don Giuseppe Nespeca

don Giuseppe Nespeca

Giuseppe Nespeca è architetto e sacerdote. Cultore della Sacra scrittura è autore della raccolta "Due Fuochi due Vie - Religione e Fede, Vangeli e Tao"; coautore del libro "Dialogo e Solstizio".

XX Domenica Tempo Ordinario (anno C) [17 agosto 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Ecco il commento ai testi biblici di domenica prossima.

 

*Prima Lettura dal Libro del profeta Geremia (38,4-6.8-10)

 Il nome di Geremia ha dato origine al termine “geremiade”. Ma sarebbe un errore pensare che questo profeta abbia passato il suo tempo a lamentarsi e a piangersi addosso. È vero, invece, che fu spesso portato a gridare misericordia sotto il peso delle prove. E Dio sa quante ne ha vissute! Al punto che il proverbio “Nessuno è profeta in patria” si applica particolarmente a lui. A volte, dalla sua penna emergono espressioni di scoraggiamento assoluto (cf.Ger 15,10.18; 20,14). Di fronte ai ripetuti fallimenti della sua missione e ai mali di cui è vittima, Geremia si pone domande inquietanti, arrivando persino a chiedere conto a Dio, la cui condotta gli appare sorprendente, se non addirittura ingiusta: “Tu sei giusto, Signore! Ma io voglio discutere con te. Perché riescono i malvagi? Perché sono tranquilli tutti i traditori?” (Ger 12,1-2). Leggendo il libro di Geremia ci si rende conto che aveva buone ragioni per porsi queste domande e lamentarsi:capitolo dopo capitolo, emergono i complotti dei suoi avversari, gli inganni, le minacce poi messe crudelmente in atto (cf. Ger 20,10; 18,18; 11,21;12,6). Nel brano che la liturgia propone questa domenica, ci troviamo davanti a una delle tante sue sventure, un episodio tipico della sua vita in cui compaiono tutti gli argomenti e la cattiveria dei suoi avversari: “Si metta a morte Geremia, appunto perché egli scoraggia  i guerrieri che sono rimasti in questa città e scoraggia il popolo dicendo loro simili parole, perché quest’uomo non cerca il benessere del popol, ma il male” (v.4). Lo prendono e lo gettano nella cisterna del principe Melchia, dove non c’era acqua ma fango e affondò nel fango per cui più realistica di così non si potrebbe descrivere la persecuzione che subì. Dio però non abbandona il suo profeta, mantiene la promessa fatta il giorno della sua vocazione, quella di sostenerlo contro ogni avversità e fu davvero un’alleanza tra Dio e lui (Ger 1,4-5.17-19); infatti, in un giorno in cui era particolarmente scoraggiato, Dio gli aveva rinnovato la missione e la promessa (Ger 15,21) e ora lo strumento della liberazione sarà uno straniero, un etiope chiamato Ebed-Melech. Non è la prima volta che la Bibbia ci presenta degli stranieri rispettosi di Dio e dei suoi profeti più del popolo eletto. Quest’etiope ha il coraggio di intervenire presso e il re, che concede il permesso di salvare Geremia. Quando più tardi Gesù racconterà la parabola del Buon Samaritano, forse pensava anche a questo etiope che salvò il profeta perché molti sono i punti in comune tra il buon samaritano e l’etiope. Nel seguito del racconto, versetti non riportati nel testo liturgico, emergono molti dettagli della delicatezza del pagano che salva il profeta, con mille precauzioni per non ferirlo durante la risalita (28, 11-13). Perché nessuno è profeta nella propria patria? Domanda ricorrente: probabilmente ciò avviene perché l’annuncio dell’amore di Dio per gli uomini comporta l’esigenza di amarci, a nostra volta e quando si vive insieme  si è più facili a vedere il negativo che il positivo: “Nessuno è grande agli occhi del proprio vicino”. Le lamentele di Giobbe (al capitolo 3) sono simili a quelle di Geremia e si pensa che l’autore del libro di Giobbe si sia ispirato ai lamenti di Geremia, considerato esempio per eccellenza del giusto perseguitato.

 

Salmo responsoriale (39/40,2,3,4,18)

“Ho sperato, ho sperato nel Signore, ed egli su di me si è chinato”. Il salmo parla in prima persona singolare, ma in realtà è il popolo d’Israele che canta la sua riconoscenza perché ha attraversato terribili prove e Dio lo ha liberato. Questo salmo è dunque un salmo di ringraziamento, composto per essere cantato nel Tempio al momento dell’offerta di un sacrificio di ringraziamento, sacrifici di animali celebrati fino alla distruzione definitiva del Tempio, nel 70 d.C. Il popolo intero esplode di gioia al ritorno dall’esilio babilonese come dopo il passaggio del Mar Rosso. L’esilio è stato come una caduta mortale in un pozzo senza fondo, un abisso da cui sembrava impossibile rialzarsi e il salmo parla  del “terrore dell’abisso”. Durante quel lungo periodo di prova, il popolo, sostenuto da sacerdoti e profeti, ha mantenuto la speranza e la forza di invocare aiuto: “Tu sei mio aiuto e mio liberatore: mio Dio, non tardare!” (v. 18) e  Dio lo ha salvato: “Il Signore…ha dato ascolto al mio grido”(v.2). Al suo rientro il popolo sembra resuscitato e ringrazia: “Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo…Molti vedranno e avranno timore e confideranno nel Signore…Ma io sono povero e bisognoso: di me ha cura il Signore” (vv4, 18). Prima dell’esilio Israele viveva nella sicurezza ma i profeti non erano riusciti a svegliarlo dalla sua indifferenza. Durante l’esilio ha meditato sulle cause del disastro chiedendosi se la causa non fosse questa sua superficialità. Questo salmo suona come un avvertimento per il futuro, o meglio come una risoluzione perché, per non ricadere nello stesso errore, Israele deve vivere fedelmente l’Alleanza. In questo spirito, il salmo sviluppa una riflessione su ciò che piace veramente a Dio: “sacrifici e offerta non gradisci… non hai chiesto olocausto né sacrificio per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo”.(vv 7,8,9). Per esprimere l’esperienza del ritorno alla terra promessa, come un ritorno alla vita, il salmista utilizza la parabola di un uomo gettato in un pozzo dai nemici, ispirandosi forse all’esperienza del profeta Geremia, di cui la prima lettura racconta le disavventure: gettato in un pozzo è liberato da Ebed-Melek, uno straniero. Geremia sapeva che, dietro alla generosità sorprendente di quell’uomo, c’era Dio stesso:”Mi ha tratto da un pozzo di acque tumultuose, dal fango della palude; ha stabilito i miei piedi sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi.”(v.3). Liberato, esplode di gioia: Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo, una lode al nostro Dio. Molti vedranno e confideranno nel Signore.”(v.4). Chi è stato salvato canta la lode di Dio ed altri, vedendo che Dio salva, desidereranno rivolgersi a Lui. Il salmo non si ferma qui perché il versetto finale proclama: Tu sei mio aiuto e mio liberatore: mio Dio, non tardare!” (v.18). Poiché l’umanità non ha ancora raggiunto il pieno compimento del disegno di Dio, il salmista suggerisce due atteggiamenti di preghiera: La lode per le salvezze già avvenute, perché altri si aprano al Dio salvatore; la supplica per la salvezza che ancora attendiamo, perché lo Spirito ci ispiri le azioni da compiere. Non siamo noi a salvare il mondo come il salmo dice: ”Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo, una lode al nostro Dio.Molti vedranno e confideranno nel Signore.”(v.4) Dio troverà sempre un piccolo resto da salvare. Amos dice: ”Dio degli eserciti, avrà pietà del resto di Giuseppe” (5,15); Anche Isaia ripete cose simili come poi approfondiranno Michea, Sofonia, Zaccaria i quali annunciano  che il “Resto” d’Israele non sarà solo salvato, ma diventerà strumento di salvezza per tutti gli altri. Dio si servirà di loro per salvare l’umanità intera come afferma Michea: “Il resto di Giacobbe sarà, in mezzo a molti popoli, come una rugiada venuta dal Signore” (5,6).

