione in generazione” (Es 12, 29. 42). Anche il passaggio del mar Rosso avvenne di notte e si concluse sul far del mattino: “…Il Signore durante tutta la notte, risospinse il mare con un forte vento d’oriente…Ma alla veglia del mattino il Signore dalla colonna di fuoco e di nube gettò uno sguardo sul campo degli Egiziani…il mare, sul far del mattino, tornò al suo livello consueto…” (Es 14, 21-27). Forse il tutto si compì in quei tre giorni di cammino nel deserto che Mosé richiese al faraone per celebrare il culto al Signore: “Ci è dunque concesso di partire per un viaggio di tre giorni nel deserto e celebrare un sacrificio al Signore, nostro Dio…” (Es 5, 3). Quei tre giorni sono profezia del vero Triduo pasquale in cui il Signore operò, nella pienezza dei tempi, la nostra redenzione. L’evento della Pasqua ebraica si compie quindi nel contesto di almeno due notti: quella del banchetto pasquale col passaggio dell’Angelo sterminatore, e quella della miracolosa traversata del mar Rosso. La liberazione pasquale, allora, nelle sue fasi salienti, avviene nella notte. Ma è la mezzanotte l’ora segnata da Dio per compiere l’evento decisivo e risolutore: l’Angelo colpisce e il popolo parte: è l’ora della Pasqua. La veglia del mattino, di cui si parla nella notte del passaggio del mar Rosso, è quella della consumazione della liberazione del popolo “Sul far del mattino il mare tornò al suo livello consueto…” (Es 14, 27) e della gioiosa contemplazione delle grandi opere di Dio: in quell’ora nasce il canto di vittoria (Es 15, 1). È fin troppo evidente la profezia della Pasqua del Signore Gesù, quando nel cuore della notte, nell’ora che Lui solo conosce, risorse dai morti e sul far del mattino si mostrò vivo ai suoi discepoli: è questa l’ora dell’Alleluia della Chiesa. Il libro della Sapienza riprende in tono celebrativo l’evento della Pasqua e offre alla liturgia della Chiesa un ulteriore elemento per indicare l’idoneità dell’ora di mezzanotte per attuare nel tempo la celebrazionememoriale e sacramentale del Mistero nelle sue due fasi costitutive, natalizia e pasquale. “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando come spada affilata, il tuo ordine inesorabile” (Sap 18, 14-15). Anche il salmo allude alla singolare Ora della mezzanotte: “Nel cuore della notte mi alzo a renderti lode” (Sl 118, 62). Veramente nella notte di Pasqua, l’Uomo nuovo, il Signore Gesù, si sveglia e si alza dal sonno della morte e, risorto a vita nuova, rende gloria al Padre; come già nella notte di Natale i vagiti del Bambino divino iniziarono la lode nuova e perfetta al Padre. Infine, nella parabola evangelica delle dieci vergini lo scoccare della mezzanotte segna l’ora del grande evento: “A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro!” (Mt 25). La medesima ora è richiamata dal Signore stesso quando afferma: “E se giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!” (Lc 12, 38). L’ora di mezzanotte adombrata nella parabola delle vergini diventa, nella interpretazione mistica della Chiesa, un indizio del possibile ritorno del Signore, non solo nell’ora escatologica, ma anche nella sua prima ora, quando nacque in mezzo a noi e anche quando risvegliandosi dal sonno della morte, ritornò glorioso tra i viventi. In tale prospettiva la mezzanotte divenne l’ora discriminante e il riferimento più eloquente per la liturgia notturna sia natalizia che pasquale. Una tradizione giudaica dice che Cristo verrà a mezzanotte, come al tempo dell’Egitto, quando si celebrò la Pasqua e venne l’angelo sterminatore e il Signore passò sopra le case e gli stipiti delle nostre fronti furono consacrati con il sangue. Di qui, credo, quella tradizione apostolica conservatasi fino ad oggi, secondo cui durante la veglia pasquale non è lecito congedare le folle prima della mezzanotte, quando attendono ancora la venuta di Cristo, mentre passato quel momento tutti celebrano il giorno di festa in una ritrovata sicurezza”. S. GIROLAMO (cfr. CANTALAMESSA, R., La Pasqua nella Chiesa antica, ed Internazionale, Torino, 1978, p. 113) 

 

6. La pastorale e il “dogma” della comodità 

Quando la Veglia è celebrata di sera viene privata di una sua componente essenziale: offrire a Dio il tempo del sonno, santificando la notte, mediante l’ascesi del ‘vegliare’. Ci domandiamo: la pastorale deve proprio sposare il ‘dogma’ della comodità a tutti i costi, rinunciando alla notte di Pasqua e alla notte di Natale, come attualmente sta succedendo? Che almeno nelle due notti sante, di Pasqua e Natale, tutto il popolo di Dio, nelle normali parrocchie, si disponga alla solenne celebrazione, vegliando nella notte e offrendo a Dio con generosità il tempo notturno, è veramente cosa pastoralmente impossibile e improponibile ai nostri giorni? Il passaggio più singolare della Veglia pasquale, quando si canta il Gloria in excelsis e si riprende l’jubilus dell’Alleluia è spesso depotenziato: dopo una liturgia della Parola piuttosto breve, senza aver raggiunto un congruo clima di trepida attesa e, senza alcuno stacco rituale, si intona l’Inno angelico e si suonano le campane. Siamo lontani da quello stupore mistico e commosso di cui ci parlano le fonti antiche. È più eloquente la notte di Natale quando, a mezzanotte, si inizia la solenne eucaristia ‘in nocte’. Perché allora privare l’annunzio pasquale nella notte santa dell’esperienza dell’attesa fervorosa, che dà vigore e letizia spirituale all’annunzio della risurrezione, proprio al primo esordio del giorno in cui avvenne la risurrezione, il giorno ottavo che non avrà mai più tramonto? Questo non è sentimentalismo, ma ricchezza celebrativa, forza coesiva e testimonianza efficace. 