 

Seconda Lettura dalla Lettera agli Ebrei (12,1-4)

Ai cristiani perseguitati, l’autore della Lettera rivolge parole di incoraggiamento. Ha dedicato il capitolo 11 a presentare i grandi modelli di fede dell’Antico Testamento e domenica scorsa si parlava di Abramo e Sara. Qui, all’inizio del capitolo 12, afferma che tutti icredenti dell’Antico Testamento sono come una “nube di testimoni” che ci circonda: una nube di protettori. L’autore non si accontenta di raccomandare ai cristiani di imitare la fiducia e la costanza dei grandi personaggi del passato, ma li invita a «tenere fisso lo sguardo su Gesù», il testimone sempre presente, colui che ha detto: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20), origine alla fede e suo compimento. Una traduzione più letterale sarebbe: Gesù è il “pioniere della fede” e il termine greco utilizzato ρχηγός archēgós tradotto con “pioniere” indica capo, condottiero, pioniere, iniziatore, fondatore, colui che apre la via e guida in avanti, una guida perfetta di cui ci si può fidare perché  conduce al pieno compimento. Infatti, egli stesso ha attraversato la prova della perseveranza, nella quale anche i cristiani sono ora impegnati. Molto più dura la sua prova: venuto come lo Sposo, per la gioia di una festa di nozze, aveva detto parlando di sé che non si può far digiunare gli invitati finché lo sposo è con loro (cf. Mc 2,19), ma lo Sposo non fu riconosciuto ed  anzi, rinunciando alla gioia che gli era posta innanzi, sopportò la croce disprezzando l’infamia di quel supplizio. San Paolo lo dice in altro modo scrivendo ai Filippesi: “Pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo… umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e a una morte di croce” (Fil 2,6-8). Un tale contrasto è persino inimmaginabile: venuto a salvare l’umanità dal peccato, il Cristo ha ricevuto un drammatico rifiuto,  ucciso a causa del peccato degli uomini: “Pensate attentamente colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori”(v.3) . Sia la Lettera agli Ebrei sia quella ai Filippesi sottolineano che Gesù è nostro modello e sostegno non per la quantità delle sue sofferenze, ma per la sua “obbedienza” fino alla morte, e a una morte di croce, come scrive Paolo mentre nella Lettera agli Ebrei si legge che pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì (cf. 5,8). Obbedire – dal latino ob-audire – significa letteralmente “porre l’orecchio davanti alla Parola” che è l’attitudine della fiducia assoluta. Gesù nella situazione più estrema mantiene totale fiducia nel Padre, che sempre presente e attento al suo Figlio amato, condivide la sua sofferenza e le sue angosce: “rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2 Tm 2,13). Segue il trionfo dell’Amore di Dio e Cristo siede alla destra di Dio, regna con lui. Questo stesso trionfo viene promesso a coloro che sopportano la persecuzione come Cristo. L’autore non esita a usare la parola “lotta” per descrivere questo coraggio: i cristiani a cui scrive rischiano visibilmente la vita per restare fedeli a Gesù che così aveva avvertito: “Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi… Ma con la vostra perseveranza salverete la vostra vita” (Lc 21,12 - 19). In tutto il mondo, alcuni cristiani sono direttamente coinvolti da questa sorte perché stanno vivendo persecuzioni aperte o nascoste. A noi, che almeno per il momento non conosciamo la persecuzione diretta, è chiesto di essere testimoni parlando con coraggio di Dio e difendendo la sua verità.

 

Dal Vangelo secondo Luca (12,49-53)

Gesù paragona la sua missione a un fuoco: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!” Fin dal fuoco della Pentecoste, questo annuncio fu come una fiamma diffusasi rapidamente: nel popolo ebraico appariva come distruttore di tutto l’edificio religioso, nel mondo pagano era considerato come una contagiosa follia. San Paolo scrive ai Corinzi: “Noi predichiamo un Messia crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani.” (1 Cor 1,23). Questo fuoco lascia tracce indelebili: coloro che si lasciano ardere dal Vangelo e coloro che lo rifiutano diventano irrimediabilmente antagonisti, anche se uniti da legami familiari per cui si realizza ciò che descriveva con desolazione il profeta Michea nel suo tempo di angoscia: “Il figlio insulta il padre, la figlia si ribella contro la madre, la nuora contro la suocera; i nemici di ciascuno sono i suoi familiari.” (Mi 7,6). Quando Gesù annuncia queste lacerazioni, non si tratta di un semplice presentimento: parla per esperienza come avvenne a Nazaret dove, dopo un primo entusiasmo, i suoi amici d’infanzia e i suoi familiari si rivoltano contro di lui, perché aveva appena detto che la sua missione superava i confini d’Israele (Lc 4,28-29). E non è l’unica volta in cui Gesù si scontra con l’incomprensione, persino l’opposizione dei suoi: san Giovanni scrive che nemmeno i suoi fratelli credevano in lui (cf. Gv 7,5). Del resto, Gesù non esita a dire ai suoi discepoli che una delle condizioni per annunciare il Regno di Dio è accettare possibili separazioni dolorose. Se infatti lo si vuole seguire, ma non lo si ama più delle persone più care e perfino più della  propria vita, mai si diventa suoi discepoli. (cf. Lc 14,26) per cui il fuoco che egli ha acceso conduce a scelte radicali. Israele attendeva un Messia che portasse la pace al mondo, essendo ben note le profezie di Isaia (Is 2;11), Gesù invece annuncia divisioni: “Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione.” La pace di Gesù esige la conversione radicale del cuore, ma a questa conversione molti si opporranno con tutte le forze. Il suo annuncio di pace incontrerà il favore di alcuni, ma l’opposizione di molti: venuto tra noi per annunciare l’amore e la salvezza, ha  subìto sofferenza e  morte, come egli stesso aveva predetto: “È necessario che il Figlio dell’uomo soffra molto, sia rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venga ucciso e il terzo giorno risorga.” (Lc 9,22). E ancora: sarà consegnato ai pagani, deriso, insultato, sputato, flagellato e ucciso, ma risorgerà il terzo giorno (cf Lc 18,32). La sua risurrezione ci infonde coraggio: vivificati dal suo Spirito effuso su di noi, non abbiamo paura di incendiare il mondo con il fuoco della sua carità.

+ Giovanni D’Ercole

Assunzione della Beata Vergine Maria [15 Agosto 2025]

Dio ci benedica e la Vergine ci protegga. Per la Festa dell’Assunzione ho elaborato diversi testi perché sono passaggi biblici che tornano spesso nelle feste mariane e quindi possono spero risultare utili per incontri, catechesi e meditazioni. Auguro di cuore una santa e serena festa dell’Assunzione di Maria a voi tutti.

 

 *Prima Lettura dal Libro dell’Apocalisse (11, 19a; 12, 1-6a. 10ab)

La prima frase che leggiamo è la conclusione del capitolo 11 dell’Apocalisse, che preannuncia  la fine dei tempi e la vittoria di Dio su tutte le forze del male, come già detto al v.15: “Nel cielo si alzarono voci potenti che dicevano: Il regno del mondo appartiene ormai al nostro Signore e al suo Cristo, ed egli regnerà nei secoli dei secoli”. Per esprimere questo messaggio di vittoria, come sempre nell’Apocalisse, san Giovanni usa numerose immagini: abbiamo visto, in successione, l’Arca dell’Alleanza e tre personaggi: la donna, il drago, poi il neonato..L’Arca dell’Alleanza richiama la famosa arca, lo scrigno di legno dorato che accompagnava il popolo durante l’Esodo sul Sinai e che ricordava costantemente al popolo d’Israele l’Alleanza con Dio. In verità l’arca era scomparsa al tempo dell’esilio a Babilonia; si raccontava che Geremia l’avesse nascosta da qualche parte sul monte Nebo (2 Mac 2,8) e si credeva che sarebbe riapparsa al momento della venuta del Messia. Giovanni la vede riapparire: “Si aprì il tempio di Dio, che è nel cielo e apparve nel tempio l’arca della sua Alleanza” (11,19). Questo è il segno che la fine dei tempi è giunta: l’alleanza eterna di Dio con l’umanità è finalmente compiuta in modo definitivo. Poi appare “una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta, gridava per le doglie e il travaglio del parto”. Chi rappresenti questa donna? L’Antico Testamento ci dà la chiave, perché spesso il rapporto tra Dio e Israele è descritto in termini nuziali come in Osea (2,21-22), mentre Isaia sviluppa il tema delle nozze fino a presentare la venuta del Messia come un parto, poiché è da Israele che deve nascere il Messia (66,7-8). La donna qui descritta rappresenta il popolo eletto che genera il Messia: un parto doloroso per i discepoli di Cristo perseguitati ai quali Giovanni dice: state partorendo l’umanità nuova. Il secondo personaggio è il drago, posto davanti alla donna per divorare il figlio appena nato, che indica la lotta delle forze del male contro il progetto di Dio. Per i cristiani perseguitati ai quali l’Apocalisse si rivolge, la parola “drago” non è esagerata e la descrizione impressionante rivela la violenza che li colpisce: il drago è enorme, rosso fuoco, con sette teste e dieci corna, e sulle teste sette diademi. Teste e corna rappresentano intelligenza e potenza, i diademi indicano il potere imperiale che mostra una reale capacità di nuocere trascinando un terzo delle stelle del cielo e le scaglia sulla terra. Solo un terzo però per cui non è una vera vittoria, e il resto del testo dirà che il potere del male è solo provvisorio. Ed ecco l’infante: “La donna partorì un figlio, un maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro”: si tratta chiaramente del Messia e allude a una frase del Salmo 2: “Il Signore mi ha detto: Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato. Chiedimi e ti darò in eredità le genti, in possesso le estremità della terra. Le spezzerai con scettro di ferro” (Sal 2,7-9). “Il figlio fu rapito verso Dio e verso il trono” simbolo della risurrezione di Cristo, che i cristiani consideravano il Primogenito, ormai seduto alla destra di Dio. I cristiani vivono in un mondo difficile, ma sono certi della protezione di Dio: questo è il significato del deserto, che richiama ancora una volta l’esodo, durante il quale Dio non ha mai cessato di prendersi cura del suo popolo e per questo possono stare tranquilli: se il drago ha fallito nel cielo, non potrà vincere nemmeno sulla terra. Ai primi cristiani duramente perseguitati l’Apocalisse annuncia la vittoria: “Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo” (Ap 12,10).