 

7. Ridare alla Veglia pasquale il senso della gioia 

Se si vuole ridare alla Veglia pasquale il senso gioioso e commovente dell’attesa, occorre consentire che essa abbia il tempo necessario per impostare un itinerario progressivo verso un preciso termine, che in antico era il primo albeggiare del giorno della risurrezione e che oggi dovrebbe essere necessariamente lo scoccare della mezzanotte alla soglia della grande e santa Domenica di Pasqua. Dal momento che la liturgia si è arricchita in modo irreversibile della Messa solenne del giorno di Pasqua, e che questo giorno è ormai rivestito di regale e grande solennità, non è più auspicabile riproporre a tutto il popolo una Veglia che si estenda fino al mattino, come in antico per poi necessariamente ridurre la domenica di Pasqua a un giorno liturgicamente ‘vacante’. In questo contesto la mezzanotte dovrebbe ridiventare l’Ora da tutti accolta come discriminante tra le due parti della Veglia. Diversamente succede quello che attualmente si può constatare nelle varie ore serali del Sabato Santo: uno già ritorna dalla Veglia pasquale in una chiesa, mentre l’altro parte per la Veglia in un’altra chiesa. Povera Pasqua! Così è ridotta ad affare privato, persa nella routine del sabato sera. La celebrazione della Veglia, fatta all’unisono da tutte le comunità cristiane sul crinale della mezzanotte, offre un eccellente occasione per una testimonianza corale: la Chiesa, convocata nel cuore della notte santa, attende e annunzia la risurrezione del Signore. La Chiesa, celebrando all’unisono la Veglia pasquale percepisce quasi fisicamente il suo essere un cuor solo e un’anima sola, soprattutto quando, a mezzanotte, acclama Cristo risorto e lo annunzia al mondo. Per esprimere concretamente tale sinfonia, la mezzanotte diviene un criterio necessario e discriminante. In questo contesto, sarà possibile dare all’unisono anche l’annunzio pasquale al mondo esterno col suono delle campane.

+Giovanni D’Ercole

La Nuova Creazione, dall’Ascolto

(Gv 20,11-18)

 

Mc narra di un giovane vestito di bianco, Mt di un angelo, Lc di due uomini vestiti di bianco, Gv di due angeli.

I racconti sull’annunciazione e sugli annunciatori della Risurrezione non si conciliano secondo il nostro modo di raccontare.

Per evitare una limitata visuale circa la vittoria della Vita, è opportuno comprendere che non stiamo celebrando la settimana delle apparizioni del Risorto, ma delle sue Manifestazioni [testo greco].

Non appare solo a qualcuno - ad altri no: si Manifesta. Lo sperimentiamo.

E c’è una nuova Creazione: ora non si riconosce Gesù quando lo si vede, ma allorché si ‘ascolta’ (v.16).

Il Signore si fa ‘vedere’ non nel momento della visione, bensì nel tempo della Parola, dell’Appello personale che fa «voltare» lo sguardo dal senso di marcia irrilevante che si aggrappa all’immagine di “ieri”.

L’esperienza del Cristo vivo esclude i ricordi da custodire piangendo.

È relazione attuale e fondata, convincente, ricca di sfaccettature e accessibile - diretta.

La stessa osservanza della legge antica [v.1: nel caso particolare, del sabato] sembra ritardare l’esperienza della forza dirompente della rinascita, nello Spirito.

 

Man mano, nelle prime comunità si stavano riattivando quelle energie personali primordiali che neppure i ricatti, le intimidazioni e le emarginazioni dell’apparato istituzionale potevano sfiorare.

L’Incarnazione continuava, dispiegandosi nei credenti; risvegliando in essi nuovi stati creativi.

I fedeli erano sull’onda virtuosa ed entusiasmante di una ulteriore modifica fondamentale: adesso si sentivano «fratelli» del Risorto (v.17).

Il rapporto di ‘discepolato’ (Gv 13,13) cresciuto in ‘amicizia’ (Gv 15,15) diventava quello dei consanguinei che si sentivano ‘figli’.

[Gv 1,11-12: «Venne tra i suoi, e i suoi non lo accolsero. Ma a quanti lo ricevettero diede loro ‘potere’ di diventare figli di Dio; a quelli che credono nel suo Nome» - ossia aderiscono a tutta la sua parola, vicenda e azione; anche problematica, dolorosa, di denuncia].

Iniziava così l’Annuncio esplicito, malgrado la parte di “chiesa” davvero vitale e sempre più determinata si dimostrava essere quella periferica e proveniente dai pagani [nella figura della Maddalena].

Donna: Assemblea autentica nello Spirito.

Campo sterminato di umiliati, che tuttavia in Cristo Risorto «si vede» e si sblocca; acquista nuovo respiro, supera lo sconforto, il disorientamento, l’incertezza.

 

Ancora oggi la ricerca del nostro Rabbunì può nascere anche dal senso di perdita, o dalle percosse subite - ma è scandita d’incontri pasquali e tappe di nuova consapevolezza.

Nuovi Ascolti, che infrangono le rassicurazioni. Il Risorto è radicale novità: ferita dentro e slancio.

Solo nell’esperienza del «rinascere trasmettendolo» si scatena lo Spirito che appassiona e carica - e il Vivente non resta un estraneo o qualcuno di cui ci si è già fatta un’idea.

C’è una situazione senza precedenti.

Ma chi se ne accorge? Malgrado la trascuratezza che subiscono, solo le anime spose - le poco considerate.

 

 

[Martedì fra l’Ottava di Pasqua, 22 aprile 2025]

La Nuova Creazione, dall’Ascolto

(Gv 20,11-18)

 

«A quei tempi, in Israele, la testimonianza delle donne non poteva avere valore ufficiale, giuridico, ma le donne hanno vissuto un’esperienza di legame speciale con il Signore, che è fondamentale per la vita concreta della comunità cristiana, e questo sempre, in ogni epoca, non solo all’inizio del cammino della Chiesa» [Papa Benedetto, Regina Coeli 9 aprile 2012].

 

Mc narra di un giovane vestito di bianco, Mt di un angelo, Lc di due uomini vestiti di bianco, Gv di due angeli.

I racconti sull’annunciazione e sugli annunciatori della Risurrezione non si conciliano secondo il nostro modo di raccontare.

Per evitare una limitata visuale circa la vittoria della Vita, è opportuno comprendere che non stiamo celebrando la settimana delle apparizioni del Risorto, ma delle sue Manifestazioni [testo greco].

Non appare solo a qualcuno - ad altri no (dipende dalla lotteria): si Manifesta. Lo sperimentiamo.

E c’è una nuova Creazione: ora non si riconosce Gesù quando lo si vede, ma allorché si ascolta (v.16).

Il Signore si fa vedere non nel momento della visione, bensì nel tempo della Parola, dell’Appello personale che fa «voltare» lo sguardo antico dal senso di marcia irrilevante che si aggrappa all’immagine di “ieri”.

L’esperienza del Cristo vivo esclude i ricordi da custodire piangendo.

È relazione attuale e fondata, convincente, ricca di sfaccettature e accessibile - diretta. Decisamente migliore di quella offerta più tardi dagli apostoli, senza cuori trafitti (né proclamazioni).

Ma il tu per tu restava ancora chiuso, fino a che sembrava si cercassero defunti o lontani pezzi da museo - da ritrovare quasi come prima e al massimo trattenere senza troppe scosse.

Condizionati da aspettative troppo “usuali”, pretenderemmo di rintracciare Gesù in camposanti e luoghi sbagliati. Ma in Gv l’Ascensione si colloca lo stesso giorno di Pasqua (v.17).

La stessa osservanza della legge religiosa arcaica [v.1: nel caso particolare, del sabato] sembra ritardare l’esperienza della forza dirompente della rinascita, nello Spirito.

 

 

Man mano, nelle prime comunità si stavano riattivando quelle energie personali primordiali che neppure i ricatti, le intimidazioni e le emarginazioni dell’apparato istituzionale potevano sfiorare.

L’Incarnazione continuava, dispiegandosi nei credenti; risvegliando in essi nuovi stati creativi.

I fedeli erano sull’onda virtuosa ed entusiasmante di una ulteriore modifica fondamentale: adesso si sentivano «fratelli» del Risorto (v.17).

Il rapporto di ‘discepolato’ (Gv 13,13) cresciuto in ‘amicizia’ (Gv 15,15) diventava quello dei consanguinei che si sentivano ‘figli’.

[Gv 1,11-12: «Venne tra i suoi, e i suoi non lo accolsero. Ma a quanti lo ricevettero diede loro potere di diventare figli di Dio; a quelli che credono nel suo Nome» - ossia aderiscono a tutta la sua parola, vicenda e azione; anche problematica, dolorosa, di denuncia].

Iniziava così l’Annuncio esplicito, malgrado la parte di “chiesa” davvero vitale e sempre più determinata si dimostrava essere quella periferica e proveniente dai pagani [nella figura della Maddalena].

Essa voleva il riscatto ravvivante, e così indicava la strada giusta agli stessi dirigenti di assemblea.

La comunità giudeo cristiana degli apostoli era infatti tutta protesa alla ricerca di compromessi proprio con l’istituzione religiosa distante e conflittuale, quella di potere, che aveva voluto distruggere il Maestro.

Zoccolo duro “apostolico” sempre in ritardo e da evangelizzare: lo converte solo colei che si sente un nulla (vv.2.18). E quando diventa consapevole che il regno delle cose morte non la ghermirà più.

Donna: Assemblea autentica nello Spirito.

Campo sterminato di umiliati, che tuttavia in Cristo Risorto «si vede» e si sblocca; acquista nuovo respiro, supera lo sconforto, il disorientamento, l’incertezza.

 

Ancora oggi colmi d’Infinito, come pellegrini, i sognatori dal basso e di periferia cercano la loro strada.

Si attivano con passione, per riaccendere e far risuonare ogni piega dell’essere umano - prima comandato da un mondo di alternative calcolate.

È di nuovo l’esperienza di «Maria di Magdala», che prendendo fiducia, può completare le percezioni e i pensieri anche dei primi della classe.

Il Risorto è sempre da tutt’altra parte… rispetto a quanto l’esperto o un animo mediamente religioso non pronto al cambiamento si attende.

La sua Persona ha fisionomie impreviste, non convenzionali e fuori schema - come la vita, tutta da scoprire.

Sono profili inediti - da cogliere e interiorizzare, talvolta quasi senza lotta.

Solo una chiamata per nome - la sua Parola diretta, l’Appello personale - ci fa accorgere che per influsso esterno stavamo forse inseguendo un Signore [del passato, o alla moda] troppo riconoscibile, da commemorare uguale a prima.

Da portare in bisaccia come sempre, con amore chiuso e normale, figlio del dolore.

La ricerca del nostro Rabbunì può nascere anche dal senso di perdita, o dalle percosse subite - ma è scandita d’incontri pasquali e tappe di nuova consapevolezza.

Nuovi ascolti, che infrangono le rassicurazioni.