Complementi  1.La lettura liturgica non propone la fine di Ap 11,19, ma vale la pena leggerla: la scena descritta (lampi, voci, tuoni, terremoto) richiama il momento della conclusione dell’Alleanza sul Sinai. «Allora ci furono lampi, voci, tuoni, un terremoto e una forte grandine» (Ap 11,19), da confrontare con: «Il terzo giorno, al mattino, ci furono tuoni, lampi, una nube densa sulla montagna e un suono fortissimo di tromba» (Es 19,16). 

2. l’Apocalisse si rivolge a cristiani perseguitati per sostenerli nella prova: il suo contenuto, dall’inizio alla fine, è messaggio di vittoria; ma tutto è codificato per cui va decifrato e in effetti, fin dalle prime parole, l’autore afferma che il drago non potrà ostacolare la salvezza di Dio. Riguardo allo scettro di ferro del Messia, ci aiuta a capire la profezia di Balaam (Nm 24,17). Una rilettura cristiana successiva ha applicato la visione della donna alla Vergine Maria e per questo la liturgia ci propone questo testo nella festa dell’Assunzione di Maria perché lei è la prima a beneficiare del trionfo di Cristo. Questa lotta del drago contro la donna richiama il racconto della Genesi: “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno” (Gn 3,15). Testo che offre una bellissima definizione della salvezza: la forza e la regalità del nostro Dio (Ap 12,10).

 

*Salmo responsoriale (44 /45, 11-16)

Oggi leggiamo solo la seconda parte del Salmo 44/45, che si rivolge alla sposa del re di Gerusalemme, nel giorno delle sue nozze. La prima parte del salmo parla del re stesso, coperto di elogi per le sue virtù a cui viene promesso un regno glorioso e che Dio stesso ha scelto. La seconda parte, nella festa dell’Assunzione, si rivolge alla giovane principessa che sta per diventare la sposa del re. A un primo livello, dunque, questo salmo sembra descrivere nozze regali: il re d’Israele si unisce a una principessa straniera per suggellare l’alleanza tra due popoli, caso frequente in Israele come altrove. Nella storia dell’umanità, si sono viste molte alleanze politiche sancite da matrimoni. Ma, poiché la religione di Israele è un’Alleanza esclusiva con l’unico Dio, ogni giovane straniera che diventava regina a Gerusalemme doveva accettare una condizione particolare: sposare anche la religione del re. Concretamente, in questo salmo, la principessa che viene da Tiro — come ci viene detto — e che viene introdotta alla corte del re d’Israele, dovrà rinunciare alle pratiche idolatriche per essere degna del suo nuovo popolo e del suo sposo: “Ascolta, figlia, guarda, porgi l’orecchio: dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre”. Questo fu un problema cruciale al tempo del re Salomone, che aveva sposato donne straniere, e quindi pagane e più tardi, al tempo del re Acab e della regina Gezabele: ricordiamo il grande scontro del profeta Elia contro i numerosi sacerdoti e profeti di Baal che Gezabele aveva portato con sé alla corte di Samaria. Ma, per chi sa leggere tra le righe, questi consigli dati alla principessa di Tiro in realtà sono rivolti a Israele: lo sposo regale descritto nel salmo non è altri che Dio stesso, e questa “figlia di re, condotta tutta adorna verso il suo sposo” è il popolo d’Israele ammesso all’intimità con il suo Dio. Ancora una volta, colpisce l’audacia degli autori dell’Antico Testamento nel descrivere la relazione tra Dio e il suo popolo, e, attraverso di esso, con tutta l’umanità.  Il profeta Osea, per primo, paragonò Israele a una sposa (Os 2,16…18). Dopo di lui, Geremia, Ezechiele, il secondo e il terzo Isaia hanno sviluppato il tema delle nozze tra Dio e il suo popolo;e nei loro testi ritroviamo tutto il vocabolario nuziale: i nomi affettuosi, l’abito da sposa, la corona nuziale, la fedeltà (cf Ger 2,2; Is 62,5). Purtroppo, questa sposa, troppo umana, fu spesso infedele, cioè idolatra e gli stessi profeti definiranno le infedeltà del popolo come adultèri, cioè come ritorni all’idolatria. Il linguaggio allora si precisa: gelosia, adulterio, prostituzione, ma anche riconciliazione e perdono, perché Dio resta sempre fedele. Isaia, per esempio, parla delle deviazioni di Israele come una delusione amorosa nel  celebre canto della vigna (Is 5,1-7; 54,4-10). L’idolatria occupa tanto spazio nei discorsi dei profeti perché l’alleanza tra Dio e l’umanità, questo progetto salvifico, passa attraverso la fedeltà d’Israele. Israele lo sa: la sua elezione non è esclusiva, ma solo restando fedele al Dio unico potrà compiere la sua vocazione di testimone presso tutte le nazioni. In Maria la Bibbia osa affermare che Dio ha chiesto in sposa l’umanità intera. Celebrando l’Assunzione di Maria e la sua introduzione nella gloria di Dio, intuiamo in anticipo l’ingresso dell’intera umanità, sulle sue orme, nell’intimità con il suo Dio.

 

Seconda Lettura dalla prima Lettera di san Paolo ai Corinti (1 Cor 15, 20 - 27a)