Rimane uno sconosciuto tiepido - a temperatura ambiente - per chi si lascia suggestionare da idee limitate (confezionate) e pretende di capirlo col sapere, riconoscerlo con gli occhi, o usarlo come sonnifero.

 

Il Risorto è radicale novità: ferita dentro e slancio. Itinerario che accoglie e assume tutto l’umano e la storia.

Egli agisce in noi infrangendo ogni sicurezza; proprio quella che ancora non ci fa uscire dal piccolo cerchio.

E pur travagliando nella tensione dell’inafferrabile [che non si può far proprio] è nell’emozione di percepire i tesori delle intuizioni atipiche e personali che la vita rigenerata attrae e spalanca, stupisce.

Solo nell’esperienza del rinascere trasmettendolo si scatena lo Spirito che appassiona e carica - e il Vivente non resta un estraneo o qualcuno di cui ci si è già fatta un’idea.

«Ho cercato e visto il Signore!» [v.18: senso del testo greco].

Non si sperimenta Cristo con l’intimismo, né con rievocazioni e gingilli; neppure in modo cerebrale o accontentandosi di adempiere pietosi uffici commemorativi sul corpo.

C’è una situazione senza precedenti.

Ma chi se ne accorge? Malgrado la trascuratezza che subiscono, solo le anime spose - le poco considerate.

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quale trasmutazione si è operata in te e nel prossimo quando hai accolto la Chiamata e l’invito all’Annuncio?

Come la Persona del Cristo ti ha reso consapevole di essere voluto a pieno titolo: soggetto inalienabile, per Nome?

 

 

Manifestazione Personale: legge che troviamo scolpita in molte pagine dei Vangeli. Ma… felicità soffice oppure onda che travolge tutto?

 

In queste settimane la nostra riflessione si muove, per così dire, nell’orbita del mistero pasquale. Oggi incontriamo colei che, secondo i vangeli, per prima vide Gesù risorto: Maria Maddalena. Era terminato da poco il riposo del sabato. Nel giorno della passione non c’era stato tempo per completare i riti funebri; per questo, in quell’alba colma di tristezza, le donne vanno alla tomba di Gesù con gli unguenti profumati. La prima ad arrivare è lei: Maria di Magdala, una delle discepole che avevano accompagnato Gesù fin dalla Galilea, mettendosi a servizio della Chiesa nascente. Nel suo tragitto verso il sepolcro si rispecchia la fedeltà di tante donne che sono devote per anni ai vialetti dei cimiteri, in ricordo di qualcuno che non c’è più. I legami più autentici non sono spezzati nemmeno dalla morte: c’è chi continua a voler bene, anche se la persona amata se n’è andata per sempre.

Il vangelo (cfr Gv 20,1-2.11-18) descrive la Maddalena mettendo subito in evidenza che non era una donna di facili entusiasmi. Infatti, dopo la prima visita al sepolcro, lei torna delusa nel luogo dove i discepoli si nascondevano; riferisce che la pietra è stata spostata dall’ingresso del sepolcro, e la sua prima ipotesi è la più semplice che si possa formulare: qualcuno deve aver trafugato il corpo di Gesù. Così il primo annuncio che Maria porta non è quello della risurrezione, ma di un furto che ignoti hanno perpetrato, mentre tutta Gerusalemme dormiva.

Poi i vangeli raccontano di un secondo viaggio della Maddalena verso il sepolcro di Gesù. Era testarda lei! E’ andata, è tornata … perché non si convinceva! Questa volta il suo passo è lento, pesantissimo. Maria soffre doppiamente: anzitutto per la morte di Gesù, e poi per l’inspiegabile scomparsa del suo corpo.

E’ mentre sta china vicino alla tomba, con gli occhi pieni di lacrime, che Dio la sorprende nella maniera più inaspettata. L’evangelista Giovanni sottolinea quanto sia persistente la sua cecità: non si accorge della presenza di due angeli che la interrogano, e nemmeno s’insospettisce vedendo l’uomo alle sue spalle, che lei pensa sia il custode del giardino. E invece scopre l’avvenimento più sconvolgente della storia umana quando finalmente viene chiamata per nome: «Maria!» (v. 16).

Com’è bello pensare che la prima apparizione del Risorto – secondo i vangeli – sia avvenuta in un modo così personale! Che c’è qualcuno che ci conosce, che vede la nostra sofferenza e delusione, e che si commuove per noi, e ci chiama per nome. È una legge che troviamo scolpita in molte pagine del vangelo. Intorno a Gesù ci sono tante persone che cercano Dio; ma la realtà più prodigiosa è che, molto prima, c’è anzitutto Dio che si preoccupa per la nostra vita, che la vuole risollevare, e per fare questo ci chiama per nome, riconoscendo il volto personale di ciascuno. Ogni uomo è una storia di amore che Dio scrive su questa terra. Ognuno di noi è una storia di amore di Dio. Ognuno di noi Dio chiama con il proprio nome: ci conosce per nome, ci guarda, ci aspetta, ci perdona, ha pazienza con noi. E’ vero o non è vero? Ognuno di noi fa questa esperienza.

E Gesù la chiama: «Maria!»: la rivoluzione della sua vita, la rivoluzione destinata a trasformare l’esistenza di ogni uomo e donna, comincia con un nome che riecheggia nel giardino del sepolcro vuoto. I vangeli ci descrivono la felicità di Maria: la risurrezione di Gesù non è una gioia data col contagocce, ma una cascata che investe tutta la vita. L’esistenza cristiana non è intessuta di felicità soffici, ma di onde che travolgono tutto. Provate a pensare anche voi, in questo istante, col bagaglio di delusioni e sconfitte che ognuno di noi porta nel cuore, che c’è un Dio vicino a noi che ci chiama per nome e ci dice: “Rialzati, smetti di piangere, perché sono venuto a liberarti!”. E’ bello questo.

Gesù non è uno che si adatta al mondo, tollerando che in esso perdurino la morte, la tristezza, l’odio, la distruzione morale delle persone… Il nostro Dio non è inerte, ma il nostro Dio – mi permetto la parola – è un sognatore: sogna la trasformazione del mondo, e l’ha realizzata nel mistero della Risurrezione.

Maria vorrebbe abbracciare il suo Signore, ma Lui è ormai orientato al Padre celeste, mentre lei è inviata a portare l’annuncio ai fratelli. E così quella donna, che prima di incontrare Gesù era in balìa del maligno (cfr Lc 8,2), ora è diventata apostola della nuova e più grande speranza. La sua intercessione ci aiuti a vivere anche noi questa esperienza: nell’ora del pianto, e nell’ora dell’abbandono, ascoltare Gesù Risorto che ci chiama per nome, e col cuore pieno di gioia andare ad annunciare: «Ho visto il Signore!» (v. 18). Ho cambiato vita perché ho visto il Signore! Adesso sono diverso da prima, sono un’altra persona. Sono cambiato perché ho visto il Signore. Questa è la nostra forza e questa è la nostra speranza.

[Papa Francesco, Udienza Generale 17 maggio 2017]

Domenica, 13 Aprile 2025 06:19

Al di là della portata

L’avvenimento della risurrezione in quanto tale non viene descritto dagli Evangelisti: esso rimane misterioso, non nel senso di meno reale, ma di nascosto, al di là della portata della nostra conoscenza: come una luce così abbagliante che non si può osservare con gli occhi, altrimenti li accecherebbe. Le narrazioni incominciano invece da quando, all’alba del giorno dopo il sabato, le donne si recarono al sepolcro e lo trovarono aperto e vuoto. San Matteo parla anche di un terremoto e di un angelo sfolgorante che rotolò la grande pietra tombale e vi si sedette sopra (cfr Mt 28,2). Ricevuto dall’angelo l’annuncio della risurrezione, le donne, piene di timore e di gioia, corsero a dare la notizia ai discepoli, e proprio in quel momento incontrarono Gesù, si prostrarono ai suoi piedi e lo adorarono; ed Egli disse loro: «Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno (Mt 28,10). In tutti i Vangeli, le donne hanno un grande spazio nei racconti delle apparizioni di Gesù risorto, come del resto è anche in quelli della passione e della morte di Gesù. A quei tempi, in Israele, la testimonianza delle donne non poteva avere valore ufficiale, giuridico, ma le donne hanno vissuto un’esperienza di legame speciale con il Signore, che è fondamentale per la vita concreta della comunità cristiana, e questo sempre, in ogni epoca, non solo all’inizio del cammino della Chiesa.

Modello sublime ed esemplare di questo rapporto con Gesù, in modo particolare nel suo Mistero pasquale, è naturalmente Maria, la Madre del Signore. Proprio attraverso l’esperienza trasformante della Pasqua del suo Figlio, la Vergine Maria diventa anche Madre della Chiesa, cioè di ognuno dei credenti e dell’intera comunità.

[Papa Benedetto, Regina Coeli 9 aprile 2012]

Meditazione sul tempo pasquale

1. La Sequenza pasquale riprende e rilancia l’annuncio di speranza risuonato nella solenne Veglia Pasquale: "Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa". Queste parole guidano la riflessione di questo nostro incontro, che si colloca nel clima luminoso dell’Ottava di Pasqua.

Cristo trionfa sul male e sulla morte. Questo è il grido di gioia che in questi giorni prorompe nel cuore della Chiesa. Vittorioso sulla morte, Gesù fa dono della vita che più non muore a quanti lo accolgono e credono in Lui. La sua morte e la sua risurrezione costituiscono, pertanto, il fondamento della fede della Chiesa.

2. I racconti evangelici riferiscono, talora con ricchezza di dettagli, gli incontri del Signore risorto con le donne accorse al sepolcro e, in seguito, con gli Apostoli. Quali testimoni oculari, saranno proprio loro a proclamare per primi il Vangelo della sua morte e risurrezione. Dopo la Pentecoste, senza paura, affermeranno che in Gesù di Nazareth si sono compiute le Scritture riguardanti il Messia promesso.

La Chiesa, depositaria di questo universale mistero di salvezza, di generazione in generazione lo tramanda agli uomini e alle donne di ogni tempo e di ogni luogo. Anche in questa nostra epoca è necessario che, grazie all’impegno dei credenti, risuoni con vigore l’annuncio di Cristo morto, che, per la forza del suo Spirito, è ora vivo e trionfa.

3. Perché i cristiani possano compiere appieno questo mandato loro affidato, è indispensabile che incontrino personalmente il Crocifisso risorto, e si lascino trasformare dalla potenza del suo amore. Quando questo avviene, la tristezza si muta in gioia, il timore cede il passo all’ardore missionario.

L’evangelista Giovanni ci racconta, ad esempio, il commovente incontro del Risorto con Maria Maddalena che, andata di buon mattino, trova il sepolcro aperto e vuoto. Teme che il corpo del Signore sia stato trafugato, per questo piange sconsolata. Ma all’improvviso qualcuno, che ella dapprima pensa essere "il custode del giardino", la chiama per nome: "Maria!". Lo riconosce allora come il Maestro - "Rabbuni" – e, superati prontamente lo sconforto e il disorientamento, corre subito a recare con entusiasmo quest’annunzio agli Undici: "Ho visto il Signore" (cfr Gv 20,11-18).