La liturgia ci propone oggi una meditazione di Paolo sulla risurrezione di Cristo, in contrasto con la morte di Adamo. Abbiamo dunque una pista di riflessione: che cosa hanno in comune Cristo e Maria? E che cosa invece non ha Adamo? Il vangelo della Visitazione ci fa contemplare in Maria colei che ha creduto e ha accettato di entrare nel progetto di Dio, senza capire tutto. La sua risposta all’Angelo è il modello dei credenti: “Avvenga di me secondo la tua parola (Lc 1,38), sono la serva del Signore pronta a mettere la vita al servizio dell’opera di Dio. Nel Magnificat Maria rivela le sue preoccupazioni più profonde rileggendo la propria vita alla luce del grande progetto di Dio per il suo popolo, a favore di Abramo e della sua discendenza per sempre, come aveva promesso ai padri. Fin dall’inizio, nella Bibbia, si era compreso che questa è l’unica cosa che Dio ci chiede: essere pronti a dire: Eccomi. Abramo, Mosè, Samuele – chiamati da Dio – seppero rispondere così. E grazie a loro, l’opera di Dio ha potuto compiere ogni volta un passo avanti. Il Nuovo Testamento propone come esempio Gesù Cristo che nel racconto delle Tentazioni, risponde alle seduzioni del tentatore con le sole parole della fede. E se ci insegna a dire, nel Padre Nostro, sia fatta la tua volontà, è perché questo è il suo pensiero centrale come dice ai discepoli nell’episodio della Samaritana: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34). Nel Getsemani, non si smentisce: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26,39). E l’autore della Lettera agli Ebrei riassume così tutta la vita di Gesù: «Entrando nel mondo, Cristo dice: Ecco, io vengo per fare la tua volontà» (Eb 10,5…10). Se in ogni tempo e in ogni circostanza Gesù si sottomette alla volontà del Padre, è perché si fida. Anche di lui si potrebbe dire:«Beato colui che ha creduto…».La sua risurrezione dimostra che la via della fede è davvero la via della vita, anche se passa attraverso la morte fisica. Nella Lettera ai Romani e in quella ai Corinzi, Paolo contrappone il comportamento di Cristo a quello di Adamo: Adamo è colui al quale tutto è stato offerto – l’albero della vita, il dominio sul creato – ma non ha creduto alla benevolenza di Dio rifiutando di sottomettersi ai sui comandamenti. L’apostolo non vuole raccontare cosa sarebbe successo se Adamo non avesse peccato, ma intende ricordarci che esiste una sola via che conduce alla vita e c’introduce nella gioia di Dio. Adamo volta le spalle all’albero della vita quando comincia a dubitare di Dio e Paolo lo dice al presente, perché per lui Adamo non è un uomo del passato, ma un un modo di essere uomini.  Come osservano i rabbini: Ognuno è Adamo per sé stesso. Si comprende allora meglio l’affermazione di Paolo che in Adamo tutti muoiono cioè, comportandoci come Adamo, ci allontaniamo da Dio e ci separiamo dalla vita vera che Egli vuole donarci in abbondanza. Al contrario, scegliere la via della fiducia, come ha fatto Cristo, a qualsiasi costo, è entrare la vera vita: “La vita eterna è che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3). Conoscere, nel linguaggio biblico, significa credere, amare, fidarsi. Paolo asserisce che in Cristo tutti torneranno alla vita innestandosi in lui, adottando cioè il suo stesso modo di vivere. L’odierna festa dell’Assunzione di Maria ci aiuta a contemplare la realizzazione del progetto di Dio sull’uomo, quando non viene ostacolato. Maria pienamente umana non ha agito come Adamo ed esprime il destino che ogni uomo avrebbe avuto se non ci fosse stata la caduta dei progenitori. Come ogni essere umano, ha conosciuto l’invecchiamento e un giorno ha lasciato questa vita addormentandosi nel Signore: è la “Dormizione” della Vergine. Possiamo dunque affermare due semplici verità: Il nostro corpo non è programmato per durare eternamente così com’è sulla terra e Maria, tutta pura e piena di grazia, si è addormentata. Adamo però ha ostacolato il progetto di Dio e la trasformazione del corpo che avremmo potuto conoscere, cioè  la dormizione, è diventata morte con il suo seguito di sofferenze e fragilità perché la morte che tanto ci fa soffrire, è entrata nel mondo a causa del peccato. Ma là dove è entrata la forza della morte Dio ridà la vita: Gesù è ucciso dall’odio degli uomini, ma il Padre lo risuscita, il primo dei risorti che ci fa entrare nella vera vita,  in cui regna l’amore. Elisabetta dice a Maria: “Beata colei che ha creduto…”;Gesù applica questa beatitudine a tutti coloro che credono: “Mia madre e i miei fratelli sono coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8,21).

NOTA Quando il Risorto apparve a Saulo di Tarso sulla via di Damasco, la regalità di Cristo si impose a lui come una evidenza e questa certezza abiterà tutte le sue parole, tutti i suoi pensieri perché per lui Cristo, vincitore della morte, è anche il vincitore di tutte le forze del male, il Messia atteso da secoli. Per questo, in tutte le sue lettere si riconoscono le espressioni dell’attesa messianica del tempo: “Tutto sarà compiuto quando Cristo consegnerà il Regno a Dio Padre, dopo aver distrutto tutte le potenze del male”;oppur “Egli deve regnare finché non avrà posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi”, come leggiamo nel Salmo 110 (109).

 

Dal vangelo secondo Luca (1, 39 – 56)

Dopo i racconti dell’Annunciazione a Zaccaria per la nascita di Giovanni Battista, a Maria per la nascita di Gesù segue l’episodio della “Visitazione” che ha l’aspetto di un racconto familiare, ma non bisogna lasciarsi ingannare: in realtà, Luca sta scrivendo un’opera profondamente teologica. Bisogna dare tutto il peso alla frase centrale: “Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce”: E’ lo Spirito Santo a parlare per annunciare, fin dall’inizio del vangelo, quella che sarà la grande notizia di tutto il racconto di Luca: colui che è stato appena concepito è il Signore. Elisabetta proclama: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo”: Dio agisce in te e per mezzo di te, agisce nel Figlio che porti in grembo e per mezzo di lui. Come sempre, lo Spirito Santo permette di scoprire, nella nostra vita e in quella degli altri — di tutti gli altri — la traccia dell’opera di Dio. Luca certamente non ignora che la frase di Elisabetta, «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo», riprende almeno in parte una frase dell’Antico Testamento che si trova nel libro di Giuditta (Gdt 13,18-19): quando Giuditta torna dall’accampamento nemico, dove ha decapitato il generale Oloferne, viene accolta nel suo campo da Ozia che le dice: «Tu sei benedetta fra tutte le donne e benedetto è il Signore Dio». Maria viene quindi paragonata a Giuditta. E il parallelo tra le due frasi suggerisce due cose: il riprendere l’espressione benedetta fra tutte le donne fa intendere che Maria è la donna vittoriosa che garantisce all’umanità la vittoria definitiva sul male; quanto alla parte finale (per Giuditta: benedetto è il Signore Dio, per Maria: benedetto il frutto del tuo grembo), annuncia che il frutto del grembo di Maria è il Signore stesso. Dunque, questo racconto di Luca non è un semplice aneddoto e si può confrontare la forza delle parole di Elisabetta con il mutismo di Zaccaria.  Piena di Spirito Santo, Elisabetta ha la forza di parlare; Zaccaria resta muto perché aveva dubitato delle parole dell’angelo che gli annunciavano la nascita di Giovanni Battista. Anche Giovanni Battista manifesta la sua gioia: Elisabetta dice che egli “ha sussultato di gioia” appena ha udito la voce di Maria e anche lui è pieno di Spirito Santo, come aveva annunciato l’angelo a Zaccaria: “Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita. Tua moglie Elisabetta ti darà un figlio e tu lo chiamerai Giovanni. Avrai gioia ed esultanza, e molti si rallegreranno per la sua nascita… egli sarà pieno di Spirito Santo fin dal grembo materno”. Elisabetta si domanda: “A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me?”. Anche qui c’è un richiamo a un episodio dell’Antico Testamento: l’arrivo dell’Arca dell’Alleanza a Gerusalemme (2 Sam 6, 2-11). Dopo essersi stabilito come re a Gerusalemme e aver costruito un palazzo degno del re d’Israele, Davide decide di far salire l’Arca dell’Alleanza nella nuova capitale. Ma è diviso tra fervore e timore. All’inizio c’è una tappa vissuta con gioia: “Davide radunò tutta l’élite d’Israele, trentamila uomini. Si mise in cammino con tutto il popolo… per far salire l’arca di Dio sul quale è invocato il Nome, il Nome del Signore degli eserciti che siede sui cherubini…”. Ma accade un incidente: un uomo che tocca l’arca senza esserne autorizzato muore all’istante.Allora la paura ha il sopravvento su Davide, che esclama: “Come potrà venire da me l’arca del Signore?”. Il viaggio si interrompe: Davide preferisce lasciare l’arca nella casa di un certo Obed-Edom, dove rimane tre mesi, portando benedizioni su quella casa. Davide si rassicura: “Fu detto al re Davide: il Signore ha benedetto la casa di Obed-Edom e tutto ciò che gli appartiene, a causa dell’arca di Dio” e fa salire l’arca a Gerusalemme con grande gioia, danzando con tutte le sue forze davanti al Signore. È evidente che Luca ha voluto accumulare nel racconto della Visitazione molti dettagli che richiamano questa salita dell’arca: i due viaggi, quello dell’arca e quello di Maria, avvengono nella stessa regione, i monti di Giudea; l’arca entra nella casa di Obed-Edom e porta benedizione (2 Sam 6,12), Maria entra nella casa di Zaccaria ed Elisabetta e porta benedizione; l’arca resta tre mesi da Obed-Edom, Maria rimane tre mesi da Elisabetta; Davide danza davanti all’arca e Giovanni Battista salta di gioia davanti a Maria. Tutto ciò non è casuale. Luca ci invita a contemplare in Maria la nuova Arca dell’Alleanza. E l’arca era il luogo della Presenza di Dio. Maria porta in sé, misteriosamente, questa Presenza di Dio: d’ora in poi Dio abita la nostra umanità. “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.” Tutto questo, grazie alla fede di Maria: Alle parole di Elisabetta Maria intona il Magnificat.

NOTA SUL MAGNIFICAT. In questa pagina di Luca, troviamo tantissimi riferimenti ad altri testi biblici e si possono riconoscere frammenti di molti salmi in quasi tutte le frasi. Questo significa che Maria non ha inventato le parole della sua preghiera: per esprimere il suo stupore davanti all’azione di Dio, riprende semplicemente espressioni già pronunciate dai suoi antenati nella fede.C’è già qui una doppia lezione: una lezione di umiltà, innanzitutto. Messa davanti a una situazione eccezionale, Maria utilizza semplicemente le parole della preghiera del suo popolo. C’è poi una lezione di senso comunitario, potremmo dire di senso ecclesiale sinodale. Nessuna delle citazioni bibliche contenute nel Magnificat ha un carattere individualista ma tutte riguardano il popolo intero. Questa è una delle grandi caratteristiche della preghiera biblica, e quindi della preghiera cristiana: il credente non dimentica mai di appartenere a un popolo e che ogni vocazione, lungi dal separarlo, lo mette al servizio di quel popolo. Quanto alle radici bibliche del Magnificat si può dire che è una rilettura dell’intera storia della salvezza: Dio ha compiuto meraviglie nei secoli, e continua ad agire nel presente.  A.Nel passato: Ha guardato l’umiltà della sua serva; Ha compiuto grandi cose per Maria; Ha spiegato la potenza del suo braccio; Ha disperso i superbi; Ha rovesciato i potenti dai troni; Ha innalzato gli umili; Ha ricolmato di beni gli affamati; Ha rimandato i ricchi a mani vuote; Ha soccorso Israele, suo servo. B. Nel presente: Maria può proclamare: “Tutte le generazioni mi chiameranno beata” ed è vero ancora oggi. Il Signore fa misericordia di generazione in generazione. La misericordia di Dio è una realtà sempre presente per coloro che lo temono, cioè per coloro che si aprono alla sua grandezza. Il Magnificat ci insegna quindi a contemplare l’opera di Dio in tutta la storia, nella vita del popolo e nella nostra vita.Infine, il Magnificat si inserisce nel cuore della teologia di Luca: Dio capovolge le sorti: i potenti sono abbassati, gli umili innalzati; i ricchi vengono svuotati, i poveri riempiti. Questo “capovolgimento” è già presente nei profeti (soprattutto in Isaia e nel Primo Libro di Samuele), ma Luca lo pone al centro del suo Vangelo, che è pieno di parabole e di racconti in cui Dio dà la preferenza agli ultimi, ai piccoli, ai peccatori, ai poveri. Questa preghiera è dunque profondamente rivoluzionaria: non nel senso di una rivoluzione violenta, ma di una rivoluzione spirituale e sociale che passa per la misericordia, la giustizia, l’umiltà, e la fede.

+ Giovanni D’Ercole

Dalle usanze coi limiti alla Spiritualità dei beni-Relazione

(Mt 19,16-22)

 

Al tempo di Gesù si viveva un momento di collasso sociale e disgregazione della dimensione comunitaria della vita - nel passato più legata alla famiglia, al clan e alla comunità.

La politica di Erode garantiva all’Impero il controllo della situazione: una realtà di massimo sfruttamento e grave repressione economica e civile.

Le imposizioni religiose assicuravano persino l’asservimento delle coscienze - e le autorità spirituali si facevano volentieri garanti di questa più occulta forma di schiavitù.

La condizione di sottomissione totale (civile e religiosa) del popolo tendeva ovunque a sminuire il senso della fraternità interpersonale e di gruppo.

Non mancavano severe condizioni di esclusione sociale e cultuale, che accentuavano lo smarrimento della gente, emarginata, priva di dimora e di riferimenti - persino religiosi.

Alcuni movimenti tentavano di ritessere le lacerazioni e proporre forme di vita condivisa, certo - ma accomunate da un’idea di decontaminazione tormentosa [Esseni, Farisei, Zeloti].

Gesù sceglie la strada d’un riscatto vitale decisivo, rispetto alle ideologie della riscoperta del purismo ascetico e di costume.

Per un radicale compimento dello spirito della Legge bisognava andare oltre le dottrine. Esse eccitano alcuni, eppure non cancellano il nostro senso intimo di vuoto.

 

La comunità dei figli non si tiene nei ‘limiti’, e non vive separata; così non accentua i tormenti d’imperfezione, o la percezione d’incompiutezza, né le emarginazioni - bensì le accoglie.

Non si sente messa in pericolo dal contatto con le realtà che il legalismo esterno della devozione considerava pericolose e maledette o in peccato. Trepida per esse.

La Chiesa riconosce il valore delle povertà esistenziali: non gli basta cercare “cose buone” senza ‘fuoco’ dentro.

Confessa la ricchezza non di tutto ciò che risulta già riconoscibile e statico, bensì delle nuove posizioni e dei rapporti difformi, che aprono il presente e spalancano visioni creative di futuro.

La Fede insomma non è un credere popolaresco identificato e in grado di accreditare ruoli, mansioni e personaggi.

 

Ai vv.18-19 Gesù non enumera comandamenti che farebbero vivere l’interlocutore [come si diceva un tempo] ‘più da presso’ a ‘Dio solo’, ma i criteri che ci portano vicino e accanto a sorelle e fratelli.

L’onore riservato al Padre non è una delle tante forme di amore competitivo: la soglia è il prossimo.

Il Figlio neppure cita i primi comandamenti, identificativi del Signore eccelso del suo popolo.

Le nostre mani abbracciano il senza-tempo… nell’amore concreto.

Esse innescano i dinamismi che annientano i tormenti dei minimi, e così in modo impensabile aiutano a farci riscoprire il senso e la gioia di vivere - lasciando rinascere il mondo [assai più che con le solite forme assicurative].

La vita consapevole non ha a che fare con usanze e cliché [che producono alibi] ma con un’altra serenità e gioia: lo stupore dell’inconsueto e di nuovi gradi, posti, stati, relazioni, situazioni.

Non esiste altra ricchezza che possa riempire le nostre giornate, mentre non c’è che tristezza (v.22) nei vecchi legami senza umanità. Essi calano tutti noi in una realtà mentale ed emotiva artificiosa.

Distaccarsi dal calcolo immediato sembra una scelta assurda, campata per aria e destinata male, ma è viceversa la mossa vincente che apre le porte alla Vita nuova del Regno e alla Felicità, cui si accede appunto quando i beni materiali vengono trasformati in Relazione.

 

Liberiamoci dalla pletora di obbiettivi sbagliati, che schiacciano i nostri percorsi, rendendoli paludosi. Riflettiamo bene anche noi, dunque, su «ciò ch’è insigne» (v.17).

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Hai imparato a cogliere la tua vita a partire dalla Bontà di Dio, o a cullarti e accontentarti di quanto c’è?

 

 

[Lunedì 20.a sett. T.O.  18 agosto 2025]

Dalle usanze coi limiti alla Spiritualità dei beni-Relazione

 

(Mt 19,16-22)

 

Al tempo di Gesù si viveva un momento di collasso sociale e disgregazione della dimensione comunitaria della vita - nel passato più legata alla famiglia, al clan e alla comunità.

La politica di Erode garantiva all’Impero il controllo della situazione: una realtà di massimo sfruttamento e grave repressione economica e civile.

Le imposizioni religiose assicuravano persino l’asservimento delle coscienze - e le autorità spirituali si facevano volentieri garanti di questa più occulta forma di schiavitù.

La condizione di sottomissione totale (civile e religiosa) del popolo tendeva ovunque a sminuire il senso della fraternità interpersonale e di gruppo.

Non mancavano severe condizioni di esclusione sociale e cultuale, che accentuavano lo smarrimento della gente, emarginata, priva di dimora e di riferimenti - persino religiosi.

Alcuni movimenti tentavano di ritessere le lacerazioni e proporre forme di vita condivisa, certo - ma accomunate da un’idea di decontaminazione tormentosa [Esseni, Farisei, Zeloti].

Gesù sceglie la strada d’un riscatto vitale decisivo, rispetto alle ideologie della riscoperta del purismo ascetico e di costume, tradizionalista nazionalista fondamentalista.

Per un radicale compimento dello spirito della Legge bisognava andare oltre le dottrine. Esse eccitano alcuni, eppure non cancellano il nostro senso intimo di vuoto.

 

La comunità dei figli non si tiene nei ‘limiti’, e non vive separata; così non accentua i tormenti d’imperfezione, o la percezione d’incompiutezza, né le emarginazioni - bensì le accoglie.

Non si sente messa in pericolo dal contatto con le realtà che il legalismo esterno della devozione antica considerava pericolose e maledette o in peccato. Trepida per esse.

La Chiesa riconosce il valore delle povertà esistenziali: non gli basta cercare “cose buone” senza ‘fuoco’ dentro.