4. "Cristo mia speranza è risorto". Con queste parole la Sequenza sottolinea un aspetto del mistero pasquale, che l’umanità di oggi ha bisogno di comprendere più profondamente. Segnati da incombenti minacce di violenza e di morte, gli uomini sono alla ricerca di qualcuno che dia loro serenità e sicurezza. Ma dove trovare pace se non in Cristo, l’innocente, che ha riconciliato i peccatori con il Padre?

Sul Calvario la misericordia divina ha manifestato il suo volto di amore e di perdono per tutti. Nel Cenacolo, dopo la sua risurrezione, Gesù ha affidato agli Apostoli il compito di essere ministri di questa misericordia, fonte di riconciliazione tra gli uomini.

Santa Faustina Kowalska nella sua umiltà è stata scelta per annunciare questo messaggio di luce particolarmente adatto per il mondo di oggi. E’ un messaggio di speranza che invita ad abbandonarsi nelle mani del Signore. "Gesù, confido in te!", amava ripetere la Santa.

Maria, Donna della Speranza e Madre di misericordia, ci ottenga di incontrare personalmente il suo Figlio morto e risorto. Ci renda operatori instancabili della sua misericordia e della sua pace.

[Papa Giovanni Paolo II, Udienza Generale 14 aprile 2004]

In queste settimane la nostra riflessione si muove, per così dire, nell’orbita del mistero pasquale. Oggi incontriamo colei che, secondo i vangeli, per prima vide Gesù risorto: Maria Maddalena. Era terminato da poco il riposo del sabato. Nel giorno della passione non c’era stato tempo per completare i riti funebri; per questo, in quell’alba colma di tristezza, le donne vanno alla tomba di Gesù con gli unguenti profumati. La prima ad arrivare è lei: Maria di Magdala, una delle discepole che avevano accompagnato Gesù fin dalla Galilea, mettendosi a servizio della Chiesa nascente. Nel suo tragitto verso il sepolcro si rispecchia la fedeltà di tante donne che sono devote per anni ai vialetti dei cimiteri, in ricordo di qualcuno che non c’è più. I legami più autentici non sono spezzati nemmeno dalla morte: c’è chi continua a voler bene, anche se la persona amata se n’è andata per sempre.

Il vangelo (cfr Gv 20,1-2.11-18) descrive la Maddalena mettendo subito in evidenza che non era una donna di facili entusiasmi. Infatti, dopo la prima visita al sepolcro, lei torna delusa nel luogo dove i discepoli si nascondevano; riferisce che la pietra è stata spostata dall’ingresso del sepolcro, e la sua prima ipotesi è la più semplice che si possa formulare: qualcuno deve aver trafugato il corpo di Gesù. Così il primo annuncio che Maria porta non è quello della risurrezione, ma di un furto che ignoti hanno perpetrato, mentre tutta Gerusalemme dormiva.

Poi i vangeli raccontano di un secondo viaggio della Maddalena verso il sepolcro di Gesù. Era testarda lei! E’ andata, è tornata … perché non si convinceva! Questa volta il suo passo è lento, pesantissimo. Maria soffre doppiamente: anzitutto per la morte di Gesù, e poi per l’inspiegabile scomparsa del suo corpo.

E’ mentre sta china vicino alla tomba, con gli occhi pieni di lacrime, che Dio la sorprende nella maniera più inaspettata. L’evangelista Giovanni sottolinea quanto sia persistente la sua cecità: non si accorge della presenza di due angeli che la interrogano, e nemmeno s’insospettisce vedendo l’uomo alle sue spalle, che lei pensa sia il custode del giardino. E invece scopre l’avvenimento più sconvolgente della storia umana quando finalmente viene chiamata per nome: «Maria!» (v. 16).

Com’è bello pensare che la prima apparizione del Risorto – secondo i vangeli – sia avvenuta in un modo così personale! Che c’è qualcuno che ci conosce, che vede la nostra sofferenza e delusione, e che si commuove per noi, e ci chiama per nome. È una legge che troviamo scolpita in molte pagine del vangelo. Intorno a Gesù ci sono tante persone che cercano Dio; ma la realtà più prodigiosa è che, molto prima, c’è anzitutto Dio che si preoccupa per la nostra vita, che la vuole risollevare, e per fare questo ci chiama per nome, riconoscendo il volto personale di ciascuno. Ogni uomo è una storia di amore che Dio scrive su questa terra. Ognuno di noi è una storia di amore di Dio. Ognuno di noi Dio chiama con il proprio nome: ci conosce per nome, ci guarda, ci aspetta, ci perdona, ha pazienza con noi. E’ vero o non è vero? Ognuno di noi fa questa esperienza.

E Gesù la chiama: «Maria!»: la rivoluzione della sua vita, la rivoluzione destinata a trasformare l’esistenza di ogni uomo e donna, comincia con un nome che riecheggia nel giardino del sepolcro vuoto. I vangeli ci descrivono la felicità di Maria: la risurrezione di Gesù non è una gioia data col contagocce, ma una cascata che investe tutta la vita. L’esistenza cristiana non è intessuta di felicità soffici, ma di onde che travolgono tutto. Provate a pensare anche voi, in questo istante, col bagaglio di delusioni e sconfitte che ognuno di noi porta nel cuore, che c’è un Dio vicino a noi che ci chiama per nome e ci dice: “Rialzati, smetti di piangere, perché sono venuto a liberarti!”. E’ bello questo.

Gesù non è uno che si adatta al mondo, tollerando che in esso perdurino la morte, la tristezza, l’odio, la distruzione morale delle persone… Il nostro Dio non è inerte, ma il nostro Dio – mi permetto la parola – è un sognatore: sogna la trasformazione del mondo, e l’ha realizzata nel mistero della Risurrezione.