Confessa la ricchezza non di tutto ciò che risulta già riconoscibile e statico, bensì delle nuove posizioni e dei rapporti difformi, che aprono il presente e spalancano visioni creative di futuro.

La Fede insomma non è un credere popolaresco identificato e in grado di accreditare ruoli, mansioni e personaggi - e i loro vantaggi, da cui tutti dovrebbero dipendere [!].

Né la dimensione-ricchezza può fare ancora rima con differenziazione-sicurezza.

 

Ai vv.18-19 Gesù non enumera comandamenti che farebbero vivere l’interlocutore [come si diceva un tempo] ‘più da presso’ a ‘Dio solo’, ma i criteri che ci portano vicino e accanto a sorelle e fratelli.

L’onore riservato al Padre non è una delle tante forme di amore competitivo: la soglia è il prossimo.

Il Dio delle religioni è un ragazzino capriccioso che pretende il pezzo grande della torta, a merenda: ma il Figlio non c’inganna con le idee più infantili delle credenze diffuse.

Neppure cita i primi comandamenti, identificativi del Signore eccelso del suo popolo.

Le nostre mani abbracciano il senza-tempo nell’amore concreto.

Esse innescano i dinamismi che annientano i tormenti dei minimi, e così in modo impensabile aiutano a farci riscoprire il senso e la gioia di vivere - lasciando rinascere il mondo, assai più che con le solite forme assicurative (sacralizzanti titoli e livelli economici acquisiti).

La vita consapevole non ha a che fare con usanze e cliché [che producono alibi] ma con un’altra serenità e gioia: lo stupore dell’inconsueto e di nuovi gradi, posti, stati, relazioni, situazioni.

Non esiste altra ricchezza che possa riempire le nostre giornate, mentre non c’è che tristezza (v.22) nei vecchi legami senza umanità. Essi calano tutti noi in una realtà mentale ed emotiva artificiosa.

Distaccarsi dal calcolo immediato sembra una scelta assurda, campata per aria e destinata male, ma è viceversa la mossa vincente che apre le porte alla Vita nuova del Regno e alla Felicità, cui si accede appunto quando i beni materiali vengono trasformati in Relazione.

 

Non conosciamo disciplina religiosa che tenga [e che riesca a sfidare il tempo, le nostre emozioni].

Solo il rischio per la Vita completa - nostra, di tutti - fa da molla alla volontà e spinge a piena dedizione.

Dice il Tao (xiii): «A chi di sé fa pregio a pro del mondo, si può affidare il mondo; a chi di sé ha cura a pro del mondo, si può confidare il mondo».

E il maestro Ho-shang Kung commenta: «Se facessi sì da non tenere alla mia persona, avrei in me la spontaneità del Tao: mi solleverei con leggerezza innalzandomi fino alle nubi, entrerei e uscirei là dove non sono interstizi, porrei lo spirito in comunicazione col Tao. Allora quale sventura avrei?».

Liberiamoci dalla pletora di obbiettivi sbagliati, che schiacciano i nostri percorsi, rendendoli paludosi. Riflettiamo bene anche noi, dunque, su «ciò ch’è insigne» (v.17).

 

 

Per interiorizzare e vivere il messaggio:

 

Grazie alle guide spirituali hai imparato a cogliere la tua vita a partire dalla Bontà di Dio, o a cullarti e accontentarti di quanto c’è?

Nella Chiesa hai trovato realizzato il criterio di Gesù, il forte desiderio di Bene anche altrui, in grado d’indicare un percorso? O più attenzione alle cose della terra?

 

 

Uno ti manca

 

Ereditare la Vita dell’Eterno

(Mc 10,17-27)

 

Cosa ci sfugge, malgrado la convinzione e il coinvolgimento? Per quale alto motivo abbiamo fatto alcune scelte comportamentali?

Anche se dedicassimo anni d’impegno al cammino spirituale in religione, ci accorgeremmo che infine non manca solo la ciliegina sulla torta, ma l’Uno globale.

Non è sufficiente accentuare o perfezionare le cose buone, bisogna fare un Balzo; non basta un passetto (anche alternativo) in più.

Paradossalmente si parte dalla percezione d’una ferita interiore che smuove (v.17) alla ricerca di quel Bene che unifica e dà senso alla vita.

Gesù fa riflettere su ciò che è da considerare «Insigne» (così il testo greco: vv.17-18).

Non è un magistero per i lontani, bensì per noi: «Uno ti manca!» - come se volesse sottolineare: «Ti manca il Tutto, non hai quasi niente!».

La vita normale procede, ma il cammino di fiducia difetta. Non c’è stupore.

Il nostro andare non si consolida né qualifica adeguandosi all’ambiente circostante, aggiungendo patrimonio a patrimonio e scansando peccatucci, o - soprattutto - le incognite.

Mancano troppe cose: la sfida del di più personale, la cura altrui, il confronto con la drammaticità del reale: non c’è unità, scarseggia la Presenza autentica che lancia l’amore nello spirito di avventura.

Non si tratta di avere uno spunto in aggiunta a quanto già possediamo, continuando a esserne schiavi (i titoli, il capitale o il soldo, che ci danno ordini come padroni; promettono, garantiscono, lusingano).

Non basta migliorare situazioni di relazione che conosciamo a memoria, facendosi approvare fin dal primo passo - né limitarsi ad approfondire pie curiosità saziando la gola spirituale.

Il passaggio dalla religiosità alla Fede che porta il nostro destino vocazionale e la piena realizzazione si gioca su una penuria di appoggi - in sistemi caotici di correlazione.

Per essere felici non vale “normalizzarsi” né rimanere persone perbene, devote, perché l’anima esige la sfida di cieli inesplorati.

Acque che non abbiamo sondato: lati di noi stessi, degli altri e della realtà che non abbiamo fatto emergere, e ancora forse non stiamo nemmeno scrutando.

Bisogna avventurarsi nei tratti basali e straordinari che oggi chiamano anche nel giorno dopo giorno; non attendere assicurazioni.

E il punto di partenza può anche essere l’accento del dubbio, una sana inquietudine dell’anima - il pericolo stesso... tipico dei testimoni critici.

 

Non tacitiamo il nostro essere malsicuro, né il senso d’insoddisfazione per una esistenza comune, senza scossoni: sono feconde sospensioni, che (quando pronti) ci attiveranno.

Sentirsi completo, realizzato, felice? Bisogna che sguardo e cuore cedano, non siano già occupati.

È assolutamente necessario lasciar andare le certezze dalla mente e dalla propria mano.

L’azzardo non è macerazione di sé o delle linee portanti della propria personalità - ma il temerario investire tutto per un altro regno, dove affiorano energie, si esplorano differenti rapporti; si tenta di sublimare i beni in matrice di vita (anche altrui: v.21).

 

Dopo che un senso d’incompletezza o persino l’infermità spirituale ci hanno spinti a una ricca sintonia con i codici dell’anima e condotti a tu per tu con Gesù (v.17) da Lui comprendiamo il segreto della Gioia.

Il nostro Nucleo rimane inquieto se non infonde corrispondenze che sorvolino - appunto - l’antico dominatore: i possedimenti, che fanno ristagnare.

Malgrado le garanzie promesse, essi rimangono stitici, privi di senso. 

Anzi, bloccandoci nella dipendenza fanno regredire quasi nel pre-umano - scippando la delizia delle relazioni aperte, nel rispetto di sé.

Le Radici profonde vogliono modificare il vettore dell’io paludoso e situato - “come si deve”, ben inserito o autoreferenziale - affinché dilati comprendendo il Tu e il tutto reale (vv.28-30).

È la Nascita della donna e dell’uomo nuovi, madri e padri dell’umanizzazione (in una comunità viva, che accetta la convivialità delle differenze). Ciò che sfiora la condizione divina.

In grado persino di rovesciare le posizioni (v.31). Segno escatologico e della Chiesa genuina. Nido e Focolare vero.

 

È la Genesi nell’autenticità delle energie cosmiche e delle potenze interiori, che stanno preparando tappe di crescita - altrove.

Via via si crea il calore e la reciprocità d’un rapporto comprensivo, lo scopo d’Amore in ciò che intraprendiamo o rifacciamo; come il tepore amico d’una Presenza non frigida.

Viviamo il discrimine colmo d’ebbrezza da cui non si torna indietro, perché ci colloca nella Vita stessa dell’Eterno (v.17). L’Uno che manca (v.21).

Mentre mi adopero per rimettermi in discussione o in favore degli altri, affiorano le risorse prima celate - che neppure sapevo.

Con stupore faccio esperienza d’una realtà che passo passo si dischiude... nonché del Padre che provvede a me (v.27).

In tale estensione, impariamo a riconoscere il (nuovo decisivo) Soggetto del cammino spirituale: il Disegno di Dio nell’essere stesso.

Sogno che conduce, e malgrado le traversie, le tempeste emotive, i nostri contorcimenti, si rivela via via Somigliante.

Come innato: schietto, genuino, limpido; inconfutabile, smagliante, scorrevole.

 

Inseriti nella Comunità che ode l’appello a “uscire”, ci smuoviamo dalle tortuosità dei ripiegamenti; ed ecco il Centuplo del Padre in tutto (vv.28-30).

Eccetto una cosa: siamo chiamati a essere Fratelli, sullo stesso piano. 

Non ci sarà nessun cento per uno di “padri” (nel senso antico), ossia di controllori condizionanti (vv. 29-30) che dettino il loro binario e ritmo, come a dei sottoposti.

Allora saremo nel nostro Centro, non perché identificati nel ruolo, bensì cesellati in modo stupefacente da sfaccettature d’Ignoto.

Una vita di attaccamenti o sottomessa a dirigismi blocca la creatività. 

Appiccicarsi un idolo,  lasciarsi plagiare o intimidire, ancorarsi alla paura di problemi o pre-occupazioni è come creare una camera buia.

Sentirsi programmabili, già progettati, senza un di più... subire i pareri ordinari o conformisti... esclude il vettore della Novità personale.

 

Chi si lascia inibire edifica una dimora artificiale, che non è casa sua, né la tenda del mondo.

Congetturando di riuscire a prevedere le avventure globali ci rattrappiamo, spaventiamo. Non si coglie ciò ch’è davvero nostro e altrui.

È quanto si palesa durante un processo - che diviene santo nell’esodo da se stessi e nella qualità di rapporti creativi.

Come ha detto il pontefice Francesco a Dublino: «Docili allo Spirito e non basati su piani tattici».

 

Sotto uno stimolo d’inedito e sconosciuto, sono le nuove genesi a permettere di spostare l’attenzione dal calcolo alla luminosità dell’anima, dal cervello all’occhio, dal ragionamento alla percezione.

 

Cosa devo «fare» (v.17)? Accogliere il Dono del diverso e delle differenze - persino nei miei stessi volti interiori, non di rado opposti; che completano.

Trasaliremo dell’Uno che manca, ma che ci raggiunge.

Non si fabbrica, ma si riceve, si «eredita» (v.17) gratuitamente - dal reale che preme.

 

«Dov’è l’Insigne per me?».

Per diventare ciò che autenticamente siamo nell’elezione della nostra sacra Sorgente, bisogna abbandonarsi alle cose, alle situazioni, persino agli ospiti emotivi inusitati - trattandoli con dignità, così come sono.

Dentro questo nuova terra antica c’è il segreto di quell’elevatezza che si staglia sui dilemmi, per ciascuno.

Con tutto il suo carico di stimolanti sorprese e appelli a rifiorire in pienezza umanizzante, il Buono sta nell’accogliere qualcosa che non so già cos’è o sarà, ma Viene.

 

«L’Unico ti manca!» - e il modo migliore per stimarne il contatto è una scommessa, matrice di essere: trasformare i beni (di ogni genere) in vita e relazione.

Il giovane del Vangelo - lo sappiamo - chiede a Gesù: “Che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Oggi non è facile parlare di vita eterna e di realtà eterne, perché la mentalità del nostro tempo ci dice che non esiste nulla di definitivo: tutto muta, e anche molto velocemente. “Cambiare” è diventata, in molti casi, la parola d’ordine, l’esercizio più esaltante della libertà, e in questo modo anche voi giovani siete portati spesso a pensare che sia impossibile compiere scelte definitive, che impegnino per tutta la vita. Ma è questo il modo giusto di usare la libertà? E’ proprio vero che per essere felici dobbiamo accontentarci di piccole e fugaci gioie momentanee, le quali, una volta terminate, lasciano l’amarezza nel cuore? Cari giovani, non è questa la vera libertà, la felicità non si raggiunge così. Ognuno di noi è creato non per compiere scelte provvisorie e revocabili, ma scelte definitive e irrevocabili, che danno senso pieno all’esistenza. Lo vediamo nella nostra vita: ogni esperienza bella, che ci colma di felicità, vorremmo che non avesse mai termine. Dio ci ha creato in vista del “per sempre”, ha posto nel cuore di ciascuno di noi il seme per una vita che realizzi qualcosa di bello e di grande. Abbiate il coraggio delle scelte definitive e vivetele con fedeltà! Il Signore potrà chiamarvi al matrimonio, al sacerdozio, alla vita consacrata, a un dono particolare di voi stessi: rispondetegli con generosità!

Nel dialogo con il giovane, che possedeva molte ricchezze, Gesù indica qual è la ricchezza più importante e più grande della vita: l’amore. Amare Dio e amare gli altri con tutto se stessi. La parola amore - lo sappiamo - si presta a varie interpretazioni ed ha diversi significati: noi abbiamo bisogno di un Maestro, Cristo, che ce ne indichi il senso più autentico e più profondo, che ci guidi alla fonte dell’amore e della vita. Amore è il nome proprio di Dio. L'Apostolo Giovanni ce lo ricorda: “Dio è amore”, e aggiunge che “non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio”. E “se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1Gv 4,8.10.11). Nell’incontro con Cristo e nell’amore vicendevole sperimentiamo in noi la vita stessa di Dio, che rimane in noi con il suo amore perfetto, totale, eterno (cfr 1Gv 4,12). Non c'è nulla, quindi, di più grande per l'uomo, un essere mortale e limitato, che partecipare alla vita di amore di Dio. Oggi viviamo in un contesto culturale che non favorisce rapporti umani profondi e disinteressati, ma, al contrario, induce spesso a chiudersi in se stessi, all’individualismo, a lasciar prevalere l’egoismo che c’è nell’uomo. Ma il cuore di un giovane è per natura sensibile all’amore vero. Perciò mi rivolgo con grande fiducia a ciascuno di voi e vi dico: non è facile fare della vostra vita qualcosa di bello e di grande, è impegnativo, ma con Cristo tutto è possibile!

[Papa Benedetto, Incontro con i Giovani, Torino 2 maggio 2010]

6. Il dialogo di Gesù con il giovane ricco, riferito nel capitolo 19 del Vangelo di san Matteo, può costituire un'utile traccia per riascoltare in modo vivo e incisivo il suo insegnamento morale: «Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: "Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?". Egli rispose: "Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti". Ed egli chiese: "Quali?". Gesù rispose: "Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso. Il giovane gli disse: "Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?". Gli disse Gesù: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi"«(Mt 19,16-21).

7. «Ed ecco un tale...». Nel giovane, che il Vangelo di Matteo non nomina, possiamo riconoscere ogni uomo che, coscientemente o no, si avvicina a Cristo, Redentore dell'uomo, e gli pone la domanda morale. Per il giovane, prima che una domanda sulle regole da osservare, è una domanda di pienezza di significato per la vita. E, in effetti, è questa l'aspirazione che sta al cuore di ogni decisione e di ogni azione umana, la segreta ricerca e l'intimo impulso che muove la libertà. Questa domanda è ultimamente un appello al Bene assoluto che ci attrae e ci chiama a sé, è l'eco di una vocazione di Dio, origine e fine della vita dell'uomo. Proprio in questa prospettiva il Concilio Vaticano II ha invitato a perfezionare la teologia morale in modo che la sua esposizione illustri l'altissima vocazione che i fedeli hanno ricevuto in Cristo, unica risposta che appaga pienamente il desiderio del cuore umano.

Perché gli uomini possano realizzare questo «incontro» con Cristo, Dio ha voluto la sua Chiesa. Essa, infatti, «desidera servire quest'unico fine: che ogni uomo possa ritrovare Cristo, perché Cristo possa, con ciascuno, percorrere la strada della vita».

[Papa Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor nn.6-7 cf.ss]

l Signore Gesù regala il compimento, è venuto per questo. Quell’uomo doveva arrivare sulla soglia di un salto, dove si apre la possibilità di smettere di vivere di sé stessi, delle proprie opere, dei propri beni e – proprio perché manca la vita piena – lasciare tutto per seguire il Signore. A ben vedere, nell’invito finale di Gesù – immenso, meraviglioso – non c’è la proposta della povertà, ma della ricchezza, quella vera: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!» (v. 21).