Maria vorrebbe abbracciare il suo Signore, ma Lui è ormai orientato al Padre celeste, mentre lei è inviata a portare l’annuncio ai fratelli. E così quella donna, che prima di incontrare Gesù era in balìa del maligno (cfr Lc 8,2), ora è diventata apostola della nuova e più grande speranza. La sua intercessione ci aiuti a vivere anche noi questa esperienza: nell’ora del pianto, e nell’ora dell’abbandono, ascoltare Gesù Risorto che ci chiama per nome, e col cuore pieno di gioia andare ad annunciare: «Ho visto il Signore!» (v. 18). Ho cambiato vita perché ho visto il Signore! Adesso sono diverso da prima, sono un’altra persona. Sono cambiato perché ho visto il Signore. Questa è la nostra forza e questa è la nostra speranza.

[Papa Francesco, Udienza Generale 17 maggio 2017]

Sabato, 12 Aprile 2025 05:28

Il mondo gioioso e quello complottista

(Mt 28,8-15)

 

I Vangeli non offrono dati di cronaca del tutto conciliabili circa lo svolgimento degli eventi dopo la scoperta della «tomba vuota», ma il Messaggio di quelle tracce (dei primi accadimenti) è palese.

Nessun mausoleo, nessuna reliquia... bensì la capacità di vedere aperte le tombe - e d’indovinare vita fra passi di morte: Verità pericolosa.

Quindi lo scatenarsi d’un entusiasmo coinvolgente.

Dal sepolcro vuoto partono due cortei: Messaggere sonanti della vita inaudita, sebbene non accreditate - e guardie del sepolcro.

Accoglienza finalizzata alla testimonianza, e rifiuto di coloro che non leggono il ‘segno’ pieno di senso.

I gendarmi del mondo antico passano da una tomba all’altra; se la trascinano dietro.

Infatti ai sacerdoti annunciano il sepolcro vuoto come fosse un fatterello, controllabile, di semplice cronaca (v.11) che poi passa alla diceria, alla leggenda (v.15).

 

Nel momento in cui Mt scrive erano già ferventi le discussioni tra giudei e cristiani convertiti dal giudaismo.

I credenti si sentivano compiuti in Cristo - in tal guisa anche capaci di divulgare questa Parola-evento.

Le dispute erano accese: il brano di Vangelo ci colloca in una realtà che si è trascinata durante quasi tutto il primo secolo.

Col passare del tempo - già prima del distacco dalla sinagoga istituzionale - l’esistenza stessa delle fraternità, il loro stile di vita e la testimonianza, divennero una denuncia contro lo spirito autoritario, l’avidità, l’insegnamento e i ruoli delle guide religiose (es. At 3,1-8).

Fra mille sconvolgimenti, iniziava il mondo nuovo - annunciato a fronte alta.

L’attesa era finita: bisognava solo convincersi della realtà - non più sognare un futuro che pur procedendo tornasse al passato, o aderisse a conformismi e tornaconto.

 

Esordio e finale di Mt si richiamano.

Gesù è l’Immanu-‘El delle Scritture antiche: Dio-Con-noi. La speranza degli esclusi dal giro, vacillanti - da sempre dati in balia altrui, asserviti e succubi.

Ci si attendeva un cambiamento radicale della situazione invivibile d’ingiustizia e collasso sociale, spiritualmente spenta e abitudinaria - sopportata dai miseri nell’umiliazione di tutto l’essere.

 

Adoperandosi, le Donne non incappano in un Cristo confezionato, da trasmettere in modo impersonale.

È nel loro andare per Via che si accende uno Spirito nuovo - col gaudio contagioso della Liberazione.

L’Incontro col mondo di Dio si fa evento decisivo perché tutte (prima senza-voce) ricevono un fervente invito alla predicazione e alla vita delle Beatitudini [il Monte di Galilea, v.10: la “periferia” della vita che riprende normale; terra del ministero di Gesù e della sequela dei discepoli].

Ora da protagoniste limpide, complete e pure, cui il Mistero non resiste. 

 

Insomma, per noi: se qualcuno non scende in campo ma si rifugia, non trasmette, o ritiene neutra la Notizia della vittoria della vita sulla morte, essa rischia di diventare una fandonia.

Invece è il Risorto che viene incontro alle ridestate (v.9) - esattamente come aveva fatto col nato cieco (Gv 9,35).

Non siamo più degli scomunicati, o i prolungatori del mondo dei sepolcri; né i semplicemente risvegliati.

Siamo coloro che trasmettono impulso, brio, carattere, senso di pienezza e Mistero, che salvano - corifei di aperta contraddizione.

Progenie che sgorga non dalla tomba, ma dal mondo di Dio - fonte dell’essere indistruttibile, in cui stiamo finalmente saldi.

 

«Gioite!» (v.9) [la traduzione italiana non solo Cei è sbiadita].

 

In comunità, l’allegria per il senso di stima personale e lo spessore relazionale legati al nuovo modello di vita stravince le paure.

Le prime realtà di comunione [le «Donne»] fanno proprie il medesimo Cammino del Maestro [stringere e adorare i suoi «Piedi»].

Sorge una proposta consapevole e autonoma.

Nasce l’Annuncio di un’esperienza che fa trasalire: nel Vivente siamo noi stessi, e il Dono di sé - qualunque sia, anche prima disprezzato - produce completezza personale e coesistenza.

Chi spende ciò che è autenticamente, valorizza la sua storia: non spreca l’esistenza, ma la recupera, realizza e sublima.

Fioriscono persone nuove, interiormente rinate e non più lasciate a se stesse.

 

Vedendo lontano e procedendo sui medesimi ‘passi’ del Signore, tutti i malfermi superavano il senso d’indegnità inculcato dalla religione antica.