Chi, potendo scegliere fra un originale e una copia, sceglierebbe la copia? Ecco la sfida: trovare l’originale della vita, non la copia. Gesù non offre surrogati, ma vita vera, amore vero, ricchezza vera! Come potranno i giovani seguirci nella fede se non ci vedono scegliere l’originale, se ci vedono assuefatti alle mezze misure? È brutto trovare cristiani di mezza misura, cristiani – mi permetto la parola – “nani”; crescono fino ad una certa statura e poi no; cristiani con il cuore rimpicciolito, chiuso. È brutto trovare questo. Ci vuole l’esempio di qualcuno che mi invita a un “oltre”, a un “di più”, a crescere un po’. Sant’Ignazio lo chiamava il “magis”, «il fuoco, il fervore dell’azione, che scuote gli assonnati».

La strada di quel che manca passa per quel che c’è. Gesù non è venuto per abolire la Legge o i Profeti ma per dare compimento. Dobbiamo partire dalla realtà per fare il salto in “quel che manca”. Dobbiamo scrutare l’ordinario per aprirci allo straordinario.

[Papa Francesco, Udienza Generale 13 giugno 2018]

Fiamma e Pace, Immersione e divisione. Non quietismo tattico

(Lc 12,49-53)

 

La differenza tra religiosità e Fede si rende palese nella comparazione tra la mentalità che identifica il Fuoco biblico con il castigo, e quella d’una sacra Fiamma riversata con passione d’amore (v.49) che evoca il Dono a nostro favore.

 

Francesco proclamava: «Laudato sie, mi Signore, per frate focu,/ per lo quale ennalumini la notte:/ et ello è bello e iocundo/ et robustoso et forte».

Per il Poverello d’Assisi il fuoco era elemento «nobile e utile fra le creature dell’Altissimo» [Legenda antiqua].

Egli aveva con «frate focu» uno sconcertante rapporto di cortesia. Certo esso non scacciava la notte allo stesso modo del Sole, ma vi portava luce.

Invece la vampa dei discepoli non era granché: Giacomo e Giovanni volevano che incenerisse avversari o malcapitati (Lc 9,54).

Prima di Gesù, Giovanni il battezzatore attendeva ancora un Messia che immergesse tutti in un falò divoratore e giustiziere (Lc 3,17).

 

L’incendio della Fede annunciata dalla Persona e dall’attività del Figlio non consuma, non corrode.

È viceversa come un ‘Pane’: pienezza di energia per una «vita completa», non elemento distruttivo o separatore.

Tutto ciò fa Rinascere persone, rapporti e realtà circostante. Modifica la nostra Relazione con Dio, con noi stessi e il prossimo.

Tale la ‘divisione’ proclamata (v.51): discrimine della nostra Chiamata.

 

Nella devozione comune l’errore di valutazione o la condizione di debolezza è considerata un’infermità, da additare, correggere, punire.

Le “impurità” non andrebbero ‘fuse’ nel Fuoco divino e provvidente: solo normalizzate secondo ataviche prescrizioni, o più recenti idee sofisticate [à la page].

Per la vita nello Spirito, viceversa, l’attenzione è altrove: le oscillazioni personali diventano possibilità; gli abbattimenti una nuova Forza.

Senso d’incapacità, insuccesso e impedimenti suscitano intensità,  scambio, dialogo, nuove elaborazioni, ricerca di altri processi.

La Fede si accende onda su onda, nell’accogliere e corrispondere Dio che si rivela, chiama e ancora propone - addirittura mescolanze trasversali che impigliano i purismi.

Sono Alimento e Fiamma anche le nostre situazioni insoddisfacenti: i macigni che sembravano schiacciare e ci facevano negativi vengono assunti, diventano benzina che anima e proietta.

 

«Incarnazione» è il recupero dei lati opposti.

Su tale percorso, l’imperfezione diventa una molla, coi suoi Tesori che non vediamo, nascosti dietro lati oscuri.

Sono quei versanti che poi domineranno il nostro Desiderio.

In tal guisa, il Battesimo non è una rubrica o una mano di grigio e d’opinione comune.

Non è neppure un congegno che marchia, mettendo immediatamente all’angolo personalità e tensioni - bensì una Immersione (v.50 testo greco).

Accudendo le parti trascurate e fondendo i lati estranei o difformi, dall’esteriorità delle cose siamo riportati all’Origine di quanto accade.

 

 

[20a Domenica T.O. (anno C), 17 agosto 2025]

Pagina 1 di 37
The dialogue of Jesus with the rich young man, related in the nineteenth chapter of Saint Matthew's Gospel, can serve as a useful guide for listening once more in a lively and direct way to his moral teaching [Veritatis Splendor n.6]
Il dialogo di Gesù con il giovane ricco, riferito nel capitolo 19 del Vangelo di san Matteo, può costituire un'utile traccia per riascoltare in modo vivo e incisivo il suo insegnamento morale [Veritatis Splendor n.6]
The Gospel for this Sunday (Lk 12:49-53) is part of Jesus’ teachings to the disciples during his journey to Jerusalem, where death on the cross awaits him. To explain the purpose of his mission, he takes three images: fire, baptism and division [Pope Francis]
Il Vangelo di questa domenica (Lc 12,49-53) fa parte degli insegnamenti di Gesù rivolti ai discepoli lungo la sua salita verso Gerusalemme, dove l’attende la morte in croce. Per indicare lo scopo della sua missione, Egli si serve di tre immagini: il fuoco, il battesimo e la divisione [Papa Francesco]
«And they were certainly inspired by God those who, in ancient times, called Porziuncola the place that fell to those who absolutely did not want to own anything on this earth» (FF 604)
«E furono di certo ispirati da Dio quelli che, anticamente, chiamarono Porziuncola il luogo che toccò in sorte a coloro che non volevano assolutamente possedere nulla su questa terra» (FF 604)
It is a huge message of hope for each of us, for you whose days are always the same, tiring and often difficult. Mary reminds you today that God calls you too to this glorious destiny (Pope Francis)
È un grande messaggio di speranza per ognuno noi; per te, che vivi giornate uguali, faticose e spesso difficili. Maria ti ricorda oggi che Dio chiama anche te a questo destino di gloria (Papa Francesco)
In the divine attitude justice is pervaded with mercy, whereas the human attitude is limited to justice. Jesus exhorts us to open ourselves with courage to the strength of forgiveness, because in life not everything can be resolved with justice. We know this (Pope Francis)
Nell’atteggiamento divino la giustizia è pervasa dalla misericordia, mentre l’atteggiamento umano si limita alla giustizia. Gesù ci esorta ad aprirci con coraggio alla forza del perdono, perché nella vita non tutto si risolve con la giustizia; lo sappiamo (Papa Francesco)
The Second Vatican Council's Constitution on the Sacred Liturgy refers precisely to this Gospel passage to indicate one of the ways that Christ is present:  "He is present when the Church prays and sings, for he has promised "where two or three are gathered together in my name there am I in the midst of them' (Mt 18: 20)" [Sacrosanctum Concilium, n. 7]
La Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II si riferisce proprio a questo passo del Vangelo per indicare uno dei modi della presenza di Cristo: "Quando la Chiesa prega e canta i Salmi, è presente Lui che ha promesso: "Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io  sono in mezzo a loro" (Mt 18, 20)" [Sacrosanctum Concilium, 7]
This was well known to the primitive Christian community, which considered itself "alien" here below and called its populated nucleuses in the cities "parishes", which means, precisely, colonies of foreigners [in Greek, pároikoi] (cf. I Pt 2: 11). In this way, the first Christians expressed the most important characteristic of the Church, which is precisely the tension of living in this life in light of Heaven (Pope Benedict)
Era ben consapevole di ciò la primitiva comunità cristiana che si considerava quaggiù "forestiera" e chiamava i suoi nuclei residenti nelle città "parrocchie", che significa appunto colonie di stranieri [in greco pàroikoi]

Due Fuochi due Vie - Vol. 1 Due Fuochi due Vie - Vol. 2 Due Fuochi due Vie - Vol. 3 Due Fuochi due Vie - Vol. 4 Due Fuochi due Vie - Vol. 5 Dialogo e Solstizio I fiammiferi di Maria

duevie.art

don Giuseppe Nespeca

Tel. 333-1329741


Disclaimer

Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge N°62 del 07/03/2001.
Le immagini sono tratte da internet, ma se il loro uso violasse diritti d'autore, lo si comunichi all'autore del blog che provvederà alla loro pronta rimozione.
L'autore dichiara di non essere responsabile dei commenti lasciati nei post. Eventuali commenti dei lettori, lesivi dell'immagine o dell'onorabilità di persone terze, il cui contenuto fosse ritenuto non idoneo alla pubblicazione verranno insindacabilmente rimossi.