Consapevoli di stima, qualità personale, e altre risorse, i primi fedeli   dimostravano subito una spiccata attitudine alla franchezza.

Anche i piccoli acquistavano coraggio - recuperando i lati opposti di sé. E non più soffocati da timori d’autorità fasulle, capaci di sola ritorsione.

Ovviamente il mondo antico voleva perpetuarsi, e si difendeva con piroette e menzogne. Come ancora oggi, distribuendo favori (vv.12-15).

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Quali potenze interiori ed esteriori accentuano i disturbi e combattono la tua capacità di Annuncio?

 

 

Angelo del Consiglio e suoi ministri

 

Ma l’Angelo della risurrezione richiama anche un altro significato. Bisogna ricordare, infatti, che il termine “angelo” oltre a definire gli Angeli, creature spirituali dotate di intelligenza e volontà, servitori e messaggeri di Dio, è anche uno dei titoli più antichi attribuiti a Gesù stesso. Leggiamo ad esempio in Tertulliano, III secolo: “Egli - cioè Cristo - è stato anche chiamato «angelo del consiglio», cioè annunziatore, che è un termine che denota un ufficio, non la natura. In effetti, egli doveva annunziare al mondo il grande disegno del Padre per la restaurazione dell’uomo” (De carne Christi, 14). Così Tertulliano. Gesù Cristo, il Figlio di Dio, dunque, viene chiamato anche l’Angelo di Dio Padre: Egli è il Messaggero per eccellenza del suo amore. Cari amici, pensiamo ora a ciò che Gesù risorto disse agli Apostoli: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi” (Gv 20,21); e comunicò ad essi il suo Santo Spirito. Ciò significa che, come Gesù è stato annunciatore dell’amore di Dio Padre, anche noi lo dobbiamo essere della carità di Cristo: siamo messaggeri della sua risurrezione, della sua vittoria sul male e sulla morte, portatori del suo amore divino. Certo, rimaniamo per natura uomini e donne, ma riceviamo la missione di “angeli”, messaggeri di Cristo.

[Papa Benedetto, Regina Coeli 5 aprile 2010]

 

(Lunedì dell’Angelo, 21 aprile 2025)

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Jesus, who shared his quality as a "stone" in Simon, also communicates to him his mission as a "shepherd". It is a communication that implies an intimate communion, which also transpires from the formulation of Jesus: "Feed my lambs... my sheep"; as he had already said: "On this rock I will build my Church" (Mt 16:18). The Church is property of Christ, not of Peter. Lambs and sheep belong to Christ, and to no one else (Pope John Paul II)
Gesù, che ha partecipato a Simone la sua qualità di “pietra”, gli comunica anche la sua missione di “pastore”. È una comunicazione che implica una comunione intima, che traspare anche dalla formulazione di Gesù: “Pasci i miei agnelli… le mie pecorelle”; come aveva già detto: “Su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18). La Chiesa è proprietà di Cristo, non di Pietro. Agnelli e pecorelle appartengono a Cristo, e a nessun altro (Papa Giovanni Paolo II)
Praying, celebrating, imitating Jesus: these are the three "doors" - to be opened to find «the way, to go to truth and to life» (Pope Francis)
Pregare, celebrare, imitare Gesù: sono le tre “porte” — da aprire per trovare «la via, per andare alla verità e alla vita» (Papa Francesco)
In recounting the "sign" of bread, the Evangelist emphasizes that Christ, before distributing the food, blessed it with a prayer of thanksgiving (cf. v. 11). The Greek term used is eucharistein and it refers directly to the Last Supper, though, in fact, John refers here not to the institution of the Eucharist but to the washing of the feet. The Eucharist is mentioned here in anticipation of the great symbol of the Bread of Life [Pope Benedict]
Narrando il “segno” dei pani, l’Evangelista sottolinea che Cristo, prima di distribuirli, li benedisse con una preghiera di ringraziamento (cfr v. 11). Il verbo è eucharistein, e rimanda direttamente al racconto dell’Ultima Cena, nel quale, in effetti, Giovanni non riferisce l’istituzione dell’Eucaristia, bensì la lavanda dei piedi. L’Eucaristia è qui come anticipata nel grande segno del pane della vita [Papa Benedetto]
Work is part of God’s loving plan, we are called to cultivate and care for all the goods of creation and in this way share in the work of creation! Work is fundamental to the dignity of a person. Work, to use a metaphor, “anoints” us with dignity, fills us with dignity, makes us similar to God, who has worked and still works, who always acts (cf. Jn 5:17); it gives one the ability to maintain oneself, one’s family, to contribute to the growth of one’s own nation [Pope Francis]
Il lavoro fa parte del piano di amore di Dio; noi siamo chiamati a coltivare e custodire tutti i beni della creazione e in questo modo partecipiamo all’opera della creazione! Il lavoro è un elemento fondamentale per la dignità di una persona. Il lavoro, per usare un’immagine, ci “unge” di dignità, ci riempie di dignità; ci rende simili a Dio, che ha lavorato e lavora, agisce sempre (cfr Gv 5,17); dà la capacità di mantenere se stessi, la propria famiglia, di contribuire alla crescita della propria Nazione [Papa Francesco]
God loves the world and will love it to the end. The Heart of the Son of God pierced on the Cross and opened is a profound and definitive witness to God’s love. Saint Bonaventure writes: “It was a divine decree that permitted one of the soldiers to open his sacred wide with a lance… The blood and water which poured out at that moment was the price of our salvation” (John Paul II)
Il mondo è amato da Dio e sarà amato fino alla fine. Il Cuore del Figlio di Dio trafitto sulla croce e aperto, testimonia in modo profondo e definitivo l’amore di Dio (Giovanni Paolo II))

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

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